Giustizia: il balbettio degli egoisti d'Europa di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 26 aprile 2015 Si può immaginare una prova di egoismo e di miope inettitudine più clamorosa di quella mostrata dall'Unione Europea riunita giovedì a Bruxelles per discutere il da farsi rispetto all'ondata migratoria che sta rovesciandosi sulle coste meridionali del nostro continente? Posta davanti a una sfida geopolitica di carattere epocale, davanti alle sciagure e ai problemi di ogni tipo che questa produce, la sola cosa, infatti, che l'Unione si è saputa inventare è stata quella di mandare qualche altra nave nel Mediterraneo e di destinare una manciata in più di quattrini all'operazione Triton. Cioè di far finta di fare qualcosa allo scopo di non fare nulla. Nel suo balbettio e nel suo riuscire a mancare regolarmente tutti gli appuntamenti decisivi che potrebbero farle fare un salto di qualità verso un'esistenza di soggetto politico, l'Europa è ormai diventata qualcosa d'imbarazzante. La mancanza di leadership e di visione minaccia di renderla un organismo sempre più ingombrante per le cose facili e sempre più inutile per quelle difficili. Un vuoto ammasso di egoismi nazionali che dura finché questi non vengono disturbati. Del resto è apparso non meno insufficiente nei giorni scorsi anche il comportamento del governo italiano. Il presidente Renzi, recatosi a Bruxelles sperando verosimilmente grandi cose (anche se non si sa di preciso che cosa), ha dovuto accontentarsi di quasi nulla. Il fatto è che per ottenere seppure in parte da un sinedrio come quello di Bruxelles ciò che si desiderava, bisognava battere i pugni sul tavolo. Tutto il Paese avrebbe seguito un presidente del Consiglio che avesse tenuto un discorso del tipo: "Cari signori, l'Italia non intende vedere annegare centinaia di persone in mare senza muovere un dito. Noi quindi faremo di tutto per cercare di salvare il maggior numero possibile di migranti. Ma tutto ques to costa, costa molto. Siccome però non siamo il Paese di Bengodi, e le nostre risorse sono limitate, sappiate che se voi non fate nulla di più del quasi niente che vi proponete di fare, allora alle prossime scadenze l'Italia si vedrà costretta con molto rammarico a sospendere qualsiasi tipo di finanziamento, anche quello ordinario, all'Unione e alle sue attività". E invece, ahimè, nulla di simile si è sentito. Evidentemente un conto è bacchettare Civati o tirare le orecchie alla Camusso, un altro affrontare a brutto muso Cameron o la Merkel (oltre, immagino, il mugugno sussiegoso della Farnesina). E così abbiamo dovuto accontentarci di una mancia accompagnata da un'amichevole pacca sulla spalla. Giorni molto difficili si annunciano dunque nell'immediato per l'Italia. Ma per l'intera Europa si avvicina a più o meno lunga scadenza l'appuntamento con una catastrofe annunciata, quella di un'insostenibile pressione demografica del Sud del mondo la quale, proprio in quanto continua ad essere pervicacemente rimossa, tanto più minaccia inevitabilmente di assumere i tratti di un vero e proprio collasso geopolitico. Non è vero che non ci sia nulla da fare. Se l'Europa esistesse, se avesse una vera guida politica dotata di autorità e di visione, potrebbe fare molto, specie per le migrazioni mosse da ragioni economiche. Previo un accordo quadro con l'Organizzazione dell'Unione Africana, ogni Paese europeo (da solo o insieme a un altro) potrebbe ad esempio stabilire con uno Stato di quel continente una sorta di vero e proprio gemellaggio: rapporti speciali di aiuto e cooperazione per favorirne lo sviluppo; essere autorizzato a destinarvi investimenti privilegiati in campo economico e turistico; stabilire con esso accordi doganali speciali per favorirne le produzioni e le esportazioni; aprirvi centri culturali, inviarvi "missioni" di ogni tipo specie per migliorarne gli apparati scolastici, sanitari, giudiziari e di polizia; accoglierne gli studenti migliori con borse di studio; e anche, magari, aprirvi dei "campi di addestramento" lavorativo, linguistico e "antropologico-culturale", destinati a coloro che comunque intendessero abbandonare il loro Paese. Costerebbe e non sarebbe facile, certo. Avrebbe anche dei rischi, forse. Ma sono per l'appunto queste le cose che fa la politica, che solo la politica sa fare. Perlomeno la politica che non gioca a scaricabarile, ma quella che immagina, che osa, che agisce. Giustizia: un Paese a civiltà sospesa che odia perfino i morti di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2015 Per tutto ciò che sto per dire contro il Paese carogna che sembra diventato in questi giorni l'Italia, ci sono tre eccezioni: Emma Bonino che ha detto da sola le sole cose che una persona adulta (prima ancora che politica) avrebbe dovuto dire davanti alla tragedia delle centinaia di morti in mare. Walter Veltroni che - giudica - telo come volete - ha fatto un film buono e di sentimenti normali, in mezzo a un vortice di furore cattivo e stupido. E poi il Papa che come accade sempre, è solo nel tentare di far tornare un minimo di buon senso, se non di fraternità nella testa e nel cuore di chi lo ascolta. Questo è un Paese spaccato su tutto, dunque anche sul film di Veltroni I bambini sanno, fra chi lo approva anche solo perché i bambini sono carini, e chi ne dice male anche solo perché è un film di Veltroni. Ma il film ha fatto centro (come le parole della Bonino e del Papa) in un momento strano e stravolto della vita italiana. In poche ore è accaduto qualcosa che ha cambiato l'umore del Paese. Una tremenda disgrazia in mare (errore dello scafista? Errore del mercantile accorso, una vampata di panico dei disperati migranti stipati nel barcone, in parte storditi dal freddo sul ponte, in parte abbattuti dal caldo nauseante della stiva?), la barca da soccorrere si è rovesciata e quasi tutti (forse 800, uomini e donne, e c'erano anche 50 bambini) sono scivolati in fondo al mare, dove è impossibile trovare persino i corpi. In quel momento è esplosa in Italia una rabbia feroce, una cattiveria che ha perso ogni appartenenza politica e ogni limite. Un vero impeto di violenza, repulsione, rigetto, presa di distanza non contro i persecutori o la guerra. No, contro le vittime, divenute di colpo colpevoli. Queste e quelle che verranno. Non so se un fatto simile sia mai avvenuto. Ma proprio mentre i migranti abbandonati per risparmiare sull'operazione Mare Nostrum sono affogati (come era stato predetto da chi aveva implorato "non fatelo!") i nostri concittadini hanno cominciato a odiare non l'abolizione dei soccorsi, non il risparmio che equivale (si sapeva, dato il grandissimo numero di salvati) a una serie di condanne capitali. Ha cominciato a odiare i morti, come nelle esecuzioni medievali, in cui la folla urlava insulti al condannato, di cui non sapeva nulla, fino al patibolo. Per una ragione che forse neppure gli esperti di psichiatria e di comportamenti di massa ha ancora decifrato, la questione "troppi morti in mare", che avrebbe dovuto portare, almeno nei comportamenti pubblici, lutto, dolore, partecipazione, cordoglio, ha istantaneamente creato tre curve di ultras. Nella prima si chiedeva di creare delle tendopoli "sul posto" , diciamo dalla Somalia alla Libia, impedendo ai fuggiaschi di diventare invasori, inchiodandoli al loro disperato Paese ("è li che bisogna aiutarli") . La seconda, in piedi e scalmanata, avvertiva che i migranti già pronti a venire e già schierati in spiaggia con i bagagli, erano più di un milione (più di un milione!) e avrebbero portato, oltre l'ingente ingombro fisico, le loro malattie (scegliere fra tubercolosi, ebola, scabbia) e il terrorismo. Dunque un danno spaventoso a noi, alla Sindone, all'Expo e alle nostre opere d'arte. La terza ha urlato e continua a urlare la nuova idea: bombardare. Con alcune variazioni: la Libia, i porti, le barche prima che partano. La ragione che non ha diffuso subito il panico è che siamo governati con fermezza anche un po' brutale ma efficace, da un "uomo solo al comando" che discute poco, decide subito, ha i suoi consiglieri (anche se non li conosciamo tutti) e dunque eravamo in attesa di vedere, e un po' anche di ammirare lo scarto fra idee folli da sottocultura Lega Nord-Casa Pound, e un modo serio di fare politica. Prima di tutto, per esempio, esigere la partecipazione al dramma del resto d'Europa. Purtroppo si sono verificati alcuni problemi, alcuni noti a tutti (come la imbarazzante mancanza di autorevolezza della Mogherini, l'Alto Commissario e la vicepresidente d'Europa, ma non ha ascolto, come la mancanza di attenzione di un buon numero di governi europei per il governo italiano, ovvero chi poteva non venire non è venuto, e chi è venuto non ha mosso un dito). E poi nessuno si aspettava che il giovane e nuovo Renzi portasse, come patrimonio della strategia italiana, il programma elettorale di Salvini: il problema non sono i morti, che non richiedono neppure la fatica del seppellimento o lo spazio di un cimitero. Il problema sono i migranti vivi, che non devono arrivare. Il problema dei migranti si risolve stroncando i viaggi (ovvero privarli di una libertà fondamentale) e bloccando il mare, che è una permanente operazione di guerra. Più facile, perché suddiviso in episodi necessari, bombardare la Libia, i porti, le barche. L'idea è comunque il mare chiuso e la sospensione della civiltà. Ovviamente il costo è molto più alto dell'operazione "Mare Nostrum" e certo, nel loro silenzio scettico, i tre annoiati compagni di tavolo di Renzi ci avranno pensato. E infatti non hanno detto né deciso niente. Ma alla fine, anche per invitare Renzi a concludere, i tre annoiati compagni di "seminario sui morti", che devono restare morti, nel senso di non far niente per salvare i prossimi, (Francia, Germania, Regno Unito) hanno dato un mandato curioso alla Mogherini: vada in Libia a sondare gli umori tra le varie fazioni, per vedere se vogliono essere bombardati. Francamente non si può non provare solidarietà per questa inadeguata ma volonterosa persona spinta dove non può andare e disperatamente messa alla prova (credo anche con cattiveria) per ciò che non può fare. Ma questa è la nostra politica estera al momento. Ah, ed essere informati mesi dopo della morte in Afghanistan, causa drone male addestrato, di un "coadiuvante" italiano rapito tre anni fa e, per quanto se ne sa, mai cercato. Giustizia: tra allarmismi e realtà… c'è paura, ma omicidi, rapine e furti sono in calo di Damiano Aliprandi Il Garantista, 26 aprile 2015 Anche i detenuti sono diminuiti, ma le condizioni generali non sono comunque migliorate. "Il sistema carcere in Italia costa 3 miliardi di euro all'anno e ha una recidiva tra le più alte d'Europa". