Giustizia: la normalità del male di Stato di Roberta De Monticelli Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2015 C'è un fenomeno talmente appariscente che non lo vediamo più. Grande come un monumento - talmente familiare che diventa invisibile. O forse è invisibile come l'aria, o perché ci nuotiamo dentro, come pesci nell'acqua. Chiamiamolo con il suo nome. È una specie di conversione di massa. Ma non a Dio, e neppure al nulla. Non è un'esaltazione di massa, o un suicidio di massa, come la storia umana ne ha visti. È qualcosa di apparentemente più banale. È una conversione alla realtà. "Tutto quel che è reale è razionale" - dice il filosofo che dà ragione alla forza, purché vinca. "Tutto quello che è reale è normale", dice il cinismo - che ha permeato il linguaggio comune. Alla parola "normalità", nel suo uso corrente, non è rimasta più neppure una traccia di quello fra i suoi significati che discendeva direttamente dalla parola "norma". Normale è ciò che si fa, in particolare contro le norme. Corruzione a norma di legge: non è solo il titolo di un bel libro di Barbieri e Giavazzi sulle Grandi Opere, ma è il nome più generale di quello che ci accade. Tagliamo ormai sistematicamente i vestiti sulla misura delle gobbe. Pare che tornerà presto fuori uno dei vestiti gobbi più carini proposti dal governo Renzi: la modica quantità di frode fiscale. Normale è l'abuso di potere, normale la condanna, ci si rimedia abusando al quadrato: si corre per la presidenza della propria regione, con gli auguri e l'affetto del presidente del Consiglio, un cavillo per non applicare la legge ci sarà pure. Normale è trafficare con le mafie e governare, anzi essere condannato per associazione a delinquere, quindi vincere le primarie e candidarsi a sindaco. E perché non deve succedere a Giugliano, se dalle Alpi alla Sicilia l'immenso cantiere a delinquere ha prodotto 600 opere incompiute per una voragine di miliardi intascati. Anzi, che sarà mai un abuso di potere o un'associazione a delinquere, se correre per la presidenza della propria regione non si nega neppure a chi è indagato per disastro e omicidio colposo, anche se il partito che ti sostiene è quello che la regione l'ha massacrata a furia di incuria e cemento. Che sarà mai. Mica han fatto ammazzare e torturare qualcuno, no, questi? Allora sì che uno lo si punisce, per esempio con la presidenza di Finmeccanica (è noto che per fare i capi d'industria e i capi della polizia le competenze son le stesse). Anche la svendita dell'ultimo bene comune, la bellezza, dalle nostre parti, è a norma di legge. Leggere l'ultimo libro di Tomaso Montanari, Pri - vati del patrimonio (Einaudi, 2015) per credere. Ricorderete la scena del presidente del Consiglio che si fa venir sonno soltanto a nominare la parola "Sovrintendenze": già alla terza sillaba, dice, uno casca addormentato. L'ha detto e l'ha scritto: ma non è una battuta, è il preciso progetto di smantellare il sistema delle Sovrintendenze per trasformarlo in quello delle Fondazioni, che - dal Museo Egizio di Torino fino al Maxxi di Roma - sono esempi disastrosi di pura e semplice lottizzazione politica del patrimonio. Né Stato Paternalista-Custode né efficienza economica privatistica, ma molto peggio di entrambe le cose: appropriazione privata di risorse pubbliche, tramite loro concessione da parte delle consorterie politiche alle consorterie amiche. È parte integrante del progetto massacra-paese che hanno chiamato Sblocca-Italia. Sblocca: proprio perché così chi ci si fosse opposto sembrasse un "bloccatore", uno che mette le pastoie, uno ossessionato dalla conservazione. Del resto il primo dei beni pubblici è la nostra lingua: corrompiamo anche quella, e addio alla logica, al senso critico, alle distinzioni. Un "conservatore" di museo lo impallina il suo nome: via, via, abolire! Svolta buona! Piero Calamandrei nel lontano 1954 parlava di "...questa scissione fra popolo e Stato, per cui il popolo ha sentito lo Stato come una oppressione estranea, come una tirannia, come un nemico che stava al di fuori e al di sopra di lui". Ma oggi? Quando il senso dello Stato come oppressione estranea è espresso da chi lo governa, non è nei confronti dello Stato la sfiducia, ma nei confronti dell'idealità che uno Stato dovrebbe incarnare. Sono gli stessi uomini di Stato che hanno smesso di credere - semmai in Italia abbiano creduto - al valore e all'altezza del loro servizio. Forse sotto sotto è sempre stato così, in Italia. Don Chisciotte è morto per la Repubblica, ma a governarla è andato Sancho Panza. Ma no, molto peggio. C'è andato don Rodrigo, assieme a don Abbondio, con l'aiuto di Scarpìa. Siamo abituati a legare l'espressione "banalità del male" ai totalitarismi del secolo scorso, alle figure dei gerarchi nazisti o fascisti. Ma questo è sbagliato. Lo stesso errore che hanno fatto i tantissimi che hanno reagito con scherno e incredulità quando "Libertà e giustizia" ha cominciato a denunciare, un anno fa, la svolta autoritaria. Perché tutti legano alle parole immagini del passato, e non vedendo in giro manganelli e fez credono che siano esagerazioni di gufi e cornacchie. Ma è sempre lo stesso sbaglio. Come i valori non sono cose della tradizione, ma dato nuovo d'esperienza quotidiana, così i disvalori non sono mai gli stessi di prima. Quello che resta uguale, è solo la nostra colpa. La cieca e dissennata assenza, la desistenza di cui parlava Calamandrei. Della realtà che avanza ha colpa, come al solito, non chi sta al potere, ma chi lo regge, sorregge e legittima: noi. Se lo Stato buono siamo noi, siamo noi anche lo Stato cattivo, quello che sopprime i vincoli di legalità per rafforzare i vincoli di consorteria. L'articolo 1 della nostra Costituzione dice che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. C'è un'ovvia interpretazione che magari non piacerà ad alcuni, ma credo che sia quella buona. La suggerì Gherardo Colombo. È una Repubblica fondata sul lavoro della cittadinanza. Sulla veglia, l'attenzione, l'impegno, la presenza dei cittadini. Tutte cose faticosissime. Senza le quali, la Costituzione si svuota di senso: a quel punto, stravolgerla è facilissimo. Come stanno facendo ora. Giustizia: "non ci piace essere governati", il rapporto patologico degli italiani con il potere di Giuliano Ferrara Il Foglio, 23 aprile 2015 In genere non faccio premesse. In particolare non avanzo titoli, non intreccio filastrocche di scuse non richieste. Mi fido della capacità di giudizio dei lettori, come della mia, e un poco non mi fido. Non li ho mai eletti a padroni di me o del mio rancido mestiere, mi piacciono autonomi e anche un po' estranei, e a me piace essere autonomo e anche un po' estraneo a intimità retoriche grottesche con il pubblico, tipiche di certo giornalismo che vende e si vende. Premessa. Non sono renziano. Non potrei per età, per vicenda personale, per appartenenza amicale e ultraventennale, temeraria quanto si voglia, date le presenti circostanze, alla destra berlusconiana (piace la parola provocatoria? ber-lu-sco-nia-na). E per origini comuniste superate in un anticomunismo politico e ideologico non saccente, spero, ma mai rinnegate nel senso di una formazione culturale e, anche qui, di una appartenenza della gioventù. Non ho fatto il boy scout, tra Venezia e Firenze scelgo sempre Firenze, ma parlo della città d'arte e di Dante e Machiavelli, per Matteo c'è tempo. Ho scritto un piccolo e inutile pamphlet per ricordare il tenore paradossale, esistenzial-politologico, chiacchierone e vacuo dei mie paragoni: Renzi è da sinistra un'anomalia, come Berlusconi, è il suo legato stilistico al paese, il decisionismo è il comune problema-chiave della Repubblica almeno dai tempi di Craxi: analogie, similitudini, evidenti raccordi, anche risibili ma evidenti. Non sono nemmeno in ansia, figuriamoci poi, in ansia per il governo: se la caveranno, hanno l'età giusta, quello poi è fiorentino, cioè furbo, e gli avversari sono un po' fuori di testa, come dice Laura Cesaretti si presentano come il partito dei rancori personali, non tutti, quasi tutti. L'economia reale è diversa da quella che è generata dai segni del ciclo? Andrà tutto maluccio? Sarà una ghiotta occasione per sindacati e varie opposizioni politiche e sociali, arriverà l'orgasmo dei gufi, degli enricolettiani, dei prodiani oltranzisti, alla disintermediazione tracotante subentrerà la consolante concertazione, alla contemporaneità insolente il genuino passatismo? Non è questo il mio problema, anche se non me lo auguro, ovviamente. Vada come deve andare. Sapete come la penso. Il debito è abbastanza grande per badare a se stesso, come diceva Reagan. È sostenibile, a patto che si faccia quel che dice la Bce, che ne sa più della Camusso e di Landini, anche dei modi per creare ricchezza e lavoro a vantaggio della società. Qualcuno in Italia si rimetterà a lavorare, qualche investimento arriverà, non si vive di solo leisure, anche una borghesia bacucca dei baccanali, alla prova dei fatti, qualcosa si dovrà inventare, con una bella fetta di imprenditori non esattamente confindustriali giochiamo in altra serie di campionato rispetto a Varoufakis e a Di Battista, con tutta la differenza tra un attor giovane e un caratterista di medio calibro, possiamo arrestare tutti i burocrati e gli appaltatori che volete ma siamo forti in giurisprudenza, i burocrati fanno muovere la macchina, da Roma a Milano si va in due ore e cinquanta minuti, l'Expo sarà il solito trionfo con il solito grave ritardo. O si tira avanti fino al 2018, e si fa qualcosa nel frattempo, o si vede che fare con nuove elezioni. Ma il 2018 è più probabile, lo dicono tutti. E poi, con quel che succede nel mondo, il piede di casa mi ha francamente annoiato, da tempo parlo d'altro (qui ha ragione Emanuele Macaluso, sul Corriere di ieri), la tenerezza di Francesco, la morte per acqua, i saraceni, la gay culture. Svolgimento (dopo la premessa). Nell'attacco a Renzi di oggi si ripresenta qualcosa di patologico nel rapporto degli italiani con il potere. Una patologia che si riflette perfettamente nel comportamento dei mass media. Una partita alla quale per adesso il popolo bue, noi stessi, è estraneo: è solo la posta in gioco, bisogna orientarlo, dicono i gufi, spingerlo all'indignazione o, più credibilmente, alla rassegnazione. Non voglio citare. Lascio da parte Leopardi, ma anche Giulio Bollati, forse solo Arbasino mi verrebbe in aiuto. Non voglio fare un discorsetto accudito. Me ne impipo di Science Po, luogo di seminari deliranti in particolare quando si parli di politica e di Italie, ah les italiens! (Auguro a Enrico Letta un soggiorno regale a Parigi, città meravigliosa a patto che la si conosca come la conoscono i litigiosi parigini di cattivo umore). Non parlo di manovre dei poteri forti. Blocco ogni metafora indebita per mia scelta, per essere coerente con la premessa, la signorina Premessa. Dico una cosa semplice. È tornato l'Aventino, formula ridicola e perfino ridicolmente sguaiata, impotente, castrante, almeno per un realista senza illusioni della politica quale mi credo di essere (chi mi credo di essere!). Sono tornati gli Azzeccagarbugli del costituzionalismo. È tornato lo spirito di blocco. Gli ammiccamenti trasversali sull'uomo solo al comando. Le stronzate sulla mutazione genetica, ora della democrazia, ora della sinistra che perde se stessa, ora del Pd. Sono tornati il controllo di legalità, formula antipolitica intrinsecamente illegale e le manovre dei pm. È di nuovo l'ora dell'indignazione e del girotondo, a parte Moretti che ha i suoi problemi e dice giustamente di non capire più niente. Attenti, dicono senza crederci minimamente, per pura gola: è in pericolo (coatto, gridato demagogicamente, urlato con furbizia, sussurrato con malizia) il paese stesso in cui viviamo, la patria, perché il governo della Via Paal non intende farsi fottere dai vecchi marpioni, tornare in Senato con la legge elettorale, ricominciare il trade off solito che alla fine realizza non il libero scambio ma la svalutazione generale delle merci sul mercato. Il meccanismo è sempre uguale, si tratti del referendum sulla scala mobile (B. C.), del patto per l'Italia e dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (S. B.), della riforma elettorale o del Senato non elettivo (M. R.). Spunta il più livido rancore, si diffonde il sospetto ideologico, dilaga la paura che un governo faccia le cose che ha il mandato di fare, la baldanza ordinaria di chi vuol fare qualcosa diventa un andare per le spicce, una sfida alla legalità, le cooperative sono marce, organizzazioni paracriminali, c'è sempre un Saviano per dire allusivamente che "quei morti pesano sulla nostra coscienza" (un tratto di originalità cognitiva a 5 stelle), questo o quell'altro sono colpevoli a prescindere, la solita adulazione di chi comanda (sempre vigorosa) si integra con la sottile delegittimazione di chi governa, si fanno salti mortali e si elaborano contorsionismi verbali sempre più spericolati, fioccano avvisi di garanzia elettorali, come con tutti quelli, compreso Prodi, che minacciavano prima di Renzi la creazione di un ordine politico quale che fosse. Siamo un ceto politico e giornalistico di refrattari, svogliati per presunta convenienza, vestali del contropotere incapaci di dare un assetto serio e responsabile a un'opposizione (che infatti in quanto tale, come viceversa avviene in tutti gli altri paesi occidentali, con i suoi piani alternativi, le sue idee, le sue battaglie, non c'è). E di più. Le gride aventiniane segnalano la differenza. Perché si comprende che o la va o la spacca, questa volta è più grave, alla cooptazione è seguito un meccanismo infernale di primarie, di manovre politico- parlamentari legittimate dalla parte che impone il suo potere legittimante, la sinistra. E allora tutti con Brunetta, tutti con l'onorevole Scotto, i dieci piccoli indiani della commissione Affari costituzionali diventano lo scalpo della libertà ferita, viva le preferenze ieri aborrite, viva il voto segreto senza vincolo di mandato (chissà, forse anche Casaleggio si assocerà, lui che deve aver leggiucchiato qualche manuale rousseauiano sulla volontà generale in rete). A noi non piace essere governati, non importa se bene o male, non è qui il problema, non è una discussione sulla legittimità ovvia dell'opposizione, una volta siamo per il Borbone, un'altra per Garibaldi, un'altra per il Duce, una volta per la Repubblica e la Costituzione, ma la segreta riserva è sempre la stessa: no ordine liberaldemocratico, no opposizione normale, ordinaria, costituzionale nel senso americano del termine, radicata nel comune riconoscimento di valore. Queste sono banalità per il ceto politico melodrammatico dei tenori e dei soprano d'agilità. All'atto pratico, ecco, è tornato l'Aventino. Giustizia: Corte di Cassazione fuori controllo, Mattarella che dice? di Davide Giacalone Libero, 23 aprile 2015 Quel che accade presso la Suprema Corte di Cassazione suggerisce la necessità di un intervento del Quirinale. La questione non ha nulla a che vedere con la politica e prescinde totalmente dalle parti processuali coinvolte, in questo o quel procedimento. Riguarda una situazione sfuggita di mano, che comporta seri pericoli per le nostre istituzioni. Cinque sono i punti che chiamano la massima attenzione, da parte del presidente della Repubblica, che è anche presidente del Consiglio superiore della magistratura. 1. Avendo noi rilevato che in una sentenza della Cassazione se ne definisce l'interpretazione giuridica di un'altra, precedente, quale "contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza", la Corte stessa ha ritenuto di emettere un comunicato stampa, firmato dal "responsabile ufficio relazioni con i mezzi di informazione" nel quale si fornisce la, si suppone, corretta interpretazione giuridica dei due testi, negandone il contrasto. Ora, posto che il contrasto non è una nostra opinione, ma dei cinque giudici che hanno firmato la sentenza da noi richiamata, la prima questione da porsi è la seguente: l'ufficio stampa ha sostituito le sezioni riunite della Cassazione? C'è una nuova fonte d'orientamento giurisprudenziale? Questione decisiva, visto che la Cassazione esercita la propria funzione normofilattica con le sentenze e le massime, non con i comunicati stampa. Almeno credo. 2. Nello stesso comunicato, del resto, si conferma in pieno la tesi qui esposta, ovvero di un profondo contrasto interno alla Cassazione, perché entra nel merito di una delle sentenze, deprecando di trovarsi "in presenza di alcune espressioni palesemente superflue rispetto al tema della decisione". Si tratta di un'accusa pesante, nei confronti di quei cinque giudici, come se si fossero messi a far letteratura, per giunta polemica, usando una sentenza. Né si può supporre che la "colpa" di ciò sia attribuibile ad uno solo, l'estensore, che era anche relatore, perché è come dire che gli altri, a cominciare dal presidente del collegio, sono dei pupazzi. 