A proposito dei circuiti di Alta Sicurezza e delle declassificazioni di Ornella Favero (direttrice di Ristretti Orizzonti) Ristretti Orizzonti, 24 aprile 2015 Quello che vorrei chiedere alle Istituzioni, col cuore in mano. Dirigo un giornale complesso, realizzato da detenuti e volontari, e occupandomi da quasi vent'anni di questioni che hanno a che fare con le pene e il carcere credo di essere una persona competente in materia e in grado di fare osservazioni degne di attenzione. Faccio la giornalista, e anche se nessuno mi paga per fare un giornale in carcere ritengo di avere il diritto di fare il mio mestiere da volontaria e di informare su quello che fa la Pubblica Amministrazione nelle carceri, segnalare quello che non funziona, chiedere spiegazioni quando qualcosa non va. Se poi mi dimostrano che mi sono sbagliata, non ho difficoltà ad ammetterlo: se uno fa le cose seriamente, sa di poter fare anche degli errori. Ma quello che non ritengo sia un errore è che io faccio il mio lavoro anche con il cuore, e non perché sono una VOLONTARIA, ma perché non credo che si possa fare nessun lavoro solo con la testa quando si ha a che fare con gli esseri umani, e in questo caso con esseri umani che vivono senza libertà. Quasi vent'anni di galera, vissuti non da persona detenuta certo, ma a stretto contatto con la sofferenza, non mi hanno ancora abituato alla poca umanità di questi luoghi. Qualche mattina fa sono arrivata in carcere per un incontro con una scuola, e mi hanno detto che Giuseppe Zagari, detenuto in Alta Sicurezza, ma anche redattore di Ristretti, non c'era più: trasferito, nonostante il "congelamento" dei trasferimenti operato in questi giorni dall'Amministrazione per "rivedere le posizioni di tutti i detenuti" in vista di una possibile declassificazione dopo le sollecitazioni di tanti, fra cui il nostro giornale. So quello che mi diranno le Istituzioni: che Giuseppe sei anni fa ha tentato una evasione da Palmi e ha pure usato un'arma e sparato alle gambe dei poliziotti, che Giuseppe è indegno di una declassificazione. Può darsi. Io però so anche che, dopo anni di carceri poco a misura d'uomo, da Palmi a Nuoro, Reggio Calabria, Cosenza, Messina, Cagliari, Rebibbia, Poggioreale, Spoleto, Livorno, Voghera e altre ancora…, da quando quasi cinque anni fa Giuseppe è arrivato a Padova è uno dei pochi che ha cominciato a parlare delle sue responsabilità anche in pubblico e davanti a centinaia di studenti, e l'ha fatto con imbarazzo e pudore, dicendo che di fronte a certe domande avrebbe preferito sprofondare per non rispondere, e invece ha risposto, con vergogna, con responsabilità, con onestà. Nella sua richiesta di declassificazione ha scritto: "Per vent'anni non mi ero mai chiesto se le mie azioni fossero sbagliate, anzi perseveravo nel sentirmi più vittima che carnefice, per me la vendetta giustificava le mie azioni (…) Forse lo scrivente non merita di essere declassificato e con tutta sincerità, se non fosse che la sezione deve essere chiusa, non avrei neppure chiesto tale privilegio, non per arroganza, ma per consapevolezza". Mi domando allora in quei vent'anni in cosa è consistita la sua rieducazione? E soprattutto che cosa nelle sezioni di Alta Sicurezza è stato fatto per farlo riflettere e cambiare, prima che arrivasse a Padova? Alle Istituzioni voglio solo fare qualche domanda, e però credo che dovrebbero rispondere, che sia parte delle loro funzioni, del loro ruolo rispondere ai cittadini che chiedono loro come fanno il loro lavoro: - Negli ultimi due o tre anni, su sollecitazione dell'Europa, in Italia si è cominciato a parlare sempre più di frequente di "umanizzazione delle pene". Ma questa vicenda della chiusura delle sezioni di Alta Sicurezza di Padova è lontana da questa "umanizzazione". Qualcuno ha parlato con le persone detenute, ha pensato alle loro famiglie, si è ricordato che chi è trasferito, per esempio, da Padova a Parma parte da un luogo abbastanza umano, da un carcere dove si possono riallacciare i rapporti con le famiglie e essere impegnati in attività significative, per finire di nuovo in un carcere duro e poco "rieducativo"? - Quando un paio di anni fa fu sollevato il piccolo "scandalo" del ministro Cancellieri che aveva in qualche modo "aiutato" una detenuta eccellente, la figlia di Ligresti, molti funzionari del DAP hanno affermato che il Ministro si occupava personalmente di centinaia di detenuti che le venivano segnalati da loro. Noi di Ristretti non ci siamo scandalizzati, né avventati contro un ministro in fondo più capace e competente di altri, abbiamo chiesto però che cominciassero a esserci per tutti quell'umanità e quell'attenzione che c'erano stati per la Ligresti. Allora si parlò addirittura di istituire una linea speciale di ascolto per i famigliari dei detenuti, e di segnalazione di persone detenute in stato di particolare difficoltà. È successo qualcosa? È successo che l'umanità fatica a farsi largo, e invece bisogna che un trattamento più umano riguardi tutti, anche le persone detenute nei circuiti di Alta Sicurezza, che dopo anni di permanenza in queste sezioni possono forse essere non trasferite in carceri decisamente peggiori, ma DECLASSIFICATE. Che poi non significa metterle in libertà, non significa regalargli chissà quali privilegi, significa solo trattarle un po' più da persone e un po' meno da merci da scaricare da un carcere all'altro. O pedine da spostare su una scacchiera per rendere più funzionali quei circuiti, nati nell'emergenza e fatti per durare il tempo dell'emergenza, e dilatati invece all'infinito come succede per tutte le emergenze nel nostro Paese. - La figlia di un detenuto in Alta Sicurezza a rischio di essere trasferito a Opera, mi ha chiesto "Ma la declassificazione che cosa ci cambia, a noi famigliari?". Ecco, fatico a spiegare che cosa cambia a Padova, perché bene o male chi sta in Alta Sicurezza non è tagliato fuori dal mondo, ma oggi che stanno smantellando Padova mi viene da dire che è tutto molto chiaro: essere declassificati a detenuti "comuni" significa rischiare meno di essere trasferiti, significa non finire in carceri con circuiti di Alta Sicurezza che sono il deserto, come la maggior parte di queste sezioni, significa poter lavorare fuori dalla sezione, incontrare la società che entra, come le migliaia di studenti con cui la redazione di Ristretti si confronta ogni anno, significa cominciare a perdere quella etichetta di "mafiosi" e basta e a sentirsi persone. Sono cose da poco, potrebbe dire qualche funzionario, ma sono anche cose importanti, e lo testimoniano tanti famigliari disperati di dover seguire i loro cari a Parma, a Sulmona, a Opera, e dover tornare alle vecchie regole delle sezioni solo punitive. - In queste richieste di declassificazione, è giusto e importante anche salvaguardare i percorsi delle persone, che non possono trovare in altre carceri quello che hanno trovato a Padova, perché Padova è un'Alta Sicurezza dove è possibile davvero per le persone crescere, costruire relazioni, uscire dalle logiche del passato. Mi piace allora in tal senso sottolineare l'esperienza di Ristretti Orizzonti, perché si può lavorare e fare teatro senza parlare troppo del proprio passato, ma a Ristretti è impossibile non affrontare il tema della responsabilità e del rapporto con le vittime e non cominciare a prendere le distanze da certi ambienti. - Una domanda su tutte la vorrei fare all'Amministrazione: se vogliamo che le persone si stacchino davvero dalla "cultura" delle associazioni criminali a cui appartenevano, non è che dobbiamo anche tirarle fuori da quelle sezioni, dove uno ha per forza lo status di "delinquente tutto d'un pezzo", e cominciare a vedere queste persone dentro a contesti di relazioni "normali" e dignitose, per quel tanto di normalità e dignità che può e deve esserci in un carcere? Poiché comunque ogni esperienza, anche negativa, ci aiuta a capire e a crescere, vorrei che da questa vicenda si cominciasse tutti insieme a lavorare su questo tema: "Durata della permanenza nei circuiti di Alta Sicurezza, percorsi di rieducazione, declassificazioni". La notizia del trasferimento di mio padre ci ha sconvolti Ristretti Orizzonti, 24 aprile 2015 Sono Vincenzo Giglio, figlio di Salvatore Giglio che è attualmente detenuto presso la Casa di Reclusione di Padova. Scrivo la presente per dire che mio padre sono oltre otto anni che è rinchiuso presso il suddetto istituto privato dell'affetto dei propri familiari che vivono tutti in Calabria. Mia madre, mio fratello ed io non sempre possiamo viaggiare dalla Calabria sino a Padova per le visite parentali ed è per questo motivo che io e la mia compagna, in attesa del primo figlio, abbiamo deciso di lasciare casa, il lavoro, gli amici ed i parenti per trasferirci qui a Padova, al solo scopo di poter essere più vicini a mio padre. Ci è costato molto poiché entrambi abbiamo lasciato il nostro lavoro, abbiamo trovato casa ed anche lavoro e, con fatica, ci stiamo pian piano abituando a questa nuova situazione. Tuttavia in un recente colloquio con mio padre ho saputo che egli sarà trasferito, se non ricordo male, al carcere di Sulmona quest'estate! La notizia devo essere sincero ci ha sconvolti, perché dopo tutto quello che abbiamo fatto per stare vicini a mio padre corriamo il rischio che sia stato tutto inutile. So che ha scontato quasi tutta la pena la cui fine è prevista per settembre 2017, e so anche che ha chiesto la liberazione anticipata e deve presentare istanza per il regime di semilibertà essendoci una ditta in Padova che è disposta ad assumerlo; non conosco i motivi per i quali si renda necessario il suo trasferimento visto che, per quanto ne so, la sua vita carceraria è eccellente, ma è certo che se tanto dovesse essere non solo il sacrificio mio e di mia moglie è stato inutile, visto che se torniamo giù non avremmo più neanche il nostro lavoro, ma mio padre non potrebbe più usufruire eventualmente del regime alternativo al carcere perché la ditta che è disposta ad assumerlo è a Padova e non a Sulmona. Mi rivolgo a chi conosce meglio la situazione del carcere di Padova per chiedere di intercedere al fine di scongiurare questo trasferimento, sperando sempre che quanto prima gli sia concessa la misura alternativa. Ringrazio molto per l'attenzione che vorrete dedicarmi. Vincenzo Giglio Giustizia: in carcere solo se serve, la custodia cautelare deve essere motivata dal giudice di Antonio Ciccia Italia Oggi, 24 aprile 2015 In G.U. la legge per favorire i domiciliari. In vigore dall'8 maggio. Custodia cautelare in carcere solo in casi eccezionali. Mai per fatti lievi e solo se le esigenze di tutela della collettività e di scongiurare il pericolo di fuga o di reiterazione del reato non possano essere soddisfatte diversamente. E il giudice deve dettagliatamente spiegare perché è necessaria la misura detentiva e anche perché non è sufficiente l'arresto domiciliare con uso dei braccialetti elettronici. Arresto domiciliare che è dichiarato sufficiente per i reati di lieve entità. Sono le novità della legge 16 aprile 2015, n. 47, recante "Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità", pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 94 di ieri e che entrerà in vigore l'8 maggio prossimo. Ma vediamo di illustrare i punti più significativi della legge, che si inserisce a pieno titolo nel filone dei provvedimenti svuota carceri. La legge incide sia sulla scelta delle misure cautelari sia sulla procedura. Il senso è che la custodia in carcere deve essere l'extrema ratio. Stop, dunque, alla discrezionalità del giudice nella valutazione delle esigenze cautelari: oltre che la concretezza del pericolo di reiterazione del reato ci vuole anche l'attualità del pericolo per poter stabilire una misura in attesa di giudizio. E il concreto e attuale pericolo non potrà essere desunto in via esclusiva dalla gravità del titolo del reato per cui si procede. In ogni caso il ricorso al carcere deve essere residuale. Si andrà in carcere, in attesa del processo, solo quando le altre misure anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate. Per alcuni reati di particolare gravità l'idoneità del carcere è presunta dalla legge, ma la novella diminuisce il numero dei reati che ricadono in questa ipotesi. La presunzione di idoneità è limitata ai soli delitti di associazione sovversiva (articolo 270 c.p.), associazione terroristica, anche internazionale (articolo 270-bis c.p.) e associazione mafiosa (articolo 416-bis c.p.). Viene introdotto l'obbligo per il giudice di spiegare i motivi dell'inidoneità ad assicurare le esigenze di cautela degli arresti domiciliari con uso dei cosiddetti braccialetti elettronici. Tra l'altro