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, intervenendo all'incontro "Per rieducare un carcerato ci vuole un villaggio", organizzato a Roma da una serie di cooperative italiane sociali impegnate nel recupero dei detenuti. Durante l'intervento ha detto che "occorre trasformare la detenzione da "pena passiva" a un'occasione di recupero per i detenuti attraverso studio e lavoro". Il guardasigilli ha sottolineato come il primo obiettivo, quello del superamento del sovraffollamento carcerario, sia stato raggiunto: "Quando mi sono insediato i detenuti erano 61 mila con circa 44mila posti disponibili, ora il numero dei reclusi si aggira sui 53mila con 46-47 mila posti disponibili", L'emergenza del sovraffollamento carcerario, ha aggiunto Orlando, è stata risolta anche grazie allo "stimolo importante e fondamentale venuto dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano". Secondo il ministro, occorre andare nella direzione di altri Paesi europei che hanno sviluppato un sistema dell'esecuzione penale esterna, "Abbiamo affrontato il tema con gli incentivi alla legge Smuraglia - aggiunge Orlando - e con l'introduzione della messa alla prova si è aperto un filone importante del sistema delle pene alternative al carcere che il nostro Paese non aveva". Il ministro ha ricordato come l'obiettivo "degli stati generali dell'esecuzione della pena sia quello di ridefinirne un nuovo modello anche grazie al coinvolgimento delle cooperative sociali". Durante il convengo poi è emerso che l'abbattimento della recidiva porterebbe a un risparmio di 210 milioni di euro. Il recupero dei detenuti è di per sé un fatto umano, sociale di inestimabile valore che ha anche un risvolto economico per la collettività. "Siamo pronti a dare il nostro contributo agli "Stati generali sul carcere". Il nostro impegno è rinforzare l'alleanza con le istituzioni per realizzare in ogni carcere d'Italia esperienze lavorative finalizzate al recupero del detenuto. I dati sulla recidiva parlano chiaro: tra i detenuti che non svolgono programmi di reinserimento la recidiva sfiora il 90%, mentre tra i detenuti che seguono questo percorso la recidiva si riduce alla soglia del 10%", ha detto Giuseppe Guerini, presidente Alleanza Cooperative Sociali, che ha introdotto i lavori. Ai lavori hanno partecipato, oltre al ministro della giustizia, Luigi Bobba -Sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali; Gabriele Toccafondi - Sottosegretario al Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della ricerca; Edoardo Patriarca - Parlamentare e presidente Centro Nazionale per il Volontariato - Lucca. Il "villaggio carcere" si è raccontato attraverso le testimonianze di persone recluse che lavorano in Sicilia, a Padova e presso le cooperative sociali Men at Work di Roma e II Germoglio di Sant'Angelo dei Lombardi (Avellino). Altre esperienze significative sono state quelle di don Claudio Burgio dell'associazione Kayròs del carcere minorile Beccaria di Milano, di un ex detenuto della cooperativa Homo Faber di Como e dei volontari dell'associazione Incontro e Presenza di Milano. Altre voci interessanti sono venute dal mondo della formazione professionale in carcere e dall'esperienza di volontariato Vic, nel carcere di Rebibbia. Il presidente delle Cooperative Sociali ha concluso i lavori rivolgendosi ad Orlando: "Ministro, la prendiamo in parola rispetto agli impegni che ci ha annunciato". Nel frattempo l'associazione Antigone conferma le parole di Orlando sul fatto che i detenuti siano diminuiti, ma ha precisato che le condizioni del carcere non sono comunque migliorate. I detenuti presenti al 28 febbraio 2015 nelle carceri italiane sono 53.982. Il 31 dicembre 2014 erano 53.623. Il 31 dicembre 2013, ovvero a sette mesi dalla sentenza pilota della Corte europea dei diritti umani nel caso Torreggiani, i detenuti erano invece 62.536. Dunque a oggi sono 8.554 in meno rispetto a fine 2013. Scende il numero dei detenuti nelle carceri italiane ma non sembrano migliorare significativamente le condizioni di detenzione all'interno delle carceri. E quanto emerge leggendo "Oltre i tre metri quadrati", XI Rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia e in Europa, redatto dall'Associazione Antigone ed edito dal Gruppo Abele. I detenuti erano 66.897 alla fine del 2011 - si legge nella fotografia di Antigone - anno nel quale sono stati assunti i primi interventi di carattere deflattivo. Pertanto in he anni i detenuti sono diminuiti di 12.915 unità. Dieci anni fa ovvero il 31 dicembre 2004 i detenuti erano 56.068, ossia 2.445 in più rispetto a oggi. Il 21 % dei detenuti in Europa è straniero. Il paese con la percentuale più alta è la Svizzera (dei suoi 4.896 detenuti il 74,2% è straniero, e la gran parte di questi è irregolare), seguita dall'Austria con il 46,75%, e dal Belgio con il 42,3%. Inoltre, dei circa 370 mila detenuti stranieri in Europa, il 32,4% è di origine comunitaria. Questo significa che in tutta l'Ue i detenuti extracomunitari sono circa 250 mila, ossia il 14% del totale. La percentuale di stranieri nelle carceri italiane è del 32% ovvero 11 punti in più rispetto al dato europeo. Il numero complessivo di detenuti sottoposti al regime duro del 41 bis è pari a 725, di cui 8 sono donne. Solo uno è straniero. Di questi, 648 sono stati condannati per associazione di tipo mafioso. Ben 414 sono in attesa di giudizio per cui presuntivamente innocenti; 305 i condannati, di cui 144 all'ergastolo. Vi è sottoposto un detenuto su dieci fra quelli finiti in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso. I posti letto regolamentari secondo il Dap sono 49.943. Il tasso di affollamento sarebbe dunque del 108%, ovvero 108 detenuti ogni 100 posti letto. Per stessa ammissione dell'amministrazione -sottolinea il rapporto - il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie (reparti chiusi per lavori di manutenzione) che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato. Gli scostamenti temporanei accertati nell'indagine dì Antigone sono quantificabili intorno alle 4 mila 200 unità. Se così fosse il tasso di affollamento salirebbe al 118%. Dunque - si sottolinea - bisogna insistere sul terreno delle riforme per arrivare a una situazione normale, ovvero di un detenuto per un posto letto. Il Rapporto di Antigone segnala inoltre un calo nei nuovi ingressi in carcere: gli ingressi sono stati 50.217 nel 2014. Furono ben 92.800, nel 2008. Ovvero in sei anni sono diminuiti di 42.683 unità. Un calo dovuto al cambio della legislazione sugli stranieri e alle nuove norme in materia di arresto e custodia cautelare. Diminuiscono detenuti e anche reati: il calo della popolazione detenuta non ha inciso sulla criminalità esterna smentendo il dato che vuole un nesso tra "più criminali in carcere e meno delitti fuori". I delitti nella fase storica del decongestionamento carcerario sono infatti diminuiti. I detenuti scarcerati dunque non hanno commesso crimini che hanno messo a rischio la sicurezza esterna. Nel 2014, l'indice di delittuosità (reati per numero di abitanti) è infatti complessivamente diminuito del 14% nonostante la popolazione reclusa sia anch'essa diminuita, segno - dice il Rapporto - che in carcere c'erano tante persone (principalmente immigrati e consumatori di droghe) che nulla hanno a che fare con il crimine e che una volta uscite non hanno commesso nuovi reati. Sono diminuiti gli omicidi dell'11,7%, le rapine del 13% e i furti dell'1,5%. In calo anche gli omicidi: l'Italia è tra i Paesi più sicuri al mondo. Giustizia: la ricerca di Antigone "più criminali in cella non significa meno delitti fuori" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 26 aprile 2015 Meno detenuti nelle carceri e nello stesso tempo calano i reati in Italia, risultando uno dei Paesi più sicuri al mondo nonostante la percezione contraria e la propaganda emergenziali sta. L'associazione Antigone conferma le parole di Orlando sul fatto che i detenuti siano diminuiti, ma ha precisato che le condizioni del carcere non sono comunque migliorate. I detenuti presenti al 28 febbraio 2015 nelle carceri italiane sono 53.982. Il 31 dicembre 2014 erano 53.623, Il 31 dicembre 2013, ovvero a sette mesi dalla sentenza pilota della Corte europea dei diritti umani nel caso Torreggiani, i detenuti erano invece 62.536. Dunque a oggi sono 8.554 in meno rispetto a fine 2013. Scende il numero dei detenuti nelle carceri italiane ma non sembrano migliorare significativamente le condizioni di detenzione all'interno delle carceri. E quanto emerge leggendo "Oltre i tre metri quadrati", XI Rapporto annuale sulle condizioni dì detenzione in Italia e in Europa, redatto dall'Associazione Antigone ed edito dal Gruppo Abele. I detenuti erano 66.897 alla fine del 2011 - si legge nella fotografia di Antigone - anno nel quale sono stati assunti i primi interventi di carattere deflattivo. Pertanto in tre anni i detenuti sono diminuiti di 12.915 unità. Dieci anni fa ovvero il 31 dicembre 2004 i detenuti erano 56.068, ossia 2.445 in più rispetto a oggi. Il 21% dei detenuti in Europa è straniero. Il paese con la percentuale più alta è la Svizzera (dei suoi 4,896 detenuti il 74,2% è straniero, e la gran parte di questi è irregolare), seguita dall'Austria con il 46,75%, e dal Belgio con il 42,3%, Inoltre, dei circa 370 mila detenuti stranieri in Europa, il 32,4% è di origine comunitaria. Questo significa che in tutta l'UE i detenuti extracomunitari sono circa 250 mila, ossia il 14% del totale. La percentuale di stranieri nelle carceri italiane è del 32% ovvero 11 punti in più rispetto al dato europeo. Il numero complessivo di detenuti sottoposti al regime duro del 41 bis è pari a 725, di cui 8 sono donne. Solo uno è straniero. Di questi, 648 sono stati condannati per associazione di tipo mafioso. Ben 414 sono in attesa di giudizio per cui presuntivamente innocenti; 305 i condannati, di cui 144 all'ergastolo. Vi è sottoposto un detenuto su dieci fra quelli finiti in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso. I posti letto regolamentari secondo il Dap sono 49.943, Il tasso di affollamento sarebbe dunque del 108%, ovvero 108 detenuti ogni 100 posti letto. Per stessa ammissione dell'amministrazione - sottolinea il rapporto - il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie (reparti chiusi per lavori di manutenzione) che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato. Gli scostamenti temporanei accertati nell'indagine di Antigone sono quantificabili intorno alle 4 mila 200 unità. Se così fosse il tasso di affollamento salirebbe al 118%. Dunque - si sottolinea - bisogna insistere sul terreno delle riforme per arrivare a una situazione normale, ovvero di un detenuto per un posto letto. Il Rapporto di Antigone segnala inoltre un calo nei nuovi ingressi in carcere: gli ingressi sono stati 50.217 nel 2014. Furono ben 92.800, nel 2008. Ovvero in sei anni sono diminuiti di 42.683 unità. Un calo dovuto al cambio della legislazione sugli stranieri (in particolare alla decisione della Corte di Giustizia della Ue che ha imposto la disapplicazione della norma che prevedeva il delitto di inottemperanza all'obbligo di espulsione del questore) e alle nuove norme in materia di arresto (norme tendenti a evitare il peso delle detenzioni brevi in fase pre-cautelare cioè delle cosiddette porte girevoli) e custodia cautelare (limiti all'uso nei casi di reati di minore allarme sociale). Giustizia: il Commissario Cantone e quella "pedagogia" che fa a pezzi l'idea di Stato di Astolfo di Amato Il Garantista, 26 aprile 2015 La dottrina hegeliana affermava che lo Stato è fonte di libertà e norma etica per il singolo. La condotta dello Stato, quindi, non può essere oggetto di valutazioni morali da parte dell'individuo: lo Stato si pone fine supremo e arbitro assoluto del bene e del male. In Hegel, tuttavia, non era prevista l'esistenza di una categoria professionale che si identificasse con lo Stato, divenendo essa arbitro assoluto del bene e del male. La lettura dell'intervista rilasciata da Cantone al Foglio induce a dire che quella linea di pensiero, che ha costituito la base teorica di regimi quali il fascismo e certo comunismo, è stata superata. Cantone, tra l'altro, afferma: "Sono convinto che un magistrato che svolge un ruolo pedagogico nella società sia un ingrediente fondamentale e non secondario della lotta alla illegalità". Ed ancora: "Il pensiero di Montesquieu è figlio dell'illuminismo ed è figlio di una idea in cui il giudice dovrebbe essere soltanto un matematico che applica la legge senza interpretarla e senza uscire dal tribunale. E quel modello, come le ho detto, non lo condivido fino in fondo". La seconda proposizione è essenziale per la piena comprensione della prima. Quest'ultima si chiude con un riferimento alla illegalità, concetto che ha piena cittadinanza solo nello schema della divisione dei poteri. Il nostro, però, ci avverte di non condividere quello schema e, dunque, la lotta alla illegalità ha i contorni che le sono assegnati da un giudice svincolato da quei limiti che vengono dalla separazione dei poteri. La lotta alla illegalità diventa, perciò, la lotta alla illegalità come concepita dalla corporazione dei giudici. E diventa davvero difficile, in questi termini, capire quale sarebbe la distinzione tra legalità ed etica di questo segmento del Paese. Anche il ruolo pedagogico, allora, si colloca inequivocabilmente nella stessa prospettiva. La visione è quella di una corporazione che, prendendo spunto dalle norme, elabora la sua etica suprema, alla quale educare la collettività. Del resto, è una con- clusione che non sorprende se il pensiero va a quei procuratori che, durante Mani Pulite, si dichiaravano pronti a prendere le redini del Paese e che promettevano di rivoltarlo come un