3. E non basta, perché quel comunicato stampa afferma con certezza che una sola è la massima legata alla sentenza, che richiama la precedente con un "vedi". Mentre ne ho sul tavolo quattro e ieri abbiamo pubblicato le due in cui è richiamata come "difformi" (nella quarta non c'è riferimento). Può darsi che io non sappia leggere, ma come è possibile che in Cassazione non sappiano contare? Inoltre: in Cassazione leggono il massimario e le sentenze? C'era bisogno che noi sollevassimo il problema perché se ne accorgessero? 4. Alcuni mezzi d'informazione hanno ipotizzato un possibile procedimento disciplinare innanzi al Csm. Ma per chi? Per un giudice o per cinque? E per cosa? Per il contenuto di una sentenza? Ho l'impressione che la sola ipotesi sia sovversiva del nostro ordinamento. A meno che il procedimento non si riferisca all'estensore e divulgatore del comunicato stampa. In quel caso può star tranquillo, perché i magistrati ciarlieri con la stampa godono di un certo apprezzamento, a Palazzo dei Marescialli. 5. In ultimo: il cielo non voglia che un cittadino italiano possa vincere un ricorso innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, sostenendo d'essere stato sottratto al proprio giudice naturale, per essere messo nelle mani di giudici giudicati poco terzi e lucidi dalla Cassazione stessa (sia gli uni che gli altri, visto che si sono vicendevolmente scambiati, pubblicamente, accuse pesanti). La questione potrebbe vertere sull'assegnazione alla sezione feriale, e posto che il passato non si può cambiare, varrebbe la pena di descrivere i criteri oggettivi che presiedono a tali assegnazione, o la responsabilità di chi decide. Procedere con la feriale, ove un processo andrebbe altrimenti in prescrizione, è giusto. Lo è anche quando non ricorre tale condizione? Altrimenti quali? Meglio premunirsi, per evitare danni alla credibilità della nostra giustizia. Già non elevatissima, né a Strasburgo né da noi. Ragione di più perché il capo dello Stato intervenga. Giustizia: così la Corte costituzionale mette in evidente le difficoltà e i limiti della Pa di Vincenzo Visco Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2015 La recente sentenza della Corte Costituzionale sugli incarichi dirigenziali dell'Agenzia delle Entrate fornisce l'occasione per una riflessione sul funzionamento della nostra amministrazione pubblica e sulla stessa visione della Pa prevalente nella cultura giuridico-istituzionale del nostro Paese. Tale visione postula l'esistenza di un sistema unitario e sostanzialmente omogeneo definibile "pubblica amministrazione" al quale devono applicarsi le stesse norme, procedure e criteri gestionali, indipendentemente dalla attività svolta in concreto. Dal mio punto di vista di economista si tratta di un approccio poco utile anzi sbagliato e non di rado pericoloso. Infatti nella realtà qualcosa definibile "pubblica amministrazione" non esiste. Esistono invece beni e servizi a diverso grado di indivisibilità prodotti o forniti dallo Stato o da altri enti pubblici e che richiederebbero diverse modalità organizzative e di funzionamento, alcune più proceduralizzate, altre che invece potrebbero più utilmente far riferimento alle normali regole del diritto civile. Questo è appunto il caso della raccolta e dell'accertamento dei tributi, della gestione del demanio, dei giochi o del catasto, e cioè delle attività tipiche delle attuali agenzie fiscali, per le quali si decise di adottare un modello di tipo aziendale. Quando nel 1996 divenni ministro delle Finanze, il ministero era una enorme macchina vetusta, semiparalizzata, incapace di svolgere la propria funzione con un minimo di efficienza. Mi limito ad un esempio: dopo poche settimane dall'insediamento venni informato che alcune manifatture dei Tabacchi (che erano, o dovevano essere, imprese) funzionavano a ritmi ridotti per la mancanza di elettricisti. Chiesi allora perché non si affrettassero ad assumerli, e mi fu risposto che la cosa non era tanto semplice: bisognava infatti indire un pubblico concorso per titoli ed esami, pubblicare il bando sulla gazzetta ufficiale, aspettare la presentazione delle domande, nominare le commissioni di concorso, ecc. Era necessario almeno un anno, e nel frattempo la produzione di sigarette poteva attendere. Queste procedure, tutte coerenti col diritto amministrativo e con l'idea che la Pa fosse una unica organizzazione unitaria da gestire con le stesse norme, valevano per l'intero ministero e lo paralizzavano. Queste sono state le ragioni alla base della riforma che trasformò il vecchio Ministero delle Finanze in Agenzie fiscali, più un Dipartimento con il compito di elaborazione e di coordinamento delle Agenzie. E in verità si è trattato dell'unica riforma di un pezzo (importante) della Pa che ha funzionato e che ha avuto pieno successo in termini di recupero di efficienza, produttività e capacità di far fronte alle molteplici esigenze di una fiscalità moderna. Non che non vi sia ancora molto da migliorare ma, rispetto al punto di partenza, con le Agenzie si è aperta una nuova era. La riforma non incontrò il favore degli esperti di diritto amministrativo, il più autorevole tra loro, Sabino Cassese, la criticò energicamente; tuttavia dopo alcuni anni, con grande onestà intellettuale, riconobbe di aver sbagliato nella sua valutazione e nel suo giudizio. Il modello iniziale ha subito nel corso del tempo una certa involuzione. Tremonti in prima battuta avrebbe voluto sopprimere le Agenzie, ma poi si limitò a ridurne l'autonomia e a sottrarre loro la gestione del personale; un errore gravissimo è stato poi l'accorpamento di catasto e giochi, rispettivamente nella agenzia delle entrate e delle dogane (governo Monti, ministro Grilli), mentre in prospettiva (ma non era ancora il momento) poteva essere utile unificare Entrate e Dogane da un lato e Demanio e Territorio dall'altro. Le conseguenze di questa involuzione sono evidenti, sia nel sistematico intervento del Tar nel bloccare i diversi tentativi di effettuare concorsi per la dirigenza, sia nella recente sentenza della Corte che oltretutto non appare convincente anche perché la Costituzione prevede l'assunzione per concorso dei dirigenti pubblici, ma non necessariamente il concorso per la loro progressione di carriera. Questa sentenza in assenza di solleciti interventi correttivi, dà un colpo fortissimo alla capacità di lavoro e alla serenità dei dipendenti delle Agenzie e quindi al funzionamento dell'intera macchina pubblica dal momento che sulla riscossione delle imposte si basa l'esistenza stessa degli Stati (e dei governi), e deriva dalla volontà di riportare il funzionamento delle Agenzie all'interno dell'alveo tradizionale della Pa. Viceversa nel caso delle Agenzie fiscali il disegno originale, l'unico razionale, prevedeva che nella gestione del personale esse avessero le stesse possibilità di una impresa privata, e cioè la possibilità di valorizzare il personale, selezionare i migliori, promuoverli, anche con strumenti di selezione interna, e di assumere dall'esterno le professionalità che non fossero disponibili internamente. Nessuna impresa privata mette a concorso i posti di dirigente disponibili nella sua organizzazione: sarebbe irrazionale e anche pericoloso, salvo casi specifici. Ne deriva che sarebbe fortemente consigliabile che per le Agenzie fiscali si tornasse al modello originario, e più in generale che per la riforma della Pa non si facesse ricorso a un modello organicistico, astratto e uniforme, ma si fosse capaci di distinguere le situazioni diverse che si riscontrano in pratica, tenendo presente che i veri limiti della nostra Pa consistono nella sua incapacità di programmare, adeguare per tempo le strutture amministrative, e attivare le decisioni prese in tempi non biblici. Tali difficoltà derivano da due elementi precisi: la formazione prevalentemente giuridica e formalista dei funzionari, l'impalcatura del nostro diritto amministrativo che segue un approccio del tipo: "one size fits all", che ovviamente non funziona. Giustizia: muoiono gli Opg, ma chi sta in cella è senza speranza di Damiano Aliprandi Il Garantista, 23 aprile 2015 Si riscontrano disturbi post-traumatici, depressione, disturbi bipolari e compulsivi: eppure devono restare reclusi. Gli Ospedali psichiatrici giudiziari - seppur con non poche difficoltà e ritardi - sono in via di chiusura, ma nelle carceri "normali" permangono molti detenuti con problemi psichici e non avranno mai nessuna struttura alternativa. Ma non solo. La legge per la chiusura degli Opg contiene una norma la quale prevede che alcuni finiscano la pena detentiva in carcere. Esiste una perenne emergenza psichiatrica nelle carceri. Su questa stessa pagina si è data notizia di uno studio condotto dall'agenzia regionale di Sanità della Toscana, finanziata dal Centro Controllo Malattie del ministero della Salute. L'indagine è stata condotta su circa 16mila reclusi delle carceri di Toscana Veneto, Lazio, Liguria, Umbria e dell'Azienda sanitaria di Salerno. Risultato? Oltre il 40% dei detenuti è risultato essere affetto da almeno una patologia psichiatrica, con differenze notevoli a seconda della regione considerata. I detenuti psichiatrici costituiscono una miscela esplosiva in un contesto di sovraffollamento. Esiste un forte disagio perché si realizza una tortura ambientale; il carcere continua a essere la frontiera ultima della disperazione e dei drammi umani. Attualmente le carceri sono dei serbatoi dove la società senza eccessive remore continua a rinchiudere una marea di tossicodipendenti, di extracomunitari e di disturbati mentali. Prevalgono le persone appartenenti agli strati sociali più poveri, allevati sui marciapiedi e nei sobborghi delle città. In definitiva la carcerazione costituisce un'esperienza vitale altamente traumatizzante e può dar luogo a molteplici forme di patologia mentale prima ancora in fase di compenso. Favorisce, in sostanza, la messa in atto del meccanismo della psicosi a causa dello scompenso di un io, già prima fragile, che non riesce a mantenere più il suo precario equilibrio a causa dell'isolamento, a causa delle preoccupazioni legate all'inchiesta giudiziaria, a causa della paura. Ciò che la medicina penitenziarista riscontra con maggiore incidenza è il disturbo post-traumatico da stress, l'attacco di panico, la sindrome da separazione con riferimento particolare ai detenuti extracomunitari, le reazioni depressive, le crisi ansiose, il disturbo bipolare, il disturbo ossessivo-compulsivo, le crisi isteriche, i disturbi di personalità (borderline e antisociale), il discontrollo degli impulsi e le reazioni auto ed etero-aggressive. Con la chiusura dei manicomi, non sempre sono state create delle strutture alternative in grado di ospitare gli ammalati, sicché molti soggetti con disturbi psichiatrici sono rimasti senza alcun controllo o rete di protezione, con la conseguenza di finire con estrema facilità nelle maglie strette della giustizia. Talora, invece, è il carcere stesso con i suoi ritmi ossessivi e con le sue abitudini a creare vere e proprie turbe psicopatologiche che in carcere acquisiscono una strutturazione solida e difficilmente curabile. Il suicidio in carcere è il gesto finale. Il malato di mente in carcere è detenuto due volte: dal carcere e dalla malattia. Il malato di mente in carcere soffre le pene dell'inferno. Mentre il detenuto normale dopo un certo periodo riesce in qualche modo ad adattarsi alla vita carceraria, il detenuto malato di mente non ha questa capacità, perché la malattia di fatto rappresenta un grave ostacolo all'adattamento. Ma non solo: i detenuti psichiatrici sono coloro che subiscono più soprusi da parte delle guardie penitenziarie. Notizia di ieri - pubblicata dal sito "identità insorgenti" e a firma di Ada Palma - è quella della lettera di denuncia da parte di Diego Norcaro, detenuto nel carcere di Poggioreale, e inviata di nascosto alla madre, Maria Rosaria Manfrellotti. Il ragazzo, per cercare di difendere i detenuti con disabilità mentale che si trovano richiusi, sarebbe stato pestato dalle guardie carcerarie. La donna ha chiesto aiuto all'associazione ex Detenuti, il cui presidente Pietro Ioia l'ha accompagnata per fare regolare denuncia ai carabinieri. Insieme si sono recati a Poggioreale dove Antonio Fullone, responsabile del carcere, ha informato la donna che il figlio sta bene ed ha escoriazioni sul volto, simbolo di un pestaggio: è stata aperta, dunque, un'indagine interna per capire chi è stato l'aggressore. La donna non ha potuto vedere il figlio, perché il carcere era chiuso, ma gli è stato promessa una telefonata da parte del figlio, che è poi avvenuta. Nella lettera ci sono scritte testuali parole: "Buongiorno sono un detenuto del carcere di Poggioreale, ristretto al padiglione Avellino nel reparto di alta sicurezza. Ora mi ritrovo nelle celle di punizione, perché per difendere la mia dignità umana, ho litigato con un assistente aggressivo e istigatore: ci sono più di 100 detenuti che possono testimoniare. Pertanto nell'isolamento ho assistito a cose disumane, cioè a numerose aggressioni fisiche e morali verso detenuti che si trovano per stati psichiatrici, cioè persone malate e indifese che non sono in grado di fare male a nessuno, ma solo a loro stessi. Dopo 10 giorni stamattina ho avuto il coraggio di parlare per difendere questi detenuti e la risposta sono stato percosso fisicamente e ho ancora i segni sul volto". Gli Opg chiudono, ma ci sono tantissimi detenuti con disabilità mentale che permangono nelle carceri. Chi si occuperà di loro? Giustizia: De Filippo (Sottosegretario Salute) "chiudere Opg una scelta netta e temeraria" Dire, 23 aprile 2015 "Una scelta netta e temeraria quella del Parlamento italiano sulla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), decisa dopo anni in cui la parola più utilizzata era prorogare la chiusura di quelli che sono luoghi considerati da molti anche pericolosi". Così Vito De Filippo, sottosegretario alla Salute, al panel su "Le malattie mentali non si curano", durante la giornata di riflessioni sui falsi miti della sanità in Italia. "Dopo tante proroghe e annunci l'Italia ha deciso di superare gli ospedali psichiatrici. Le Regioni sono monitorate, come deciso dai ministri della Giustizia e della Salute. Gli ospiti- prosegue il sottosegretario- spesso abbandonati in ergastoli bianchi, saranno affidati a strutture gestite dal Sistema sanitario nazionale, e verranno seguiti con percorsi terapeutici e di riabilitazione". La salute mentale "è curabile - afferma - far rimanere persone lì è pericoloso per l'arretramento e la distanza dai percorsi di normalità, producendo effetti negativi nella testa delle persone". Gli elementi da monitorare, fa sapere De Filippo, sono tre: "Sicurezza degli ospiti, sicurezza degli operatori e sicurezza dei cittadini che li ospitano nella loro comunità. Un lavoro straordinario tra le Regioni, i ministeri della Giustizia, della Salute, dell'Interno e dell'Economia. Si tratta dell'ultimo peso insopportabile per un grande Paese che abbraccia oggi una nuova prospettiva, la non normalità produce una inquietudine da governare con la capacità terapeutica e la prevenzione". Giustizia: eco-reati, dalla Commissione della Camera un'approvazione senza modifiche di Luca Liverani Avvenire, 23 aprile 2015 Passa in Commissione Giustizia il testo varato dal Senato. Il 27 in Aula per l'approvazione Nessuna modifica in commissione Giustizia alla Camera al testo sugli eco-reati già approvato al Senato. L'articolato - che dovrà essere approvato dall'aula di Montecitorio il 27 aprile - potrebbe quindi essere varato definitivamente, senza una terza lettura. C'è però il nodo del divieto di airgun, cioè delle detonazioni in mare con a-ria compressa alla ricerca di idrocarburi, che il ministro dell'Ambiente Galletti ritiene sbagliata. Protesta Sel: "Cedimento alla lobby dei petrolieri". Dai vescovi della Campania un appello a fare in fretta per dare allo Stato uno strumento importante per combattere la piaga della "terra dei fuochi": "Il nostro popolo tanto martoriato non può tollerare ulteriori e irresponsabili ritardi". Nessun colpo di mano, chiedono anche Legambiente e Libera, evitando di modificare il testo per non rischiare un affossamento al Senato. Via libera dunque in commissione Giustizia: i 18 emendamenti presentati sono stati ritirati o hanno ricevuto parere negativo. Per il divieto di air gun si cerca una soluzione cercando di preservare l'approvazione in tempi rapidi. Due le strade prese in considerazione. La prima è quella di approvare il ddl così com'è, per intervenire sulla questione con un emendamento in altro provvedimento o con un decreto ad hoc (probabilmente interministeriale), evitando in caso di modifica il ritorno al Senato, dove il rischio è quello di un "insabbiamento". La seconda opzione - che sembra la più quotata - è di modificare la norma in aula alla Camera facendo tornare il provvedimento al Senato, dove il presidente