la conversione in custodia in carcere non scatterà ogni volta che si trasgredisce al divieto di allontanarsi dalla propria abitazione, ma solo quando la trasgressione non è di lieve entità. Il giudice deve esplicitare le sue scelte in maniera rigorosa, valutando autonomamente i presupposti delle misure cautelari. Inoltre la mancanza di motivazione o di autonoma valutazione da parte del giudice delle specifiche esigenze cautelari o degli indizi ed elementi forniti dalla difesa dell'imputato sarà causa di annullamento della misura da parte del tribunale del riesame. Sul fronte delle misure diverse dal carcere si interviene con l'allungamento del periodo di applicazione. In particolare, si prevede l'aumento da 2 a 12 mesi della durata massima delle misure stesse e la loro possibile rinnovazione per esigenze probatorie non oltre il limite di durata massima. Quanto a profili processuali, va segnalato che, per il procedimento di riesame presso il tribunale della libertà, viene riconosciuto all'imputato il diritto di comparire personalmente all'udienza. Per consentire, poi, alla difesa di prepararsi meglio, si prevede che l'udienza camerale possa essere rinviata dal tribunale per un minimo di 5 e un massimo di 10 giorni. Inoltre le procure devono trasmettere gli atti al tribunale dei riesame entro 5 giorni, altrimenti la misura coercitiva perde efficacia e non può essere rinnovata. Giustizia: Antigone; meno detenuti, ma le condizioni di vita in carcere non migliorano Askanews, 24 aprile 2015 I detenuti presenti al 28 febbraio 2015 nelle carceri italiane sono 53.982. Il 31 dicembre 2014 erano 53.623. Il 31 dicembre 2013, ovvero a sette mesi dalla sentenza pilota della Corte europea dei diritti umani nel caso Torreggiani, i detenuti erano invece 62.536. Dunque a oggi sono 8.554 in meno rispetto a fine 2013. Scende il numero dei detenuti nelle carceri italiane ma non sembrano migliorare significativamente le condizioni di detenzione all'interno delle carceri. È quanto emerge leggendo "Oltre i tre metri quadrati", XI Rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia e in Europa, redatto dall'Associazione Antigone ed edito dal Gruppo Abele. I detenuti erano 66.897 alla fine del 2011 - si legge nella fotografia di Antigone - anno nel quale sono stati assunti i primi interventi di carattere deflattivo. Pertanto in tre anni i detenuti sono diminuiti di 12.915 unità. Dieci anni fa ovvero il 31 dicembre 2004 i detenuti erano 56.068, ossia 2.445 in più rispetto a oggi. Il 21% dei detenuti in Europa è straniero. Il paese con la percentuale più alta è la Svizzera (dei suoi 4.896 detenuti il 74,2% è straniero, e la gran parte di questi è irregolare), seguita dall'Austria con il 46,75%, e dal Belgio con il 42,3%. Inoltre, dei circa 370 mila detenuti stranieri in Europa, il 32,4% è di origine comunitaria. Questo significa che in tutta l'UE i detenuti extracomunitari sono circa 250 mila, ossia il 14% del totale. La percentuale di stranieri nelle carceri italiane è del 32% ovvero 11 punti in più rispetto al dato europeo. Il numero complessivo di detenuti sottoposti al regime duro del 41 bis è pari a 725, di cui 8 sono donne. Solo uno è straniero. Di questi, 648 sono stati condannati per associazione di tipo mafioso. Ben 414 sono in attesa di giudizio per cui presuntivamente innocenti; 305 i condannati, di cui 144 all'ergastolo. Vi è sottoposto un detenuto su dieci fra quelli finiti in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso. Sono 210 i membri di cosa nostra, 294 quelli della camorra, 135 quelli della ‘ndrangheta, 22 della sacra corona unita, 3 detenuti ritenuti esponenti di associazioni di tipo terroristico. Sono 9113, invece, i detenuti reclusi nei regimi alta sicurezza (sezioni dove minori sono le opportunità di vita in comune), 523 i collaboratori di giustizia protetti nelle carceri nonché 129 congiunti di collaboratori. Sono inseriti nel circuito di alta sicurezza i soggetti imputati per reati legati alla criminalità organizzata; i promotori di associazioni finalizzate al traffico di sostanze stupefacenti e sequestro di persona; quelli imputati per reati di terrorismo nazionale o internazionale e i soggetti fuoriusciti dal circuito del regime speciale ex 41 bis per annullamento o mancato rinnovo del decreto ministeriale. I posti letto regolamentari secondo il Dap sono 49.943. Il tasso di affollamento sarebbe dunque del 108%, ovvero 108 detenuti ogni 100 posti letto. Per stessa ammissione dell'amministrazione - sottolinea il rapporto - il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie (reparti chiusi per lavori di manutenzione) che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato. Gli scostamenti temporanei accertati nell'indagine di Antigone sono quantificabili intorno alle 4 mila 200 unità. Se così fosse il tasso di affollamento salirebbe al 118%. Dunque - si sottolinea - bisogna insistere sul terreno delle riforme per arrivare a una situazione ‘normalè ovvero di un detenuto per un posto letto. Il Rapporto di Antigone segnala inoltre un calo nei nuovi ingressi in carcere: gli ingressi sono stati 50.217 nel 2014. Furono ben 92.800, nel 2008. Ovvero in sei anni sono diminuiti di 42.683 unità. Un calo dovuto al cambio della legislazione sugli stranieri (in particolare alla decisione della Corte di Giustizia della Ue che ha imposto la disapplicazione della norma che prevedeva il delitto di inottemperanza all'obbligo di espulsione del questore) e alle nuove norme in materia di arresto (norme tendenti a evitare il peso delle detenzioni brevi in fase pre-cautelare cioè delle cosiddette porte girevoli) e custodia cautelare (limiti all'uso nei casi di reati di minore allarme sociale). Diminuiscono detenuti e anche reati: il calo della popolazione detenuta non ha inciso sulla criminalità esterna smentendo il dato che vuole un nesso tra "più criminali in carcere e meno delitti fuori". I delitti nella fase storica del decongestionamento carcerario sono infatti diminuiti. I detenuti scarcerati dunque non hanno commesso crimini che hanno messo a rischio la sicurezza esterna. Nel 2014, l'indice di delittuosità (reati per numero di abitanti) è infatti complessivamente diminuito del 14% nonostante la popolazione reclusa sia anch'essa diminuita, segno - dice il Rapporto - che in carcere c'erano tante persone (principalmente immigrati e consumatori di droghe) che nulla hanno a che fare con il crimine e che una volta uscite non hanno commesso nuovi reati. Sono diminuiti gli omicidi dell'11,7%, le rapine del 13% e i furti dell'1,5%. In calo anche gli omicidi: l'Italia è tra i Paesi più sicuri al mondo. È al 157esimo posto con un tasso di 0.9 omicidi, ovvero addirittura al di sotto della media Ue (nel 2013 sono stati 502, mentre nel 1991 furono addirittura 1.770). Un indice addirittura più basso di Norvegia (2.2), Finlandia (1.6), Francia (1),Gran Bretagna (1). I Paesi più sicuri al mondo sono invece Islanda e Singapore. I reati contro il patrimonio ascritti alla popolazione detenuta sono stati nel 2014, 30.287, ovvero il 24,1% del totale. A seguire i reati contro la persona pari a 22.167 ovvero il 17,7% del totale e quelli in violazione della legge sulle droghe pari a 18.946 ossia il 15,1% del totale. Questi ultimi erano 26.160 nel 2012 e ben 28.199 nel 2010. In quattro anni c'è stato un calo di ben 9.253 imputazioni per motivi di droga che hanno portato in carcere. Ciò è esito della abrogazione della legge Fini-Giovanardi da parte della Corte Costituzionale. 6.903 nel 2014 sono i detenuti accusati di criminalità organizzata contro i 5.227 del 2008. Nel Rapporto viene inoltre dedicata una analisi anche agli effetti derivanti da una depenalizzazione nell'uso delle droghe. La legalizzazione delle droghe in Italia porterebbe - secondo Antigone - a risparmi immediati dello Stato fino a 100 milioni di euro (dato che comprende gli introiti della tassazione, la riduzione dei costi del sistema repressivo e penitenziario). Secondo alcune rivelazioni il 3% della popolazione italiana ha consumato cannabis nell'ultimo mese. Si tratta dunque di due milioni di persone circa. Nell'anno diventano circa 4 milioni. Considerando una media (prudenziale) di consumo pari a 100 euro a consumatore all'anno. Cosi con una tassa del 20% porterebbe un guadagno fiscale di 80 milioni di euro e almeno 10 mila detenuti in meno. Giustizia: con i detenuti al lavoro lo Stato risparmia, un Piano contro la recidiva di Alessia Guerrieri Avvenire, 24 aprile 2015 Non sono parole, ma occhi e cuori che battono. A sentire parlare Alessandro, Fabio, Andreas e tutti i detenuti che lavorano in carcere c'è un leit motive: "Il voler essere guardati e non giudicati". Edmondo, in più, ha compreso che la sua vita in cella non era finita davanti allo sguardo amorevole della madre che lo perdonava: "Lì ho detto sì al mio riscatto: un progetto di lavoro in carcere". Più lavoro e formazione dietro le sbarre, uguale meno recidiva. Un'equazione misurabile che fatica ad entrare nell'ottica di un sistema penitenziario in cui si spendono 3 miliardi l'anno, ma ha il più alto tasso di ritorno a delinquere d'Europa. Fornire opportunità di rinascita con la scuola o un mestiere comunque non fa bene solo al diretto interessato, ma a tutti. Bilancio pubblico compreso. Abbassare di un punto la recidiva, infatti, fa risparmiare 51 milioni di euro, che diventano 210 milioni nel caso di pene alternative. È su questa certezza che dovrà basarsi la riforma del sistema penitenziario, coinvolgendo sia associazioni e volontari che il mondo imprenditoriale della cooperazione sociale. Perché "per rieducare un carcerato ci vuole un villaggio ". Parte da qui l'appello di Alleanza per le cooperative italiane, Compagnia delle Opere e Forma che ieri a Roma hanno offerto al ministro della Giustizia, Andrea. Orlando, il loro bagaglio d'esperienze in vista degli Stati generali sul carcere e della, riforma della giustizia. Cibi e vini con "Dolci evasioni" nel carcere di Siracusa, gioielli e bici nella casa circondariale di Padova e una lavanderia industriale "Senza macchia " nel penitenziario di Torino. Sono solo alcune eccellenze che fanno comprendere come la pena passiva e la logica del "buttare la chiave" per i galeotti sia la ricetta sbagliata, anche in termini di sicurezza. A ricordarlo lo stesso Guardasigilli che immagina un "nuovo piano organizzativo" per le carceri con l'obiettivo di un "modello di sussidiarietà", perché le strutture pubbliche "da sole non ce la faranno". Per far ciò, continua, "le cooperative sono l'attore più adatto" a creare occupazione nelle istituti di pena e a "formare un ponte di opportunità per il dopo detenzione". Certo, gli fa eco il sottosegretario al Welfare Luigi Bobba, occorrerà combattere la "cultura della rimozione del fenomeno" per rendere le esperienze sui territori l'ordinario, anche grazie a "7 milioni di euro di fondi sociali europei" per alimentarle. Quel villaggio perciò "c'è anche se si vede poco", dice il responsabile del Centro nazionale per il volontariato, sottolineando che sulle carceri la vera spending review "è nell'alleanza tra Terzo settore e Stato". In ballo, il benessere dell'individuo e della comunità. "Nel caso di lavoro in carcere la recidiva scende sotto il 10%", è l'impatto sociale documentato dal portavoce dell'Alleanza Giuseppe Guerini, convinto che per i detenuti occorra inoltre "cura, sussidiarietà e solidarietà". Le premesse ci sono, tuttavia "per essere sussidiaria nel suo esito, la riforma del sistema penitenziario dovrà esserlo anche nella sua genesi", aggiunge Monica Poletto, presidente Cdo Opere Sociali, per partire da ciò che c'è e svilupparlo. Come i programmi di formazione che consentono ogni anno al 7mila persone di studiare e rilasciare 5823 titoli di studio. Non si cresce però solo con libri e "non basta educare con la legge dei codici - le parole del cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, don Claudio Burcio, sembrano disegnare gli obiettivi programmatici per il futuro - bisogna unire giustizia, amore, cura e cultura del noi". Giustizia: abbattere la recidiva dei detenuti comporta un risparmio da 210 milioni di euro Vita, 24 aprile 2015 A dirlo è il confronto "Per rieducare un carcerato ci vuole un villaggio" svolto a Roma, al Palazzo della Cooperazione e promosso da Alleanza delle Cooperative Sociali, Cdo Opere Sociali e Forma su come la riforma del sistema penitenziario potrà favorire il recupero umano e sociale delle persone detenute L'abbattimento della recidiva porterebbe a un risparmio di 210 milioni di euro. Il recupero dei detenuti è di per sé un fatto umano, sociale di inestimabile valore che ha, anche, un risvolto economico per la collettività. È quanto emerso dal dialogo confronto "Per rieducare un carcerato ci vuole un villaggio" svolto a Roma, al Palazzo della Cooperazione e promosso da Alleanza delle Cooperative Sociali, Cdo Opere Sociali e Forma su come la riforma del sistema penitenziario potrà favorire il recupero umano e sociale delle persone detenute. "Siamo pronti a dare il nostro contributo agli "Stati generali sul carcere". Il nostro impegno è rinforzare l'alleanza con le istituzioni per realizzare in ogni carcere d'Italia esperienze lavorative finalizzate al recupero del detenuto. I dati sulla recidiva parlano chiaro: tra i detenuti che non svolgono programmi di reinserimento la recidiva sfiora il 90%, mentre tra i detenuti che seguono questo percorso la recidiva si riduce alla soglia del 10%". Lo ha detto Giuseppe Guerini, presidente Alleanza Cooperative Sociali, che ha introdotto e concluso i lavori. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando ha spiegato "le cooperative sono l'attore più idoneo a realizzare gli interventi per il lavoro nelle carceri e a creare il ponte con il dopo carcere per l'inserimento lavorativo". Riprendendo le parole del ministro Orlando, Monica Poletto, presidente Cdo Opere Sociali ha osservato che "per essere sussidiaria nel suo esito, la riforma del sistema penitenziario dovrà esserlo anche nella sua genesi. Nella sua predisposizione occorre dunque coinvolgere tutti i soggetti che stanno facendo esperienze positive di rieducazione all'interno delle carceri. Affinché si realizzi un sistema più giusto, che tenga più conto della centralità della persona, bisogna sempre partire da ciò che già c'è ed opera e collaborare per capire come possa essere sviluppato". Ai lavori hanno partecipato, tra gli altri, Luigi Bobba - Sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali; Gabriele Toccafondi - Sottosegretario al Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della ricerca; Edoardo Patriarca - Parlamentare e presidente Centro Nazionale per il Volontariato - Lucca. Nella mattinata il "villaggio carcere" si è raccontato attraverso le testimonianze di persone recluse che lavorano in Sicilia, a Padova e presso le cooperative sociali Men at Work di Roma e Il Germoglio di Sant'Angelo dei Lombardi (Avellino). Altre esperienze significative sono state quelle di don Claudio Burgio dell'associazione Kayròs del carcere minorile Beccaria di Milano, di un ex detenuto della cooperativa Homo Faber di Como e dei volontari dell'associazione Incontro e Presenza di Milano. Altre voci interessanti sono venute dal mondo della formazione professionale in carcere e dall'esperienza di volontariato Vic, nel carcere di Rebibbia. Giustizia: Orlando; carceri costano 3 miliardi l'anno, ma tasso recidiva più alto d'Europa Askanews, 24 aprile 2015 "Il sistema carcere in Italia costa 3 miliardi di euro all'anno e ha una recidiva tra le più alte d'Europa" ma occorre trasformare la detenzione da "pena passiva" a "un'occasione di recupero per i detenuti attraverso studio e lavoro". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, intervenendo all'incontro "Per rieducare un carcerato ci vuole un villaggio", organizzato a Roma da una serie di cooperative italiane sociali impegnate nel recupero dei detenuti. Il guardasigilli ha sottolineato come il primo obiettivo, quello del superamento del sovraffollamento carcerario, sia stato raggiunto: "quando mi sono insediato i detenuti erano 61mila con circa 44mila posti disponibili", ora il numero dei reclusi "si aggira sui 53mila con 46-47 mila posti disponibili". L'emergenza del sovraffollamento carcerario, ha aggiunto Orlando, è stata risolta anche grazie allo "stimolo importante e fondamentale venuto dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano". Secondo il ministro, occorre andare nella direzione di altri Paesi europei che hanno sviluppato un sistema dell'esecuzione penale esterna. "Abbiamo affrontato il tema con gli incentivi alla legge Smuraglia e con l'introduzione della messa alla prova si è aperto un filone importante del sistema delle pene alternative al carcere che il nostro Paese non aveva". I primi risultati sono "molto incoraggianti e consentiranno di lavorare sullo sviluppo di una struttura ministeriale che si occupi dell'esecuzione penale esterna: il dipartimento del carcere invisibile", ha spiegato. Orlando ha ricordato come l'obiettivo "degli stati generali dell'esecuzione della pena sia quello di ridefinirne un nuovo modello" anche grazie al coinvolgimento delle cooperative sociali. Secondo il ministro è necessario "superare un'idea passiva della detenzione che spesso ha generato più crescita della criminalità di quanto non ne abbia contrastata". Giustizia: dall'orto ai vini, il lavoro dietro le sbarre Ansa, 24 aprile 2015 Dolci preparati con prodotti biologici, vini di qualità, ma anche gioielli, valige, biciclette. Il lavoro in carcere resta un'eccezione ma non mancano le esperienze positive, nate da iniziative di cooperative , enti di formazione, associazioni di volontariato, spesso impegnate anche nel tentativo di creare una rete di solidarietà intorno ai detenuti e alle loro famiglie. Un mondo che si è voluto raccontare in un incontro pubblico con il ministro della Giustizia Andrea Orlando anche per chiedere che queste esperienze positive vengano valorizzate dall'attesa riforma del sistema penitenziario. Pane, paste di mandorla e altri dolci della tradizione siciliana: a prepararli con ingredienti biologici sono i detenuti del carcere di Siracusa per iniziativa della cooperativa sociale Arcolaio, che gestisce anche la cucina e la preparazione dei pasti nella casa circondariale. Producono vini di qualità i reclusi del penitenziario di Sant'Angelo dei Lombardi, che lavorano in una fattoria gestita da una cooperativa di giovani, "il Germoglio". A Padova invece chi vive dietro le sbarre fa assemblaggio di valige e gioielli ma anche montaggio di biciclette. Stavolta l'iniziativa è del Consorzio Giotto, che oggi dà lavoro a quasi 500 persone all'interno e all'esterno della casa di reclusione. A Torino l'opportunità di lavoro per i detenuti viene dalla lavanderia industriale che è dentro il carcere e ha commesse esterne con strutture pubbliche e private. A gestirla la cooperativa Senza macchia, che promuove iniziative di formazione soprattutto a favore di detenuti stranieri verso i quali è stata emessa una sentenza di espulsione: l'obiettivo è dar loro una possibilità lavorativa una volta rientrati nel loro Paese. Nel carcere di Como c'è invece un centro stampa e la cooperativa Homo faber cerca di formare i detenuti in modo che poi abbiamo la possibilità di lavorare in campo grafico. Lavorano l'orto i detenuti del carcere romano di Rebibbia; la struttura è gestita dall'azienda agricola La Sonnina insieme alla cooperativa Men at work, che all'interno del penitenziario gestisce anche un centro cottura con tanto di servizio di catering per pasti da asporto. In tutto nei 14 penitenziari del Lazio oltre 1.500 reclusi hanno partecipato a percorsi di qualificazioni nei mestieri di pizzaiolo, pasticcere, operaio edile, imbianchino, giardiniere, curati da Enaip, un ente di formazione professionale. Diverse anche le iniziative di volontariato. A Milano l'associazione Kayros si occupa dei ragazzi in difficoltà segnalati dal tribunale e dai servizi sociali e un gruppo di famiglie dà un supporto concreto a questi minorenni. Sempre nel capoluogo lombardo l'associazione Incontro e presenza dà un sostegno morale e materiale ai detenuti e agli ex reclusi e loro familiari delle carceri di san Vittore, Bollate, Monza, Opera e dell'istituto minorile Beccaria. A Roma invece l'associazione Vic Caritas gestisce una comunità alloggio, che dal 1989 ha accolto oltre 5mila persone da 75 Paesi: detenuti in permesso e loro familiari venuti da fuori città per i colloqui. Giustizia: dal lavoro in carcere il dono di riscoprirsi uomini di Alessandra Buzzetti www.ilsussidiario.net, 24 aprile 2015 Interlocutori privilegiati negli "Stati generali della pena" e attori indispensabili per realizzare un progetto ambizioso: incentivare il lavoro dei detenuti nelle carceri per renderlo un sostegno attivo in tempi di crisi economica. Lo promette il ministro della Giustizia Orlando alla rete di cooperative sociali e associazioni di volontariato impegnate da anni nelle carceri italiane, in occasione del Convegno "Per rieducare un carcerato ci vuole un villaggio", svoltosi a Roma e promosso da Alleanza delle Cooperative Italiane, Compagnia delle Opere e Associazione Enti nazionali di Formazione professionale. Un dialogo che guarda all'annunciata riforma del sistema penitenziario a partire dalle tante esperienze positive sussidiarie già in atto, che dimostrano - dati alla mano - la centralità del lavoro, della formazione e della solidarietà nel percorso di rieducazione dei detenuti così da abbattere l'alta percentuale di recidiva e produrre un vantaggio, anche economico, per lo Stato e la collettività. "Il sistema carcerario italiano costa tre miliardi all'anno eppure ha i tassi di recidiva più alti d'Europa: significa che le politiche che concepiscono il carcere come unica o principale sanzione sono fallimentari" dice il Guardasigilli, aggiungendo che, ora che si è risolta l'emergenza sovraffollamento (53mila detenuti a fronte di una capienza carceraria di 47mila posti) si può pensare di lavorare insieme a un progetto più ampio che preveda un messaggio all'esterno comune perché il tema della riforma carceraria scatena inevitabilmente populismo e demagogia. "Ministro, la prendiamo in parola rispetto agli impegni che ci ha annunciato" conclude Giuseppe Guerini, portavoce dell'Alleanza delle Cooperative italiane, che sottolinea il fondamentale contributo che possono fornire le cooperative sociali e le associazioni di volontariato col loro bagaglio di fatti, esperimenti e risultati ottenuti grazie a una seria formazione professionale e alla creazione di posti di lavoro regolarmente retribuiti. "Il carcere o ti cambia in meglio o ti cambia in peggio" racconta un detenuto nel breve video di apertura di testimonianze raccolte nelle case circondariali di Siracusa e di Padova tra i pochi carcerati (parliamo del 2-3%) che in Italia hanno la fortuna di essere assunti da una cooperativa sociale, diventando così lavoratori dipendenti a tutti gli effetti. In sala annuiscono con decisione Raffaele ed Edmondo. Sono i volti che raccontano come dietro ai panettoni, ai torroni e ai vini di qualità come delle biciclette e dei gioielli prodotti in carcere ci siano tante storie di uomini per cui, grazie al lavoro e alla fiducia di chi glielo ha permesso, il carcere non è stato il capolinea. "Per me essere qui è un miracolo" esordisce Edmondo, ancora stupito nel ricordare come la detenzione è stata per lui, paradossalmente, l'esperienza di un riscatto, la possibilità di ricreare legami affettivi autentici grazie all'incontro con gli amici della Cooperativa sociale Homo Faber presente nella Casa circondariale Bassone di Como. "Volevo farla finita - dice Edmondo, quando ho incontrato una persona che mi ha guardato da uomo e così mi sono accorto che un cambiamento era possibile". Da Como a Roma, dove Raffaele ha imparato a fare il cuoco nel carcere di Rebibbia, grazie alla Cooperativa sociale Man at work, che fornisce servizi di ristorazione. Se Edmondo, scontata la pena, è stato addirittura accolto in casa dagli operatori conosciuti dietro alle sbarre, per Raffaele fondamentale è stato l'accompagnamento nella ricerca di un lavoro una volta uscito fuori. Perché "il villaggio" evocato da Papa Francesco nell'incontro col mondo della scuola, necessario per educare e, in questo caso, rieducare va costruito anche oltre le sbarre e per farlo non basta la legge scritta nei codici. Lo sa bene don Claudio Burgio, cappellano dell'istituto penale minorile Beccaria di Milano e fondatore dell'Associazione Kayros, che gestisce alcune comunità di accoglienza per minori e servizi educativi per l'adolescenza. "I miei ragazzi sono ragazzi che entrano in carcere bulli ed escono piangendo" racconta don Claudio, che sottolinea più di una criticità di un sistema che non è in grado di garantire continuità formativa ai giovani in generale e, tanto meno, a quelli a rischio devianza. A rispondere sul piano istituzionale, oltre al ministro della Giustizia, sono Luigi Bobba, sottosegretario al ministero del Lavoro - che propone una maggiore cooperazione tra i ministeri competenti e un tavolo di lavoro allargato agli operatori impegnati nelle carceri - e Gabriele Toccafondi, sottosegretario al ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca. "La sfida