calzino. Ma vi è anche un altro aspetto, nella intervista di Cantone, che va segnalato. Egli ci tiene ad affermare che "ci sono magistrati bravi e magistrati non bravi, come in tutte le categorie, ma per rispondere alla sua domanda vorrei mettere al centro della nostra conversazione la figura del magistrato medio, di buon senso, corretto e che non usa questo mestiere come un taxi". Ma, nella realtà, è proprio quello il magistrato che non viene mai messo al centro, e che viene continuamente strumentalizzato per rafforzare il potere di coloro che si sentono investiti della funzione pedagogica. Basta pensare alla recente tragedia di Milano, per ricordare la strumentalizzazione che si è tentato di fare sulla morte di un magistrato perbene. Ma quando dice queste cose contro la evidenza della realtà, Cantone ne è consapevole? In un altro passo dell'intervista si dichiara contrario alla separazione delle carriere, in quanto vi sarebbe un effetto opposto a quello che si dice: "Ovvero rendere più autonomi i pm dai giudici". Sennonché, se Cantone fosse iscritto alla Anm, come dice di essere, saprebbe che da oltre venti anni presidente e segretario generale della Anm sono dei pubblici ministeri. I quali, pur rappresentando circa il 20 per cento dell'ordine giudiziario, hanno conquistato una egemonia culturale, che ne fa i protagonisti assoluti. Capaci di assicurare protezione a quei magistrati che fanno giorno per giorno il loro lavoro, in modo serio, cercando di rispettare la legge e senza protagonismi indebiti. Oggetto anche essi del ruolo pedagogico dei primi? Giustizia: intervista a Luciano Violante "contro la corruzione vedo solo leggi-manifesto" di Errico Novi Il Garantista, 26 aprile 2015 L'ex presidente della Camera: pene più alte? Pensiamo alle cose serie. E se una riforma è giusta, va fatta anche se non piace al magistrati. Ha ragione il Papa. Il populismo penale c'è. Eccome. E i tentativi di combattere la corruzione con gli innalzamenti di pena sono una via inutile. Pensiamo a cose efficaci". Luciano Violante va come al solito per le vie brevi. Non esita a manifestare le proprie perplessità su alcune scelte recenti di governo e Parlamento. E cioè sulle risposte "populiste", appunto, fatte nel campo dell'anticorruzione, con l'omonimo disegno di legge, e dei tempi del processo, con la riforma della prescrizione. Violante non dice quello che, peraltro, una parte della magistratura vorrebbe. Neppure sulla responsabilità disciplinare, sua particolare battaglia, che andrebbe affidata "a un'Alta Corte di giustizia". Intanto il centro del discorso di questo 25 aprile è stato proprio la lotta alla corruzione, anche per il Capo dello Stato. È davvero quello il nuovo nemico da cui liberarci, onorevole Violante? "Sì. Ma credo che la corruzione sia presente in molti Paesi, se non in tutti. Da noi il fenomeno si associa a una sostanziale inefficienza della pubblica amministrazione. Questa è una negativa specificità italiana. L'inefficienza è spreco, e funge da moltiplicatore degli effetti negativi delle pratiche illecite". Come si disinnesca il corto circuito? "Di sicuro il problema della corruzione non si risolve con l'aumento delle pene, non è quello il rimedio. Nessun corrotto o corruttore si astiene dalle malversazioni perché la pena è alta. Semplicemente non pensa di essere preso, come il ladro. Si deve trovare un'altra strada. Qualche suggerimento da ascoltare, peraltro, mi pare di averlo sentito". A cosa si riferisce? "Al discorso pronunciato dal Papa nell'incontro con l'Associazione internazionale dei penalisti. In quell'occasione la critica al cosiddetto populismo penale è stata un sasso nello stagno. Il continuo inseguimento della pena, come soluzione di tutti i mali, può servire al massimo a raccogliere facili consensi. Servono tecniche di prevenzione. Che naturalmente vanno concepite in modo che non diventino oppressive". Viceversa nel disegno di legge anticorruzione il piatto forte apparecchiato da governo e Parlamento è proprio l'innalzamento delle pene. In più c'è l'allungamento a dismisura dei tempi di prescrizione dei reati. "Pene più alte per la corruzione, prescrizione più lunga... siamo sempre nell'ambito del populismo penale. Se la prescrizione di un reato come la corruzione propria viene portato fino a venti anni sa cosa succede? Che nel 2035 nessuno riterrà che quel fatto di vent'anni prima meriti ancora di essere perseguito, nessuno ne percepirà più la gravità. Sono manifesti per tranquillizzare l'opinione pubblica. Piuttosto che ad alzare le pene e a dilatare la prescrizione pensiamo ai meccanismi di prevenzione. Proviamo a individuare quei punti che, se colpiti, fanno saltare il meccanismo delle pratiche corruttive". L'Authority di Cantone ora può commissariare le imprese "sospette" o anche singoli appalti ad esse aggiudicati. È la strada giusta? "Le tecniche per prevenire la corruzione dovrebbero seguire il percorso di ricerca adottato contro la mafia: le si mette a punto dopo una scric di tentativi. È inevitabile. Come sarà inevitabile che alcuni rimedi si riveleranno inadeguati". Giustizia: caso Yara; tracce di Dna, telefonate e video. Bossetti pronto a parlare in aula di Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 26 aprile 2015 Yara, domani udienza preliminare. Il muratore: "Perché io ancora in cella?". "Scusi avvocato, perché sono ancora in carcere?". Dieci mesi dietro le sbarre, cinque giudici che gli hanno negato la scarcerazione, 60 mila pagine di inchiesta, e Massimo Bossetti non ha cambiato di una virgola la sua verità. Il carpentiere di Mapello imputato dell'omicidio di Yara Gambirasio domani affronterà l'udienza preliminare. Ci sarà - secondo piano del tribunale blindato - e potrebbe rilasciare dichiarazioni spontanee. La battaglia giudiziaria vera sarà però a dibattimento, senza sconti di pena, dove l'imputato vuole difendersi "a costo di rischiare l'ergastolo". L'ultimo suo contatto con il mondo esterno è di venerdì. Al mattino ha incontrato il suo difensore Claudio Salvagni (di recente affiancato da Paolo Camporini) e al pomeriggio la moglie Marita con i tre figli. Nessuna visita invece ieri, anche se sabato è giorno di colloqui, perché proprio questa settimana era festivo. "C'è il tuo Dna e questo è ritenuto sufficiente per tenerti qui", la risposta dell'avvocato alla domanda di Bossetti sul carcere. "Non è il mio, non è possibile", il mantra del carpentiere. Poche parole sull'udienza: "Ci siamo salutati con un abbraccio ed è scoppiato a piangere quando mi ha detto che nel pomeriggio sarebbero arrivati i figli - è l'ultima immagine del difensore. Alterna fasi di lucidità ad altre di grande apprensione. Continua a credere nella giustizia, vive il processo come una liberazione perché spera di poter dimostrare la sua innocenza". Bossetti dovrà però vedersela con l'inchiesta dei grandi numeri racchiusa dal pm Letizia Ruggeri in 59 faldoni: 10 mila pagine solo su di lui, 21 mila prelievi del Dna, 14 mila test, 120 mila contatti telefonici sotto la lente. Uno sforzo investigativo senza pari. Polizia e carabinieri hanno pure ricostruito fino al 1719 l'albero genealogico dell'autista (morto) ritenuto il padre naturale di Bossetti. Hanno recuperato in Marocco un telefonino venduto dall'imputato e hanno trovato Damiana, la vera fidanzatina di un rumeno che secondo una testimone della difesa diceva di avere un'amichetta di nome Yara, a Bergamo. L'accusa ha raccolto una mole di indizi che ritiene cementino il pilastro del Dna: quello di Bossetti è sugli slip e sui leggings della vittima, in corrispondenza di un taglio netto. La difesa sa bene che se regge questo elemento, gli altri di contorno valgono come conferma. Così, è la battaglia più impegnativa, punta a minare le basi del pilastro: "Nel Dna c'è la componente nucleare del mio assistito ma non anche quella mitocondriale. L'anomalia va spiegata a processo". Per l'accusa è già chiarita: la traccia è mista con il sangue di Yara che può avere in parte coperto il profilo del presunto killer. Poi c'è il resto. Come il furgone ripreso dalle telecamere mentre gira attorno alla palestra da cui scompare Yara, dalle 18 alle 18.47, per poi rispuntare alle 19.51. È l'Iveco Daily di Bossetti, è la certezza del pm che ha mobilitato il progettista e ha fatto fotografare oltre 2.000 mezzi simili nel Nord Italia: nessuno dei conducenti era a Brembate Sopra. Il furgone si vede bene solo in due immagini e va dimostrato che sia di Bossetti, è la linea della difesa. Quei fotogrammi sono le sole tracce del carpentiere. Non si sa cosa abbia fatto il pomeriggio e la sera del giorno del delitto, se non per una fattura di materiale edile delle 14.30. E le sue spiegazioni ("Sono passato dal commercialista, dal meccanico, da mio fratello e dall'edicola") sono state smentite dalle verifiche. "Chi può ricordarsi che cosa ha fatto quattro anni prima?", obietta il difensore. I binari paralleli di accusa e difesa si incroceranno a processo. Ciascuna parte spiegherà la portata anche degli altri indizi: le fibre sui leggings e sul giubbotto di Yara identiche anche nei quattro colori a quelle dei sedili del furgone di Bossetti, la telefonata dell'imputato alla madre Ester Arzuffi quando la 13enne fu ritrovata senza vita nel campo di Chignolo d'Isola e quell'acquisto di un metro cubo di sabbia, proprio a Chignolo, il 9 dicembre, a tredici giorni dalla scomparsa della bambina. Giustizia: il caso del Dna di Bossetti e una legge per tutelare il futuro indagato di Tiziana Maiolo Il Garantista, 26 aprile 2015 Massimo Bossetti domani mattina alla sbarra: prima udienza preliminare per la morte di Yara Gambirasio. E sarà guerra processuale fin da subito. Con una novità: il carpentiere bergamasco oggi non è più solo con il suo difensore (il combattivo avvocato Salvagni) e con noi del Garantista, che fin dal suo arresto di un anno fa abbiamo messo in dubbio le granitiche certezze della Procura. Non riesco più a trovare un colpevolista da mettere in contraddittorio", dice sconsolato Marco Oliva, il conduttore della trasmissione Iceberg di Telelombardia, che segue il caso di Yara dal giorno della sua scomparsa, il 26 novembre del 2010. Al fianco dei diritti di Massimo Bossetti, "Massi", come lo chiamano la moglie e gli amici, c'è oggi anche "Justice of mind" (Centro studi sul rapporto tra giustizia e mente), il cui presidente, l'avvocato Luca D'Auria, ha deciso di fare di questo caso "il processo del decennio". E si è mosso in modo molto serio. Ha capito subito che computer, furgoni e pseudo-testimonianze più o meno inventate sono nulla e che l'unico punto in discussione, quello che appassionerà anche l'opinione pubblica, è dato dall'esame del Dna. Così, dal momento che ormai la sacralità del processo è data non solo dalla parola dei "pentiti" e dalle intercettazioni, ma anche dal mito del consulente tecnico, ha allungato lo sguardo fino al nord Europa e agli Stati Uniti e ha raccolto autorevoli opinioni di famosi genetisti. Le ha presentate, insieme a una proposta di legge che, se trasformata in vera riforma, porterebbe l'Italia a essere il Paese più innovativo del mondo nel settore, sabato scorso a Milano, al Circolo della stampa, in un dibattito condotto dal giornalista Marco Oliva, cui hanno partecipato avvocati, genetisti, psicologi. L'idea parte dal fatto che la raccolta e l'analisi del Dna sul corpo di Yara sono state effettuate all'epoca in cui Bossetti non era ancora indagato, quindi senza contraddittorio tra le parti. Si tratta di atti non ripetibili, in quanto non esiste più materiale genetico utilizzabile. Perché quindi non tutelare fin dall'inizio i diritti del futuro indagato, nominandogli un difensore e un consulente tecnico d'ufficio? Se una legge del genere fosse esistita, probabilmente non esisterebbe neppure un "caso Bossetti", con tutte le sue "anomalie". Anomalie che vengono ricordate dal professor Marzio Capra, il genetista dell'Università degli studi di Milano che ha avuto un ruolo fondamentale nel processo per l'uccisione di Chiara Poggi, come consulente della famiglia. Prima anomalia: non c'è nessuna traccia interessante di Dna sul corpo di Yara, nulla sotto le unghie, né alcun risultato hanno dato i tamponi vaginale e cutaneo. Il che è veramente strano, per un