Pietro Grasso dovrebbe garantire una corsia preferenziale a fronte di un "forte accordo di maggioranza" che non escluderebbe, se necessario, la fiducia. Il ministri della Giustizia Andrea Orlando e dell'ambiente Gian Luca Galletti premono per una rapida approvazione, entro il mese maggio. "Non mi impicco alle tecnicalità - dice Galletti - per me l'importante è che il ddl sugli eco-reati, nella sua struttura portante che questo Paese aspetta da oltre 20 anni, diventi legge nel più breve tempo possibile". Giustizia: il caso Contrada e il "concorso esterno", quello che l'Europa ha frainteso di Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2015 La sentenza della Cedu (Corte europea dei diritti dell'uomo) sul "caso Contrada" ha suscitato un'ampia discussione. Vorremo precisare un ultimo profilo che ci sembra dirimente. In pratica la Cedu fa scaturire da una sentenza della Corte di Cassazione l'effetto di rendere illegali e punibili condotte che prima non lo sarebbero state. Ma c'è un grosso equivoco, perché è evidente che la Cassazione non potrebbe mai intervenire senza la preesistenza di condotte previste come illecite e perciò già vietate dall'ordinamento. Questa preesistenza, nel caso di concorso esterno, nasce dalle norme generali sul concorso di persone nel reato adattate al reato associativo. Un adattamento che non ha "nulla di eterodosso", corrisponde anzi al "metodo del combinato disposto giuridico fra norme", metodo che è "fisiologico", anche se "obiettivamente difficile" nel caso di reato associativo (il virgolettato è tratto da un recentissimo intervento del professor Giovanni Fiandaca). Tanto premesso, non può certamente mettersi in dubbio che questa operazione di combinato disposto, proprio perché fisiologica, possono farla anche i magistrati di merito (sia del pm che giudicanti), i quali pertanto ben possono contestare e, ricorrendone gli estremi, condannare per concorso esterno in associazione mafiosa, senza che occorra aspettare una qualche sentenza della Cassazione per poterlo fare. In altre parole, il concorso esterno è punibile di per se stesso, anche a prescindere dalla "scintilla" che secondo la Cedu soltanto la Cassazione potrebbe innescare, per il semplice fatto che non serve nessuna "scintilla", in quanto il concorso esterno esiste da sempre nel sistema, ed esiste in maniera autonoma grazie al combinato (fisiologico) disposto fra norme generali e reato associativo. Semmai i giudici di merito dovranno tener conto anche del contributo della Cassazione nel percorso giurisprudenziale di "progressiva elaborazione nel tempo" (ancora Fiandaca) del concorso esterno, ma proprio perché si tratta di elaborazione progressiva, è ontologicamente presupposta una base di partenza, vale a dire un reato punibile, autonomamente già esistente quale risulta appunto essere il concorso esterno. In parole davvero povere, se la farina (il reato) esiste, si può fare il pane (indagare e giudicare). Poi la farina può essere raffinata e il pane può diventare migliore, ma la liceità delle operazioni iniziali è di per sé indiscutibile. L'equivoco della Cedu (che pure fa un'infinità di cose buone, ma può capitare a tutti un attimo di... distrazione) nasce forse da una semplificazione della complessità (fisiologica) delle questioni concernenti la mafia. Attenzione a sostenere che fatti provati, certamente rientranti nel perimetro delle attività mafiose in forza del combinato disposto su cui si basa la configurabilità del concorso esterno, non potevano essere perseguiti perché era ancora in corso (come è sempre, perennemente in corso) un'elaborazione giurisprudenziale. Potrebbe ripetersi la storia manzoniana di don Ferrante, che negava la peste anche se ne morì. Giustizia: manganellate al corteo. Denuncia shock del medico "minacciata dalla Digos" di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 23 aprile 2015 "Mi hanno fatto cambiare il referto". La rivelazione al processo contro l'agente Paradiso accusato di aver colpito un giovane nel 2012. "Mi dissero: se non firmi non ti facciamo uscire dalla stanza. Se non firmi ti troviamo per strada e non sappiamo quello che ti potremmo fare". Si blocca Claudia Siciliano, non è una esitazione, è solo il pianto che le si strozza in gola mentre racconta in aula, in qualità di testimone, quello che le accadde negli uffici della Digos a Roma il 17 novembre del 2012: "Io l'ho firmato (il verbale, ndr) contro la mia volontà e quindi oggi vi dico che lo disconosco". Un macigno lanciato nel processo contro Alfio Paradiso, l'agente di polizia imputato di lesioni personali aggravate, accusato di aver pestato a colpi di manganello, durante una manifestazione per le politiche del governo Monti, Giacomo Capriotti. Chi parla a dibattimento è il medico del 118 Claudia Siciliano, che soccorse il ragazzo il 14 novembre del 2012 dopo gli scontri tra forze dell'ordine e manifestanti vicino a Ponte Sisto. Il poliziotto Alfio Paradiso venne immortalato da un video mentre col suo sfollagente colpiva alla nuca Capriotti. Eccessiva violenza del poliziotto che scatenò indignazione nell'opinione pubblica e l'immediata indagine della procura. Ad intervenire per medicare i feriti degli scontri c'era appunto Claudia Siciliano. Medico che, il giorno stesso della manifestazione, stilò un referto in cui dava atto che Capriotti aveva riportato delle lesioni e delle escoriazioni multiple. Una diagnosi che pochi giorni dopo, sentita dagli agenti della Digos, sconfessò: "Rossori cutanei senza lacerazioni e perdite ematiche", disse a verbale la donna. Ed è su questa contraddizione che la Siciliano ieri in aula, davanti al sostituto procuratore Luca Tescaroli, fornisce la sua versione dei fatti. Il medico sostiene che il 17 novembre, tre giorni dopo gli scontri, quando venne sentita a Roma da due uomini in divisa negli uffici della Digos, fu costretta a firmare un verbale "senza nemmeno leggerlo. Mi opposi ma loro mi dissero che non sarei uscita dalla stanza e che mi avrebbero trovato per strada". Una minaccia, spiega la donna visibilmente scossa a processo, di fronte alla quale decise di firmare pur di andare via. Tuttavia il primo a rendersi conto della differenza tra i traumi indicati nel referto e il successivo verbale della Digos, fu lo stesso pubblico ministero Luca Tescaroli. Magistrato che indagava sul poliziotto Alfio Paradiso e che il 14 dicembre del 2012 decise di sentire il medico nel suo ufficio. Un secondo verbale in cui la donna, nonostante le domande del pm Tescaroli, confermò quanto contenuto nel primo resoconto redatto dalla Digos: "Preciso - spiegò il medico al pm - che con la dicitura escoriazioni, che è quella riportata nel referto, devono intendersi rossori cutanei senza lacerazioni e perdite ematiche". L'ennesima versione dei fatti dunque volta ad attenuare la gravità delle lesioni riportate da Capriotti, che confermava quanto già riportato dalla Digos. Verbale che la donna ieri a processo ha invece completamente disconosciuto, "non l'ho letto e non me lo hanno letto", e che potrebbe a questo punto portare il pubblico ministero Luca Tescaroli ad aprire una nuova indagine sul caso. Lettere: carcere a morte di Fausto Cerulli (Avvocato) www.orvietonews.it, 23 aprile 2015 In tre giorni tre morti di carcere. Un condannato all'ergastolo - ma non doveva, questa pena orrenda essere bandita? - si è preso il lusso di essere trasferito in ospedale per morirvi a causa di un infarto. Aveva ottanta anni, che pretendeva? Di essere eterno? Chissà cosa ne pensa il ministro Orlando, con quella faccia da guardasigilli che non guarda nulla e blatera di riforme della giustizia effettuate dal governo di cui è complice. non si è trovato uno straccio di Tribunale di Sorveglianza che si sia posto il problema di un ottantenne al gabbio. Non sappiamo e non vogliamo sapere di quale delitto si sia macchiato. Ad ottanta anni ogni peccato dovrebbe essere rimesso, come noi lo rimettiamo ai nostri debitori. Ma questa è la certezza della pena, i benpensanti potranno continuare a ben pensare. Un altro detenuto, e siamo a due, è morto per mancanza di cure. non è stato neppure ricoverato in ospedale, tanto, come scriveva il Belli "nun sai che all'ospedale ce se more?". Poi, della serie che non c'è due senza tre, un altro detenuto si è impiccato Se questo non è carcere a morte, ditemi voi cosa è. Il nostro Renzi, che va veloce sempre, non sa nulla delle carceri, o fa finta di non sapere. Una giustizia troppo umana non sarebbe gradita agli alfaniani, e non appare giusto rischiare una crisi di governo per una sciocchezza come la giustizia. Sono secoli, ormai, che l'Italia è censurata severamente dall'Europa per lo stato disumano delle nostre prigioni, ma per i nostri governanti l'Europa vale solo quando scuce denari, o quando se ne frega dei profughi che annegano, Al solito soltanto Radio Radicale, che ha messo su una trasmissione che si chiama Radio Carcere, si occupa di chi muore in carcere e di carcere. Lettere: guardie o ladri di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2015 Protocollo "Farfalla". L'origine dell'intelligence nelle carceri e il silenzio verso il Governo. Cari lettori, molti di voi sanno che nel passato mi sono occupato del cosiddetto "Protocollo farfalla", vale a dire la collaborazione tra agenti di Polizia penitenziaria e agenti dei servizi di sicurezza, nel periodo 23 giugno 2003-18 agosto 2004 (ma si aggiunge il periodo 25 novembre 2005 -2 febbraio 2007 che assumerà la veste formale di "operazione Rientro"). Ebbene il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), a fine marzo ha diffuso 31 pagine di relazione (approvata il 12 marzo) trasmessa alle presidenze delle Camere che è tutta da leggere (sul sito Copasir troverete la versione integrale). Orbene: perché il Copasir ha svolto questa relazione alla fine di un lungo cammino intrapreso il 20 ottobre 2014 e chiuso il 10 febbraio 2015? Perché voleva "procedere all'accertamento della correttezza delle condotte poste in essere da appartenenti o ex appartenenti agli organismi informativi" così come prevede l'articolo 34 della legge 3 agosto 2007 n.124. Punto e a capo. E perché è spinta a questo l'8 ottobre 2014? Non per intrinseca e fondante sede di verità ma "alla luce di notizie di stampa e di dichiarazioni pubbliche di soggetti anche istituzionali. Verso la fine del mese di settembre 2014, sulla base di notizie giornalistiche, si è sostenuto che l'attività dei Servizi, specialmente in materia di criminalità mafiosa in connessione con il mondo carcerario agli inizi degli anni Duemila, si sia svolta fuori da ogni tipo di controllo, compreso quello della magistratura". Punto e a capo. Già quanto si legge a pagina 4 della relazione vale la messa che quei maledetti dei giornalisti hanno fatto officiare al Copasir. Leggete voi stessi: "Il rapporto tra Servizi e detenuti in carcere è da sempre un tema discusso e interpretato, fino alla Convenzione tra Aisi e Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) del 2010, in modo personale e discrezionale dai soggetti operanti. Il quadro normativo è mutato con la legge di riforma dei Servizi n. 124 del 2007…". Un Paese normale (e non avvelenato giornalmente a piccole dosi antidemocratiche fino al punto di renderlo immune alla democrazia stessa come scrivevo la scorsa settimana su questo blog a proposito di Palermo e dell'Italia tutta) dovrebbe già saltare nel leggere che i rapporti tra servizi segreti e detenuti (quelli che interessano non sono ovviamente i ladri di pollo ma mafiosi e terroristi) fino al 2007 erano all'insegna della "soggettività" e "discrezionalità" delle parti. Ovviamente, non sobbalza nessuno. Ma andiamo avanti che il bello deve ancora venire. Nel 2002 gli allora ministri dell'Interno e della Difesa individuarono tra gli obiettivi prioritari del Sisde (l'allora Servizio per l'informazione e la sicurezza democratica sostituito con la riforma legislativa del 2007 dall'Aisi) il contrasto della criminalità organizzata focalizzato sull'evoluzione dei modelli organizzativi mafiosi e sulle dinamiche del "carcerario" e ne diedero comunicazione nella relazione del secondo semestre del 2003 in cui si riferiva della conflittualità tra le famiglie mafiose e dell'isolamento di alcuni loro esponenti di spicco sottoposti al carcere duro (41-bis). Lo scenario storico, le pressioni nelle carceri, l'obiettivo prioritario della relazione al Parlamento del secondo semestre del 2003, suggerirono l'adozione di azioni informative tese anche a verificare eventuali saldature tra interessi criminali e aree politiche di matrice garantista. Il Sisde organizzò due risposte operative: 1) attivare una serie di centri territoriali nelle città e nelle aree ad alta intensità criminale mafiosa come Palermo, Catania, Reggio Calabria, Napoli e Bari; 2) intensificare e strutturare il rapporto con il Dap (il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria). Queste iniziative produssero un primo risultato: una nota del 25 giugno 2003 ("Settore carcerario: progressioni informative") che venne consegnata al ministro della Giustizia e che suggeriva di continuare a sostenere ed incrementare l'attività di informazione per assicurare un quadro conoscitivo e contemporaneamente trasmettere al Cesis (il Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza attivo fino alla riforma legislativa dei servizi del 2007, alle dipendenze del Consiglio dei ministri) tutte le informazioni utili per rappresentare al Parlamento lo stato di disagio del settore carcerario. Ma a pagina 11/12 della relazione il Copasir scrive che "alla luce della documentazione acquisita e delle risultanze emerse durante l'indagine condotta dal Comitato, tali informazioni non risultano poi essere state trasmesse al Cesis. Il direttore del Sisde era all'epoca dei fatti il generale Mario Mori, proveniente dall'Arma dei Carabinieri, mentre il direttore del Dap era il dottor Giovanni Tinebra, già procuratore della Repubblica di Caltanissetta. Il dottor Salvatore Leopardi, responsabile dell'Ufficio ispettivo e di controllo del Dap, anch'esso già pubblico ministero a Caltanissetta, fu incaricato delle prime acquisizioni generali di informazioni finalizzate a verificare l'incidenza esterna di alcuni soggetti criminali e le strategie delle organizzazioni criminali. Si tratta delle prime acquisizioni parte di un progetto informativo che di lì a poco sarebbe divenuto un'operazione di intelligence". Insomma, se le parole hanno un senso il Cesis (vale a dire il Governo, visto che era un organo dipendente direttamente dal Consiglio dei ministri) non era stato informato dal Sisde. Il ministro della Giustizia sì. Emilia Romagna: al via gli interventi per l'inclusione socio lavorativa dei detenuti www.parmadaily.it, 23 aprile 2015 La Giunta regionale ha approvato il Piano sperimentale 2015. Politiche formative e di accompagnamento al lavoro delle persone in esecuzione penale progettate congiuntamente da amministrazione penitenziaria, servizi sociali e per il lavoro, enti di formazione accreditati, imprese profit e no profit e associazioni di volontariato, per qualificare l'elemento rieducativo e di recupero sociale come asse portante di sviluppo delle misure di detenzione. È quanto prevede il Piano sperimentale 2015 di intervento per l'inclusione socio lavorativa delle persone in esecuzione penale approvato dalla Giunta regionale, insieme alle procedure di attuazione. Il Piano, redatto in attuazione del protocollo d'intesa siglato nel gennaio 2014 tra il Ministero della giustizia e la Regione per la realizzazione di misure volte all'umanizzazione della pena e al reinserimento sociale delle persone detenute, introduce in via sperimentale una programmazione integrata di livello regionale fondata sulla collaborazione di diversi attori coinvolti nella gestione di servizi rivolti alle persone in esecuzione penale, sull'integrazione delle risorse finanziarie e degli strumenti per promuovere responsabilità sociale e garantire l'erogazione di servizi qualificati. Le azioni, che dovranno essere il risultato di una progettazione condivisa e sostenute da piani di intervento definiti in collaborazione con l'Amministrazione penitenziaria, dovranno essere finalizzate a sostenere l'inclusione sociale dei detenuti attraverso il lavoro e, in particolare, delle persone nella fase delicata delle dimissioni aiutandole nella creazione di un progetto di vita che consenta loro una reale integrazione nella società. La Giunta ha approvato il Piano sperimentale, che prevede il concorso di risorse comunitarie nazionali e regionali per oltre 2,1 milioni di euro dei quali 1,5 milioni sono risorse del Fondo sociale europeo per il finanziamento delle azioni formative e di accompagnamento al lavoro. La Regione si impegna nella collaborazione con il Provveditorato regionale dell'Emilia Romagna alla definizione di un intervento articolato e pluriennale che prenderà spunto dagli esiti di questa prima fase per definire quali modalità di intervento, buone