per noi è dare dignità alla scuola in carcere, convincere presidi e amministratori che la proposta formativa deve essere seria pur tenendo conto delle condizioni non semplici - spiega Toccafondi, portando un esempio virtuoso. "Sono stato nel carcere di Rebibbia per la laurea di tre detenuti. Uno era un ergastolano che aveva deciso di studiare e di laurearsi perché, nonostante il "fine pena mai", rimaneva sempre un uomo. Questo significa rieducare mettendo al centro la persona". Giustizia: Cassazione; azione per responsabilità civile, no sostituzione automatica giudice di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2015 Non può essere sostituito automaticamente il giudice oggetto di un'azione di responsabilità civile. Lo precisa la Corte di cassazione con la sentenza della Sesta sezione penale n. 16924 depositata ieri, la prima che prende in considerazione la nuova legge in vigore da pochi mesi, la n. 23 del 2015. Viene neutralizzata così la pretesa di un avvocato, imputato dei reati di furto pluriaggravato, falso per soppressione e calunnia (avrebbe sottratto un verbale di sommarie informazioni e una comunicazione del Pm, rendendoli poi irreperibili), che aveva chiesto la rimessione del procedimento a un altro tribunale, ritenendo tutto l'ufficio giudiziario sospetto di un giudizio non imparziale nei suoi confronti. Un utilizzo che la Cassazione ha giudicato evidentemente strumentale dell'azione per fare valere la responsabilità civile del giudice, ma un verdetto tanto più rilevante se si tiene conto dell'eliminazione del filtro di ammissibilità fatto dalla nuova legge e del rischio di pretestuosità nel ricorso alla nuova disciplina della legge Vassalli (la n. 117 del 1988) avanzato da subito da parte dell'Associazione nazionale magistrati. La strumentalità dell'azione era poi ulteriormente corroborata dal fatto che, "per esplicita deduzione dell'istante", l'azione era stata proposta non solo davanti a giudice incompetente, ma anche oltre il termine di decadenza. La tesi dell'imputato era invece che la sola presentazione dell'azione nei confronti di uno dei componenti del collegio giudicante, e di altri due magistrati del medesimo ufficio, rendesse obbligatoria e, in un certo senso, automatica, la sostituzione del magistrato e, anzi, per la fondatezza della ricusazione, immediato il trasferimento del procedimento ad altra sede (visto che l'istituto della ricusazione espressamente prevede e disciplina espressamente la possibilità la sostituzione del singolo giudice non operi all'interno del singolo ufficio). La Cassazione però, per smontare la tesi dell'imputato, fa leva su un aspetto della legge Vassalli che non è stato toccato dalla riforma: il fatto che il magistrato oggetto dell'azione di responsabilità non assume mai la qualità di debitore del proponente. La domanda infatti non è proposta direttamente nei confronti della toga ma solo, con l'eccezione dei fatti penalmente rilevanti, nei confronti dello Stato. Una conclusione che non è messa in discussione neppure dalla possibile presentazione dell'azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato nel caso di condanna dell'amministrazione. I presupposti infatti delle due azioni sono diversi. "In altri termini - conclude la Corte -, non solo la qualità di debitore si assume nel momento in cui viene riconosciuta la compiuta fondatezza della pretesa risarcitoria, e non prima, ma nel caso del sistema delle legge n. 117/1988 il magistrato la cui condotta professionale è valutata nel processo civile non potrà mai assumere la qualità dei debitore della parte privata". In ogni caso, a sgombrare il campo da equivoci, neppure la presentazione di una causa civile o una denuncia penale, fatti riferibili solo alla parte e non al magistrato, possono essere idonei a fondare la ricusazione: non può essere rimessa a un'iniziativa di parte la scelta del giudice. La Cassazione afferma così che, anche dopo la riforma, l'azione di risarcimento danni prodotti nel corso dell'attività giudiziaria "non costituisce per sè ragione idonea e sufficiente a imporre la sostituzione del singolo magistrato". Rimane però del tutto autonoma la questione dell'eventuale dichiarazione di astensione obbligatoria per convenienza. In questo caso infatti l'astensione è frutto di un esame da parte di altra autorità giudiziaria ed è sottratta a un'iniziativa discrezionale di parte. Giustizia: casi Contrada e Diaz, notevole uno-due europeo contro la manetta selvaggia di Lodovico Festa Tempi, 24 aprile 2015 Sottolineare il caos ben poco garantista emerso a Genova era opportuno. E ancora più necessario era stigmatizzare il vizio profondo - specie dopo il 1992 - di arrangiare il diritto riscontrato con evidenza nella condanna di contrada. per un reato mal definito. Naturalmente non si può non considerare benedetta l'opera della Corte europea per i diritti umani che con una certa continuità (carceri, lunghezza dei processi e oggi caso Diaz e sentenza Contrada) cerca di immettere e proteggere criteri liberali in una realtà involuta come quella del sistema giudiziario italiano. Forse non c'era bisogno di richiedere un reato di "tortura" per comportamenti contro i diritti umani già sufficientemente definiti dalle norme italiane e internazionali, sottolineare però un certo caos ben poco garantista nel sistema repressi-vo-giudiziario italiano sul caso Diaz era comunque opportuno. E ancora più necessario era stigmatizzare il vizio profondo - soprattutto dopo il 1992 - di arrangiare la giurisprudenza (si considerino le società private che diventano pubbliche, il reato di falso in bilancio che si assomma invece di unificarsi a quello di corruzione, il finanziamento illecito che diventa corruzione: cioè tutte le innovazioni auto-generate dal rito manipulitistico) riscontrato con evidenza nella condanna di Bruno Contrada per un reato malamente definito dalla giurisdizione italiana (anche quella autoprodotta dalle interpretazioni della magistratura) come quello di concorso esterno in associazione mafiosa. È interessante notare come queste due ultime sentenze intervengano contro una logica in qualche misura emergenzialistica che ha segnato soprattutto gli uomini più legati all'azione dell'Fbi nella polizia e tra i magistrati italiani, in alcuni casi contrapposti a quelli più legati a una logica nazionale non di rado assai efficace anche in funzione anti-mafìosa (a partire dal più famoso ufficiale dei Ros Mario Mori). C'è in questo senso un problema più generale: uno Stato si trova talvolta in situazioni di emergenza e dovrebbe poter disporre dei mezzi per affrontarle senza violare né i i diritti umani né quelli democratici. Ma questa sarebbe una questione di sovranità nazionale: una cosaccia populistica, come direbbe quel genio politico di Mario Monti. Giustizia: da Verri ad Amnesty, la lotta al cuore antico della tortura moderna di Adriano Prosperi La Repubblica, 24 aprile 2015 La parola "tortura" è antica, la pratica anche. E vastissima è stata nel passato la letteratura giuridica per definirne i limiti, indicare i rischi e moltiplicare le cautele: basta sfogliare il classico, insuperato libro di Piero Fiorelli sulla tortura giudiziaria nel diritto comune o le ricerche di Mario Sbriccoli per averne un'idea. Ma tra il senso antico della parola e la pratica si è aperto un ampio e per lo più inesplorato territorio: quello dell'arbitrio del potere, in antico mediato dalla funzione del giudice ma in seguito, fin dall'età dell'assolutismo, sempre più affidato alla polizia, il "braccio violento della legge", ritraendosi nell'ombra la funzione del giurista e scomparendo la sacralità del giuramento (parole e atti che fanno parte del patrimonio comune indoeuropeo, come ha spiegato Emile Benveniste). Tanto più vasto e oscuro si è fatto intanto quel territorio quanto più la luce della definizione giuridica ha abbandonato il campo, un tempo oggetto di una attentissima normativa e di elaborazioni sottili da parte dei penalisti. Così si può fare storia della tortura al solo patto di decifrare il mutamento nascosto dietro l'apparente immobilità del linguaggio. La realtà cambia, il lavoro del potere si aggiorna. "Oggi - si legge in un rapporto di Amnesty International - non vi è un singolo paese al mondo che abbia leggi che autorizzano l'uso della tortura". Ma ecco che, sparita quella legale, è esplosala fioritura di quella illegale. Ancora dal rapporto di Amnesty: "Si può affermare che il 50% del nostro globo stia avvalendosi di questa barbarie più o meno assiduamente". Eppure all'origine la tortura non fu una barbarie, al contrario. Fu inventata per consentire al giudice di raggiungere la "regina delie prove", la confessione del colpevole - un vero progresso grazie al nuovo processo inquisitorio che tra l'XI e il XIII secolo sottrasse ai privati l'obbligo di farsi giustizia e inventò la figura del giudice come "inquisitore" cioè ricercatore della verità. Il principio fondamentale che portò a quel mutamento è tuttora valido: l'interesse collettivo a che i delitti non restassero impuniti. Ne andava di mezzo il vincolo tra l'individuo e la città, così come quello tra il cristiano e la Chiesa (che infatti si impadronì del processo inquisitorio e lo legò per sempre alle forme della sua lotta contro il dissenso, l'eresia). Il ricorso alla tortura, anche se ritenuto necessario e insostituibile, fu arginato da critiche continue, a partire da quella di Sant'Agostino: chi viene torturato perché sospetto, riceve una pena certa per un delitto incerto. C'era l'evidente rischio di lasciare andare assolto il criminale robusto e di punire chi cedeva per il dolore o anche solo per il terrore: la strage di donne nei processi per stregoneria nacque dal ricorso alla tortura, come affermò il gesuita Friedrich von Spee nella sua celebre "Cautio criminalis". Altri tempi. Oggi nella cultura giuridica americana, ai margini di Abu Ghraib e di Guantánamo, è cresciuta la tendenza a una legittimazione della tortura come lotta contro il terrorismo. Sullo scenario ipotetico del caso estremo della bomba a tempo piazzata dal terrorista ("ticking bomb") è venuto meno non solo intellettualmente ma nella pratica il principio fondamentale che non debba esserci simmetria tra il potere criminale e il potere dello Stato. Questo ci riguarda. L'Italia tutta è costretta a ricordarlo dai fatti del G 8 di Genova, l'avvio del millennio con una infamia non punita, degenerata in malattia mortale della politica e della giustizia italiana. Ed è un singolare esempio del cuore antico del futuro il fatto che sia la peste del terrorismo la malattia moderna che fa rinascere ed esplodere la tortura, così come sul caso di un povero barbiere milanese accusato di spargere la peste nacque il ripudio giuridico e morale della tortura argomentato in forme diverse da Pietro Verri e da Alessandro Manzoni, luci remote nel buio di un'Italia regredita. Giustizia: caso Diaz, la violenza non è mai una risposta legittima di Antonio Mazzi Famiglia Cristiana, 24 aprile 2015 La civiltà si esprime attraverso la dialettica e il confronto. Fa rabbia sentire un uomo-poliziotto di 42 anni che, riferendosi al massacro condannato pochi giorni fa anche dalla Corte europea di Strasburgo, avvenuto durante lo svolgimento del G8 di Genova nel 2001, con la barbara irruzione nella scuola Diaz, dichiarare su Facebook: "Lo rifarei mille e mille volte". Credo che le forze dell'ordine debbano fare il loro dovere, soprattutto prevenendo alcuni rischi. Nelle strutture di Exodus arrivano giorno e notte ragazzi e adulti mandati dalle varie carceri, accompagnati da pattuglie molto collaboranti e rispettose. È faticoso il loro lavoro perché i "loro clienti" non sono chierichetti o ragazzi dell'oratorio. Quasi sempre si trovano al centro di situazioni che esigono padronanza totale dei nervi, capacità di subire provocazioni, non solo verbali, di gruppi e di singoli. Però dovrebbero sapere che la violenza, da una parte e dall'altra, genera ulteriore violenza e malessere. Tutti dobbiamo essere operatori di pace, di serenità sociale e di quieta convivenza. Intervenire per fatti gravi non deve permettere a nessuno di scaricare le frustrazioni, di abusare della divisa o dell'autorità. Il poliziotto ha dichiarato che le sue parole sono state travisate. Lo spero tanto, anche perché subito si sono accodati in parecchi. I politici faranno chiarezza sui fatti. Sono arrivati i provvedimenti. Ma i segnali che provengono dalla società non ci fanno dormire tranquilli. La violenza è sempre più presente. Spesso siamo noi adulti a dare adito e a provocarla. Non essere d'accordo ed essere contrari ad alcune scelte politiche, economiche, sportive, sociali non