caso di omicidio. Un'altra anomalia è data dal fatto che sugli indumenti ci siano undici profili genetici diversi, di cui nessuno attribuibile ai familiari della ragazzina. La terza anomalia, di cui abbiamo già parlato diverse volte, è la contraddizione (impossibile in natura) tra il Dna nucleare (di Bossetti) e quello mitocondriale (di altra persona). E un po' come se nello stesso uovo l'albume e il tuorlo avessero origini diverse. Greg Hampikian è uno dei più importanti studiosi di Dna forense degli Stati Uniti. Intervistato dallo staff di "Justice of mind", esclude nel modo più assoluto che possa esservi in natura una differenza genetica di tal fatta: c'è stato sicuramente qualche errore in laboratorio, dice. Sarebbe necessario ripetere l'esame, afferma ancora, ma ciò non è possibile. È chiaro che con questi indizi così contraddittori negli Stati Uniti Massi Bossetti non sarebbe mai stato neppure arrestato. Stessa opinione di Peter Gill, genetista di Oslo, e della dottoressa Claudia Pavanelli, psicologa e criminologa, che sottopone il pubblico presente a un esame collettivo sulle "trappole mentali", che sono un rischio quotidiano anche per il giudice e che possono portare all'errore giudiziario. Il team che protegge le spalle di Massi Bossetti (dei suoi diritti, prima che della sua innocenza) è rafforzato dalla presenza dell'avvocato Carlo Taormina, che ha partecipato alla stesura della proposta di legge, e che spiega perché il magistrato inquirente, dopo aver strombazzato urbi et orbi di avere la prova regina, non ha deciso per il rito immediato: perché è passato dal ritenere di avere in mano una prova diretta a ritrovarsi solo con una prova indiziaria, molto più debole, quasi un pugno di mosche. Al suo fianco Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano e senatore del Nuovo Centrodestra, afferra con decisione il foglio e garantisce che si farà promotore della presentazione della proposta di legge. Che non servirà comunque ad aiutare Bossetti, ma a far fare un passo in avanti alla civiltà giuridica del Paese. Ce ne è bisogno. Sardegna: a Sassari in arrivo i capimafia. Pili (Unidos) "l'Isola diventa Cayenna d'Italia" L'Unione Sarda, 26 aprile 2015 Il deputato di Unidos Mauro Pili lancia ancora una volta un appello sul rischio che le carceri sarde ospitino capimafia. "Vogliono trasformare la Sardegna in una cayenna per mafiosi, c'è il pericolo di infiltrazioni criminali nell'isola, non dobbiamo consentirlo". Il deputato di Unidos, Mauro Pili, lancia l'allarme dal carcere sassarese di Bancali che ha visitato venerdì. "C'è stata un'accelerazione del Dap e del Ministero della Giustizia, si stanno spendendo milioni di euro in tecnologia per consentire l'arrivo dei capimafia", annuncia il parlamentare, secondo cui "è un atto di gravità inaudita, fatto contro la Sardegna e contro i sardi". Pili quantifica in massimo 20 giorni il tempo necessario al trasferimento dei detenuti in regime di 41 bis in una struttura che "non è adeguata, ci sono determinati servizi in cui è impossibile separare l'attività dedicata ai sorvegliati speciali da quella dei delinquenti comuni". Ad esempio, c'è un solo centro clinico e un solo ingresso per le visite, "così sono troppo alti i rischi di commistione, che porterebbero a un'infiltrazione e un radicamento della malavita nel nostro territorio", aggiunto Pili che punta il dito contro la classe politica sarda "debole e incapace, quasi disinteressata verso un fatto gravissimo". Santa Maria Capua Vetere: un detenuto, dicono, si è auto-strangolato in cella di Valter Vecellio www.articolo21.org, 26 aprile 2015 Ci sono cose che si fa una certa fatica a capire come possano accadere. Cose che sono accadute, ma che si fa fatica a credere che lo siano nel modo in cui viene detto, raccontato. Come la morte di C.M., trentacinque anni, trovato strangolato in bagno. Veramente è difficile da credere. Non che sia morto, perché morto è morto. È difficile che sia accaduto come dicono. C.M. è accusato di tentato omicidio, e per questo è detenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. In carcere, non c'è dubbio, è più facile cedere alla disperazione, che altrove, questo si capisce; e infatti ogni anno la percentuale di chi decide di farla finita è infinitamente superiore a quella d chi è "fuori". C.M.: sarebbe dovuto uscire fra cinque anni: 1.825 giorni… lunghi da passare, ogni giorno vale una settimana, ogni settimana un mese, ogni mese un anno: non finisce mai… troppi, e insopportabili 1.825 giorni, anche questo si può capire. Così, dicono, C.M. decide di farla finita. Prende un lenzuolo e si impicca, come fanno tanti? No. Dicono che sia andato in bagno; dicono che abbia inzuppato d'acqua la t-shirt; dicono che poi se la sia stretta al collo. Se la stringe al collo con forza, con tutta la forza che ha; e dev'essere stata tanta, proprio tanta questa forza (e tanta, dunque, la disperazione): perché, dicono, stringendo si auto-strangola. Sembra incredibile, vero? Eppure è quello che dicono sia accaduto. Dicono che il personale di polizia penitenziaria sia riuscito ad arrivare in tempo, e a trasferire il giovane nel reparto sanitario del carcere per sottrarlo alla morte; chi non ha fatto in tempo ad arrivare sono stati i medici del 118: quando sono arrivati C.M. era già "evaso". Così dicono; e non c'è motivo di dubitare. Ma proprio perché crediamo a questa dinamica, e non la mettiamo in dubbio, la cosa non è ancora più drammatica e inaccettabile che se la "cosa" fosse avvenuta in altro modo? C.M. era stato arrestato due anni fa per un tentato omicidio. Dopo un periodo trascorso ai domiciliari era entrato in carcere dove, dicono, si stava reinserendo con buoni risultati: aveva conseguito un diploma di cucina ed era addetto nell'area giardinaggio. Allora: c'è una persona che si sta reinserendo e apprende, come dicono, un lavoro; una persona che sa di dover uscire tra cinque anni; questa persona, dicono, una mattina si alza; ha un cattivo pensiero (magari se lo è coltivato tutta la notte? Chissà); aspetta che il compagno di cella si distragga, prende una maglietta, la inzuppa d'acqua e, come dicono, si strangola. Se è come dicono, se C.M. si è covato per tutto questo tempo un disagio psichico che alla fine è esploso come è esploso, ma di cui nessuno si era accorto, significa che a Santa Maria Capua Vetere qualcosa non va. Più di qualcosa, forse; e in quante altre Santa Maria Capua Vetere, signor ministro della Giustizia Andrea Orlando? Firenze: chiusura Opg; dove vanno gli internati dopo il tramonto dell'ipotesi "Gozzini"? www.nove.firenze.it, 26 aprile 2015 Nascosti (Fi): "Avevamo ragione noi. Ora bisogna individuare una struttura idonea per l'accoglienza dei pazienti. Regione in grave ritardo". Sel: "Grande soddisfazione, è anche una nostra vittoria". Visita del garante dei detenuti della Toscana all'ospedale psichiatrico giudiziario, in attesa di chiusura. Presenti 114 internati dei quali 48 toscani È tramontata infatti l'ipotesi di trasferimento degli internati dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo nella struttura di Solliccianino. Lo ha reso noto il sindaco di Montelupo, Paolo Masetti, nel corso del consiglio straordinario dedicato proprio all'Opg. Gli internati dell'Opg di Montelupo non andranno a Solliccianino, ma saranno trasferiti nell'ex ospedale psichiatrico di Volterra. Retromarcia della Regione Toscana, dato che lunedì prossimo la Giunta regionale dovrebbe deliberare sull'ex ospedale psichiatrico di Volterra come futura sede di alcuni pazienti dell'Opg di Montelupo. "Avevamo ragione noi. Una ipotesi che avevamo a più riprese scongiurato per l'inadeguatezza del Gozzini poiché avrebbe avuto bisogno di una serie di lavori di adeguamento necessari con costi superiori a 7 milioni di euro, che tra l'altro avrebbero fatto slittare di almeno un anno il trasferimento dei pazienti, ma nondimeno anche per non perdere un centro di eccellenza quale è sempre stato definito il centro di tutela attenuata di Solliccianino". Esordisce così il consigliere regionale Nicola Nascosti "Ora si tratta di capire dove questi internati dell'Opg dovranno andare - aggiunge Nascosti - siamo di fronte a una grossa disfunzione della Regione Toscana, che a seguito della dichiarazione di chiusura degli Opg non ha predisposto, ed aveva tempo per farlo, delle strutture alternative. Mi sembra che la soluzione che stiano trovando sia un po' pasticciata, o meglio non abbiano idee di dove andare a collocare questi internati. E questo è un problema che deve essere risolto non solo nell'interesse degli internati - incalza il consigliere regionale di Forza Italia - ma anche come interesse complessivo di attuazione della riforma e della sicurezza che questa attuazione comporta. Poiché si tratta di persone a rischio, non solo da punto di vista sanitario ma anche penale. Auspico he la Regione si attivi in fretta perché è in grave ritardo ed inadempiente. Sono una trentina i detenuti cui bisogna trovare una collocazione e non pensi la Regione di trovarne una frammentata, ma piuttosto una che sia adeguata in termini sanitari e di sicurezza. Questa volta Rossi ha sbagliato - conclude Nascosti - ha pensato alla chiusura degli Opg, ma non ha pensato a una struttura alternativa". "Apprendiamo con soddisfazione questa buona notizia, nei giorni scorsi ci eravamo battuti affinché la Regione cambiasse idea, e così è stato". Così le parlamentari toscane di Sel Marisa Nicchi e Alessia Petraglia in merito alla decisione della Regione di non trasferire i malati dell'Opg nel carcere di Solliccianino. "Venerdì scorso - dicono le parlamentari - abbiamo fatto visita ai detenuti di Solliccianino, che avevano manifestato tutta la loro preoccupazione sul futuro del loro Istituto, incompatibile con il paventato arrivo dei pazienti dell'Opg. Avevano addirittura detto di esser pronti allo sciopero della fame collettivo. Alla fine ha prevalso il buon senso e siamo orgogliosi di aver contributo, seppur in piccola parte, al lieto fine di una questione che ha rischiato di creare una drammatica guerra tra detenuti". "Adesso - concludono le due parlamentari - ci auguriamo che si faccia in fretta ad adeguare la struttura di Volterra affinché gli internati dell'Opg possano essere trasferiti prima possibile, visto che la Regione non ha rispettato la scadenza del 31 marzo, giorno in cui si sarebbero dovuti chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari". "Siamo felici di apprendere che la Regione Toscana stia concretamente valutando l'ipotesi di realizzare una Rems (residenza per l'esecuzione della misura di sicurezza detentiva) nei locali dell'ospedale psichiatrico di Volterra". Lo ha dichiarato Federico Gelli, deputato e responsabile sanità del Pd, commentando la notizia "Siamo convinti - spiega Gelli - così come ho più volte riferito all'assessore regionale al diritto alla salute Luigi Marroni, che la sede di Volterra, per la storia che rappresenta e per l'elevata professionalità del personale che vi lavora, possa essere ritenuta un luogo ideale per la cura dei pazienti dell'ex ospedale psichiatrico di Montelupo oltre a garantire un adeguato livello di sicurezza così come richiesto. Voglio però ricordare - conclude il deputato democratico - che la legge sulla chiusura degli Opg è entrata in vigore dallo scorso 1° aprile e che siamo già in ritardo. Una volta che ci sarà l'ufficialità, sarà necessario avviare subito i lavori per rendere adeguate le strutture dell'ex ospedale per allontanare il rischio commissariamento". All'ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo si è tenuta, martedì mattina, una delle ultime visite negli istituti penitenziari del garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone. Accompagnato dalla direttrice Antonella Tuoni, Corleone ha visitato la struttura, dalla mensa, alla sala colloqui interamente rinnovata con un giardino esterno, allo spazio per le attività fisiche e ricreative, ai locali restituiti all'amministrazione penitenziaria dopo il restauro e le opere di bonifica per il ripristino delle condizioni igienico-sanitarie. Dopo aver visitato le celle, ampie e con servizi, Corleone ha incontrato, nei corridoi, i detenuti che gli hanno fatto presente la situazione di incertezza