"Congelati" i trasferimenti dall'Alta Sicurezza di Padova Il Mattino di Padova, 20 aprile 2015 È sempre una dimostrazione di intelligenza e di sensibilità rivedere una decisione presa, se ti convinci che quella decisione era sbagliata, o magari frettolosa. La scorsa settimana abbiamo parlato della chiusura delle sezioni di Alta Sicurezza a Padova, erano già pronti i trasferimenti, poi su sollecitazione di molte realtà del volontariato, cooperative, operatori, scuola e Università, e del nostro giornale, Ristretti Orizzonti, il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria ha fermato i trasferimenti e sta riprendendo in considerazione la situazione di ogni persona detenuta. La speranza ora è che tante di quelle persone, che a Padova hanno trovato una carcerazione un po' più sensata, delle attività, lo stimolo a cambiare, a uscire davvero da logiche criminali, siano "declassificate", cioè non considerate più quello che erano venti o trent'anni fa, ma ammesse a un percorso più civile nelle sezioni comuni. E non trasferite sempre come pacchi umani senza dignità. Il trasferimento "dignitoso" del carcerato A volte uso il termine "deportazioni" quando parlo della probabile chiusura della sezione AS1 dove attualmente mi trovo. A qualcuno sembra un po' forte questa espressione, ma, di fatto, le due cose si somigliano. Dopo anni trascorsi in un istituto dove si è seguito un percorso con molto impegno e sacrificio, all'improvviso si viene "avvisati". A gruppi di persone, 5, 10, 15, in poche ore si devono preparare gli "effetti personali" poiché si sarà trasferiti in altro istituto. Gli indumenti da portare con sé devono essere limitati allo stretto necessario, tutto il resto verrà imballato in modo sbrigativo e inviato al nuovo indirizzo, con buona probabilità che molti degli effetti personali lasciati in cella verranno smarriti. Questi trasferimenti avvengono prevalentemente a notte inoltrata e, dopo avere eseguito alcune "formalità di rito" (consegna oggetti valori e visita medica), si viene ammanettati a mani incrociate. Dopo un'attenta chiusura delle manette ci viene chiesto di prendere i nostri sacchi, cosa per niente facile, visto il totale blocco degli arti. In quei momenti il nostro auspicio è che il "viaggio" per la nuova destinazione sia il più breve possibile, poiché quelle condizioni d'immobilità permangono per tutto il tragitto e questo a volte dura un paio di giorni, richiusi dentro le cellette soffocanti (meno dì un metro quadrato) del furgone blindato. I bisogni fisiologici sono comunicati al capo scorta, il quale poi deciderà quando e se fermarsi in un autogrill e qualora decide di no, è fornito al detenuto un contenitore dove depositare. Se si ha la fortuna di essere trasferiti da soli, il viaggio dura meno, ma quando avviene uno "sfollamento", come ho detto prima, i trasferimenti avvengono in gruppi e quindi i viaggi diventano dei veri e propri calvari, poiché ci fanno girare e sostare per essere smistati nei vari luoghi di assegnazione. Il risultato di tutto questo è che nel momento in cui si mette il naso fuori dalle mura del carcere, non si riesce ad intravedere nulla, proprio per la struttura delle cellette che non permettono nessun movimento. Così lo stress diventa insopportabile, in una situazione che ti porta a realizzare, in quel momento, la tua impotenza nell'avere la disponibilità del tuo corpo e della tua mente. È l'annullamento totale della persona! Si verifica così che l'ultimo detenuto arriva a destinazione, a tre giorni dalla partenza, in condizioni di totale stress psicofisico, a parte le condizioni igieniche che lascio immaginare, visti i giorni trascorsi nel furgone e le notti in celle di transito dove regna sovrana e costante ogni forma di sporcizia e degrado. Giunti a destinazione la prima attenzione riservata al detenuto non è quella di chiedergli come sta e se ha bisogno di qualcosa, ma di farlo entrare in una cella, una di quelle prima descritte, denudarsi totalmente per essere perquisito, compresa una bella flessione, ovvero un flettersi sulle ginocchia, che solitamente non soddisfa la richiesta poiché si è al limite delle forze. Dopo questa ennesima "formalità" si è lasciati per molte ore nella cella per essere poi trasferiti