legittima discese barbare in piazza o gesti da tortura e vicini al massacro. La civiltà si manifesta quando la scelta politica, la visione sociale è diversa, ma la si esprime dialetticamente, con le "armi" del confronto e, in extremis, con l'uso attento e moderato delle norme disciplinari e punitive. Gianpaolo Trevisi, direttore della scuola per poliziotti di Peschiera del Garda, quella sera era là, fuori dalla scuola Diaz. Ha voluto in questi giorni, con i suoi 160 allievi, vedere il maledetto filmato. Poi ha scritto una nota sul suo profilo Facebook. La parola più eloquente e argomentata con dolore è: "Scusate". Grazie Gianpaolo. C'era bisogno che qualcuno medicasse la ferita, assurda e inaudita, e tu l'hai fatto! Giustizia: un'anticorruzione giustizialista soffoca la ripresa di Edoardo Bianchi* Il Foglio, 24 aprile 2015 Il capitolo appalti da rivedere e i veri rischi del commissariamento. ci scrive il capo dei costruttori romani. Egregio Presidente Cantone. Desidero rivolgermi a lei in forma pubblica per segnalarle alcune criticità del settore degli appalti che alterano la concorrenza e incidono pesantemente sul corretto andamento del mercato, sulle quali ritengo che l'Autorità da Lei presieduta possa alzare l'asticella dell'attenzione. Perché non estendere la meritoria analisi svolta dall'Autorità sulle procedure negoziate e gli affidamenti in economia anche ai lavori in house (lavori affidati, senza gara, a soggetti controllati dalle stazioni appaltanti)? Forse anche qui ci accorgeremmo di tante anomalie e di frequenti abusi. Quante stazioni appaltanti avvertono la suggestione del ricorso a tale istituto per aggirare l'ostacolo del concorso concorrenziale, pur non sussistendo gli stringenti presupposti stabiliti dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale? Credo che troveremmo diverse sorprese. Perché non dedicare giusta attenzione al fenomeno dell'accorpamento degli appalti? È noto infatti che l'attuale normativa impone di suddividere i grandi appalti in più affidamenti di taglio ridotto per favorire la partecipazione delle piccole e medie imprese, a meno che ciò non sia impedito da precise ragioni di ordine tecnico, che vanno motivate. Sono certo che il monitoraggio consentirebbe la verifica dell'insussistenza, in molti casi, dei presupposti per l'accorpamento, con elusione palese dell'obbligo di motivare la mancata suddivisione in lotti. E ancora. Perché non approfondire se tutte le concessioni in atto hanno realmente tale natura, ovvero siamo in presenza di appalti "mascherati"? È noto infatti che il rischio della gestione economica dell'iniziativa, che nella concessione dovrebbe gravare sull'impresa, in molti casi viene traslato sulla collettività attraverso l'intervento economico dello Stato. Basti pensare ad alcuni concessionari autostradali che, non riuscendo a coprire l'investimento con il pagamento del pedaggio, richiedono ed ottengono il sostegno economico pubblico. Sono certo che l'Autorità nell'esaminare attentamente questi fenomeni possa dare un valido contributo nell'azione di regolazione del mercato. Egregio Presidente, voglio però rivolgermi a Lei anche per il ruolo che viene riconosciuto all'Autorità nell'azione di riordino del quadro normativo esistente. Il tema è quanto mai attuale, considerato che il Parlamento è chiamato ad approvare la legge delega per la riforma del Codice degli appalti, che regolamenta l'affidamento e l'esecuzione di tutti gli appalti pubblici banditi sul territorio nazionale. Provo pertanto ad elaborare alcune riflessioni su specifici argomenti, nella speranza che possano incontrare la Sua condivisione e, di conseguenza, trovare riconoscimento nella stesura del nuovo testo normativo. In tema di concessioni di lavori è auspicabile un intervento volto a sanare l'anomalia di quelle affidate senza gara, vietandone la proroga e prevedendo che i lavori oggetto della concessione vengano interamente affidati in appalto a terzi. Non credo che sia più sostenibile l'esistenza di riserve di mercato a favore di pochi privilegiati. Per quanto riguarda la qualificazione delle imprese, condivido la proposta di inserire tra gli elementi di valutazione criteri reputazionali che riflettano la storia e la consistenza delle imprese. Solidità finanziaria, possesso di certificazioni di qualità, ambientali e di sicurezza, anzianità, consistenza di manodopera e di attrezzature sono certamente requisiti che permettono di attribuire all'impresa premialità ai fini della qualificazione. Estrema attenzione però va dedicata ad altri parametri di premialità, quali il mancato ricorso al contenzioso e il rispetto dei tempi e dei costi dell'appalto. Può essere penalizzata l'impresa che legittimamente ha attivato un contenzioso per tutelare i propri interessi? Può essere penalizzata l'impresa che non ha rispettato i tempi e i costi dell'appalto per cause a lei non imputabili? Chi deve valutare i comportamenti delle imprese per escluderne la temerarietà e la strumentalità? Credo che rischiamo di infilarci in un tunnel di cui non si riesce a vedere la fine. Per finire, un accenno ai criteri di aggiudicazione. Il disegno di legge delega esprime un favore, rispetto al massimo ribasso, per l'utilizzazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, anche quale rimedio ai ribassi anomali. Due sono i motivi che mi inducono a non condividere la proposta, in special modo per gli appalti sotto soglia comunitaria. Il primo è che il ricorso all'offerta economicamente più vantaggiosa non può prescindere dalla necessità dell'apporto progettuale del concorrente in relazione alle caratteristiche del lavoro da realizzare. Non tutti i lavori ne hanno necessità. Il secondo è che l'uso di tale criterio per combattere i ribassi anomali appare improprio. Altri, a mio avviso, sono gli strumenti idonei: ad esempio, la preventiva individuazione di meccanismi di esclusione automatica delle offerte anomale, tra i quali scegliere solo in sede di gara quello che sarà utilizzato. Ciò permetterà ai concorrenti di formulare offerte più congrue rispetto ai lavori oggetto dell'appalto. Egregio Presidente, le domande che le ho posto e le considerazioni che ho sviluppato riflettono le preoccupazioni e le proposte delle nostre imprese e mi auguro possano rappresentare sollecitazione per l'Autorità nello svolgimento del suo delicato compito istituzionale e supporto nell'attività di rivisitazione della normativa di settore. Un accenno, per concludere, voglio farlo alla recente normativa sul "commissariamento" dell'impresa oggetto di indagini della magistratura. Se da una parte è comprensibile che il legislatore abbia voluto dare una risposta immediata all'allarme suscitato dalle indagini su importanti opere pubbliche, dall'altra non posso sottacere perplessità sullo strumento adottato e sui presupposti per attivarlo. Mi chiedo, Le chiedo, se sia legittimo entrare così pesantemente sulla gestione di un'impresa, sostituendone gli amministratori, in una fase di indagini che ancora non ha prodotto alcun pronunciamento dell'autorità giudiziaria o, addirittura, in presenza di meri elementi indiziari. Mi chiedo, Le chiedo, ancora con quale logica il commissario nominato al posto dell'amministratore gestirà l'impresa. Non certo con logiche imprenditoriali, ma al solo fine della "completa esecuzione del contratto di appalto". Cosa succede poi se l'impresa dovesse uscire indenne dalle indagini o dal processo che eventualmente ne deriverà? Grazie dell'attenzione. * Presidente dell'Acer, Associazione dei costruttori edili di Roma e provincia Piemonte: il Garante; 3.595 detenuti su una capienza di 3.833, ma guardare oltre i numeri Ansa, 24 aprile 2015 Se in seguito alla Sentenza Torreggiani il sistema carcerario italiano, e anche piemontese, ha visto un miglioramento dal punto di vista del sovraffollamento, "esistono ancora altri problemi non risolti, perché il problema vero è non solo e non tanto il parametro della misura degli spazi, ma come si svolge e quale utilità ha oggi la pena". A invitare a guardare "Oltre i 3 metri quadri", è il Garante dei Detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano, che ha presentato oggi l'11/o rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia dell'Associazione Antigone. Dai dati del Piemonte emerge che a fronte di una capienza di 3 mila 833 persone nelle 13 carceri della regione, la presenza effettiva è di 3 mila 595 detenuti. Una situazione numerica in positivo in quasi tutte le strutture con qualche lieve sovraffollamento nelle più grandi. A Torino, ad esempio, si tratta di circa 130 persone in più. "I numeri però vanno interpretati", sottolinea Mellano a cui fa eco il presidente di Antigone Piemonte Claudio Sarzotti. "Permangono carenze organizzative - spiega - ad esempio per quanto riguarda il lavoro in carcere, l'impiego del tempo o la questione dell'affettività e sessualità dei detenuti. Problemi che in altri Paesi europei sono stati affrontati. Pensiamo anche all'architettura penitenziaria - conclude - da noi è una questione che non viene affrontata mentre ci sono carceri, in Europa, che non ne hanno per nulla l'aspetto e questo significa avere un'idea della pena diversa". Sardegna: l'on. Pili (Unidos); trasferire 200 detenuti del 41-bis in Sardegna è una follia Ansa, 24 aprile 2015 Visita ispettiva oggi alle 10 nel carcere di Bancali a Sassari del deputato di Unidos Mauro Pili, in vista del trasferimento di 92 boss mafiosi nella nuova struttura penitenziaria previsto a partire dalla metà di maggio. "Trasferire i capimafia nel carcere di Bancali e poi in quello di Uta, per un totale di 200 reclusi in regime di 41 bis, è pari a realizzare in Sardegna un deposito di scorie nucleari", ha denunciato in Aula il parlamentare sardo chiedendo al governo l'immediata risposta alle sue ultime interrogazione e annunciando il sopralluogo di domani. "Si rischiano ricadute sulla società sarda senza precedenti - avverte l'ex governatore. Un vero e proprio agguato alla Sardegna deciso da uno Stato che considera la nostra regione una colonia da trasformare in discarica di mafia. Trasferire in Sardegna 200 capimafia è una follia inaudita e gravissima. Da anni denuncio questo rischio e ora lo Stato si fa ancora più arrogante e prepara l'imminente trasferimento. Per quanto mi riguarda - ribadisce Pili - siamo pronti alle barricate pari alla lotta contro le scorie nucleari. Quel piano demenziale deve essere completamente bloccato. Chiunque confonde le aree insulari con le regioni insulari è un incompetente e vuole solo scaricare sulla Sardegna le tensioni mafiose dei 41 bis". "I capimafia - argomenta ancora il deputato - non vanno concentrati ma semmai separati. Il voler trasferire nell'Isola un terzo dei boss è una scelta solo funzionale alla mafia e niente ha a che vedere con una razionale gestione dei suoi capi". Firenze: non sarà più Solliccianino ad accogliere gli ex internati dell'Opg di Montelupo www.firenzepost.it, 24 aprile 2015 Sospiro di sollievo per i detenuti dell'istituto Gozzini: non sarà più infatti il cosiddetto Solliccianino di Firenze ad accogliere i pazienti dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. Lo rende noto il comune di Montelupo dopo una comunicazione in tal senso della Regione Toscana. All'inizio di aprile i carcerati del Gozzini avevano scritto una lettera di protesta contro la decisione della Regione di ospitare proprio a Solliccianino, che è una struttura a custodia attenuata, 22 internati gravi dell'Opg. Sotto l'onda dei reclami, anche da parte delle camere penali italiane, i vertici regionali hanno fatto dietrofront. E ora la nuova sede individuata per la realizzazione della Rems - la struttura residenziale sanitaria che dovrà ospitare i detenuti-pazienti con la progressiva chiusura dell'Opg - è l'ex ospedale psichiatrico di Volterra: decisione questa che sarà formalizzata lunedì prossimo con una delibera della giunta regionale. Il comune di Montelupo e il demanio hanno inoltre condiviso una convenzione che consentirà ai due soggetti di prefigurare un progetto per il recupero e la valorizzazione della Villa dell'Ambrogiana che ha ospitato l'Opg. Il comune di Montelupo, ha spiegato il sindaco, non acquisirà la Villa Medicea, ma lavorerà di concerto con il demanio per l'elaborazione di un progetto sostenibile. Sul progetto di recupero del complesso lavorerà un gruppo tecnico che si riunirà entro pochi giorni dalla firma della convenzione. A Volterra la Rems per gli ex internati toscani La Rems per i pazienti toscani che devono essere dismessi dall'opg di Montelupo sarà a Volterra: lunedì la giunta regionale dovrebbe approvare la delibera Non sarà Solliccianino ad ospitare i detenuti