e preoccupazione, in attesa di conoscere la loro destinazione futura. Alcuni internati hanno voluto mostrare al garante la cella dove nei giorni scorsi erano stati bruciati due materassi. Tuoni ha parlato di una situazione stazionaria all'Opg dove dal 1° aprile (giorno in cui è entrata in vigore la legge 81, che stabilisce la chiusura degli Opg) non si sono registrate né uscite né ingressi, gli internati sono 114 dei quali 48 toscani. La direttrice ha fatto presente che entro breve otto internati liguri dovrebbero essere trasferiti a Castiglion delle Stiviere (Mantova). Al momento della chiusura della struttura la nostra Regione dovrà farsi carico dei 48 toscani mentre gli altri pazienti verranno affidati alle rispettive regioni di provenienza. Dall'incontro tra Corleone e Tuoni è emersa una situazione di empasse, di incertezza in attesa dell'individuazione di piccole strutture terapeutiche territoriali e di una residenza destinata ad accogliere i pazienti internati con misure di sicurezza detentiva (Rems: residenza sanitaria per l'esecuzione della misura di sicurezza). Pordenone: il Sottosegretario Ferri sconfessa il Dap "il nuovo carcere a San Vito si farà" Messaggero Veneto, 26 aprile 2015 Fumata bianca su carcere e nuova sede dei giudici di pace. Cosimo Maria Ferri, sottosegretario del ministero alla Giustizia, ieri a Pordenone per un incontro istituzionale con rappresentanti di Regione, Comune e vertici degli uffici giudiziari, ha confermato la costruzione del penitenziario a San Vito e sostenuto la soluzione ex biblioteca per la sede dei giudici. "La decisione del ministero - ha detto Ferri - rimane quella di realizzare il carcere a San Vito, non ci sono passi indietro". Parole inequivocabili. Perché, allora, al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) s'è messo il carcere di San Vito tra quelli "superflui"? "Quello del Dap è un documento interno da verificare, sul quale non c'è stata alcuna decisione politica - ha risposto il sottosegretario. Non ha valenza politica e allo stato non frena le decisioni prese. La nuova casa circondariale di San Vito era prevista nel Piano carceri. C'è stata la gara. Poi il progetto è passato al ministero delle Infrastrutture, che sta esaminando l'offerta anomala". Sulle criticità del carcere di Pordenone, ieri visitato dallo stesso Ferri, il sottosegretario ha tagliato corto: "L'unica soluzione è realizzare il penitenziario a San Vito. L'interesse è spendere i soldi pubblici nel migliore dei modi, per la sicurezza e la gestione dei detenuti, dei loro familiari e avvocati e degli operatori". Entro fine maggio il responsabile del Dap, Santi Consolo, visiterà l'ex caserma Dall'Armi di San Vito, luogo scelto per realizzare un penitenziario da 300 posti (stanziati circa 30 milioni di euro). In quell'occasione farà tappa anche al Castello a Pordenone "per rendersi conto e chiarire la situazione", ha detto il sottosegretario. Per eliminare definitivamente i dubbi, insomma, nati da quel "documento interno". Piace anche l'idea della nuova sede per il giudice di pace, ipotizzata nell'ex biblioteca di piazza della Motta dopo l'accorpamento in città degli uffici di San Vito, Spilimbergo e Maniago. Ferri ha visitato la sede e ha osservato come si trovi in buone condizioni: potrebbe essere pronta all'uso in breve tempo. Non è detto, dunque, che non si utilizzino i 70 mila euro stanziati dal Comune per l'attuale sede del giudice di pace per i primi ritocchi all'ex biblioteca. In attesa di completare il finanziamento per i lavori. "La decisione politica è di andare avanti sull'ex biblioteca - ha continuato Ferri - e avviare i lavori di ristrutturazione. Ciascuno farà la propria parte. Nei prossimi giorni definiremo le modalità". Si prospetta un accordo Comune-ministero, con la collaborazione della Regione, come ha sottolineato il vicepresidente Sergio Bolzonello. Soddisfatti degli impegni su carcere e giudice di pace, al tavolo, col sottosegretario e Bolzonello, il sindaco Claudio Pedrotti con gli assessori Moro e Zille, l'assessore provinciale Francesca Cardin, il presidente del tribunale Francesco Pedoja e il procuratore Marco Martani. L'Ordine degli avvocati pordenonese era rappresentato dalla presidente Rosanna Rovere e da Graziella Cantiello e Sara Rizzardo: anche per loro sospiro di sollievo per le conferme sul carcere, viste le "condizioni proibitive" in cui oggi si svolgono gli interrogatori. Plauso di Ferri "all'armonia tra avvocatura e istituzioni per risolvere i problemi del territorio: qui il cittadino ha di fronte un modello che funziona". Pistoia: relazione del Garante; il carcere è più umano con un'infermeria e celle meno affollate di Eleonora Ferri Il Tirreno, 26 aprile 2015 Dopo tre anni di attività il Garante dei detenuti del carcere di Pistoia, Antonio Sammartino, chiude il suo mandato. Tre anni di attività durante i quali questa figura, istituita a Pistoia per la prima volta nel 2011, ha svolto i compiti di osservazione, vigilanza e promozione dei diritti dei detenuti della casa circondariale Santa Caterina in Brana. Il lavoro svolto durante il mandato, iniziato il 20 marzo 2012 e concluso a marzo scorso, è riassunto nella relazione finale firmata da Sammartino e che descrive lo stato di salute attuale del carcere pistoiese. Fra i traguardi positivi raggiunti e registrati ci sono quelli di una nuova infermeria (inaugurata a dicembre 2014) all'interno della casa circondariale e soprattutto l'abbassamento del numero di persone detenute: a giugno 2014 si contavano 86 reclusi, mentre a dicembre 2014 il numero è sceso a 64 (di cui 22 stranieri), a fronte di una capienza regolamentare di 57 persone. "Grazie allo sfollamento carcerario, sono migliorate notevolmente le condizioni" scrive Sammartino . Un esempio sono le 19 celle singole del primo piano (che misurano 8,2 mq compresi gli spazi occupati dai mobili e suppellettili e 1,2 mq di bagno): dove in precedenza erano recluse tre persone per cella, adesso quasi tutte ospitano un solo detenuto. Varie anche le attività attive all'interno dell'istituto: corsi formativi (per imbianchini o per la preparazione di piatti), corsi scolastici, attività culturali e l'accesso alla biblioteca. Questi sono solo alcuni degli obiettivi raggiunti. Ma c'è ancora molto da fare. Alla voce "eventi critici" riscontrati all'interno del carcere nel 2014 restano alti i numeri delle autolesioni (33), degli scioperi della fame (15), seguiti dalle aggressioni tra detenuti (7) e tentativi di suicidio (2). Al fianco del garante lavorano anche alcune associazioni pistoiesi, come "In cammino" e "Il Delfino Onlus". Si occupano dei detenuti in vari modi: dai colloqui personali alla ricerca di un lavoro, dal reinserimento in società alla distribuzione di beni di prima necessità, fino all'aiuto alle famiglie dei reclusi in carcere. "L'autolesione o lo sciopero della fame spesso sono modi per attirare l'attenzione su certe cose, come la lentezza della macchina giudiziaria - spiega Adriano Mancini, responsabile dell'associazione Il Delfino - inoltre l'assistenza psicologica, psichiatrica e educativa all'interno del carcere è carente perché le ore sono poche". All'interno del carcere si contavano, al dicembre 2014, due educatori, uno psicologo (in attività un'ora al giorno per quattro giorni la settimana) e uno psichiatra (16 ore settimanali). "Molti detenuti sono affetti da disagio mentale, e condividere la cella con uno di loro, per una persona non affetta da queste patologie può diventare devastante - spiega Mancini - molti altri sono tossicodipendenti: mandare in carcere queste due tipologie di persone è come mandarle in una discarica, i pochi colloqui con gli educatori e i professionisti e le cure metadoniche e psicotrope non sono niente a confronto delle reali necessità". "Il tempo di una giornata, che per noi è di 24ore per loro diventa di 48ore" afferma Cinzia Salvi, volontaria de Il Delfino. È per questo che un'occupazione diventa vitale, e non solo per il reinserimento in società. Genova: presunto pestaggio nel carcere di Marassi, la Procura apre un'inchiesta di Giuseppe Filetto La Repubblica, 26 aprile 2015 Se non fosse che il carcere di Marassi "è una scatola di vetro", come ripete il direttore Salvatore Mazzeo, si potrebbe pensare che nelle "case rosse" si mettano in pratica le stesse procedure di Regina Coeli. Anche se lì il pestaggio fu causa di morte di Stefano Cucchi, deceduto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale "Sandro Pertini" di Roma. E però l'inchiesta della Procura della Repubblica, affidata al pm di turno Giuseppe Longo, fa capire che Marassi non è il carcere romano, ma qualcosa di dubbio e di grave sicuramente è accaduto, se è stato aperto un fascicolo per lesioni. Nel fine settimana tra l'11 e il 12 di aprile un detenuto avrebbe denunciato di essere stato manganellato e picchiato a sangue da un agente penitenziario. Tant'è che la stessa direzione carceraria lo ha fatto visitare dai medici della Asl Tre che svolgono servizio all'interno della casa circondariale. Non è chiaro cosa Renato Urciuoli abbia scritto sul referto medico trasmesso alla Procura della Repubblica, tantomeno cosa il responsabile della Struttura di Medicina Penitenziaria abbia dichiarato a Carmelo Cantone, il provveditore alle carceri liguri che ha aperto un'inchiesta interna e negli scorsi giorni nel suo ufficio di viale Brigate Partigiane ha convocato i tre medici che svolgono servizio ed assistono i detenuti. E già, perché sarebbe stato lo stesso direttore di Marassi ad informare l'autorità giudiziaria ed i suoi superiori gerarchici. Compreso il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Della vicenda si tiene il più stretto riserbo, "anche perché i racconti sono tutti da verificare". Lo dicono anche fonti vicine alla Polizia Penitenziaria. C'è di più: "Sono le solite cose che succedono in un istituto di pena, ma noi non omettiamo nulla ed è nostro interesse che la verità venga a galla", ripetono le guardie carcerarie. "Sì, qualcosa c'è stato, sono stati riscontrati degli ematomi sul corpo del recluso - si limita a dire Luigi Carlo Bottaro, direttore sanitario della Asl Tre - è tutto da accertare se ci sia stata una colluttazione o un fatto accidentale". Le versioni del detenuto (un italiano piuttosto giovane, molto conosciuto agli organi di polizia, che deve scontare una pena per spaccio di stupefacenti) e quella del secondino sarebbero completamente contrastanti. Il primo avrebbe raccontato ai medici che lo hanno visitato ed allo stesso direttore Mazzeo di essere stato picchiato a colpi di manganello. L'altro, invece, di essere stato aggredito, di essersi semplicemente difeso e di essere rimasto coinvolto nella colluttazione. Dice una persona vicina al detenuto: "Anche nella morte di Stefano Cucchi il personale carcerario negò di avere esercitato violenza sul giovane ed espresse diverse ipotesi sulla causa del decesso, dicendo che lo stesso poteva essere morto o per conseguenze a un supposto abuso di droga, o a causa di pregresse condizioni fisiche, o per il suo rifiuto al ricovero al Fatebenefratelli". Il sottosegretario di Stato Carlo Giovanardi dichiarò che Stefano Cucchi era morto soltanto di anoressia e tossicodipendenza, asserendo altresì che il ragazzo fosse sieropositivo. Successivamente si pentì per queste false dichiarazioni e si scusò con i familiari. Non pare che la vicenda di Marassi sia comparabile a quella del Regina Coeli. Tant'è che sulla vicenda vi sarebbero due distinte denunce, una contraria all'altra. Peraltro, all'accaduto non avrebbe assistito alcuno, quindi non ci sarebbero testimoni. C'è da dire, però, che il detenuto avrebbe denunciato le manganellate. E non è un dettaglio nel caso in cui i medici avessero accertato traumi o ematomi compatibili con l'uso di questa arma. La normativa carceraria, infatti, ne vieta l'uso, a meno che non sia autorizzato dal comandante delle guardie, Massimo Di Bisceglie, o dal direttore: solo in casi di estrema emergenza, come può essere una rivolta o una rissa impossibile da sedare. Inoltre, i manganelli sono custoditi in armeria. Le cui chiavi, però, sono a disposizione degli agenti di guardia. L'Aquila: medici delle carceri a rotazione, 21 licenziamenti alle porte di