prassi e relazioni tra soggetti rendere sistematiche per qualificare i servizi. Il bando per il finanziamento delle attività ha scadenza il 12 maggio. I progetti potranno essere candidati da enti di formazione professionale accreditati. Sassari: nel carcere di Bancali arrivano condannati per mafia di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 23 aprile 2015 La sezione 41 bis della Casa circondariale di Bancali accoglierà ufficialmente i primi ospiti a partire dalla metà di maggio. La comunicazione ufficiale è stata trasmessa martedì dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e conferma che sono stati completati tutti gli interventi nella diramazione dove saranno sistemati i 92 reclusi che rivestono "una posizione apicale nell'ambito della criminalità organizzata di tipo mafioso". Non figure di secondo piano, quindi, ma boss tra i più conosciuti nel panorama nazionale, a conferma che il nuovo carcere di Bancali diventerà un punto di riferimento nei programmi del Dipartimento e del ministero della Giustizia per la detenzione dei capi di Cosa Nostra. Per la costruzione della struttura, non a caso, sono stati spesi 16milioni e 350 mila euro. I segnali che la decisione del trasferimento fosse imminente si erano avuti già da qualche tempo, con un cambiamento improvviso del clima generale della detenzione nell'istituto sassarese. Tanto che c'era stata anche una clamorosa presa di posizione di un gruppo di reclusi che avevano protestato per denunciare una serie di limitazioni: l'iniziativa - che risale al marzo scorso - è costata anche una denuncia per interruzione di pubblico servizio ai 25 detenuti della settima sezione. Ora, fra qualche giorno, si fa davvero sul serio. Le prove generali sono finite, e la preoccupazione che serpeggia nell'ambiente carcerario è quella di un deciso ridimensionamento delle attività finalizzate al recupero sociale e rieducativo dei cosiddetti ospiti "comuni". Con l'arrivo dei 41 bis, è prevista anche la presenza automatica dei Gom (gli agenti del Gruppo operativo mobile), un reparto della polizia penitenziaria istituito nel 1999 e che opera direttamente alle dipendenze del capo del Dipartimento con compiti relativi alla custodia dei detenuti speciali. Dei Gom non era rimasto un buon ricordo a Sassari, per via della brutta storia dei pestaggi in carcere a San Sebastiano, una macchia mai cancellata. É la prima volta dei 41 bis a Sassari, anche se nel territorio provinciale non mancano gli esempi del passato: basta scorrere le vicende del supercarcere dell'Asinara (con bunker di vario tipo e strutture speciali ricavate in diversi angoli di quello che è ormai Parco nazionale che ha resistito anche a tentativi di ritorno del carcere), e l'elenco dei nomi potrebbe essere persino troppo lungo e tale da meritare il primo posto della graduatoria nazionale. Da Raffaele Cutolo a Totò Riina, passando per Leoluca Bagarella e una lunga lista di appartenenti alla criminalità organizzata. L'operazione è coperta dal massimo segreto, ma l'apertura della sezione 41 bis di Bancali non esclude ritorni clamorosi di big della mafia che già hanno trascorso lunghi periodi di detenzione in Sardegna (a cominciare proprio da Riina e Bagarella). Le disposizioni in materia di sicurezza pubblica varate con la legge 15 luglio 2009, numero 94, stabiliscono che "i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all'interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque in sezioni speciali logisticamente separate dal resto dell'istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria". A Bancali è tutto pronto, nell'ultimo periodo sono state testate le procedure di sicurezza e definiti anche i nuovi compiti per il personale che dovrà fare i conti con una realtà ingombrante e capace di condizionare, inevitabilmente, le altre attività ordinarie della casa circondariale. Le organizzazioni sindacali - anche di recente hanno sollecitato un potenziamento degli organici, considerati sempre al di sotto dei parametri stabiliti (e questo nonostante alcuni trasferimenti recenti). Quello di Bancali è un "acconto", poi altri 92 "41bis" andranno a Uta (appena conclusi i lavori): standard di sicurezza assicurati - secondo il Dipartimento - e le reazioni nell'isola non hanno fatto cambiare idea sull'invio dei boss. Sassari: gli esperti "rischio infiltrazioni mafiose, i complici possono puntare sull'isola" di Pier Giorgio Pinna La Nuova Sardegna, 23 aprile 2015 Tra i pericoli lo studio dell'ambiente a fini criminali. "I detenuti? Più allarmanti le connivenze negli affari". "Il pericolo d'infiltrazioni con i detenuti al 41 bis diventerà concreto se i reclusi resteranno qui diversi anni di seguito". Enzo Ciconte non nasconde la preoccupazione per la Sardegna. Calabrese, professore universitario, consulente della commissione parlamentare antimafia, è uno studioso considerato uno dei massimi esperti italiani di Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra. Deputato del Pci-Pds dal 1987 al 1992,hascritto importanti libri incentrati sulla criminalità organizzata e sugli sviluppi delle sue ramificazioni. Tempi e relazioni. "In 6-12 mesi famiglie e accompagnatori non saranno in grado di stabilire legami sul territorio - spiega il docente. Ma se la permanenza si protrarrà, crescerà l'idea di dar vita a cellule nella realtà locale. Il perché è chiaro. Parenti e amici hanno bisogno di arrivare in Sardegna alcuni giorni prima della visita e di trattenersi anche dopo per ragioni di viaggio: il fatto che l'isola non sia dietro l'angolo, faciliterà la loro permanenza vicino alle carceri, così come l'opportunità di costruire rapporti con l'interno e con l'esterno". Le commistioni. "Certo, se assisteremo a una rotazione dei reclusi sottoposti a questo regime speciale di vigilanza, i pericoli diminuiranno - prosegue Ciconte. Ma se così non sarà, la situazione potrebbe diventare allarmante". "Basta pensare al passato e alle esperienze già viste altrove - incalza il professore. I complici dei detenuti al 41 bis possono intervenire fingendo di voler aiutare le aziende in difficoltà con l'immissione di denaro fresco, fare riciclaggi in operazioni immobiliari sull'isola, sondare in altri modi ancora la permeabilità del territorio". Mutamenti in corso. "Molte cose d'altronde sono cambiate negli ultimi 10-15 anni - prosegue nel ragionamento Enzo Ciconte - Se non ne hanno proprio estrema necessità, i capimafia oggi non uccidono più: preferiscono seguire le piste del denaro e investire i soldi sporchi. Ecco perché il "cuore" del regime di detenzione al 41 bis, attraverso il divieto assoluto di mantenere contatti con l'esterno del penitenziario, è proprio quello di evitare che dalle loro celle i boss continuino a dare ordini e a poter gestire i loro affari criminali". Diverso parere. Meno convinto di un rischio strettamente legato alle carceri si dice invece un altro grande esperto di mafie: Antonio Nicaso. "Temo di più - puntualizza - i canali classici d'infiltrazione: acquisto di ville e residence nelle zone turistiche, acquisizione di quote di industrie e imprese in difficoltà, collegamenti nelle realtà locali per il traffico degli stupefacenti". Calabrese anche lui, è un giornalista, scrittore e ricercatore ritenuto uno dei maggiori conoscitori della ‘Ndrangheta: "L'organizzazione oggi più forte e ramificata, che fra l'altro può vantare il monopolio assoluto sul controllo della cocaina in Europa", ricorda. Analisi ad ampio raggio. Da studioso di questi temi Nicaso tiene corsi di storia delle organizzazioni criminali al Middlebury College, in Vermont, Usa. Vive e lavora per parte dell'anno in Nord America. È componente del comitato scientifico del Nathanson Centre on Transnational Human Rights, Crime and Security, all'Università di York, in Canada, e nel 2012 è stato nominato condirettore del Centro di semiotica forense al Victoria College dell'ateneo di Toronto. Le rassicurazioni. "Sul piano tecnico l'arrivo nell'isola di carcerati al 41 bis non dovrebbe rappresentare un problema ribadisce lo specialista - Questi detenuti devono trascorrere la gran parte della giornata in isolamento. Il periodo d'aria è ammesso per gruppi che non superano mai le quattro persone. Gli stessi colloqui con parenti e familiari non possono essere frequenti come per gli altri reclusi. Insomma, io vedo un pericolo maggiore: quello che può invece scaturire dal trattamento previsto per chi è sottoposto ai regimi dell'alta sicurezza". Gli sbarchi. "Di sicuro, se si dovesse trasformare l'isola in una Cajenna del Mediterraneo, allora sì che la questione cambierebbe: potrebbero sorgere gravi difficoltà", aggiunge Nicaso. Ma visto che secondo lui quest' eventualità non è realistica, c'è al contrario da preoccuparsi per le connivenze legate a edilizia e operazioni immobiliari, alle energie rinnovabili come l'eolico, allo spaccio di coca e marijuana, soprattutto con l'aumento dei consumi nel periodo estivo. Fatti che hanno già permesso di accertare in Sardegna relazioni pericolose. "Perché sono proprio queste, più che le contaminazioni carcerarie, le situazioni che facilitano la diffusione delle mafie sul territorio", sostiene in ultima analisi il criminologo. Bari: detenuti al lavoro, accordo Comune e Casa circondariale Corriere del Mezzogiorno, 23 aprile 2015 È stato rinnovato ieri a Villa Framarino l'accordo tra il Comune di Bari e la Casa Circondariale, in esecuzione del protocollo d'intesa siglato tra Anci, Regione Puglia e Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria per la Puglia (Prap). Un progetto che prevede la rieducazione dei detenuti non legati alla criminalità organizzata e il loro reinserimento sociale. I detenuti sono attualmente impegnati in attività di manutenzione del verde, pulizia dei locali e collaborazione in occasione delle manifestazioni che si svolgono a Villa Frammarino. Da oltre un mese, tre detenuti selezionati, un giorno alla settimana, svolgono volontariamente e gratuitamente il loro lavoro di pulitura, potatura del verde sotto la guida dei tecnici comunali. È l'applicazione concreta di ciò che la direzione del carcere di Bari (la direttrice è Lidia De Leonardis) da tempo sostiene: portare fuori dal circuito del carcere i detenuti non appartenenti alla criminalità organizzata, quelli cosiddetti della "devianza del bisogno" o anche coloro i quali dopo un vero percorso di autocritica e di verifica di affidabilità all'interno vengono ritenuti pronti per un cambiamento. Far svolgere attività di pubblica utilità segna il punto di svolta nell'esecuzione penale. Questo esperimento è l'inizio di una nuova modalità della pena che può sì deflazionare le carceri, eliminare il rischio di affiliazione della criminalità organizzata, ma altresì far conquistare il senso di responsabilità vera ai detenuti col loro lavoro per la collettività, ed insieme imparando un mestiere, come in questo caso quello del giardiniere. La "giustizia riparativa" coi lavori di pubblica utilità in modo gratuito e volontario sono nel solco di una nuova funzione della pena che renda il soggetto responsabile, risarcisce col suo gesto la lesione alla comunità e la devianza così. Spiega Tommaso Minervini, responsabile dell'Area educativa del carcere di Bari che l'iniziativa "acquisisce una dimensione anche etica, non solo interna al codice penale, dove se tu hai sbagliato devi risarcire la comunità ma senza creare altri mostri, altre violenze che generano altre violenze come una parte della storia peggiore del carcere ha dimostrato". Aggiunge la direttrice De Leonardis: "Ciò che stiamo sperimentando a Bari, come in altre carceri italiane, è un impulso positivo che proprio dal carcere viene lanciato alla Città di Bari ed al mondo istituzionale e scientifico dell'esecuzione penale". All'incontro erano presenti, tra gli altri l'assessore all'Ambiente Pietro Petruzzelli, la presidente del Parco Naturale Regionale Lama Balice Maria Maugeri, la direttrice della Casa Circondariale Lidia De Leonardis, il responsabile dell'Area educativa Tommaso Minervini, i responsabili della ripartizione Tutela dell'Ambiente del Comune di Bari e i detenuti coinvolti nel progetto. Firenze: Cisl; sulla chiusura dell'Opg tante parole ma di soluzioni concrete neanche una www.gonews.it, 23 aprile 2015 "Che in data odierna il Consiglio Comunale di Montelupo Fiorentino possa tornare ad affrontare la questione dell'Opg è legittimo e positivo. Ci sono forze politiche in campo, rappresentanti dei Cittadini, che possono così ulteriormente dibattere sull'argomento. Per quanto ci riguarda, come Sindacato dei Lavoratori della Sicurezza - e tra questi anche del Personale di Polizia Penitenziaria dell'Opg - ma anche di Solliccianino a Firenze, abbiamo con chiarezza espresso la nostra posizione, sia pubblicamente tramite gli Organi d'Informazione, sia direttamente ad ogni Autorità che sulla vicenda possa avere competenza riguardo a quanto avviene in questi giorni con l'entrata in vigore della Legge che prevede il superamento della Funzione Penitenziaria degli Opg. La nostra posizione l'abbiamo partecipata al Ministro della Giustizia ed ai Vertici dell'Amministrazione Penitenziaria, soprattutto perché sono anche i diretti Responsabili del Personale Penitenziario. Ma abbiamo sempre informato di ogni nostro intervento il Prefetto di Firenze, la Regione Toscana, il Procuratore Generale della Repubblica di Firenze e sul piano politico Tutti i Parlamentari eletti nelle Circoscrizioni della Toscana, sia per il Senato che per la Camera dei Deputati. E della nostra posizione ne hanno riportato notizia le Redazioni Giornalistiche, sia della carta stampata, televisiva, radiofonica e tramite web. Non ci siamo sottratti neanche ad audizioni in Commissioni Consiliari del Comune di Montelupo, così come in Convegni e Seminari organizzati dalla Regione Toscana ed altri. Confermo che mai abbiamo usata una sola parola negativa verso l'Associazionismo che da sempre s'impegna nell'Opg di Montelupo, tanto meno verso l'impegno che i Parroci di Montelupo - da sempre anch'essi - hanno messo al servizio dei più deboli e soprattutto degli Internati dell'Opg. Non ci appartengono quindi alcune esternazioni che tendono a far immaginare che non riconosciamo il valore di quanto ruota intorno all'Opg, anzi abbiamo rappresentato e segnalato che anche tutto l'indotto di attività che di Opg si occupavano e si occupano sono tagliate fuori da un ruolo attivo nella gestione di questa Riforma. Quando però accusiamo le Istituzioni Locali su alcuni silenzi ed errate valutazioni sulla vicenda ci riferiamo al Comune di Montelupo ed anche alla Regione Toscana, che non hanno affrontato e trovata una soluzione per le Strutture alternative alla Funzione svolta fino ad oggi dall'Amministrazione Penitenziaria con l'Opg creando le Rems. Parole tante, tantissime, ma soluzioni concrete neanche una, se dal 2012 ad oggi siamo arrivati all'ennesima scadenza e nulla è sostanzialmente cambiato, visto che gli Internati sono ancora tutti a Montelupo Fiorentino, con l'Amministrazione Penitenziaria che nel frattempo continua ad assolvere alla funzione svolta da sempre. Ci sono poi responsabilità su dichiarazioni pubbliche, rese anche dal Sindaco di Montelupo, che pochi giorni fa ha chiaramente detto che non è condivisibile la posizione del Personale dell'Opg (per il tramite delle OO.SS.) visto che questi non perdono il posto di lavoro come altri Lavoratori. E su questo il Sindacato ha fatto notare quanto sia per noi incomprensibile che si dica ciò, ignorando che sia un problema l'eventuale delocalizzazione del lavoro per un centinaio di Operatori e delle loro Famiglie. Così come abbiamo espresso la nostra non comprensione dello spreco di soldi pubblici per milioni di euro, spesi al fine di adeguare gli spazi destinati a sezioni detentive, non destinando quegli stessi spazi oggi pronti e già in uso all'Amministrazione Penitenziaria, una volta che gli Internati saranno andati da qualche altra parte (Rems e non solo), ad altra funzione diversa dall'Opg e magari per un carcere con soggetti a custodia attenuata, deflazionando così la diffusa situazione di sovraffollamento delle altre Strutture Penitenziarie della Toscana. Bizzarre talune dichiarazioni che portano ad affermare che quei lavori di ristrutturazione non andavano fatti e addirittura, da parte di alcuni, che il Comune non ne sapeva niente. Ad oggi il problema principale rimane la collocazione degli Internati che, in assenza di Strutture alternative idonee, non andranno via da Montelupo; ci conforta su questo la chiara posizione della Magistratura che fa con serietà, come sempre, il proprio dovere e non esporrà i Cittadini a rischi sulla sicurezza e gli Internati ad andare in luoghi dove i percorsi previsti dalla Legge di Riforma non siano garantiti. Per questo abbiamo espresso la nostra contrarietà a smantellare un'altra positiva esperienza di Funzione Penitenziaria, quella realizzata in tanti anni al carcere fiorentino di