psichiatrici dell'opg in dismissione, ma l'ospedale di Volterra. "La disponibilità che avevo avanzato di recente riguardo alla realizzazione di un'eventuale Rems sul nostro territorio è stata accolta dalla Regione Toscana, che ringrazio". Così in una nota è il sindaco di Volterra Marco Buselli che commenta quanto reso noto dalla Regione Toscana al sindaco di Montelupo Fiorentino che ha lo ha poi riferito in apertura del dibattimento in Consiglio Comunale dedicato alla Villa Medicea e all'opg. La decisione di sostituire l'istituto Gozzini di Firenze con l'ospedale volterrano dovrebbe essere formalizzata lunedì prossimo con una delibera della giunta regionale, che bisognerà attendere per conoscere i dettagli. "Volterra - dichiara Buselli - ha le condizioni giuste per poter far bene in questo campo". E la scelta, nell'ambito del complesso del Santa Maria Maddalena, dovrebbe ricadere anche su quei padiglioni dismessi dell'ospedale psichiatrico che sono strutturalmente stabili. La città etrusca, dunque, ospiterà la Rems della Toscana: una Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza per quei detenuti che hanno problemi psichiatrici e per i quali sono necessarie misure di sicurezza, appunto. A Volterra, lo ricordiamo, c'è già la struttura del Morel 3, che può ospitare fino a 12 pazienti dismessi dall'opg e che costituisce una struttura residenziale intermedia parzialmente protetta dedicata a trattamenti terapeutici riabilitativi, destinata ad accogliere persone con disturbi psichici autori di reato per le quali è venuta meno la misura detentiva di custodia cautelare, pur permanendo la necessità di misure di sicurezza con saltuari controlli esterni da parte delle forze dell'ordine. Una struttura che ospita pazienti con caratteristiche diverse da quelli della Rems che sorgerà negli altri padiglioni o nello stesso complesso del Morel. Frosinone: è ancora emergenza sovraffollamento, a fonte di 310 posti i detenuti sono 500 Corriere della Sera, 24 aprile 2015 Il Dipartimento amministrazione penitenziaria: "il numero previsto di presenze è di 310 ma la struttura ne ospita 500". È sempre più emergenza sovraffollamento nelle carceri del Lazio e Frosinone resta tra i penitenziari con il più alto numero di detenuti in eccesso rispetto alla normale capacità. Nei quattordici istituti della regione si trovano, in tutto, 5.786 reclusi, vale a dire 672 in più considerati i posti a disposizione, che sono 5.114. L'istituto di pena del capoluogo ciociaro, secondo i dati del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), si attesta al terzo posto con un sovraffollamento di 182 carcerati e una presenza che oggi sfiora così le cinquecento unità, mentre il numero massimo previsto è di 310. Una situazione critica, che pone il carcere di Frosinone subito dopo Rebibbia (1.525 presenze con uno "sforamento" di 290 reclusi) e Regina Coeli (918 detenuti, di cui 276 oltre la soglia prevista). Sovraffollato resta anche il carcere di Velletri, in provincia di Roma, con 131 reclusi in più, mentre Civitavecchia ha un eccesso di 112 detenuti. Vanno meglio le cose a Latina (73 in più) e a Cassino, dove si registra un sovraffollamento minimo, con appena dieci detenuti oltre la capienza massima. I sindacati contestano, a Frosinone, anche la mancanza di un presidio di pronto soccorso nel nuovo padiglione di imminente apertura. "Questo - sostiene il segretario generale della Fns-Cisl di Frosinone, Mauro Petrilli - creerà situazioni di pericolosità per la salvaguardia della salute dei detenuti. Si rischiano ritardi nei soccorsi, considerata l'ubicazione del vecchio presidio che dovrà sopperire alla mancanza del nuovo". Ma la Cisl va oltre e preme per risolvere la carenza di organici della polizia penitenziaria che costringe a turni massacranti. "Le problematiche che investono gli istituti di pena - sottolinea il segretario generale aggiunto della Fns, Massimo Costantino - sono molto critiche. Il governo non può trascurare le condizioni del personale e il malessere in tutte le sedi di servizio". Latina: nella Casa circondariale di via Aspromonte c'è il doppio dei detenuti previsti www.latinatoday.it, 24 aprile 2015 Ad accendere nuovamente i riflettori sulla situazione delle carceri della regione il Fns Cisl Lazio. La Casa circondariale d via Aspromonte tra quelli che soffrono di più: 149 i detenuti presenti a fronte dei 76 previsti. Continua a preoccupare la situazione delle carceri della regione: ad accendere nuovamente i riflettori sul fenomeno del sovraffollamento, di cui da tempo soffre anche la casa circondariale di via Aspromonte a Latina, è ancora una volta Massimo Costantino, segretario generale aggiunto Fns Cisl Lazio. Secondo il dato del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) i reclusi presenti nei 14 istituti del Lazio risultano essere alla data odierna 5.786 (672 in più rispetto ai 5.114 posti disponibili) di cui 412 donne e 5.374 uomini. Gli istituti che soffrono maggiormente il sovraffollamento, illustra Costantino, oltre a Latina dove ci sono 73 detenuti in più (in totale 149 sui 76 previsti), anche Cassino - detenuti regolamentare previsti 203, presenti 213 (+10); Civitavecchia - detenuti regolamentare previsti 344, presenti 456 (+112); Frosinone - detenuti regolamentare previsti 310, presenti 492(+182); Ccf Rebibbia - detenuti regolamentare previsti 263, presenti 351 (+88); NC Rebibbia - detenuti regolamentare previsti 1.235 presenti 1.525 (+290); Regina Coeli - detenuti regolamentare previsti 642, presenti 918 (+276); Velletri - detenuti regolamentare previsti 408, presenti 539 (+131). "Le problematiche che investono gli istituti di pena sono estremamente critiche - continua Costantino. Il ministro Orlando si dimentica delle questioni che riguardano il personale della polizia penitenziaria e della dirigenza. Per la Fns Cisl Lazio la condizione del personale ed il malessere in tutte le sedi di servizio non può essere trascurato dal Governo ed in particolare dal ministro Orlando: è grave e superficiale immaginare che gestione delle carceri possa essere fatta senza misure volte a migliorare il benessere del personale che sinora in silenzio ha lavorato in condizioni proibitive ed in turni massacranti senza avere la speranza di un cambiamento ed un miglioramento complessivo delle proprie condizioni. Non è accettabile - conclude - che la politica guardi solo alle problematiche certamente reali e delicate dei detenuti e trascuri chi opera con abnegazione e sacrificio per garantire un livello possibile di servizio di sicurezza nelle carceri italiane". Cagliari: Sdr; sconcerto per mancato ricovero detenuto con patologia sospetta Ristretti Orizzonti, 24 aprile 2015 "Un detenuto della Casa Circondariale di Cagliari-Uta, ricoverato nel Centro Clinico, dopo essere stato inviato dai Medici del carcere in Ospedale per una patologia sospetta, è stato rimandato nell'Istituto Penitenziario con la prescrizione di un più approfondito esame ecografico. Un episodio sconcertante considerando che il cittadino privato della libertà presenta un quadro clinico piuttosto complesso con una cirrosi epatica e problemi psichiatrici". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", sottolineando "la necessità di una maggiore collaborazione tra i Nosocomi e il Centro Diagnostico del carcere in considerazione anche della indispensabile mobilitazione di una scorta". "È opportuno ricordare - osserva Caligaris - che i Medici Penitenziari chiedono l'intervento dei colleghi ospedalieri quando la situazione di un detenuto appare preoccupante e si rende indispensabile il supporto multidisciplinare. Nel caso specifico, un ristretto di 45 anni, originario di Guasila (Cagliari), la situazione è stata considerata particolarmente delicata soprattutto per un rigonfiamento testicolare di cui non è stato possibile individuare la causa". "Il sospetto che si possa trattare di una patologia complessa e grave - evidenzia la presidente di SDR - ha indotto i Medici del carcere a richiedere un'analisi più approfondita ma l'esito dal quale si riteneva poter ottenere chiarimenti è risultato nullo. È evidente che una stretta collaborazione tra le Istituzioni potrebbe evitare simili riscontri che non favoriscono il clima di fiducia tra gli operatori della salute e i cittadini, soprattutto quando si tratta di persone private della libertà". Torino: Sappe; aggredito e ferito un agente, serve la dotazione di spray anti aggressioni Il Velino, 24 aprile 2015 Un agente della Polizia penitenziaria aggredito in carcere a Torino. Lo rende noto il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Ogni giorno è un bollettino di guerra - commenta il Segretario Generale del Sappe Donato Capece. Stamattina un detenuto del Marocco, 32 anni, ristretto per rapina, ha colpito a calci e pugni l'Agente della Polizia Penitenziaria di servizio nel Reparto detentivo. Non contento, lo ha ferito con una lametta alla spalla, al collo e alla testa, causando al poliziotto una copiosa perdita di sangue. L'Agente è stato condotto in ospedale, ma quel che è accaduto è un fatto gravissimo, che va stigmatizzato con forza. I nostri auguri vanno ovviamente al collega ferito ma il Ministero della Giustizia e l'Amministrazione Penitenziaria non possono tollerare che a Torino i poliziotti siano colpito, aggrediti, feriti da chi crede di poter fare in carcere tutto quel che vuole senza essere punito". Capece sottolinea che il fatto è avvenuto in una sezione detentiva del carcere "a custodia attenuata". Poi il segretario del Sappe denuncia: "Altro che dichiarazioni tranquillizzanti, altro che situazione tornata alla normalità. I numeri dei detenuti in Italia sarà pure calato, ma le aggressioni, le colluttazioni e i ferimenti si verificano costantemente, con poliziotti feriti e celle devastate. Il ministro della Giustizia Orlando ed il Capo dell'Amministrazione Penitenziaria Consolo adottino con tempestività urgenti provvedimenti, a cominciare dalla sospensione della vigilanza dinamica delle sezioni detentive, provvedimento che ha favorito e favorisce questa ignobile e ingiustificata violenza facendo stare i detenuti fuori delle celle a non fare nulla tutto il giorno". Il Sappe torna infine a sollecitare "la dotazione di spray anti aggressioni ai poliziotti penitenziari, ogni giorno vittime di gravi fatti di violenza da parte di una fetta di detenuti che pensano di fare in carcere quel che vogliono. E questo è grave, scandaloso e pericolo. La violenza contro la Polizia Penitenziaria va repressa con la durezza delle leggi". Biella: gli studenti dell'università di Torino in visita alla Casa circondariale www.ilperiodicodibiella.com, 24 aprile 2015 Gli studenti del 2° e del 3° anno del Corso di Laurea del Servizio Sociale dell'Università di Torino con sede a Biella , hanno effettuato una visita guidata presso la Casa Circondariale di Biella, con il Professore di Diritto Penale e Penitenziario Giovanni Torrente e Perla Allegri. Per tutta la durata dell'incontro sono stati accompagnati dal Direttore del Penitenziario Dr.ssa Antonella Giordano, dall'Ispettore Capo di Polizia Penitenziaria Carmine Caso e dal Funzionario Giuridico Pedagogico Letizia Feriozzi. La visita formativa, che aveva l'obbiettivo di far conoscere da vicino la realtà detentiva, vissuta da molti detenuti, si è svolta nei padiglioni detentivi del vecchio e nuovo padiglione dell'Istituto Penitenziario. Gli studenti hanno potuto così confrontare "sul campo" i principi teorici appresi durante il Corso di Laurea con l'organizzazione dell'Istituto e le loro percezioni sul Penitenziario. Hanno potuto così osservare i luoghi ove vengono svolte le varie attività dei detenuti a partire da quelle lavorative e formative: i laboratori artigianali, le aule scolastiche, gli orti e le serre, nonché vedere direttamente gli spazi destinati alla quotidiana vita detentiva; le camere e le zone ove i ristretti trascorrono le ore d'aria e di svago. L'incontro è stato un momento proficuo per i futuri Assistenti Sociali, che ha permesso di aprire alcuni spazi di riflessione sulle modalità e opportunità rieducative delle persone che si trovano nella condizione di privazione della libertà personale. Napoli: libri ai detenuti, perché la rieducazione passa dalla cultura di Gianluca Esposito www.unisob.na.it, 24 aprile 2015 "Con le biblioteche comunali accessibili ai detenuti si apre un nuovo fronte nell'impegno culturale del Comune di Napoli". Così Nino Daniele, assessore alla Cultura e al Turismo, ha descritto l'importanza del protocollo d'intesa firmato questa mattina con il Centro Penitenziario di Secondigliano e con la casa Circondariale di Poggioreale presso l'Emeroteca Tucci. Per l'occasione, a margine della giornata mondiale del libro e del diritto d'autore, la secolare struttura ha voluto donare 300 dei suoi volumi alle biblioteche pubbliche. "Oltre a mettere a disposizione dei detenuti i libri - ha voluto precisare Daniele - si dà inizio a un lavoro che si estende alla catalogazione, al prestito e alla formazione e che prevede il coinvolgimento attivo, oltre che del personale penitenziario, anche dei detenuti". "È un'iniziativa che continua a consolidare l'appartenenza del carcere al territorio" dichiara Antonio Fullone direttore della casa Circondariale di Poggioreale. "La cultura e la lettura sono momenti importanti nel processo di rieducazione e socializzazione". Ed è proprio dalla rieducazione dei carcerati che passa il loro reinserimento in società. "Soltanto quando queste persone potranno desiderare qualcosa di diverso, vorranno vivere in maniera diversa" gli fa eco Liberato Guerriero direttore del Centro Penitenziario di Secondigliano. "E come possiamo suscitare questo desiderio? Avvicinandoli alla cultura, al libro, al film, al teatro". Il protocollo, secondo un progetto del ministero della Giustizia, verrà sottoscritto da diverse carceri e diverse città italiane di cui "Napoli è stata la prima" conclude Claudio Flores, dirigente del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria della Campania. Libri: quel diritto minimo della pena di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 24 aprile 2015 Saggi. "Abolire il carcere" di Manconi, Anastasia, Calderone e Resta per Chiarelettere. La privazione della libertà ha in sé qualcosa di innaturale. È evidentemente innaturale costringere una persona alla reclusione forzata. Oltre a essere innaturale è anche ingiusto, irragionevole, irrazionale, improduttivo, inefficiente, anti-moderno? Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta non si limitano a darne una risposta in Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini (Postfazione di Gustavo Zagrebelsky, Chiarelettere) ma vanno oltre e delineano una piattaforma pragmatica di abolizione del carcere. Sottraggono la prospettiva abolizionista al campo semantico dell'utopia e la inseriscono nel solco riformista del diritto penale minimo di Luigi Ferrajoli. Manconi, Anastasia, Calderone e Resta dunque provano a smantellare pezzo a pezzo l'orgia repressivo-carceraria speranzosi che attraverso un'operazione erosiva di tutte le asperità punitive si possa giungere all'abolizione del carcere stesso. Abolisci l'ergastolo oggi, cancella le misure di sicurezza domani e pian piano del carcere rimarrà ben poco. L'abolizione del carcere viene così sottratta al campo degli abolizionisti del diritto penale e inserita all'interno del movimento per le libertà civili. L'abolizionismo - si racconta nel libro- negli ultimi due secoli ha vinto battaglie storiche il cui esito positivo era inimmaginabile a quei tempi: si pensi alle lotte contro la schiavitù, la pena di morte, l'apartheid. Guardando alla più recente storia italiana vanno ricordate la chiusura dei manicomi civili e degli ospedali psichiatrici giudiziari. Quest'ultima è vicenda dei giorni scorsi. Pertanto l'abolizione delle carceri diventa compatibile con il paradigma del diritto penale minimo di Luigi Ferrajoli, che ci ha insegnato che vanno minimizzati i reati e minimizzate le pene allo scopo di ridurre l'immissione di violenza nella società. Per gli autori, il punto è la modifica del sistema delle sanzioni, inventarne di altre e nuove nella consapevolezza che il carcere è un prodotto della modernità e che la post-modernità potrebbe consegnarci pene meno afflittive, meno disumane e più utili. È questa una prospettiva umanistica (con influenze filosofico utilitaristiche) di tipo social-liberale del tutto compatibile con l'attuale organizzazione del potere. Alle domande sul perché, chi e come punire non si può rispondere in quanto esperti della micro-disciplina penalistica. Il diritto penale attiene alle scelte di democrazia di un Paese. Quelle domande richiedono risposte di tipo olistico. Il diritto penale ha a che fare con la sovranità dello Stato, con il modello sociale, fiscale ed economico prescelto, con la religione e l'antropologia. Non c'è ambito come quello penale e penitenziario dove gli Stati rivendicano in modo così forte la loro sovranità ritenendola intangibile. Quando il banchiere svizzero Jean-Jacques Gautier, nella metà degli anni Settanta del secolo scorso, decise di sostenere il movimento anti-tortura e a seguire la nascita di un organismo europeo istituzionale che avesse compiti ispettivi di tutti i luoghi di detenzione, le resistenze degli Stati furono tutte nel nome delle proprie prerogative e della propria sovranità punitiva. Ogni prospettiva abolizionista non può non tenere conto del rapporto tra pena e sovranità statuale. Manconi, Anastasia, Calderone e Resta non mettono dunque in discussione il diritto di punire dello Stato sovrano ma le modalità della punizione stessa. Quarant'anni fa, mentre in Italia si approvava in Parlamento la prima legge penitenziaria dell'era repubblicana, alcuni criminologi del nord Europa mettevano invece in discussione lo stesso diritto di punire sostenendo l'illegittimità del diritto penale. Louk Houlsman e Nils Christie sono considerati i padri fondatori dell'abolizionismo penale che non è abolizione del carcere ma rinuncia all'intero sistema sanzionatorio criminale. "Il crimine non esiste" scriveva Christie, è un artificio umano. Quella proposta, nel momento stesso in cui metteva in discussione l'ontologia del diritto di punire da parte dello Stato, si andava a configurare come un'opzione politica (e non solo giuridica) anti-statuale con influenze marxiste, cristiane e anarchiche. Manconi, Anastasia, Calderone e Resta, invece, ritengono che si possa abolire il carcere senza mettere in discussione l'attuale assetto politico-istituzionale. Su un punto però vorrei aprire un dialogo con gli autori. I risultati abolizionisti nel campo delle libertà civili sono sempre stato il frutto della lotta politica di movimenti sociali e politici. Alle tante citazioni cinematografiche presenti nel libro ne aggiungo una. In 12 anni schiavo Steve McQueen ci racconta i dodici anni che Solomon Northup visse in condizione di schiavitù prima di diventare un'icona del movimento anti-schiavista. Oggi non esiste un vero e proprio movimento anti-carcerario dentro cui collocare la forza di una storia o di una biografia. E non esiste forse perché c'è il timore che l'abolizione del carcere rischi di portare - in mancanza di una società coesa e solidale - a un ritorno alla vendetta privata. Sono certo che non mancherà da parte degli autori occasione per una loro risposta. Il libro si apre con una citazione di Belen Rodriguez che a parole sue spiega l'inutilità della pena carceraria nei confronti di Fabrizio Corona. Io ricordo agli autori invece che Franco Califano ha scritto molti dei suoi testi in carcere e che lo stesso Califano ha detto in un'intervista che è "meglio il carcere del collegio". Dunque il carcere avrebbe una sua utilità. Tra Belen e il Califfo ai lettori l'ardua scelta. Immigrazione: la Fortezza Europa si arma di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 24 aprile 2015 Consiglio europeo straordinario. Un minuto di silenzio per i morti, ma Frontex resta il solo orizzonte. Più finanziamenti per Triton e Poseidon, maggiore presenza militare nel Mediterraneo. Gli europei discutono su come scaricarsi il "fardello" e non applicano la direttiva del 2001 sulla "protezione temporanea". Il precedente di Atalante, missione contro i pirati somali. Il modello Australia Navi da guerra, portaelicotteri, aerei arriveranno nel Mediterraneo per mettere ordine, per "smash the gangs", come ha riassunto con grande eleganza il britannico David Cameron. Ma gli "interventi mirati" per distruggere i barconi dei trafficanti, individuati come i soli responsabili dell'ecatombe umana dietro i quali la Ue tenta di nascondere le proprie responsabilità, restano un'ipotesi difficile da realizzare nei paesi di partenza, a cominciare dalla Libia, e potrebbero limitarsi ad azioni ex post, nei porti di sbarco europei. A Mrs Pesc, Federica Mogherini, è stato affidato il compito di trovare le vie legali per arrivare al sequestro e alla distruzione dei barconi dei trafficanti. Il Consiglio straordinario sui migranti dei capi di stato e di governo della Ue si è aperto a Bruxelles con un minuto di silenzio in memoria dei morti del Mediterraneo. Sarà il solo momento in cui sono ricordati come esseri umani. Per il resto, i 28 hanno discusso per ore come scaricarsi il "fardello", senza cambiare di una virgola i criteri di Frontex, agenzia nata per difendere la fortezza Europa, come dice il suo nome. I finanziamenti a Triton (al largo dell'Italia) e a Poseidon (al margo della Grecia) saranno raddoppiati: erano rispettivamente di 2,9 milioni al mese e 8 milioni l'anno (ma anche con il raddoppio non si raggiungerà l'investimento di Mare Nostrum). Misure "molto lontane dal nostro appello pressante a favore di operazioni di salvataggio di grande ampiezza", ha commentato Amnesty International, che ha firmato con una trentina di altre organizzazioni non governative un testo rivolto ai dirigenti europei e rimasto inascoltato. Le conclusioni del vertice riprendono i dieci punti del programma di emergenza presentato dalla Commissione lunedì. Ma lo rivedono ancora al ribasso. Bisognerà aspettare maggio, per esempio, e altre proposte della Commissione, per vederci più chiaro sulla "reinstallazione" dei richiedenti asilo nei 28 paesi: comunque, l'offerta sarà solo "su base volontaria" e non dovrebbe riguardare più di 5mila persone, identificate dall'Onu come rifugiati (oggi nei campi in Libano, Giordania e Turchia). Non è in discussione un cambiamento di Dublino II, che prevede che sia il paese di primo arrivo ad aprire la pratica per il diritto d'asilo (cosa che incombe soprattutto su Italia, Grecia, Spagna, Malta e Cipro). C'è una direttiva Ue del 2001, mai applicata, che prevede una "protezione temporanea" in caso di grave crisi, ma anche questo sembra troppo alla maggioranza degli europei. David Cameron, per esempio, che deve fronteggiare le elezioni il 7 maggio, ha subito fatto sapere che manderà 3 elicotteri e una nave (è già una svolta, prima non voleva neppur sentir parlare di ricerca e salvataggio), ma che comunque la Gran Bretagna non accetterà di ospitare rifugiati. Nel 2014, come ha ricordato il presidente dell'Europarlamento Martin Schultz, ci sono state 626mila domande di asilo nella Ue, ma ne è stata accolta solo un'infima percentuale (a titolo di paragone, il Libano, che ha 5 milioni di abitanti, accoglie un milione di siriani). La Francia manderà due navi e un aereo, la Svezia (con la Norvegia) una nave. La Germania, due navi. La Spagna e il Belgio accettano anch'esse di partecipare. La ministra della difesa italiana, Pinotti, sostiene di sapere dove si trovano i trafficanti, l'Italia spinge per operazioni mirate in Libia. Ma molti frenano, e molto probabilmente la distruzione dei barconi avverrà nei porti di sbarco europei. Per poter agire in Libia, principale stato di partenza, ci vuole l'accordo del "governo", ma, come ha sottolineato Hollande (riferendosi polemicamente al suo predecessore Sarkozy), quel paese "non è governato, è nel caos", tre anni e mezzo dopo l'intervento. Ci vorrebbe un mandato Onu, ma qui l'Ue si scontrerebbe con un sicuro veto russo. Il precedente di Atalante, la missione Ue al largo della Somalia contro la pirateria, insegna: la missione era stata decisa nel 2008, ma le prime azioni sono arrivate solo nel 2011-12. Come ha riassunto un ammiraglio francese, Alain Coldefy: "cosa possiamo fare per contenere questo traffico con la forza? La risposta è semplice: niente". Rebecca Harms, co-presidente dei Verdi al Parlamento europeo, afferma che l'ipotesi di interventi mirati è un "senza senso, la missione di difesa e sicurezza comune significa militarizzazione della strategia Ue contro i migranti". La Ue si lascia tentare dal modello australiano. Il premier, il conservatore Tony Abbott, vanta che negli ultimi 18 mesi ci sono stati "zero morti" al largo dell'Australia, grazie all'operazione "frontiere sovrane". Una campagna di informazione ("No way, you will not make Australia home") per scoraggiare le partenze, 908 baroni respinti nelle acque internazionali in 18 mesi, una spesa considerevole di centinaia di migliaia di dollari e per i migranti la sola possibilità di tornare da dove sono venuti oppure di andare in centri di detenzione off shore in "paesi partner": Camberra dà soldi a paesi come la Cambogia (40 milioni di