Maria Trozzi www.report-age.com, 26 aprile 2015 Sono 21 figli di un dio minore e finiranno fuori dal mondo del lavoro il 30 giugno, a quanto pare, risucchiati dai vortici della rotazione disposta, tra il personale medico operante nei penitenziari dell'aquilano, per volontà della Asl. Le parole "dimensionamento delle dotazione organiche" imboniscono dunque il fuori gioco per medici, infermieri e fisioterapisti che prestano servizio in queste carceri, da decenni, ma a tempo determinato e saranno solo in parte sostituiti. L'avvicendamento immetterà nelle carceri dell'aquilano un esiguo quantitativo di nuovi operatori sanitari proprio là dove sono ospitati detenuti ad alta sicurezza o ci sono carcerati sottoposti al regime ex art. 41 bis. A rischio è anche il rapporto di fiducia tra la Direzione e l'operatore. Lo ha messo in evidenza, a fine 2014, il Provveditorato regionale (Abruzzo e Molise) del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e lo hanno ribadito, il 23 aprile, anche i direttori delle carceri di Sulmona, Avezzano e L'aquila rispettivamente: Sergio Romice, Mario Silla e Celeste D'Orazio. Dopo il decreto (1 aprile 2008) della Presidenza del consiglio dei ministri purtroppo solo gli operatori sanitari precari delle carceri della provincia dell'Aquila non sono stati stabilizzati a differenza dei loro colleghi operativi nelle altre 5 carceri della regione. Sembra che alla direzione generale della Asl abruzzese, sorda alle proteste e al sit in, per tutti questi anni sia sfuggita l'assunzione dei dimenticati, carenze di fosforo non riscontrate però per i penitenziari delle altre province abruzzesi. Le cose non andarono bene per tutti dunque quando, ad aprile di 7 anni fa, si trasferì la competenza della gestione del personale della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale. A Pescara, Teramo e in provincia di Chieti filò tutto liscio per la stabilizzazione anche dei fisioterapisti, ma per gli operatori della sanità penitenziaria dell'aquilano il contratto che regola il rapporto di lavoro s'è incancrenito nel tempo determinato. La mannaia colpisce, una razione di sforbiciate al giorno per decimare i territori del Centro Abruzzo, in trincea è la Valle Peligna. Nel sacco è ancora Sulmona quando, ad ottobre scorso, con un altro provvedimento del Commissario ad acta, Luciano D'Alfonso, è decretato di attuare il dimensionamento delle dotazioni organiche delle unità operative di medicina penitenziaria delle aziende unità sanitarie locali della Regione, così indicando la via di casa ad una decina di operatori sanitari del carcere del capoluogo peligno. Il contenimento della spesa penalizza inevitabilmente l'entroterra abruzzese, ma non si rispecchia con i conti fatti, a larghe maglie, sulla costa e dalla Asl di Pescara, palazzine comprese. Così, dopo la Guardia medica di Campo di Giove (Aq), dopo il Punto nascita di Sulmona, ecco che la razionalizzazione sanitaria scaglia le sue lame contro medici e infermieri delle strutture penitenziarie della Marsica, dell'Aquila e, nemmeno più a scriverlo, di Sulmona. In quest'ultima, dal 30 giugno, si perderanno probabilmente altri 11 posti di lavoro, quelli a tempo determinato, naturalmente. Sarebbero gli stessi operatori riconfermati in pianta organica e per l'intero anno, così come rassicurava il Presidente del consiglio regionale Giuseppe Di Pangrazio, novembre scorso in visita al penitenziario peligno. A confortare era stato anche il direttore sanitario Asl 1 Giancarlo Silveri che dopo il sit in degli operatori sanitari del carcere di Sulmona, sempre a novembre, aveva inviato una missiva al responsabile del servizio aziendale di medicina penitenziaria, Settimio Andreetti, e al direttore sanitario della casa di reclusione di Sulmona. Il manager aveva scritto che l'Azienda, nel rispetto delle prescrizioni delle normative vigenti, avrebbe provveduto ad ogni utile iniziativa mirata alla soluzione delle problematiche relative al personale addetto al servizio di guardia medica della casa di Reclusione di Sulmona, gli operatori a tempo determinato per l'appunto. Così tra 2 mesi resteranno probabilmente senza lavoro 21 operatori dei penitenziari della provincia e dell'Aquila: 5 medici, 5 infermieri (sostituite da altre 2) e un fisioterapista a servizio nel carcere di via Lamaccio a Sulmona, 1 medico e 1 infermiere impegnati nel penitenziario san Nicola di Avezzano e alle Costarelle dell'Aquila sono 4 medici e 4 infermieri e non è stato riconfermato nemmeno il fisioterapista. Tutti precari con contratto di lavoro al cardiopalma, ma con una professionalità nel campo della sanità penitenziaria da fare invidia ai luminari della scienza. L'assistenza sanitaria penitenziaria sarà garantita, almeno a Sulmona, da un manipolo di eroici infermieri, forse 8, di cui 6 assunti a tempo indeterminato, secoli fa, dall'amministrazione penitenziaria. Sono questi i numeri degli operatori che dovranno assistere centinaia e centinaia di persone rinchiuse per lunghi anni in un penitenziario ad Alta sicurezza. Fa riflettere poi che alcuni di questi restino dietro le sbarre per tutta la vita con problemi di salute che impegnano all'inverosimile per l'assistenza. Senza trascurare il fatto che la popolazione carceraria sconta doppiamente le pene dell'inferno, non solo per la tortura del sovrappopolamento, per le carenze di organico degli agenti di Polizia penitenziaria, ma ora anche per la evidente riduzione di operatori sanitari. Inoltre, l'ampliamento in atto nella struttura peligna dovrebbe portare ad un ripensamento lungimirante per la riorganizzazione della sanità penitenziaria sulmonese e del personale del carcere. I lavori in corso nel cantiere porteranno alla realizzare di un nuovo blocco detentivo che dovrà ospitare altri 200 detenuti e oggi la media è di 500 ospiti nel carcere ovidiano. Con questi numeri come si farà a curarli bene e tutti. Teramo: oggi in Piazza Martiri raccolta di libri e gomitoli da distribuire ai detenuti Il Centro, 26 aprile 2015 Il Pd rilancia le iniziative per i detenuti di Castrogno. "Letture di evasione" e "Filo di speranza", messe a punto dai Giovani democratici con le segreterie comunale e provinciale del partito, entrano in una nuova fase dopo il successo della prima esperienza. Il progetto finalizzato alla distribuzione di libri in carcere si è concretizzato a febbraio con la consegna ai detenuti di 600 testi raccolti dal Pd, a cui se ne sono aggiunti altri 200 donati all'associazione Maia, che si occupa a livello provinciale di donne vittime di abusi e violenze. Il risultato dell'iniziativa ha indotto gli organizzatori a riproporla insieme a "Filo di speranza", la raccolta di gomitoli di lana da distribuire a detenute impegnate nel laboratorio di cucito del carcere teramano. Entrambe le iniziative, dunque, saranno riproposte alla cittadinanza domani dalle 9.30, con un banchetto in piazza Martiri. Sarà quello il punto di raccolta di testi (con la copertina morbida) e gomitoli. "Questi progetti", spiega Matteo Sabini, segretario provinciale dei Giovani democratici, "prendono spunto dall'emergenza legata al sovraffollamento delle strutture carcerarie e soprattutto dalla volontà di contribuire a rendere concreto il dettato costituzionale secondo cui la pena deve avere una funzione riabilitativa". A questo scopo serve soprattutto la distribuzione dei gomitoli. "Le donne anche in carcere spesso soffrono più degli altri", afferma Lucia Verticelli, della segreteria comunale, "è importante che abbiano una prospettiva di reinserimento sociale anche imparando a fare qualcosa di pratico". Le iniziative sono state recepite dal partito al livello nazionale che le estenderà ad altre province. Benevento: nel carcere minorile di Airola, dove la rieducazione funziona di Enzo Napolitano Il Mattino, 26 aprile 2015 L'Ipm del centro caudino, come le altre strutture penitenziarie minorili, è stato colpito negli ultimi tempi dalla scure dei tagli al personale a ai fondi per i progetti. Un problema più volte sollevato, che incide inevitabilmente sulla qualità del servizio sociale. Il magistrato di sorveglianza, Ornella Riccio, conosce bene l'istituto e i suoi problemi: "Purtroppo - dice -manca un reale circuito di collegamento tra le attività svolte all'interno della struttura e l'esterno nel senso che è difficile replicarle e segnare positivamente i ragazzi, una volta che sì è fuori. Il territorio sannita, come gli altri, purtroppo è impreparato, dal momento che i servizi sociali sono organicamente, come personale, insufficienti a sostenere anche il "dopo". Essi sono già super impegnati nel periodo della prevenzione e durante la pena. Il loro organico è sotto dimensionato rispetto a realtà sovraffollate come quelle campane. Il grosso lavoro che va fatto è quello di raccordarsi col territorio in anticipo rispetto alla fuoriuscita dei minori, ma le politiche del welfare oggi sono inesistenti. In tutto ciò soccorre fortunatamente il lavoro del volontariato e degli educatori interni, costretti spesso a fare la questua per qualsiasi minima iniziativa. A volte ci riescono, altre volte no, con il risultato che il lavoro viene depauperato. È importante che le nuove politiche in Campania si muovano nel senso della prevenzione, prima e dopo". Servono, dunque, stanziamenti seri, finalizzati alle politiche sociali. Ma l'istituto minorile di Airola, uno dei due presenti in Campania, che ospita una trentina di detenuti, dei quali diciotto svolgono attività all'esterno, sopperisce in qualche modo alle croniche carenze dell'apparato italiano di detenzione: "L'istituto penai e di Airola - ribadisce il magistrato Riccio - rispetto a quello di Nisida, svolge un buon numero di attività ma in più è avvantaggiato, in quanto insiste su un territorio dove il lavoro esterno che svolgono i ragazzi può essere meglio controllato, perché la struttura è bene integrata nel territorio, essendo nel cuore della città, che quasi prosegue il lavoro degli educatori. Il detenuto che va a lavorale in pizzeria, in panetteria o al bar quasi sempre è bene accolto. Questo è un punto di grande forza. Solo qualche giorno fa durante un colloquio, un ragazzo mi riferiva di progettare la sua fuoriuscita con l'intenzione di stabilirsi ad Airola. Da questo importante punto di vista, Airola è un'isola felice". Non è la prima volta che succede: botteghe e ristoratori del posto, quando notano che un detenuto rende, si è comportato bene e ha dimostrato buona volontà, impegno e correttezza, chiedono spesso di poterlo inquadrale per offrirgli una opportunità lavorativa seria e definitiva. Ci sono poi le attività di socializzazione, rispetto alle quali c'è grande attenzione per le loro buone finalità di recupero: "Tutto sommato devo dire che per quanto riguarda l'esecuzione della pena dei ragazzi - conclude Riccio - abbiamo nella nostra regione due istituti che possono essere definiti un po' il fiore all'occhiello delle strutture detentive in Italia, proprio perché vengono seguiti. Le attività che svolgono qui ad Airola quotidianamente gli educatori incontrano tutto il mio compiacimento: in particolare quelle che riguardano l'arte, il movimento fisico e corporeo. Sono ottimi strumenti terapeutici, aiutano a relazionarsi con gli altri, liberatori e molto utili, soprattutto quando avvicinano con successo alla musica e alla danza". Verona: Sergio Ruzzenente (Ap) "istituire anche il Garante delle guardie carcerarie" L'Arena, 26 aprile 2015 Tutelare, con garante, anche gli agenti di Polizia penitenziaria, e non solo i carcerati. È la posizione del veronese Sergio Ruzzenente. Dell'associazione Area Popolare (da non confondere con la lista Area Popolare formata da Ncd e Udc, pure per Tosi) che correrà in una lista a sostegno del candidato presidente Flavio Tosi. "È tuttora calda la polemica sui fatti di Genova, dopo la condanna dell'Italia da parte dall'Europa perle torture, nonché sulle reazioni non sempre accettabili dì agenti e dirigenti, poi sanzionati dai vertici", dice. "Inutile tornare su episodi ormai classificati come un errore, con la speranza che non si ripetano più. Questo non vuol dire però spegnere l'attenzione sulle forze dell'ordine. Ci sono carenze che recentemente sono state evidenziate anche nel carcere di Verona". Da