Solliccianino, introducendo un ulteriore problema alla riforma degli Opg danneggiando anche un'altra realtà funzionante ed efficiente. A questo si sommi poi l'ipotesi di spendere una cifra superiore agli 11 milioni di euro per adeguare allo scopo quel carcere, spendendo soldi pubblici su altri soldi pubblici. Fanno poi sorridere ulteriori dichiarazioni dove si tende a mettere tutto e tutti insieme, esponenti politici di partiti diversi, sindacati e perfino la Direzione dell'Opg, quasi come se ognuno avesse poco chiara la situazione attuale, non dicessero delle verità e non avessero legittimità e competenza ad esprimersi sull'intera vicenda. Ma forse questo deriva dal fatto che - tutti questi ultimi chiamati in causa - non sono nella corrente di pensiero unica su cosa fare solo ed esclusivamente della Villa Medicea e non di cosa la stessa contiene, come storia e come Persone che a vario titolo lì dentro sono". Fabrizio Ciuffini, Segretario Generale Fns-Cisl Toscana Modena: Commissione Parità e diritti Regione visiterà Casa-Lavoro Castelfranco Emilia Ristretti Orizzonti, 23 aprile 2015 La Commissione Parità e diritti delle persone - presieduta da Roberta Mori e riunitasi oggi aprendo la seduta con un minuto di silenzio in memoria dei migranti deceduti nel Mediterraneo nella notte fra sabato e domenica scorsi - visiterà la Casa lavoro di Castelfranco Emilia (Mo). La proposta è stata avanzata dalla Garante regionale dei detenuti, Desi Bruno, nel corso della sua audizione in commissione sulla situazione carceraria in Emilia-Romagna. La proposta è stata accolta dalla presidente Mori. A favore si sono espressi Antonio Mumolo e Luciana Serri (Pd). Nel suo intervento, la Garante ha toccato i temi più importanti attinenti la vita dei ristretti in Emilia-Romagna, dai numeri sulla riduzione del sovraffollamento alla presenza di detenuti stranieri nelle carceri fino alle criticità riguardanti sanità e offerta lavorativa. L'incontro è stato anche l'occasione per aggiornare i consiglieri sulle ultime vicende relative agli Ospedali psichiatrici giudiziari e al trasferimento degli internati nelle Rems. Ampio spazio è stato poi dedicato alla Casa lavoro di Castelfranco Emilia. L'invito a visitare ufficialmente la struttura detentiva, definita "una casa lavoro senza lavoro", servirà a verificare di persona le condizioni degli ospiti "e lo stato di inutilizzo, e quindi degrado, del patrimonio edilizio e agricolo: un vero spreco di risorse", ha sottolineato Desi Bruno. La Garante ha poi annunciato "la presentazione di una ricerca sulle donne detenute in regione: abbiamo già effettuato tutti i rilevamenti e aspettiamo solo la validazione dei dati dall'amministrazione penitenziaria, speriamo di poter dare una anteprima alla commissione già prima dell'estate". Per chiarimenti sono intervenuti Daniele Marchetti (Ln), sulla "presenza dei detenuti stranieri nelle nostre carceri e la possibilità di fare scontare loro la pena nei paesi di origine"; Tommaso Foti (Fdi), sugli organici polizia giudiziaria e sul numero delle persone in attesa di giudizio o con sentenza definitiva; Giulia Gibertoni (M5s) sulle criticità sanitarie all'interno delle carceri e, in particolare, "sul riscontro di malattie infettive". Infine, Francesca Marchetti (Pd) ha chiesto chiarimenti sui percorsi alternativi alla detenzione. Teramo: i progetti dell'area educativa di Castrogno, con pochi fondi e tanto impegno di Elisabetta Santolamazza (funzionario giuridico-pedagogico) Il Centro, 23 aprile 2015 L'obiettivo fondamentale per ogni detenuto è garantire che la pena svolga una funzione non solo retributiva ma incentrata sulla valorizzazione delle risorse personali di ciascuno, al fine di restituire alla società individui migliori e capaci di reintegrarsi. Il mio impegno quotidiano consiste dunque nel sostenere, valorizzare e coordinare tutti gli operatori che istituzionalmente mi affiancano in questa mission, caratterizzata da costanti difficoltà strutturali e specifiche, legate ad un'utenza multiproblematica, come è facile intuire, per le molteplici questioni rappresentate dai singoli detenuti, e per la cronica carenza di risorse umane e materiali. Diverse le iniziative finalizzate a valorizzare risorse personali positive, da quelle che hanno coinvolto molti detenuti in permesso premio e lavoro all'esterno ai sensi dell'art. 21 OP impiegati in lavori di pubblica utilità. Partendo, infatti, da una rilevazione dei bisogni primari dell'utenza svantaggiata, ho contribuito ad indicare le linee operative per il sostegno partecipato dei soggetti più problematici, sollecitando l'attenzione verso le relazioni familiari e le condotte anticonservative anche pregresse con riferimento a disturbi della personalità, cogliendo tutte le situazioni che necessitassero di interventi idonei, in raccordo con gli operatori istituzionali dell'area sanitaria, educativa, gli assistenti sociali prevedendo il coinvolgimento mirato di volontari La complessità della popolazione detenuta femminile di questo istituto che vede un alto numero di persone appartenenti a minoranze etniche, in particolare di origine rom e/o con problematiche psichiatriche e segnate da violenze sessuali subite già dalla minore età, ha indotto a predisporre interventi mirati con l'ausilio di esperti ed il coinvolgimento attivo del personale di polizia penitenziaria femminile. Un progetto interessante è quello che vede la valorizzazione delle aree verdi interne alla casa circondariale: appaiono evidenti le notevoli e molteplici valenze che il progetto di recupero delle aree verdi racchiude, contribuendo a qualificare il carcere sia come un vivaio per lo sviluppo dell'ingegno e delle risorse di una umanità ricchissima di potenziale ma spesso rimossa dalla coscienza civile, sia come "un luogo di restituzione degli affetti" mutilati dal regime coattivo, dove il nucleo familiare ha la possibilità di ritrovarsi intorno ad un tavolo per consumare il pranzo e condividere un momento di serena convivialità. Le finalità perseguite sono la riabilitazione psico-fisica nonché il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti più svantaggiati e a rischio di emarginazione, mediante il ricorso a due strumenti privilegiati del trattamento penitenziario: l'ergoterapia e lo sviluppo dei rapporti con la famiglia. In occasione delle festività è ormai consuetudine promuovere una serie di eventi musicali, teatrali, culturali, religiosi finalizzati in primo luogo ad umanizzare la vita detentiva, ad elevare la dignità dei ristretti nonché ad allentare le tensioni scaturenti dal regime di convivenza forzata. A tal fine mi preoccupo di sensibilizzare gli enti locali, i soggetti appartenenti al terzo settore verso l'esperienza della reclusione insieme a docenti, animatori, volontari e coinvolti in iniziative con intenti umanitari e per spirito di liberalità, chiedendo loro anche di intrattenere i detenuti con riflessioni su tematiche culturali. L'attività manuale risveglia l'amore per la vita, di Antonella Nissemi (psichiatra) Il tempo del carcere dovrebbe essere un tempo utile, un tempo produttivo in cui le abilità manuali e cognitive dei detenuti possono essere impiegate per la crescita personale e per permettere agli stessi detenuti di elaborare un nuovo progetto di vita, ritrovando nello stesso tempo la dignità di vivere un'esistenza che è proiettata verso la legalità. Pertanto vengono stimolate tutte quelle attività manuali che sono svolte in cella, finalizzate anche a far emergere, attraverso l'espressione e la creazione artistica, quelle emozioni e quei sentimenti che spesso non riescono ad emergere. Ritrovarsi nella dimensione creativa aiuta a sublimare i conflitti , l'angoscia, la rabbia, la solitudine, ma soprattutto il bisogno di essere considerato una persona. Verosimilmente la vena artistica ristabilizza l'assetto psichico, a dimostrazione di quanto le attività artigianali, intese soprattutto come modalità di impegno, di progetto esistenziale, in una dimensione temporale e dilatata e priva di significato, dove spesso il pregiudizio ci fa dimenticare il senso dell'umano, risveglino tutto l'amore che c'è per la vita. Raccolta di gomitoli di lana per aiutare le recluse Un gomitolo di lana per le detenute del carcere di Castrogno. È un appello che arriva direttamente dalle detenute della sezione femminile della casa circondariale teramana quello che l'area educativa delfa suo e rilancia: chiunque volesse partecipare alla raccolta può consegnare la lana ai sacerdoti della parrocchia Madonna della Salute di Villa Mosca che poi la farà arrivare in carcere. Perché per le 35 detenute il lavoro a maglia è un ponte con il futuro: molti lavori artigianali sono già stati esposti in alcune mostre e nei progetti c'è quello di realizzare un laboratorio dove creare maglie, sciarpe, centrini, borse e cappelli da vendere all'esterno. Il tutto ricorrendo all'antica arte dei ferri e dell'uncinetto, inventandosi trame che uniscono e avvolgono. Anche nel chiuso di un penitenziario. Lecce: successo del progetto "Made in carcere", gli orti verticali dal Salento a Napoli Corriere del Mezzogiorno, 23 aprile 2015 Aromi mediterranei, erbe officinali, ortaggi, fragole: c'è spazio per tutto questo anche dove spazio non c'è e sono gli "orti verticali" nati da un progetto di "Made in carcere", marchio creato a Lecce nel 2007, grazie a Luciana Delle Donne, fondatrice di Officina Creativa, una cooperativa sociale, non a scopo di lucro, che produce manufatti (borse, accessori, originali e tutti colorati), tutti confezionati da detenute del carcere. Gli "orti verticali", dopo essere entrati nel carcere di Lecce, saranno utilizzati anche nell'istituto carcerario di Napoli e nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Per realizzare gli "orti verticali" vengono utilizzati tessuti che sarebbero destinati al macero e confezionati per contenere terra, semi e piante, e, grazie ad una originale soluzione, è possibile coltivare e sentire gli odori della terra e delle erbe anche - dicono le ideatrici della iniziativa - "dove meno te lo aspetti". Sono 16 le differenti specialità aromatiche e poi ortaggi e soprattutto tante fragole contenuti negli orti verticali di varie misure che adesso crescono nei due penitenziari. Orti portatili, da appendere al muro e da indossare, provocatoriamente, come borsetta. Il direttore del Carcere di Poggioreale (Napoli) e il Comandante del Carcere Militare di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), "hanno accolto con entusiasmo - si legge nella nota di Made in Carcere - gli orti realizzati ad hoc dalle detenute di Borgo San Nicola, al fine di avviare un percorso sperimentale di utilizzo degli orti verticali grandi e piccoli con i reclusi, ai quali così si restituisce la possibilità di godere di un pezzo di natura". Il progetto desidera "avvicinare quante più persone alla Natura ed alla consapevolezza dei suoi ritmi, che non sono quelli del mondo virtuale. È nato per offrire una sorta di "nature therapy" a persone in stato di detenzione e andrà oltre, contaminando fiere e scuole". Perché se in carcere "c'è chi ritrova profumi dimenticati a scuola, invece, c'è chi magari non li ha mai conosciuti davvero e a stento riconosce la differenza tra menta e rosmarino". Milano: all'Expo in mostra i prodotti di "Dolci Libertà" dal carcere di Busto Arsizio Adnkronos, 23 aprile 2015 Un cioccolato buono in tutti i sensi quello proposto a Expo Milano 2015 da "Dolci Libertà", impresa di Alta qualità sociale, presente con un proprio street stand nel cluster Cacao e cioccolato, di cui Eurochocolate è Official Content Provider. "Abbiamo raccolto volentieri - afferma Dionigi Colombo, fondatore e amministratore del Progetto Dolci Libertà, che realizza tutte le sue produzioni all'interno della Casa circondariale di Busto Arsizio - la sfida posta da Expo sul tema dell'alimentazione, cogliendo l'opportunità di questa straordinaria vetrina internazionale per proporre una serie di prodotti a base di cacao e cioccolato buoni per tutti, anche per chi deve fare i conti con eventuali intolleranze alimentari, e realizzati nel rispetto dell'ambiente e delle persone che lo producono". In particolare, nell'ambito della ricerca partner che Eurochocolate sta portando avanti con l'obiettivo di costruire un calendario eventi in grado di valorizzare al meglio i Paesi produttori presenti nel cluster, "Dolci Libertà" proporrà cioccolato realizzato utilizzando semilavorati monorigine selezionati, provenienti prevalentemente da quelle nazioni. Al Camerun sarà reso omaggio con un cioccolato al latte 38%, alla Costa d'Avorio con cioccolato fondente al 65% e 70%. Cuba e Sao Tomé e Príncipe saranno protagonisti con monorigini fondenti, il Ghana con un monorigine latte al 40% e anche il Gabon sarà adeguatamente rappresentato. "Il nostro progetto - sottolinea Colombo - vede spesso coinvolti detenuti provenienti proprio dai Paesi produttori di cacao, permettendo loro di diventare consapevoli della straordinaria risorsa di cui dispongono, e fornendo ulteriori motivazioni al loro pieno reinserimento sociale". Oltre a una straordinaria scelta di Dragées e tavolette abbinate a frutta secca di altissima qualità, ‘Dolci Libertà' proporrà nel proprio street stand anche mini panettoni classici e al cioccolato in confezioni speciali in onore della città che ospita l'evento. Tante sorprese che saranno di volta in volta presentate nello spazio eventi a partire dal cioccolatino allo zafferano coltivato in Brianza alla realizzazione di prodotti personalizzati tramite le nuove tecnologie di stampa 3D. Milano: nel carcere di Bollate nasce un'agenzia sociale di audio e video Redattore Sociale, 23 aprile 2015 Realizzerà servizi per radio, Tv o enti pubblici e imprese private. Al lavoro dietro microfono e obiettivo detenuti e ex detenuti. Dal 2011 all'interno dell'istituto viene realizzato un programma radiofonico. Ciò che li distingue da qualsiasi altra agenzia radiofonica è lo sguardo: sono infatti detenuti o ex detenuti. E il loro modo di guardare e raccontare il mondo è diverso, originale. Questa mattina a Palazzo Marino è stata presentata Avs - Audio video sociale, agenzia nata nel carcere di Bollate e che realizza servizi video e audio per radio, Tv o enti pubblici e imprese private. "Dal 2011 all'interno del carcere curiamo un programma radiofonico - racconta Maria Itri, giornalista e coordinatrice della redazione-. Ora raccogliamo la sfida di mettere sul mercato le nostre competenze e il nostro modo originale di guardare la realtà che ci circonda, non solo quella all'interno del carcere ma anche quella esterna". La redazione è composta per ora da tre persone. "Ho imparato a usare la strumentazione tecnica - afferma Antonio Fioramonte, detenuto da sette anni. Quando sono entrato in carcere avevo 19 anni e mai mi sarei immaginato che un giorno sarei venuto a Palazzo Marino per presentare un progetto di questo genere. Mi sono innamorato di questo lavoro". Ora Avs, sostenuta dalla cooperativa sociale Zerografica, cerca clienti - enti pubblici, testate giornalistiche, associazioni, fondazioni o ong - che hanno bisogno di servizi audio o video su temi sociali, non solo legati al carcere. Per contattare la redazione di Avs: audiovideosociale@gmail.com. Verona: a Montorio calano i detenuti, la relazione della Garante Margherita Forestan di Elisa Innocenti L'Arena, 23 aprile 2015 Oggi i reclusi sono 630 contro una capacità di 600 Preoccupa l'aumento di quelli legati al gioco d'azzardo. Copertura del tempo fuori cella, più spazi per attività ricreative e aiuto nel mantenere i rapporti affettivi. Queste le urgenze non rinviabili per il carcere veronese, secondo la relazione del Garante per i diritti dei detenuti, Margherita Forestan, presentata ieri in quinta commissione consiliare, presieduta da Antonia Pavesi. La. relazione, che sarà poi portata in Consiglio, relativa al 2014, tratteggia un quadro tutto sommato positivo della situazione nella casa circondariale di Montorio, che ha visto negli ultimi anni quasi dimezzare il numero dei detenuti, che a ieri contava un totale di 638 persone, a fronte di una capacità massi ma di 600. "E stiamo lavorando per rendere agibili in tempi brevi nuove celle", precisa Forestan. Nel 2013 i detenuti erano stati 829. "Tra i motivi principali di questa diminuzione le nuove misure attuate dopo la condanna dell'Italia da parte della Corte di Strasburgo per le condizioni delle carceri italiane", prosegue la Garante, "la cancellazione dell'equiparazione tra droghe pesanti e leggere, che ha portato alla revisione di molte condanne, l'aumento di giorni di liberazione anticipata per buona condotta e l'aumento dei domiciliari come misura alternativa al carcere". Ogni detenuto costa in media allo Stato 150 euro al giorno. "Ma l'83% di questa spesa è per gli stipendi del personale". Attualmente i detenuti a Montorio sono nel 35% dei casi italiani e nel 65% stranieri, numeri in linea con le percentuali nazionali. "C'è però attualmente un aumento di donne, che sono il 6% della popolazione carceraria veronese, e un preoccupante incremento di detenuti legati al gioco d'azzardo", sottolinea la Garante, "che rubano per poter continuare a giocare o per saldare debiti. Un dato sociale da non trascurare". Le priorità per il futuro del carcere, secondo Forestan, sono quelle che vanno nella direzione di occupare il più possibile la giornata dei detenuti. "Molti lavorano o vanno a scuola, ma molti no e se passano la giornata in una cella a far niente è difficile che si reinseriscano nella società una volta fuori, ma questo è l'obbiettivo del carcere, mostrare loro un nuovo modello di vita, nel rispetto delle regole, che potranno seguire in futuro". Ma ci sono anche i dati positivi, oltre alla quasi totale scomparsa del sovraffollamento. "Grazie ai fondi della Fondazione Cariverona abbiamo quasi completato la creazione delle docce nelle celle, che erano già predisposte per averle, ma non erano mai state realizzate. Prosegue poi il progetto Esodo, per il reinserimento nella società con formazione e borse di lavoro". Nel 2014 è stato anche attivato uno sportello di ascolto per le vittime di reato "e Verona è l'unica città italiana ad averlo". Il lavoro del Garante sarà poi semplificato dalla modifica al regolamento che consente un accesso più rapido ai fondi destinati, tutto nella massima trasparenza. La commissione ha approvato la modifica all'unanimità e ora dovrà passare in Consiglio. Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; i detenuti lamentano gravi ritardi corrispondenza Ristretti Orizzonti, 23 aprile 2015 "In questi mesi numerosi detenuti di Cagliari-Uta stanno subendo gravi carenze nel servizio postale garantito da Poste Italiane con pesanti ritardi nella ricezione soprattutto delle lettere". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", facendosi interprete del disagio rappresentato da diversi cittadini privati della libertà e da loro familiari. "Per molti ristretti, ricevere comunicazioni dai propri familiari e amici - evidenzia Caligaris - è l'unico modo per mantenere contatti con il mondo esterno alla struttura penitenziaria. Specialmente quando la pena è particolarmente lunga, i rapporti epistolari assumono un ruolo fondamentale di risocializzazione e di vitalità intellettuale permettendo la condivisione di idee e progetti. Non si può dimenticare che la distanza dai propri cari e le condizioni economiche non sempre agiate impediscono colloqui costanti. Spesso inoltre un messaggio affettuoso ai bambini in occasioni speciali come le Festività o i compleanni rinsaldano relazioni che la detenzione inevitabilmente rende precarie". "È quindi necessario che l'azienda Poste Italiane verifichi le cause del disagio e trovi le soluzioni più opportune. Il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria dovrebbe però provvedere a istituire anche in Sardegna il servizio di posta elettronica per chi ne fa richiesta. In alcune carceri della Penisola infatti è consentito ai detenuti comunicare con i parenti via email ottenendo immediate risposte. Lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie per le comunicazioni, compreso l'impiego di Skype, e il cambio generazionale dei detenuti non possono più essere ignorati anche perché - conclude la presidente di Sdr - rispondono meglio alle esigenze di risparmio e di controllo". Napoli: "Giornata mondiale del libro", le biblioteche comunali incontrano i detenuti Roma, 23 aprile 2015 Palazzo San Giacomo annuncia: 300 volumi in arrivo dall'emeroteca Tucci e presto il lancio di un progetto con i carcerati di Napoli. La Giornata mondiale del libro, patrocinata dall'Unesco per promuovere la lettura, la pubblicazione dei libri e la protezione della proprietà intellettuale sarà l'occasione per presentare alla stampa e alla città alcune iniziative del Comune per il libro e per la lettura. Su tutte vale la pena ricordare la donazione da parte dell'Emeroteca Tucci dì ben 300 volumi alle alle biblioteche comunali e la sottoscrizione di innovativi protocolli d'intesa per la collaborazione tra le biblioteche degli istituti penitenziari di Secondigliano e di Poggioreale e il sistema delle biblioteche comunali. "Con le biblioteche comunali accessibili ai detenuti - ha dichiarato l'assessore Nino Daniele - si apre un nuovo fronte nell'impegno culturale del Comune di Napoli, una innovativa collaborazione tra il Servizio Biblioteche e i principali istituti carcerari della Campania. Oltre a mettere a disposizione dei detenuti i libri delle biblioteche comunali, si dà inizio a un lavoro comune che sì estende dalla collaborazione dei bibliotecari comunali alla catalogazione al prestito ed alla formazione e che prevede il coinvolgimento attivo, oltre che del personale penitenziario, anche dei detenuti. Mi preme infine ricordare, sempre per rimanere in tema con la giornata, l'avvio dì "Un (lungo)mare di libri", nella Villa Comunale, con un sabato e domenica al mese a partire dal 26 aprile, con la partecipazione di editori e librai campani". Innovazione e tradizione, ancora una volta, tornano a incrociare le proprie strade proprio sulla vecchia cara carta stampata. Salerno: un progetto al Campus di Fisciano sull'inclusione sociale dei minori detenuti www.salernotoday.it, 23 aprile 2015 "La giornata vedrà tre momenti importanti - spiega il professor Paolo Diana. Nella prima parte ci sarà da parte del team di Unisa la presentazione dei risultati della ricerca empirica svolta nei centri di reclusione per minori". Oggi, 23 aprile, presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione dell'Università di Salerno, sarà ospitato il Multiplier Event del partenariato di ricerca e formazione Innovative Learning Approaches in Staff Training and Young Offenders' Employability Support - Ila Employability, finanziato dalla Comunità Europea attraverso il programma Erasmus+ per il biennio 2014-2016. Sarà l'occasione per presentare i primi risultati del progetto e avviare una discussione con gli enti, le istituzioni e le associazioni presenti sul territorio. Promuovere l'inclusione sociale e favorire l'occupazione dei detenuti minorenni attraverso la creazione e l'implementazione di un modello formativo che sia basato su un approccio multidisciplinare, sia fondato e validato empiricamente e sia applicabile anche ad altri gruppi a rischio. Questo lo scopo principale del progetto ILA Employability che risponde ai bisogni di due specifici target: i minori detenuti che hanno bisogno di essere preparati per il reingresso in società e nel mercato del lavoro e il personale che si occupa dei minori detenuti, a cui sarà fornito un percorso formativo e uno strumento di analisi per aiutare i minori detenuti ad apprendere competenze spendibili nel mercato del lavoro. In questo progetto transdisciplinare cinque partner di cinque Stati membri dell'Unione europea apporteranno un riconosciuto know-how europeo e le migliori pratiche: Centrul de Reeducare Buzias (Romania) G.G. Eurosucces Consulting Ltd (Cyprus Fife Council (United Kingdom), Università degli Studi di Salerno (Italy) e Association Dae (Spain). "La giornata vedrà tre momenti importanti - spiega il professor Paolo Diana - Nella prima parte ci sarà da parte del team di Unisa la presentazione dei risultati della ricerca empirica svolta nei centri di reclusione per minori di Romania, Spagna e Cipro. A questo proposito mi piace ricordare i nomi degli altri membri del gruppo Unisa: il collega Felice Addeo e i dottori di ricerca Maria Carmela Catone e Giuseppina Casale. Il secondo momento è dedicato alle relazioni invitate. Le prime due saranno svolte dal dottor Iosif Csatlos, del Dima National Probation Department, Romania e dal prof. Eric de Léséleuc dell'Institut national supérieur de formation et de recherche pour l'éducation des jeunes handicapés et les enseignements adaptés, Francia. A seguire le relazioni del dott. Gennaro Sammartino, tossicologo medico legale, Asl Salerno, del dott. Claudio Marra di Migrantes, della dottoressa Imma D'esposito del Ceus di Nisida e della dottoressa Gabriella Ambrosino del Ministero della Gisutizia.Nella parte ultima della giornata di disseminazione si terrà una tavola rotonda con i rappresentanti degli Enti, Istituioni e Associazioni che operano sul territorio. A loro un sentito grazie per aver risposto al nostro invito. Sarà certamente un momento fondamentale per condividere i risultati raggiunti", ha aggiunto. E sul futuro, Diana annuncia: "Abbiamo ancora molti mesi davanti e tante le attività di ricerca e formazione che si svolgeranno. Mi piace ricordare che saranno coinvolti: 100 giovani detenuti a cui sarà offerta la formazione all'occupabilità; 20 giovani ex detenuti a cui sarà offerta la mobilità blended appoggiata dai datori di lavoro, che si pone anche a livelli transnazionale e culturale; 140 educatori dai centri/carceri per giovani detenuti da formare per fornire l'istruzione all'occupabilità rivolta giovani detenuti attraverso attività pratiche e di sviluppo di competenze, compresa la mobilità a breve termine. Le prossime tappe ci vedranno impegnati in Spagna, Cipro e Scozia". Per info: www.ila-employability.eu. Rossano Calabro (Cs): rinvenuti 60 grammi di hascisc in un pacco per un detenuto www.cn24tv.it, 23 aprile 2015 In un pacco ad un detenuto del carcere di Rossano, sottoposto al regime di alta sicurezza sono stati stata occultati undici panetti di hascisc, per un totale di 60 grammi. Dalla droga sequestrata avrebbero potuto essere ricavate 330 dosi. La droga era stata occultata, con dei profilattici, all'interno del bagno schiuma, prodotto che non può entrare dall'esterno, ma deve essere acquistato nel magazzino interno del carcere. È stato probabilmente questo l'errore di chi l'ha inviato che ha insospettito la polizia penitenziaria che, dopo aver vuotato il contenuto della bottiglia di bagno schiuma, ha scoperto quello che c'era dentro. Bollate (Mi): Sappe; poliziotta picchiata da una detenuta, dateci lo spray anti-aggressioni La Repubblica, 23 aprile 2015 "È solo grazie alle colleghe, intervenute immediatamente, che si è riusciti a evitare ulteriori complicazioni per l'agente, alla quale sono stati poi prescritti sette giorni di prognosi". A pochi giorni dall'episodio del detenuto che ha aggredito tre appartenenti alla polizia penitenziaria per tentare di evitare il trasferimento nel carcere di Monza, il carcere di Bollate torna al centro della cronaca. Una agente di polizia penitenziaria è stata aggredita e picchiata da una detenuta romena condannata per furto e con fine pena 2017. La notizia è stata resa nota dal sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe. "L'agente aveva chiesto alla detenuta addetta alle pulizie di tornare più tardi per il ritiro di alcuni generi quali bagnoschiuma, sacchetti, visto che il pavimento era bagnato - spiega il segretario generale del Sappe, Donato Capece - ed è stata aggredita: nonostante avesse cercato inizialmente di far ragionare la detenuta circa le sue pretese, ha subito sputi e insulti e poi l'aggressione. È solo grazie alle altre colleghe, intervenute immediatamente, che si è riusciti a evitare ulteriori complicazioni per l'agente, alla quale sono stati poi prescritti sette giorni di prognosi". Il sindacato rinnova al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e ai vertici dell'amministrazione penitenziaria la richiesta "di dotare le donne e gli uomini della polizia penitenziaria di strumenti di tutela efficaci, come può essere lo spray antiaggressione già assegnato, in fase sperimentale, a polizia di Stato e carabinieri. Sono decine e decine le aggressioni subite da poliziotti penitenziari in carcere dall'inizio dell'anno. Cosa si aspetta ad assumere adeguati provvedimenti per garantire la sicurezza e la stessa incolumità fisica degli agenti?". Livorno: domani lo spettacolo "Il Pifferaio Magico" con la Compagnia dei Detenuti www.laprimapagina.it, 23 aprile 2015 È in programma per venerdì 24 aprile presso il Teatro Goldoni di Livorno alle ore 21 la prima dello spettacolo teatrale "Il Pifferaio Magico", regia di Francesca Ricci. Lo spettacolo, liberamente tratto da "Topo dopo Topo" di Bruno Tognolini, è un progetto promosso da Coordinamento Femminile Anpi-Anppia e Arci Solidarietà Livorno con il contributo della Regione Toscana - Progetto "Teatro in carcere" e del Comune di Livorno in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di Livorno. Si tratterà di un video-spettacolo, perché sul palco del Goldoni saliranno complessivamente sei detenuti: quattro saranno sul palco del Goldoni mentre gli altri due reciteranno attraverso delle proiezioni video, che sono state girate nella Casa Circondariale delle Sughere di Livorno. Con questa unione di intenti il carcere entrerà a teatro, così come grazie al laboratorio teatrale il teatro entra in carcere arrivando ai detenuti, in un'esperienza unica che permetterà agli spettatori di entrare nel carcere di Livorno e ai detenuti di uscire dalle celle, per salire sul palco del teatro. Il progetto "Teatro in Carcere" promosso dalla Regione Toscana è attivo da oltre 15 anni ed è curato da Arci Solidarietà Livorno, che organizza dei laboratori settimanali di teatro, all'interno del carcere delle Sughere. Lo spettacolo rielabora la celebre favola del pifferaio magico di Hamelin, in un adattamento tratto da "Topo dopo Topo", opera dello scrittore e poeta Bruno Tognolini. "Ho deciso di attualizzare la storia del pifferaio magico raccontando una favola sociale e politica, dove il messaggio è che la cultura, l'arte, la poesia possono e devono cambiare il corso della storia delle nostre città pervase dal consumismo sfrenato, dal disfacimento e dall'indifferenza - racconta la regista Francesca Ricci, che cura il laboratorio teatrale in carcere - si tratta di un messaggio ancora più potente se pensiamo al contesto del carcere, e all'articolo 27 della Costituzione". Lo spettacolo sarà arricchito anche dai balletti di cinque scuole di danza livornesi, che interpreteranno i temi della favola: Arabesque, Atelier delle Arti, ArteDanza, Ex-it Danza T, Laboratorio di Danza e Movimento. La regista e attrice Alessia Cespuglio interpreterà uno dei personaggi dello spettacolo. Lo spettacolo sarà interpretato dai detenuti della Casa Circondariale di Livorno: Ivo Casalini, Youssef Fathi, Mirko Fantozzi, Bilel Ouni, Daniel Tedesco, Daniele Testagrossa, con la partecipazione di Alessio Traversi e la collaborazione di Antonella Marcianò. Lo spettacolo è gratuito e i posti sono numerati. Per prenotare i biglietti: 0586-204327. I biglietti possono essere ritirati ogni giorno dalle 17 alle 20, oppure la sera stessa dello spettacolo. Libri: "Abolire il carcere", per una società più sicura di Silvana Mazzocchi La Repubblica, 23 aprile 2015 Il carcere non riabilita, esclude, emargina e riproduce delitti. Sbarre e celle costringono i detenuti in spazi estranei e angusti dove cambia la percezione dello spazio e del tempo e, soprattutto, non garantisce la sicurezza dei cittadini. Il carcere annienta, non salva e, dunque, deve perdere la sua centralità. Luigi Manconi, parlamentare e fondatore di Buon Diritto, associazione per la libertà, ricorda in questa intervista che, fra coloro che escono dopo aver scontato la pena, ben il 68% torna a delinquere; una percentuale assai maggiore di quella che si registra tra chi ha beneficiato delle misure alternative o ha pagato con sanzioni diverse dalla reclusione. E allora, come intervenire per spezzare quella logica che affolla i penitenziari italiani all'inverosimile, ma non produce un calo di criminalità né mette al sicuro i cittadini? Un libro, Abolire il carcere (Chiarelettere), tenta una risposta e avanza un decalogo di proposte per cambiare un sistema che si rivela addirittura dannoso e che, secondo le parole pronunciate nel 2013 dall'allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano, si configura come "una realtà non giustificabile in nome della sicurezza". Firmato da Luigi Manconi, da Stefano Anastasia, ricercatore di Filosofia del diritto, da Valentina Calderone, direttrice di buon Diritto e da Federica Resta, avvocata impegnata nel settore, Abolire il carcere illustra una serie riforme "ragionate e possibili" per cambiare: fra queste, la differenziazione delle pene, la depenalizzazione per i reati meno gravi, l'abolizione dell'ergastolo, l'applicazione di misure alternative a largo raggio, le sanzioni pecuniarie, l'esclusione dei minori dal carcere e la concessione dei domiciliari alle detenute con figli fino ai 10 anni. "Il carcere è un lungo e minuzioso processo di spoliazione, dal primo ingresso fino al momento dell'uscita (se uscita vi sarà).", sottolinea Manconi. E ammonisce Gustavo Zagrebelsky nella sua postfazione: "Diciamo che il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una società che prende le distanze dall'idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare la frattura?". Luigi Manconi, come conciliare