dollari) o la Papuasia Nuova Guinea perché accolgano i migranti che avrebbero diritto all'asilo (l'Australia ha firmato la convenzione internazionale del 1951). La Ue, difatti, cerca "partner" in Africa che si facciano carico dei migranti. Immigrazione: profughi di mare e profughi sociali di Pippo Civati, Marco Revelli Il Manifesto, 24 aprile 2015 Il costo dell'operazione Mare Nostrum è stato di 115 milioni di euro, così dicono le stime più realistiche. Un costo che, se a maggior ragione fosse affrontato dall'Europa nel suo complesso, sarebbe una goccia nel mare dei bilanci: 2 euro all'anno per ogni italiano, 20 cent per ogni europeo. Perché ci si indigna così tanto? Perché si resiste così ottusamente "in alto", nelle Cancellerie europee? Ma soprattutto perché si mugugna con rancore "in basso", nelle nostre periferie in sofferenza? Perché c'è un problema di povertà e di eguaglianza. Perché i poveri italiani (ed europei) si sentono abbandonati e come spesso capita nel mondo guasto in cui viviamo i poveri se la prendono con chi è più povero di loro. Tanto più se l'unica voce "politica" che parla loro è quella degli imprenditori politici dell'odio e del rancore, che anziché risolvere i loro problemi li usano per incassare voti. Prima gli italiani è lo slogan della destra da anni: prima si sistemano gli italiani, poi ci si occupa degli altri. Il punto è però: chi si occupa dei poveri, di chi non ce la fa, di chi è più esposto alla globalizzazione in tutte le sue forme? Quando si propone il reddito minimo, quando ci si interroga sulla sede delle decisioni, sulla regolamentazione del capitalismo finanziario (pagano le tasse anche i poveri mentre le multinazionali possono tranquillamente non farlo, per dirne una, come Roberto Saviano scriveva su Repubblica del 21 aprile, dichiarando fallimentare il semestre europeo guidato dall'Italia in relazione al tema del flusso delle persone e dei capitali), proprio questo si intende affermare. Se non c'è sostegno al reddito per chi vive in Italia, anche le decine di euro destinate all'accoglienza dei profughi sembrano eccessive, anche il salvataggio in mare di donne e bambini diventa termine di paragone, al di là di ogni umanità. Quando si tratta di cambiare la politica, a cominciare dalla politica estera, si parla proprio di questo: del resto, non era presentato Mare Nostrum come un fiore all'occhiello della politica estera italiana? Non era certo il paradiso, ma almeno si moriva di meno. Perché nell'anno di Expo non si è insistito in quella direzione? Perché non si fa guerra alla fame? Chiamare "schiavisti" gli "scafisti" è certamente forte. Ma non preciso. Dà l'impressione che col fare la guerra a loro si combatta la schiavitù. Anzi, la si elimini. Ed è un imbroglio. Perché eliminare la schiavitù significa "liberare gli schiavi". Ed eliminati gli scafisti con le loro carrette del mare, quegli uomini e quelle donne che, disperati, sono disposti a tutto pur di attraversare il mare, non saranno liberi. Saranno più disperati e più schiavi di prima. Schiavi della guerra, della fame, della morte. Cancellare il mezzo e chi lo adotta in modo criminale non risolve quella volontà e le ragioni che li portano a sottoporsi alla violenza. A ben guardare, chi assiste quasi impassibile siamo proprio noi. Sono i nostri governi. Le facce di pietra che dopo qualche secondo di cordoglio, appena il tempo di un comunicato stampa, poi, a Bruxelles, di fronte a una tragedia immane, non sanno far altro che mettere mano alla pistola, e in misura infima al portafoglio (sulla coscienza mai), programmando azioni militari che, a detta di chiunque un poco se ne intenda, sono pura idiozia. Quando l'unica soluzione sarebbe l'apertura di corridoi umanitari, come accade per ogni catastrofe bellica. Si presentano come novelli Lincoln, ma chi non affronta il problema sono proprio i cultori di una politica dell'egoismo e dell'autoreferenzialità, sono i sacerdoti di un'austerità che depreda in basso e accumula ricchezza in alto. I custodi di un dogma fallito che riduce in povertà persone e popoli (la Grecia insegna). Rompere con quella logica è un impegno etico e politico. Per farlo, però, dobbiamo pensare ai profughi in mare e ai profughi sociali, buttati fuori dalla barca del lavoro e del reddito, in un mare di precarietà. Nello stesso momento. Ora. Immigrazione: "l'Eritrea è un inferno… i trafficanti sono la nostra unica possibilità" di Leone Grotti Tempi, 24 aprile 2015 Un servizio del Guardian sui profughi eritrei spiega bene perché i migranti non smetteranno mai di accalcarsi sulle sponde libiche: "Se muoio in mare, almeno non sarò torturata". Fino a quando ci saranno persone che condividono la stessa esperienza di Sofia, i migranti non smetteranno mai di accalcarsi sulle coste libiche per tentare la traversata del Mar Mediterraneo verso le coste europee: "Io ho due scelte: una è morire, l'altra vivere. Se muoio in mare, non è un problema: almeno non verrò torturata". Sofia viene dall'Eritrea, ha diritto all'asilo politico ed è una delle poche fortunate ad essere riuscita a fuggire dal regime africano per stabilizzarsi al Cairo, in Egitto. Ma anche se ha evitato un viaggio disperato su un barcone, la sua vita è un inferno: "Qui rischio di essere deportata. Se ti vuoi registrare come rifugiato con l'agenzia dell'Onu (Unhcr), ti danno un appuntamento per il 2017. Ma chi può permettersi di aspettare così tanto?", spiega al Guardian. "Meglio tentare la traversata. Qui non hai un destino: non puoi avere un'educazione (l'accesso alle scuole è vietato, ndr), non puoi avere un lavoro, non puoi aiutare la tua famiglia. Ogni giorno non fai altro che chiedere aiuto. Ma se vai in Europa almeno, a un certo punto nel futuro, avrai una nazionalità e sarai un essere umano". Un altro migrante, Bayin Keflemekal, spiega: "Noi non vogliamo salire sulle barche. Se il governo libico o l'Onu ci aiutassero, tenteremmo qualcos'altro. Ma se il governo non ci aiuta, l'Onu non ci aiuta, se nessuno ci aiuta, i trafficanti sono la nostra unica possibilità. Siamo come sospesi nell'aria". Il secondo gruppo più consistente di migranti è rappresentano dagli eritrei. Se solo l'anno scorso quasi in 40 mila hanno chiesto asilo politico, ma quelli scappati dal regime sono molti di più, c'è un motivo. Racconta ancora Sofia: "In Eritrea hai paura anche di parlare con la tua famiglia. La persona di fianco a te al bar potrebbe essere una spia che controlla quello che fai. La gente scompare nel nulla ogni giorno". Come una sua amica, che cominciò a parlare in un bar con un uomo, che poi si rivelò essere un membro dell'ambasciata libica: "Stavano solo chiacchierando del più e del meno. Ma hanno detto che la mia amica era una spia e gli stava passando informazioni. Non sappiamo cosa le sia successo. Oggi è ancora in carcere. Un giorno mi hanno detto che era stata ricoverata in ospedale con la pressione alta ma avevo così paura di essere arrestata, che non sono andata a visitarla". In quanto a repressione, nel mondo solo la Corea del Nord batte l'Eritrea. Lo Stato dell'Africa orientale è guidato dal presidente Isaias Afewerki, che governa da quando Asmara ha ottenuto l'indipendenza dall'Etiopia nel 1993. La repressione è costante, il regime di polizia onnipervasivo. Spiega Elsa Chyrum, attivista eritrea: "Non c'è libertà di parola, non c'è libertà di espressione, non c'è libertà religiosa. Abbiamo più di 300 carceri nel paese e la gente non ha niente da mangiare". La leva militare può durare per un periodo indefinito e c'è chi ha passato più di 30 anni in caserma. "Ci sono figli che non hanno mai conosciuto i loro padri, rapiti dallo Stato con la coscrizione a vita. Intere famiglie sono spezzate. Persino chiedere la carità è proibito. E allora cosa fanno i bambini, che non vogliono fare una vita da miserabili come i loro padri? Scappano via. Tutti scappano via. Qualcuno si stupisce?". Immigrazione: dalla tortura alla salvezza, la storia di Mirra di Michela Suglia Ansa, 24 aprile 2015 Una cella di due metri per due senza bagno e addosso lo stesso vestito per quattro mesi. Accanto, detenuti bastonati, torturati o violentati e una domanda che le bucava la mente: quando capiterà a me? A Mirra, figlia di una famiglia del Congo bene che ora ha 35 anni, non è successo. Ma quell'incubo vissuto in un carcere congolese si chiama tortura psicologica. A riconoscergliela in Italia è stata la commissione che le ha concesso il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria. Vale per chi rischia la vita o la tortura se tornasse nel proprio paese, pur non avendo subito una persecuzione personale, e si rinnova ogni 3 anni. Con quelle cicatrici oggi Mirra vive da rifugiata in una stanza in affitto fuori Roma. È una delle persone accolte dal Centro Astalli, servizio dei gesuiti per i rifugiati: una porticina discreta tra i palazzi storici del centro di Roma dove l'anno scorso - segnato da un boom di richieste di asilo, il 143% in più - ne sono passate 21 mila, 556 quelle con torture certificate. Le quattro pareti di Mirra costano 100 euro. Tanto può permettersi, facendo la badante a 500 euro al mese. "Non mi importa di mangiare pasta tutti i giorni - racconta - ma almeno posso mandare dei soldi ai miei figli". Hanno 14 e 19 anni, sono laggiù e da tempo cerca di portarli in Italia. "Mi faccio bastare quello che ho, per fortuna e per l'educazione che ho avuto". Il copione in realtà sembrava un altro: con un padre geologo che lavorava per una multinazionale, anche lei come i sei fratelli avrebbe studiato e si sarebbe laureata. "Ho avuto una vita normale fino a 11 anni, poi è cominciato il mio caos". Chiama così la guerra etnica scoppiata negli anni ‘90 nel Congo del dittatore Mobutu. Mirra si è trovata dalla parte ‘sbagliatà, bersaglio di ostilità e persecuzioni fino al ritorno forzato nella provincia di origine del Kasai e poi la morte del padre. Affidata a un zio che era un pastore evangelico e si batteva per i diritti umani, è finita in una retata e arrestata. "In carcere vedevo violenze e fame - ricorda -. Ero spaventata da un carceriere che aveva attenzioni particolari nei miei confronti, temevo volesse violentarmi". Invece era il suo angelo custode che, seguace della chiesa dello zio, l'ha fatta scappare affidandola a un uomo. "Abbiamo corso tutta la notte, la mattina mi ha portato all'aeroporto con documenti falsi. Siamo arrivati a Fiumicino, poi in treno a Termini. Lì mi ha detto: Adesso devi salvarti da sola". Era novembre del 2003. Poco dopo, grazie ad alcuni connazionali, ha bussato al Centro Astalli. "Mi hanno detto che potevo chiedere l'asilo, non sapevo nemmeno cos'era. Sono stata una settimana in fila davanti alla questura in attesa del mio turno per fare la richiesta". Ma la salvezza era ancora lontana: "Per due anni sono stata in cura psichiatrica – aggiunge. Non sono cose facili da elaborare. Ti salvi la pelle ma non sai cosa ti aspetta qui e cosa succede alla tua famiglia. A lungo non vivi". Dopo quasi un anno dalla richiesta, ha avuto la protezione sussidiaria. Stati Uniti: scontri a Baltimora dopo morte detenuto afroamericano causata da lesioni Ansa, 24 aprile 2015 Due persone sono state arrestate a Baltimora (Usa), dopo gli scontri scoppiati nel corso di una protesta per la morte di un detenuto afroamericano, avvenuta domenica a seguito delle lesioni riportate mentre era in prigione. La polizia cittadina ha scritto sul proprio account Twitter che i due sono stati arrestati per "disordine pubblico e distruzione di proprietà". Circa un centinaio di manifestanti, per la maggior parte afroamericani, ha marciato dal municipio di Baltimora al quartier generale della polizia cittadina per protestare contro la morte del detenuto Freddie Gray, afroamericano di 25 anni arrestato il 12 aprile. Gray aveva subito gravi lesioni alla colonna vertebrale mentre si trovava sotto custodia, ferite che hanno portato al suo ricovero in ospedale e alla morte, avvenuta domenica. Nepal: detenuto francese condannato per droga ritrovato morto suicida in cella Askanews, 24 aprile 2015 Nelle carceri nepalesi vi sono 1.050 detenuti stranieri. Un francese detenuto in un carcere nepalese per traffico di droga è stato ritrovato morto nella cella, probabilmente suicida. I due compagni di cella di Jean Pierre Saussay, 62 anni, lo hanno ritrovato appeso a una corda di nylon al risveglio, nel carcere di Nakhu, nella valle di Khatmandu. Saussay era stato condannato 10 anni fa per traffico di droga a 16 anni di carcere, 20 nel caso non avesse pagato una multa accessoria di 7.000 dollari. L'uomo aveva tentato già due volte il suicidio. Nelle 74 carceri nepalesi sono rinchiusi 16.500 prigionieri di cui 1.050 stranieri.