un lato, spiega il candidato, "si assiste a un'umanizzazione delle condizioni dei detenuti, Giusto tutelare chi è in prigione da abusi e vessazioni, come purtroppo può accadere. Ma ci domandiamo chi tutela gli agenti della Polizia penitenziaria, che vivono negli stessi ambienti, da ingiurie, calunnie, aggressioni che si ripetono mentre lavorano. Non ci vorrebbe, forse, un Garante anche per chi nel carcere lavora?" Il problema, sottolinea, "si può estendere a tutti gli agenti in servizio di ordine pubblico e non. per i quali è stata giustamente richiesta l'introduzione di una sigla identificativa ben visibile per scoraggiare perdite di controllo favorite dall'anonimato: tuttavia gli stessi agenti si trovano spesso inermi a dover sostenere aggressioni fisiche e morali, senza una specifica figura di garanzia paragonabile a quella giustamente attribuita ai carcerati". Firenze: nel carcere di Solliccianino un detenuto per protesta brucia il materasso di Andrea Ferrari www.firenzepost.it, 26 aprile 2015 Incendio e soprattutto molto fumo oggi 24 aprile in una cella del carcere di Solliccianino a Firenze. È successo intorno alle 15, al secondo piano dell'edificio che complessivamente accoglie circa 90 detenuti a custodia attenuata. Sembra che all'improvviso uno dei due occupanti la cella abbia dato fuoco ai materassi, per reazione ad una richiesta negata dal magistrato. Da quanto si apprende non ci sono stati feriti ma solo danni all'impianto elettrico. Sul posto sono intervenuti i Vigili del Fuoco, mentre i detenuti sono stati temporaneamente evacuati nel campo sportivo all'interno della struttura carceraria, secondo le procedure interne di sicurezza. Una delle facciate del complesso è rimasta annerita dal fumo. È già in corso un'indagine interna per stabilire cause e responsabilità di quanto avvenuto, in giornate di tensione come quelle delle ultime settimane dopo la notizia che a Solliccianino sarebbero arrivati gli internati più gravi dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo. Per fare posto a loro, parte dei detenuti sarebbero stati rimandati nelle carceri ordinarie. È comunque proprio di ieri 23 aprile l'annuncio che la Regione Toscana deciderà, nella prossima riunione di Giunta di lunedì 27 aprile, che gli internati di Montelupo andranno a Volterra anziché a Solliccianino. Teramo: detenuti al lavoro ad Atri grazie all'associazione Fontanelle 2000 www.cityrumors.it, 26 aprile 2015 L'Associazione Fontanelle 2000 di Fontanelle di Atri da sempre impegnata nella collaborazione con le strutture carcerarie prosegue questa attività attraverso "Sport Solidale", progetto che prevede la partecipazione di alcuni detenuti alle attività connesse allo svolgimento del 8° Trofeo Castellalto", manifestazione ciclistica di rilievo regionale riservato alle categorie giovani, da tenersi il 26.04.2015 a Castelnuovo di Castellalto organizzato dalla A.S.D. Ferrometal Cycling Team di Notaresco. Questa volta grazie al contributo ed all'impegno di Fiammetta Trisi, Direttore dell'Ufficio Detenuti e Trattamento del Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria - Pescara, saranno coinvolte le strutture carcerarie di Castrogno di Teramo, di Chieti e di Pescara con l'impiego di 4 detenuti per l'intera giornata della manifestazione da impiegare nelle attività di staff ed allestimento degli stands, di posa e recupero della segnaletica di gara, di supporto all'organizzazione anche nella fase di gestione degli spazi riservati agli atleti fino alle operazioni di pulizia e sgombero delle aree occupate. L'attività, senza alcun costo per l'Amministrazione penitenziaria, ha lo scopo di voler sempre più integrare socialmente chi allo stato può ritenersi "isolato" dal contesto sociale come i detenuti, con l'obbiettivo di consolidare e rafforzare la rete costituita attraverso le precedenti esperienze che hanno rappresentato un momento di importante pratica della integrazione reale, in modo da seguire un percorso concreto nel recupero pieno alla società dei soggetti svantaggiati attraverso la presa di coscienza dell'essere parte attiva di quella stessa società dalla quale i detenuti stessi si sono autoesclusi. Trani: mercoledì presentazione di "Ripartiamo dalla pasta", terza edizione nel carcere maschile Giornale di Trani, 26 aprile 2015 Mercoledì prossimo, 29 aprile, presso la Casa di reclusione maschile, in via Andria 300, avrà luogo la presentazione della Terza edizione di "Ripartiamo dalla pasta", progetto di riqualificazione sociale per i detenuti, attraverso un percorso formativo in cui si fonderanno cibo e letteratura con l'obiettivo di dare nuovi stimoli ed un rapporto consapevole con ambiente, natura, tradizioni e sociale a chi, dopo avere scontato la propria pena, cercherà di reinserirsi nella società. Interverranno: Bruna Piarulli, direttore aggiunto del penitenziario; Elisabetta Pellegrini, responsabile Area trattamentale del penitenziario; Roberta Martino, dirigente medico Unità operativa assistenza penitenziaria Asl Bt; Rosa Musicco, direttore Ufficio regionale detenuti e trattamento; Giuseppe Mastropasqua, magistrato di sorveglianza; Marina Mastromauro, amministratore delegato Granoro; Salvatore Turturo, amministratore Factory del gusto; Angela Pisicchio, responsabile Presidio del libro di Corato; mons. Savino Giannotti, vicario diocesi di Trani. Libri: "Abolire il carcere", il mondo invisibile dietro le sbarre di Adriano Prosperi La Repubblica, 26 aprile 2015 Ai detenuti si chiede soprattutto una cosa: di non esistere. La "modesta proposta" di Luigi Manconi per abolire il sistema carcerario. Duecento cinquant'anni fa, mese più mese meno, usciva un libro che per la prima volta proponeva di abolire la pena di morte e dichiarava aperta la crisi di un paradigma plurimillenario: quello della pena legale come illimitata vendetta. Il successo di opinione fu vastissimo. E da allora cominciò un percorso che dura ancora, quello della progressiva affermazione di un principio: l'indisponibilità della vita umana nel sistema delle pene. Oggi un altro libro sceglie la data della Liberazione per ricordarci che la mancanza di libertà è mancanza di vita. "Abolire il carcere" di Luigi Manconi (con Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, postfazione di Gustavo Zagrebelsky) spiega come il diritto di uccidere, apparentemente sconfitto, abbia solo cambiato forma: sopravvive, più crudele, nell'altra forma della pena, quella che Beccaria, sbagliando, riteneva più dolce - il carcere. Il carcere oggi è agli antipodi del luogo di solitudine, penitenza e rigenerazione morale che fu nelle sue origini monastiche; e non reca più nessun tratto dell'utopia punitiva sognata dalla ragione illuministica. È diventato un mondo parallelo, abitato da un'umanità a cui si chiede semplicemente di non esistere. Come ha scritto Ernst von Solomon, il carcerato non può concepire come fuori dalla sua cella "lo spazio possa avere estensione e il tempo movimento". E anche Vittorio Foa ammise di aver provato nel suo lunghissimo periodo carcerario un "progressivo svanire della volontà col decorso del tempo". Il costo economico del sistema carcerario è altissimo e in crescita. In Italia, dove è rimasto quasi l'unica forma di punizione, lo si tiene in vita per corteggiare lo spirito forcaiolo di una popolazione che si ritiene civile e accogliente ma che a ogni delitto chiede che il colpevole sia recluso e che si gettino via le chiavi. Eppure, come dimostrano i dati spesso inediti e sconvolgenti riportati dagli autori, chi viene punito col carcere nella maggior parte dei casi tornerà al delitto mentre là dove si ricorre a pene diverse la recidiva crolla a percentuali minime. E così raggiungiamo anche qui record negativi nel contesto europeo. L'affollamento carcerario è stato ridotto solo per l'intervento della Corte europea dei diritti dell'uomo. Capita così che quella che potrebbe sembrare una pura provocazione intellettuale risulti la più onesta e realistica soluzione. Questa "ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini" non è sorella della "modesta proposta" di Jonathan Swift. In Italia non si mangiano bambini per risolvere il problema della carestia: però qui da noi bambini senza colpa vedono il sole a scacchi se nascono dalla madre sbagliata. E la buona coscienza dei cittadini non ne viene turbata: la doppia esclusione del carcere dalla città e del carcerato dalla vita reale, dal lavoro, dagli affetti rendono invisibile a tutti l'esistenza di quel mondo parallelo. Immigrazione: l'emergenza profughi impone umiltà e visione di Matteo Zuppi (Vescovo ausiliare di Roma) Il Manifesto, 26 aprile 2015 Per garantire la vita dei migranti e il controllo saggio dei flussi l'unica soluzione sono i corridoi umanitari. L'altro giorno è venuto a parlarmi un uomo non più giovane, segnato da una tragedia personale (ha perso la figlia), che sente l'urgenza di fare delle cose, perché, (consapevolezza troppo poco diffusa) capisce che le occasioni non sono infinite e che il tempo è limitato. Aveva fretta perché non vuole tradire le attese affidate dai suoi padri e quelle indispensabili a chi viene dopo di noi. Il dolore non l'ha chiuso, anzi, l'ha reso attento a quello degli altri e invece di lamentarsi, di essere vittimista o cercare a tutti i costi improbabili benesseri cerca con determinazione di aiutare gli altri. Il privato e il pubblico tornano in lui a coincidere. Abbiamo parlato del progetto che ha in mente per rendere migliore il mondo e di cui voleva sapere il mio parere. Quello che mi ha colpito principalmente, però, sono state le due condizioni che ha indicato come premessa. Ci vuole, mi ha detto, "umiltà e visione". Mi è sembrato molto saggio. Non si realizza nulla senza l'umiltà di affrontare i problemi veri, in maniera seria, non con il narcisismo che si accontenta delle dichiarazioni. L'umiltà è lavoro, sacrificio, perché non accetta l'apparenza degli spot, delle soluzioni rapide ma finte che servono solo a prendere tempo, ingannandosi e ingannando con risposte mai risolutive, piene della droga delle intenzioni. Umiltà significa mani sporche di lavoro, affronto dei problemi non addomesticandoli; è guardare negli occhi la realtà e non il nostro distorto immaginario. Quanto è vera l'affermazione di Papa Francesco che la realtà è superiore all'idea! Umiltà è toccare la carne, cioè l'umanità così com'è, non il virtuale che rende tutto uguale e soprattutto distante. Umiltà è passare dall'esistenza alla storia. Visione è vedere quello che ancora non c'è, per non restare prigionieri del cinismo, spettatori di un mondo che assiste oggi alla stessa scelta per cui alcuni erano sommersi e altro salvati. I profughi. Senza visione ci sentiamo sempre troppo piccoli per fare qualcosa o troppo grandi o raffinati per sprecarci in scelte concrete. Così ci condanniamo a conservare il passato e questo, senza il futuro, si perde. Chi strilla il vergognoso e soprattutto irreale "prenditeli tu a casa tua", (che significa anche "io posso non occuparmene e non voglio occuparmene") è colpevole perché fa credere che possiamo non fare nulla. Umiltà e visione. I morti annegati impongono di decidere. Ed è proprio questo che spaventa, perché siamo prigionieri dei calcoli, delle pigrizie, delle paure di un mondo che così è fuori dal mondo, che non vuole mai pagare il conto pensando tutto un diritto. Non è affatto "buonista" chi richiede accoglienza per questi "uomini e donne come noi, - fratelli nostri che cercano una vita migliore, affamati, perseguitati, feriti, sfruttati, vittime di guerre, cercavano la felicità", come ha detto domenica scorsa Papa Francesco. Chi pensa di dire la verità perché invita a chiudere la porta non è cattivo ma pensa di dire le cose vere: è solo ignorante e stupido, ingannatore, perché sa bene che il problema resta e diventa solo più invisibile, quindi più pericoloso! Accoglienza e garanzie per tutti non sono affatto contraddittorie. Alzare muri, che sono inefficaci e aumentano solo le paure, non protegge affatto! Il problema è che dobbiamo fare funzionare il nostro sistema e forse sarà migliore davvero per tutti, anche per noi e per i nostri "sommersi"(e quanti sono!). E il sistema è malconcio certo non per colpa di emigranti che disperatamente