l'abolizione del carcere con la sicurezza dei cittadini? Il vero problema è che il carcere non garantisce affatto la sicurezza dei cittadini. É vero l'esatto contrario: contribuisce in maniera rilevantissima alla insicurezza collettiva. Le statistiche dimostrano, infatti, che chi ha scontato la pena in carcere torna a delinquere nel 68% dei casi: e con una frequenza assai maggiore rispetto a chi invece abbia beneficiato di misure alternative o comunque di sanzioni diverse dalla reclusione. Il carcere, dunque, non solo non è utile ma è addirittura dannoso per la sicurezza dei cittadini, che ne viene "più insidiata che garantita", come scrisse Giorgio Napolitano nel 2013, nel messaggio alle Camere, affermando espressamente che il carcere è una "realtà non giustificabile in nome della sicurezza". Per garantire davvero la sicurezza dei cittadini la risposta al reato deve essere totalmente diversa e, soprattutto, differenziata: non una pena, la stessa per tutti e la più inutile (come il carcere oggi), ma la più appropriata per ogni reato e ogni soggetto. Così, le sanzioni patrimoniali (multa, confisca, ecc.) saranno molto più efficaci, perché più dissuasive, per tutta l'area della criminalità economica e "da colletti bianchi", in quanto capaci - ben più del carcere - di annullare i vantaggi derivanti dal reato. Per altro verso, un ampio ricorso al risarcimento e a prestazioni riparative in favore della vittima consentirebbe di tutelarne i diritti ben più di quanto lo permetta l'attuale sistema penale. Tali prestazioni dovrebbero poi essere il presupposto per la composizione del conflitto attraverso la mediazione penale, che sta dando, in molti Paesi europei, ottimi risultati anche in termini di prevenzione della recidiva. Ampia dovrebbe essere poi l'utilizzazione di sanzioni "di comunità", ovvero di prestazioni lavorative e attività riparatorie in favore della collettività, che realizzano, meglio di ogni altra, quel reinserimento sociale cui la pena deve tendere secondo Costituzione e che, prevenendo la recidiva, garantisce davvero la sicurezza dei cittadini. Come si vede già da questa prima disamina, il carcere può perdere la sua centralità e venire sostituito - non solo agevolmente, ma anche assai più efficacemente - da sanzioni diverse dalla detenzione in una cella chiusa. In sintesi le dieci proposte contenute nel libro. Quello che proponiamo è un decalogo per arrivare progressivamente e in modo efficace all'abolizione del carcere: 1) salvo per le violazioni più gravi di diritti e interessi fondamentali, depenalizzare tutto ciò che è possibile; 2) cancellare la "pena di morte occulta" (come Papa Bergoglio ha definito l'ergastolo) e ridurre le pene detentive. 3) diversificare il sistema delle pene, rendendo il carcere un'extrema ratio cui ricorrere solo nei casi di eccezionale gravità; 4) concentrare il processo penale su fatti realmente meritevoli di sanzione, anche attribuendo la capacità di estinguere il reato ad azioni (riparative, risarcitorie, ecc.) prestate dall'imputato in favore della vittima o della collettività; 5) ammettere la custodia cautelare solo in presenza di spiccata pericolosità dell'imputato, imponendo negli altri casi misure non detentive, di natura interdittiva, prescrittiva, pecuniaria; 6) potenziare al massimo le alternative al carcere, così da offrire a ogni detenuto una reale opportunità di reinserimento sociale; 7) garantire i diritti fondamentali dei detenuti e superare il "carcere duro" e i vari circuiti penitenziari differenziati; 8) umanizzare il carcere per quanto riguarda i luoghi e le funzioni che sopravvivranno alla sua abolizione; 9) mai più bimbi e minori in carcere: per questo alle madri di bambini sotto i 10 anni vanno riconosciuti sempre i domiciliari o l'assegnazione a case-famiglia e istituti analoghi; 10) dopo l'effettivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, si deve garantire che nei confronti degli autori di reato affetti da disagio psichico, le misure di sicurezza detentive siano sostituite con altre finalizzate alla riabilitazione e alla cura. La prigione, questa sconosciuta Il carcere è un lungo e minuzioso processo di spoliazione, dal primo ingresso fino al momento dell'uscita (se uscita vi sarà). Il benvenuto te lo danno il freddo-umido o il caldo torrido del cellulare o della portineria. E il rumore metallico delle porte blindate, di cui non ti libererai più, in galera e poi fuori. La prima tappa in matricola, dove vieni letteralmente spogliato e perquisito fino in fondo all'ano, uno dei migliori ripostigli per piccoli, ma ricercati generi stupefacenti. Ora puoi rivestirti, ma non completamente: lacci, collane, oggetti di qualche valore restano lì, in matricola, insieme con i tuoi documenti e i tuoi soldi (se ne avevi). Declinate le generalità puoi andare alla casella successiva: visita medica e colloquio psicologico di primo ingresso. Se hai segni di violenza sul corpo, sarà bene refertarli subito, così che nessuno ne chieda conto, poi, al personale penitenziario. Terminato il colloquio con lo psicologo sei pronto per la tua cella, se c'è un letto libero nei reparti ordinari. Altrimenti te ne stai al transito per un po', insieme con gli altri arrestati, in un camerone generalmente sovraffollato, vociante e lercio quanto solo può essere una cella provvisoria di tutti e di nessuno. La cella, la tua cella, quando ci arrivi, è il confino. Ti ci scortano successioni di poliziotti, che ti si scambiano di sezione in sezione, di piano in piano, come fossi un pacco, tal quale i pochi effetti personali che riesci a portare con te. Alla fine del tour c'è una porta blindata, una grata e un comitato d'accoglienza (i tuoi compagni di cella), con i loro volti, i loro corpi, i loro odori. La cella si chiude e questa è la tua nuova e improbabile famiglia, che non tarderà a farti conoscere le regole della sua casa dentro le regole del condominio penitenziario. La tua vita d'ora in poi, nella maggior parte dei casi, si svolgerà tutta lì. Tra quelle quattro piccole mura circondate da mura più grandi. Con poco o niente da fare tutto il giorni, per tutti i giorni della tua pena. Per questo pensiamo, molto semplicemente, che se si conosce davvero la realtà del carcere, risulti molto difficile augurarsi che altri ne facciano esperienza. Sta tutta qui, forse, la prima e più profonda ragione della nostra volontà di fare a meno dell'istituzione penitenziaria. Immigrazione: e i profughi che fine fanno? di Luigi Manconi Il Manifesto, 23 aprile 2015 Stragi a mare. Con "blocchi navali" e sola "caccia" agli scafisti si cancellano i diritti dei migranti. Raramente era capitato di assistere a un così sfrontato ribaltamento della realtà, quale quello realizzato a partire dalle ore immediatamente successive al naufragio di domenica scorsa. Da quattro giorni, l'intera questione dell'immigrazione è ridotta al suo atto ultimo, abietto e feroce. Ovvero alla responsabilità criminale di quelli che, in un crescendo melodrammatico di retorica, sono chiamati: schiavisti, negrieri, trafficanti di carne umana. E così, tutti si affannano intorno alla dimensione finale della tragedia, perché è la più visibile: quella che concentra la più immediata e diffusa ostilità. E questo consente, infine, di identificare e tracciare il profilo del nuovo nemico assoluto: lo Scafista. Nessuno sembra porsi la domanda cruciale: se pure riuscissimo, d'un colpo solo, a eliminare tutti quei "mercanti di morte", avremo ridotto anche solo di qualche unità il flusso dei migranti? Avremo limitato il numero delle vittime? Avremo garantito una maggiore sicurezza a quelle disgraziate aree del mondo? La mia risposta a questi interrogativi è un no secco. Respingere i movimenti di esseri umani al di là del Mediterraneo, "bombardando i barconi" o "sparando sugli scafisti" o attuando un "blocco navale" avrebbe il solo effetto di allontanare le vittime dal nostro sguardo. E di rimuoverle dalla nostra esperienza individuale e collettiva. Probabilmente un sollievo per il nostro senso estetico, non più offeso da tanto orrore, e per la nostra buona coscienza, non più turbata da uno spettacolo così crudele: ma nessun vantaggio per la stabilità dell'Africa e del Medio Oriente e nemmeno per il livello di civiltà giuridica delle nostre democrazie e per la dignità della nostra identità europea. Direi, infatti, che morire nel deserto invece che nel Mediterraneo non rappresenta un passo avanti né sotto il profilo umanitario né sotto quello del controllo dei movimenti migratori e nemmeno sotto quello della normalizzazione dei rapporti con paesi così vicini alle nostre coste. Eppure, questa elementare e inconfutabile verità sembra sfuggire a tanti, a partire dal presidente del Consiglio e dal Ministro dell'Interno. E così, quegli oltre 800 morti hanno prodotto il paradossale effetto di cancellare tutte le cause, lontane e vicine, le motivazioni antiche così come quelle congiunturali, che inducono milioni di persone a fuggire dal proprio paese d'origine. Tutto ciò sembra rimosso e l'intero discorso pubblico si focalizza sulle strategie di controllo e repressione della macchina criminale che trasforma una gigantesca tragedia umana in un affare economico. Ora, reprimere il traffico di esseri umani è un'azione necessaria e indifferibile, da attuare con la massima severità, ma che rischia di rivelarsi clamorosamente insufficiente. Che ne sarebbe, infatti, di quelle centinaia di migliaia di persone che si rivolgono ai trafficanti per trovare una via di fuga e un'opportunità di vita, se non adottassimo strategie legali e sicure per garantire loro una via di salvezza? Quelle strategie legali e sicure sono alla nostra portata. Difficili, difficilissime, ostacolate da massicce resistenze politiche, e tuttavia le uniche ragionevoli, concrete e praticabili. Innanzitutto va ripristinata, e nel più breve tempo possibile, la missione Mare Nostrum, con quelle stesse responsabilità e con quelle stesse competenze, come iniziativa di dimensione europea; e, dunque, con il coinvolgimento - in risorse economiche, uomini e mezzi - di tutti i paesi membri. Un'operazione che, come quella svolta in precedenza dalla Marina italiana, dovrebbe perseguire tre compiti essenziali: interventi di soccorso e salvataggio; azioni di filtro sanitario e di sicurezza, realizzate già a bordo; misure di contrasto del traffico di esseri umani, a partire dal sequestro delle navi madre, dalla distruzione dei barconi intercettati. È necessario, inoltre, rimuovere tutti gli ostacoli di natura esclusivamente politica che impediscono all'Europa di garantire protezione ai profughi, senza che questi siano costretti a rischiare la vita nel Mediterraneo e a ricorrere ai trafficanti di morte. In altre parole si deve realizzare, in tempi rapidi, un piano di "ammissione umanitaria", che preveda l'anticipazione della richiesta di asilo già nei paesi in cui si addensano e transitano i flussi migratori. Si tratta di istituire in quei paesi - laddove è possibile e dove già qualcosa in questo senso è in atto come in Giordania, Libano, Egitto e nel Maghreb - un sistema di presidi realizzato dalla rete diplomatico consolare dei paesi dell'Unione e del Servizio europeo per l'azione esterna, insieme a Unhcr e alle altre organizzazioni umanitarie internazionali. Qui i profughi potrebbero essere accolti temporaneamente per poi essere trasferiti con mezzi legali e sicuri nel paese europeo in cui chiedono asilo, secondo quote di accoglienza concordate tra gli stati membri. Un piano da affiancare e combinare ad altre proposte allo stesso modo concrete e praticabili, quali il reinsediamento, l'ingresso protetto e i corridoi umanitari. Tutto ciò è terribilmente arduo e richiede una vera e propria lotta politica a livello europeo. Ma è la sola alternativa a un'ecatombe senza fine. Immigrazione: l'ipocrisia costituente dell'Europa di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 23 aprile 2015 Migranti. La repellente condotta di Bruxelles suona come la giustificazione preventiva di un intervento militare in Libia, o in prossimità delle sue coste, travestito da azione umanitaria. C'è una terribile ipocrisia in giro per l'Europa e ovviamente in Italia. È quella dei governi che oggi tuonano contro gli scafisti da "bombardare" e i "mercanti di schiavi". Un'ipocrisia tanto più repellente, quanto più suona come la giustificazione preventiva di un intervento militare in Libia, o in prossimità delle sue coste, travestito da azione umanitaria. D'altra parte, l'ipocrisia è la norma italiana in queste materie. Un anno fa, il governo Renzi vantava il successo di Triton, "a costo zero", come ripeteva gioiosamente Alfano. Oggi lo stesso ministro, dopo l'immane strage in mare, dichiara l'inadeguatezza dell'operazione. Con ministri del genere c'è sempre da aspettarsi il peggio. Intendiamoci. Le organizzazioni di scafisti esistono, così come esiste una vasta documentazione degli atti di pirateria: natanti abbandonati alla deriva, migranti gettati in mare, violenze di ogni tipo. Ma prendere esclusivamente di mira i "mercanti di schiavi" significa sia falsificare agli occhi dell'opinione pubblica la natura delle migrazioni, sia gettare le premesse di nuove sciagure. Infatti, gli scafisti non fanno che lucrare sulla domanda di mobilità dei migranti. Mobilità nel senso di fuga dalla guerra, di ricerca di opportunità o semplicemente di sopravvivenza. Finora l'Europa ha ignorato le migrazioni, pensando forse che un limitato numero di morti garantisse la propria tranquillità o meglio la propria abulia burocratica. Ora, di fronte alla dimensione di queste tragedie, si inventa la guerra agli "schiavisti" e il "bombardamento e/o distruzione dei barconi", criminalizzando così, insieme a loro, anche le vittime. L'ipocrisia dilaga anche quando si vorrebbero distinguere i rifugiati dai migranti, come se, oggi, povertà e guerra non fossero realtà strettamente implicate. Si fugge da paesi devastati dalla guerra e dall'impoverimento causato dalla guerra, da paesi distrutti da stolti interventi occidentali o al centro di inestricabili grovigli geopolitici. Si fugge dall'Isis, ma anche dai droni, da Assad e dai suoi nemici, dal deserto e dalle steppe in cui scorrazzano milizie di ogni tipo. Si fugge da città invivibili e da un'indigenza resa ancora più insopportabile dal dilagare di nuove tecnologie che mostrano com'è, o finge di essere, il nostro mondo. Si fugge in Giordania, in Turchia e anche in Europa. Non c'è forse ipocrisia peggiore di quella che lamenta senza soste un'invasione dei nostri paesi, quando invece l'Europa si mostra il continente più chiuso e ottuso di fronte alla tragedia umana e sociale delle migrazioni. Pensare di cavarsela mandando i droni a bombardare i barconi è un'idea folle, che può venire solo ai poliziotti finiti a dirigere Frontex, l'agenzia europea che ha messo in piedi Triton, con l'obiettivo di tenere lontani i migranti, infischiandosi degli annegamenti. Come distinguere i barconi vuoti da quelli pieni, i pescherecci o i piccoli mercantili dalle carrette della morte? Tutto il mondo sa che i droni di Obama polverizzano soprattutto i civili in Afghanistan. Potete immaginare un drone capace di distinguere, in un porto della Libia, tra scafisti e pescatori? A meno che, naturalmente, tutta questa enfasi guerresca, bagnata da lacrime di coccodrillo per le vittime degli schiavisti, non sia al servizio di un'ipotesi strategica molto più prosaica e molto meno umanitaria. Un'Europa politicamente acefala, guidata da una Germania bottegaia, pensa forse di "risolvere" la questione delle migrazioni con un cordone sanitario di navi militari e magari di campi di internamento in Libia e nei paesi limitrofi? Tutto fa pensare di sì. Ma se fosse così, non si tratterebbe che di una guerra ai migranti travestita, di un umanitarismo peloso, di un neo-colonialismo mirante a tenere alla larga i poveri da un occidente in cui dilagano pulsioni xenofobe. Se fosse così, altre immani tragedie si annunciano. Immigrazione: per l'Europa è l'ultima chiamata di Khalid Chaouki Il Garantista, 23 aprile 2015 Tra le molte cose che sono state dette in questi giorni sul terribile naufragio che domenica ha portato allo spaventoso bilancio di 900 morti, una delle più sensate e intelligenti proviene da monsignor Giancarlo Perego, direttore della fondazione Migrantes. Intervistato da una radio sulla scellerata ipotesi di un mandato internazionale per affondare le barche degli scafisti Perego ha commentato: "Parole come affondare, distruggere, respingere, senza che siano accompagnate da parole come tutelare, salvare, accogliere, non hanno prospettiva". Mi sembrano parole sagge, pronunciate da un uomo che da anni lavora con migranti e profughi, parole di chi riesce ancora a vedere i volti prima dei numeri, a dare più peso alle storie di chi parte che alle dichiarazioni di chi cerca di racimolare un po' di consenso facendo leva sulla paura atavica del diverso. Solo il 16 aprile alla Camera è stata votata e approvata una proposta di legge per istituire il giorno della memoria per le vittime dell'immigrazione, l'abbiamo approvata proprio a partire dalla tragedia del 3 ottobre 2013 a Lampedusa. La storia tragicamente si ripete e purtroppo siamo ancora costretti a fare tragici bilanci; serve subito un piano sociale europeo serio, che coinvolga i Paesi di arrivo dei profughi e migranti e che collabori con la cooperazione locale. Se si vuole fermare il fenomeno dei tragici naufragi nel Mediterraneo dobbiamo imparare ad accogliere, perché il flusso di profughi siriani di certo non si arresterà, perciò dobbiamo imparare ad organizzarlo. Frangois Crépeau, consulente delle Nazioni Unite sui diritti dei migranti al Guardian invoca "un progetto globale che includa tutti i paesi del nord del mondo. Questi paesi dovrebbero offrirsi per accogliere i rifugiati in base al loro reddito pro capite e alla densità abitativa". Non possiamo più abituarci alla vista di quei corpi senza vita che galleggiano nel mare, sono persone disperate costrette a scappare dalla guerra, cercare la salvezza anche a costo di rimetterci la vita per darsi una chance, per immaginarsi un'esistenza migliore, lontana da persecuzioni e dittature. Nella lotta per affermare la propria dignità di esseri umani ha vinto il mare. E l'inadeguatezza delle politiche di gestione dei flussi migratori della Fortezza Europa. Come può il nostro continente, nato sulle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, figlio di dolorosi e numerosi lutti, non riconoscere appieno ciò che sta scritto nella Convenzione dei diritti dell'uomo sulla tutela della sopravvivenza delle persone in fuga da guerre, persecuzioni e carestie? L'Europa oggi non può più ragionare solo in termini di sicurezza delle frontiere, c'è in ballo la salvaguardia di migliaia di vite umane. E non può nemmeno continuare a lasciare sola l'Italia, ponte naturale verso l'occidente, abbandonata in questi ultimi anni nella gestione dei flussi migratori. La nostra è un'Europa che deve assolutamente rivedere il regolamento di Dublino III per consentire la libera circolazione dei richiedenti asilo e deve potenziare il soccorso in mare, riportandolo ai livelli che l'Italia aveva garantito fino a novembre 2014 con l'operazione Mare Nostrum. Ma non è solo il potenziamento del soccorso la risposta; nuove misure e provvedimenti dovrebbero, infatti, rendere il salvataggio non necessario. Oggi è urgente offrire ai rifugiati delle alternative concrete rispetto a quella di mettere la loro vita nelle mani di scafisti e trafficanti; aprire campi di assistenza ai profughi nei Paesi di transito, promuovere misure di ingresso protetto, creare programmi di reinserimento, attivare canali umanitari e, prima di tutto, smettere di demonizzare queste donne e uomini oppressi da guerre e dittature. L'Unione Europea ha ancora un'ultima possibilità per recuperare un minimo di credibilità e guadagnarsi rispetto tra i popoli del mondo. Spero sia la volta buona. Immigrazione: lettera aperta all'Unione europea Il Manifesto, 23 aprile 2015 Otto proposte per affrontare i crimini e la strage nel Mediterraneo. Oltre 900 morti nel Mediterraneo nella notte tra sabato 18 aprile e domenica, a 60 miglia dalle coste libiche. È il più grande sterminio in mare dal dopoguerra. Questo è un giorno di svolta. A partire da oggi occorre mettere la parola "urgenza"‚ al posto di "emergenza". Bisogna dare alla realtà il nome che merita: siamo di fronte a crimini di guerra e sterminio in tempo di pace. Il crimine non è episodico ma sistemico, e va messo sullo stesso piano delle guerre e delle carestie acute e prolungate. Il Mar Mediterraneo non smette di riempirsi di morti: cominciò con il naufragio di Porto Palo, il giorno di Natale del 1996, con 283 vittime, seguito tre mesi più tardi dal naufragio della Katër i Radës, in cui oltre cento profughi albanesi annegarono nel canale di Otranto. Lo sterminio dura da almeno 18 anni: più delle due guerre mondiali messe insieme, più della guerra in Vietnam. Le azioni di massima urgenza che vanno intraprese devono essere, tutte, all'altezza di questo crimine, e della memoria del mancato soccorso nella prima parte del secolo scorso. Non sono all'altezza le missioni diplomatiche o militari in Libia, dove - anche per colpa dell'Unione, dei suoi governi, degli Stati Uniti - non c'è più interlocutore statale. Ancor meno lo sono i blocchi navali, gli aiuti alle dittature da cui scappano i richiedenti asilo, il silenzio sulla vasta destabilizzazione nel Mediterraneo - dalla Siria e l'Iraq alla Palestina, dall'Egitto al Marocco- di cui l'Occidente è responsabile da anni. Le azioni necessarie nell'immediato, eccole Urge togliere alle mafie e ai trafficanti il monopolio sulle vite e le morti dei fuggitivi, e di conseguenza predisporre vie legali di fuga presidiate dall'Ue dall'Onu. I trafficanti non sono la radice del male, ma un suo sintomo. Urge organizzare e finanziare interventi di ricerca e salvataggio non solo lungo le coste europee ma anche in alto mare, come faceva Mare Nostrum e come ha l'ordine di non fare Triton - anche se rifinanziata. Questo, nella consapevolezza che la stabilizzazione del caos libico non è ottenibile nel breve-medio periodo. Urge che gli Stati europei collaborino lealmente a tale scopo (art. 4 del Trattato dell'Unione), smentendo quanto dichiarato da Natasha Bertaud, portavoce della Commissione di Bruxelles: "Al momento attuale, la Commissione non ha né il denaro né l'appoggio politico per predisporre un sistema di tutela delle frontiere, capace di impegnarsi in operazioni di search and rescue". Risorse che invece si trovano per operazioni di polizia europea (Mos Maiorum, Amber Light, Jot Mare) e per le spese militari. Una frase che ha il cupo suono dell'omissione di soccorso: un reato contro la persona, nei nostri ordinamenti giuridici. Occorre che l'Onu stessa decida azioni d'urgenza, e che il Consiglio di sicurezza fronteggi il dramma con una risoluzione. Se i crimini in mare somigliano a una guerra o a carestie nate dal tracollo diffuso di strutture statali nei paesi di transito o di origine, non vanno esclusi interventi dei caschi blu, addestrati per il search and rescue. I soccorsi e gli aiuti agli affamati e sfollati sono una prassi sperimentata delle Nazioni Unite. Sia oggi applicata al Mediterraneo. Occorre rivedere al più presto i regolamenti di Dublino. Con la medesima tempestività, occorre tener conto che i paesi più esposti ai flussi migratori sono oggi quelli del Sud Europa (Grecia, Italia, Cipro, Malta, Spagna): gli stessi a esser più colpiti, dopo la crisi iniziata nel 2007-2008, da politiche di drastica riduzione delle spese sociali (che includono l'assistenza e il salvataggio di migranti e richiedenti asilo). Il peso che ingiustamente grava sulle loro spalle va immediatamente alleviato. Occorre pensare a un sistema di accoglienza in Europa che garantisca il diritto fondamentale all'asilo, con prospettive di reinsediamento nei Paesi disponibili, nel rispetto della volontà dei rifugiati. Infine, la questione tempo. È finito il tempo della procrastinazione, e delle ambiguità che essa consente. È dall'ecatombe di Lampedusa che Governi e Parlamenti in Europa preconizzano un'organica cooperazione con i paesi di origine e di transito dei fuggitivi, al fine di "esternalizzare" le politiche di search and rescue e di asilo. Il Commissario all'immigrazione Avramopoulos ha addirittura auspicato una "cooperazione con le dittature", dunque il ricorso ai respingimenti collettivi (vietati dalla Convenzione di Ginevra sullo statuto dei Rifugiati del 1951, art. 33, e dagli articoli 18 e 19 della Carta europea dei diritti fondamentali). Non c'è tempo per costruire dubbie relazioni diplomatiche - nei cosiddetti processi di Rabat e Khartoum - perché i fuggitivi sono in mare qui e ora, e qui e ora vanno salvati: dalla morte e dalle mafie che fanno soldi sulla loro pelle e riempiono un vuoto di legalità che l'Unione deve colmare senza più rinvii. È adesso, subito, che bisogna organizzare un'operazione di salvataggio dell'umanità in fuga verso l'Europa. Primi firmatari: Barbara Spinelli, Alessandra Ballerini, Sandra Bonsanti, Lorenza Carlassare, Erri De Luca, Roberta De Monticelli, Maurizio Ferraris, Stefano Galieni,Mauro Gallegati, Domenico Gallo, Paul Ginsborg, Daniela Padoan, Francesco Piobbichi, Marta Pirozzi, Annamaria Rivera, Alberto Vannucci, Fulvio Vassallo Paleologo, Guido Viale, Gustavo Zagrebelsky. Medio Oriente: appello liberazione di Marwan Barghouthy e dei prigionieri palestinesi Dire, 23 aprile 2015 Un appello per la liberazione di Marwan Barghouthy e dei prigionieri palestinesi: lo rivolgono i parlamentari dell'intergruppo per la Palestina, insieme a Luisa Morgantini, presidente di Assopace Palestina, Mai Al Kaila, ambasciatrice palestinese in Italia e Vincenzo Vita del Pd ai parlamentari italiani. Oggi la conferenza stampa di presentazione dell'iniziativa, con Marietta Tidei, Enza Bruno Bossio, Filippo Fossati del Pd, Michele Piras di Sel. "Vogliamo che sulla questione palestinese non si spengano i riflettori. Perché questa purtroppo è una questione di cui si parla solo quando piovono le bombe", premette Tidei. E aggiunge: "Più di 6500 palestinesi sono prigionieri delle carceri israeliane, molti anche i bambini. Abbiamo scelto la campagna per la liberazione di Marwan Barghouti come campagna simbolica per tutti i prigionieri palestinesi. E poi perché lui crede fortemente nella soluzione "due popoli due stati". Liberare Barghouti significa liberare un uomo che lotta per la pace. Come Mandela". L'ambasciatrice Mai Al-Kaila spiega che "dal 1967 i palestinesi transitati per le carceri israeliane hanno superato le 850mila unità. Più del 25 per cento del popolo palestinese. Dei 6.500 detenuti di oggi, 480 scontano l'ergastolo, 24 sono donne, 200 i minorenni, 480 detenuti i amministrativi. Tra i prigionieri ci sono 17 deputati, più 2 ex ministri". I sostenitori dell'appello chiedono che i parlamentari abbiano "l'immunità come tutti i deputati del mondo. Israele - dice Al Kaila- non ha mai rispettato nè le leggi internazionali, nè le convenzioni. Chiediamo alla comunità internazionale un'azione forte per liberare questi leader. Ci auguriamo che i parlamentari italiani intervengano rapidamente per chiedere la liberazione dei colleghi palestinesi". Al-Kaila denuncia "le torture psicologiche, fisiche e anche le aggressioni sessuali nelle carceri israeliane. Dal 1967 i deceduti sono stati 206, 73 dei quali uccisi a seguito di tortura". Enza Bruno Bossio sottolinea "che in Palestina c'è veramente l'apartheid e questo non va dimenticato. Oltre alla guerra, c'è il vissuto quotidiano di ragazzini che vengono arrestati. Siccome Israele è uno stato democratico, è davvero singolare che questi palestinesi siano stati puniti senza garanzie democratiche. Noi ci battiamo per il riconoscimento dello stato palestinese. Le parole di Mandela sono fondamentali: la Palestina è l'emblema del martirio moderno". Uzbekistan: torture di Stato con la benedizione dell'Europa di Damiano Aliprandi Il Garantista, 23 aprile 2015 In Uzbekistan la tortura è protetta dall'Europa, in particolare dalla Germania, e dagli Usa. A denunciare ciò è Amnesty International tramite un rapporto diffuso la scorsa settimana: ha accusato Usa, Germania e altri paesi dell'Unione europea che continuano a ignorare la tortura dilagante in Uzbekistan e quindi di permettere che orrendi abusi si perpetuino indisturbati. Il rapporto di Amnesty International, intitolato "Segreti e Bugie: confessioni forzate sotto tortura in Uzbekistan", rivela come la tortura e i maltrattamenti sistematici abbiano un ruolo centrale nel sistema giudiziario dell'Uzbekistan e nelle misure repressive del governo nei confronti di ogni gruppo percepito come minaccia alla sicurezza nazionale. Secondo Amnesty International, la polizia e le forze di sicurezza ricorrono con frequenza alla tortura per estorcere confessioni, intimidire intere famiglie od ottenere tangenti. John Dalhuisen, direttore del programma Europa e Asia centrale di Amnesty International, ha dichiarato: "In Uzbekistan, non è un mistero che chiunque non ricada nei favori delle autorità possa essere arrestato e torturato. Nessuno si sottrae alla morsa dello stato. È vergognoso che molti governi, incluso quello degli Usa, chiudano gli occhi di fronte al dilagare della tortura, probabilmente per paura di turbare un alleato nella guerra al terrore. Altri governi, come la Germania, sembrano essere più preoccupati di portare avanti gli interessi economici che di sollevare l'argomento". A ridosso del maggio 2015, decimo anniversario dell'uccisione di massa di centinaia di oppositori ad Andijan, il rapporto di Amnesty International evidenzia come Usa e stati membri dell'Ue, inclusa la Germania, abbiano segretamente posto la sicurezza e gli interessi politici, militari ed economici davanti ad ogni significativa azione per persuadere le autorità uzbeke a rispettare a pieno i diritti umani e fermare la tortura. Le sanzioni imposte dall'Europa all'Uzbekistan dopo il massacro del 2005 ad Andijan sono state annullate nel 2008 e nel 2009, con la revoca del divieto di viaggio e la ripresa della vendita di armi, nonostante nessuno sia stato punito per quelle uccisioni. L'ultima volta che i ministri degli Affari esteri dell'Ue si sono occupati della situazione dei diritti umani in Uzbekistan risale all'ottobre 2010. La Germania in particolare ha stretti legami militari con l'Uzbekistan. Nel novembre 2014, ha ottenuto il rinnovo della concessione della base aerea di Termez per aiutare le truppe tedesche in Afghanistan. Il 2 marzo 2015, Germania e Uzbekistan hanno concordato investimenti per 2,8 miliardi di euro e un pacchetto di scambi commerciali. Il governo degli Usa, a sua volta, ha annullato nel gennaio 2012 le limitazioni in tema di aiuti militari all'Uzbekistan originariamente imposte nel 2004 in parte a causa della situazione dei diritti umani nel paese. Quest'anno, le relazioni militari tra i due stati si sono rafforzate in modo significativo con la messa in atto di un nuovo programma quinquennale di cooperazione. Nel dicembre 2014 il vicesegretario di stato statunitense per l'Asia centrale, Nisha Biswal, ha dichiarato che Washington usa la "pazienza strategica" nei rapporti con l'Uzbekistan. "L'atteggiamento dei partner internazionali dell'Uzbekistan verso il suo ricorso abituale alla tortura sembra essere, nel miglior dei casi, ambiguo e, nel peggiore, tollerante fino al punto da risultarne complice. Gli Stati Uniti descrivono le relazioni con l'Uzbekistan come una politica di pazienza strategica, ma sarebbe meglio chiamarla ‘indulgenza strategica. Gli Usa, la Germania e l'Ue dovrebbero immediatamente chiedere all'Uzbekistan di far luce sulle sue azioni e fermare la tortura", ha sottolineato John Dalhuisen. "Il divieto internazionale di tortura è assoluto e immediato. Tuttavia, mentre Germania e Stati Uniti rafforzano i legami con l'Uzbekistan, in questo paese le persone sono arrestate dalla polizia, torturate fino a rendere confessioni false e sottoposte a processi iniqui. Continuando a fare affidamento sulle confessioni forzate, l'Uzbekistan rimarrà un partner screditato" ha commentato sempre Dalhuisen di Amnesty. Il rapporto di Amnesty International, basato su più di 60 interviste condotte tra il 2013 e il 2015 e da prove raccolte in 23 anni, rivela l'esistenza di camere di tortura con pareti rivestite di gomma e isolate acusticamente a disposizione dal Servizio di sicurezza nazionale (Snb, la polizia segreta dell'Uzbekistan) e documenta il continuo uso di celle di tortura sotterranee nelle stazioni di polizia. Polizia e agenti dell'Snb impiegano tecniche brutali, tra cui soffocamento, stupro, scosse elettriche, esposizione a temperature estreme, privazione di sonno, cibo e acqua. Il rapporto descrive anche pestaggi prolungati da parte di gruppi di persone, inclusi altri detenuti. Una nuova testimonianza ricevuta da Amnesty International segnala l'impiego istituzionalizzato della tortura e dei maltrattamenti per estorcere confessioni e prove incriminanti su altri sospettati. Gli imputati sono spesso processati sulla base di prove estorte con la tortura. I giudici chiedono tangenti in cambio di sentenze clementi e la polizia e gli agenti dell'Snb minacciano o usano la tortura per ottenere elevate tangenti dalle persone arrestate o condannate. Amnesty International chiede al presidente Islam Karimov di condannare pubblicamente il ricorso alla tortura. Le autorità dovrebbero inoltre istituire un sistema indipendente di ispezioni nei centri di detenzione e assicurare che confessioni e ulteriori prove ottenute con la tortura non siano mai usate in giudizio. Dopo quelli su Messico, Nigeria e Filippine, questo è il quarto di una serie di rapporti realizzati nell'ambito della campagna globale di Amnesty International "Stop alla tortura", lanciata nel maggio 2014.