chiedono futuro e aiutano noi a non smettere di cercarlo. Come ha detto papa Francesco a Lampedusa ormai due anni fa: "La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l'illusione del futile, del provvisorio, che porta all'indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell'indifferenza". A Strasburgo, parlando all'Europa, il papa ha detto: "Dobbiamo mettere assieme una cultura dei diritti umani che unisca la dimensione individuale, o, meglio, personale, a quella del bene comune, a quel "noi-tutti". È giunta l'ora di costruire insieme l'Europa che ruota non intorno all'economia, ma intorno alla sacralità della persona umana, dei valori inalienabili; l'Europa che abbraccia con coraggio il suo passato e guarda con fiducia il futuro per vivere pienamente e con speranza il suo presente. È giunto il momento di abbandonare l'idea di un'Europa impaurita e piegata su se stessa per suscitare e promuovere l'Europa protagonista, portatrice di scienza, di arte, di musica, di valori umani e anche di fede. L'Europa che contempla il cielo e persegue degli ideali; l'Europa che guarda e difende e tutela l'uomo; l'Europa che cammina sulla terra sicura e salda, prezioso punto di riferimento per tutti". È troppo difficile un discorso così, laico, umile e di visione, per un'Europa che non si pensa in relazione e che quindi si abbandona ai rischi di vecchi e nuovi nazionalismi o di diventare un triste condominio di mondi chiusi? Altrimenti diventiamo "passeggeri mimetizzati del vagone di coda, che ammirano i fuochi artificiali del mondo, che è di altri, con la bocca aperta e applausi programmati; un museo folkloristico di eremiti localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini". L'emergenza dei profughi impone, con fretta, quest'umiltà e questa visione. Senza paure. I corridoi umanitari garantiscono la protezione della vita dei migranti e un controllo saggio dei flussi. Evitiamo di naufragare noi in un mare di insolente e stupido egoismo. Troveremo così la parte migliore e più vera dell'Europa e anche il suo futuro. Lo dobbiamo ai nostri padri e ai nostri figli. Lo dobbiamo ai tanti che sono morti per la nostra libertà, 70 anni fa e ci hanno affidato un umanesimo pagato col sangue. E a quei bambini che cercano come tutti i bambini futuro. Brasile: il ministro Andrea Orlando dice sì all'estradizione di Henrique Pizzolato di Geraldina Colotti Il Manifesto, 26 aprile 2015 Henrique Pizzolato deve scontare il carcere in Brasile: 12 anni e 7 mesi. Il Governo italiano, attraverso il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha detto sì all'estradizione del sindacalista italo-brasiliano, vicino all'ex presidente Lula da Silva. La decisione arriva dopo l'ok della Cassazione. Ora, lo stato brasiliano avrà un termine legale di 20 giorni, prorogabile per altri 20, per ottenere l'ex direttore marketing del Banco do Brasil. Pizzolato ha sempre negato ogni coinvolgimento nei fatti del "Mensalao", lo scandalo per tangenti ai politici che ha interessato anche l'entourage dell'allora presidente Lula, nel 2005. Un processo-farsa, secondo i legali di Pizzolato, definito un capro espiatorio in una vicenda giudiziaria dalle forti implicazioni politiche. "È terribile per un innocente accusato di fatti che non ha commesso sapere che il giudice che ha condotto il processo ha nascosto le prove in suo favore in un fascicolo parallelo dicendo che altrimenti il processo non avrebbe mai avuto fine". Così dice Andrea Haas, la moglie di Pizzolato, che lo ha seguito in Italia, dove si era rifugiato. Dopo il ribaltamento di una prima sentenza, che aveva negato l'estradizione, Pizzolato è andato in carcere a Modena, dove ora si trova, nel febbraio del 2014. Un caso che evidenzia l'uso politico della magistratura da parte delle destre, deflagrato poi con il grande scandalo per corruzione che interessa la petrolifera di stato Petrobras. E che vuole far cadere l'attuale presidente, Dilma Rousseff. Appena appresa la notizia, ha esultato infatti la deputata italo-brasiliana Renata Bueno (Usei): "Il ministro Orlando sarà visto come un eroe da molti brasiliani - ha dichiarato - non dev'essere stato facile fuggire alla tentazione di ripagare con la stessa moneta un errore imperdonabile commesso dal Brasile nel negare l'estradizione al pluriomicida Cesare Battisti". E sono in molti, nel governo italiano e in Brasile a volere la testa di Battisti, ex militante delle formazioni armate di sinistra degli anni 70, fuggito in Brasile e accolto come rifugiato da Lula. Questi due link (http://www.lindro.it/0-politica/2015-03-25/172195-caso-battisti-solo-una-questione-di-tempo http://correiodobrasil.com.br/destaque-do-dia/battisti-ia-ser-expulso-na-marra/756353/) raccontano le illegalità compiute ai suoi danni anche di recente. Intanto, sembrano ormai cadere nel vuoto i numerosi appelli e le lettere indirizzate al ministro della Giustizia italiana da molti sindacalisti, movimenti sociali ed ecclesiastici che sostengono la causa di Pizzolato. Hanno scritto a Orlando anche 21 senatori Pd, tra cui il Senatore Luigi Manconi, Presidente della Commissione Diritti umani del Senato. E per il sindacalista in attesa di estradizione è stato creato anche un blog, Indonesia: ordine esecuzione capitale a breve per 3 stranieri, 6 in attesa Agi, 26 aprile 2015 Due trafficanti di droga australiani e una filippina, ritenuta un "corrierE", hanno ricevuto la comunicazione ufficiale dal governo indonesiano che saranno giustiziati a breve. Il caso, che ha avvelenato i rapporti diplomatici tra Giacarta da una parte e Canberra e Manila dall'altro, arriva dopo una lunga battaglia legale che ha visto impegnati in prima fila gli stessi governi. Non è chiara ancora la data della sentenza capitale. I tre sono Myuran Sukumaran e Andrew Chan, ritenuti i capi di una banda di trafficanti di eroina, e Mary Jane Veloso, una domestica madre di due bambini, che si è sempre difesa dicendo di aver trasportato il pacco di droga a sua insaputa. Nelle carceri indonesiane ci sono altri 6 stranieri detenuti per droga e in attesa della sentenza capitale, un francese, un brasiliano e quattro africani: anch'essi attendono il plotone di esecuzione, ma non c'è stata ancora alcuna decisione ufficiale sulla loro sorte. Tutti hanno perso la loro battaglia nei tribunali e hanno anche vista respinta la loro richiesta di grazia al presidente indonesiano, Joko Widodo. Giacarta deve dare ai condannati 72 ore di preavviso prima di un'esecuzione. E a titolo di cortesia diplomatica, i funzionari consolati filippini e australiani sono già stati convocati a Cilacap, una città portuale da cui si accede all'isola di Nusakambangan, l'Alcatraz indonesiana, dove c'è il carcere di massima sicurezza in cui vengono eseguite le sentenze capitali. Nelle ultime ore, si sono comunque moltiplicate le richieste di clemenza. Lo stesso capo dell'Eliseo, Francois Hollande, ha avvertito che se il detenuto francese, Serge Atlaoui, sarà giustiziato ci saranno "conseguenze diplomatiche". "Come minimo - ha preannunciato - richiameremo il nostro ambasciatore a Giacarta". A febbraio, la presidente del Brasile, Dilma Rousseff, non ha voluto accettare le credenziali del nuovo ambasciatore indonesiano proprio a causa della ventilata esecuzione del brasiliano, Marco Archer. La legislazione antidroga indonesiana è una delle più severe al mondo e il presidente Widodo, che ha fatto della lotta alla droga una battaglia personale, ritiene che l'emergenza è tale da richiedere la pena capitale per i condannati. Turchia: ex Procuratore Gultekin Avci rischia ergastolo per insulti a Erdogan su twitter Aki, 26 aprile 2015 Un ex procuratore turco, Gultekin Avci, rischia una condanna all'ergastolo per aver rilanciato su Twitter informazioni concernenti le accuse di corruzione formulate nei confronti del presidente Recep Tayyip Erdogan e di suo figlio. A dare la notizia è lo stesso Avci sempre su Twitter, dove dice che le accuse formulate nei suoi confronti sono quelle di aver "creato un'organizzazione terroristica" e di aver "tentato di deporre il governo". Quello di Avic è solo l'ultimo caso di una serie di persone che sono state perseguite in Turchia per "insulti" a Erdogan da quando è stato eletto presidente lo scorso agosto. Tra questi figurano giornalisti, giovani, un cantante e anche un'ex Miss Turchia. La maggior parte dei sospetti sono stati rilasciati in attesa del processo, mentre i vignettisti Bahadir Baruter e Ozer Aydogan sono stati condannati a 11 mesi di carcere con l'accusa di aver "nascosto un insulto" a Erdogan sulla copertina del settimanale satirico Penguen. Romania: Ponta; nessuna informazione su "carceri della Cia" da quando sono premier Nova, 26 aprile 2015 Il premier romeno, Victor Ponta, sostiene di non avere alcuna informazione concreta sull'esistenza di centri di detenzione della Cia sul territorio del paese balcanico. "Negli ultimi tre anni, ovvero da quando sono diventato primo ministro, non ho mai ricevuto alcun tipo di informazioni sull'esistenza di queste prigioni. Se ci siano state o meno prima non lo so, dato che non ricoprivo posizioni di rilievo nelle istituzioni statali e posso parlare solo di quello che so per certo", ha detto Ponta. Le parole del capo del governo romeno si riferiscono all'intervista rilasciata nei giorni scorsi al principale settimanale tedesco "Der Spiegel" dall'ex presidente della Repubblica, Ion Iliescu. L'ex capo dello stato ha dichiarato di aver consentito nel 2002-03 la creazione di un centro di detenzione della Cia in Romania. Tuttavia, Iliescu ha riferito di non essere inizialmente a conoscenza del fatto che si sarebbe trattato di un'unità di detenzione, quanto più di un centro di comando dislocato sul territorio di un paese amico. I dettagli dell'accordo erano stati stabiliti da Ioan Talpes, che all'epoca era capo di gabinetto del presidente romeno e direttore del Dipartimento di sicurezza nazionale della presidenza. Il nome di Talpes, che era stato direttore del Servizio d'intelligence estero romeno (Sie) dal 1992 al 1997, è tornato alla ribalta lo scorso dicembre quando aveva dichiarato che la Cia gestiva "una o due" carceri in Romania. Le parole di Talpes si riferivano a uno scottante rapporto di 6.700 pagine (di cui solo poco più di 500 sono state rese pubbliche) pubblicato nel 2014 dalla commissione intelligence del Senato statunitense. Nel documento si accusava la Cia di aver compiuto delle torture su alcuni detenuti, atti illeciti che peraltro si sarebbero rivelati "inutili". Secondo il documento la Cia avrebbe gestito dei centri di detenzione in Romania, e non solo (in Europa spiccano i nomi di Lituania e Polonia) dove venivano reclusi sospetti terroristi di al Qaeda. "Nel nostro paese c'è stato almeno un centro di transito per i detenuti sospettati di terrorismo, ma potrebbero essere stati anche due", aveva detto Talpes il quale aveva confermato che "le carceri venivano gestite esclusivamente dalla Cia" e che le autorità romene intendevano "soltanto offrire collaborazione per poter ottenere l'adesione alla Nato". "Non siamo mai stati al corrente delle attività svolte all'interno del centro di detenzione", aveva aggiunto Talpes. Subito dopo le dichiarazioni dell'ex esponente dell'intelligence romena, Iliescu aveva assicurato di "non sapere nulla su quanto rivelato da Senato Usa", una versione dei fatti smentita a qualche mese di distanza dallo stesso ex presidente. L'ultimo rapporto di Amnesty International, pubblicato lo scorso febbraio, aveva segnalato particolari problemi nel rispetto dei diritti umani in Romania. Un'intera parte del rapporto sul paese balcanico si concentra sulla questione delle "carceri segrete". Amnesty citava le parole di Talpes e riportava le dichiarazioni, risalenti al 2012, di Abd al Rahim al Nashiri, un saudita che si trova attualmente in carcere a Guantánamo. Al Nashiri ha presentato una denuncia contro la Romania alla Corte europea dei diritti dell'uomo, sostenendo di essere stato detenuto in segreto a Bucarest tra il 2004 e il 2006. Il 24 luglio scorso la Polonia è stata condannata proprio dal tribunale di Strasburgo a risarcire due persone che avevano accusato Varsavia di aver subito delle torture in prigione della Cia dislocata nel paese est europeo.