in una nuova sezione e ripartire da zero in attesa che arrivi la prossima "deportazione". Gaetano Fiandaca - (Casa di reclusione Padova, Corso di Scrittura Lettura Ascolto) Lo status di detenuto di Alta Sicurezza mette a rischio continuo di trasferimenti Il trasferimento del detenuto da un carcere all'altro viene fatto per "gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze dell'istituto, per motivi di giustizia, di salute, di studio e familiari". Con motivi familiari si intende l'avvicinamento del detenuto alla propria famiglia per "rendere possibile il mantenimento di un valido rapporto con i figli, specie in età minore, e a preparare la famiglia, gli ambienti prossimi di vita e il soggetto stesso al rientro nel contesto sociale". Nel gergo amministrativo questo costituisce il cosiddetto "principio della territorialità della pena", e l'Amministrazione penitenziaria si è posto come obiettivo formale quello di accogliere "nella misura più ampia possibile le istanze di trasferimento dei detenuti". Quando ero detenuto, per me la territorialità della pena avrebbe significato essere trasferito a scontare la pena nel mio Paese d'Origine. Questa cosa non mi è mai stata concessa per opposizione della procura generale. In cambio ho sperimentato diversi trasferimenti in giro per il nord Italia. Era fine anni novanta e in Lombardia c'erano continue operazioni antimafia con centinaia di arresti. Le sezioni di Alta Sicurezza erano già sovraffollate. Mi trovavo al carcere di Monza e, dopo la seconda branda in celle da uno, hanno inserito anche il terzo materasso, per terra. Dopo settimane i detenuti stanchi di dormire per terra hanno deciso di protestare, rifiutandosi di rientrare in cella. Per solidarietà ci siamo rifiutati tutti chiedendo di parlare con il direttore. Dopo ripetuti getti di idranti, il freddo della notte l'ha avuta vinta, e abbiamo deciso di rientrare in cella attraversando un lungo corridoio di scudi e manganellate. Dopo qualche giorno sono cominciati i trasferimenti per motivi di sicurezza. I motivi di sicurezza devono essere gravi e comprovati, dice la norma. Non so definire la gravità di un rifiuto collettivo a fare rientro dall'ora d'aria. So soltanto che è stato sufficiente per visitare la Lombardia attraverso le sue galere: Opera, San Vittore, Voghera. Poi alla fine Padova è stata il capolinea. L'esperienza che ho avuto con i trasferimenti, mi permette di affermare oggi che lo status di detenuto di Alta Sicurezza rende qualsiasi condannato vulnerabile ad essere trasferito. In generale si viene separati dal resto della popolazione detenuta per motivi di sicurezza. È vero che la creazione dei "circuiti omogeni" richiama l'esigenza di impedire fenomeni "di reclutamento criminale, di strumentalizzazione a fini di turbamento della sicurezza degli istituti". Tuttavia non è una coincidenza se la norma che organizza il raggruppamento in categorie dei detenuti dice espressamente che "per le assegnazioni sono, inoltre, applicati di norma i criteri di cui al primo e al secondo comma dell'art. 42", il quale, ribadisco, prevede che "i trasferimenti sono disposti per gravi e comprovati motivi di sicurezza". La declinazione immediata di questo intreccio normativo è che la condotta del detenuto non è determinante. Se stai in Alta Sicurezza è per motivi di sicurezza, il che giustifica di per sé ogni trasferimento. Se poi uno decide di protestare, il trasferimento assume ancora di più il suo significato punitivo, e può continuare ad essere esercitato per molto molto tempo. Elton Kalica Giustizia: naufragio a sud della Sicilia, morti tra i 700 e i 900 migranti La Repubblica, 20 aprile 2015 Secondo un sopravvissuto ricoverato in ospedale sul peschereccio affondato c'erano 950 persone, di cui 50 bambini. Stamattina la nave Gregoretti ha sbarcato i cadaveri recuperati in mare a La Valletta. I 28 migranti tratti in salvo diretti verso Catania. Colpo al traffico di esseri umani, 24 arresti: la base era al Cara di Mineo. Proseguono senza sosta le ricerche nel Mediterraneo delle vittime e di eventuali sopravvissuti dell'ultimo terribile naufragio che avrebbe provocato tra 700 e 900 morti nella notte tra sabato e domenica nelle acque libiche. Ventotto le persone salvate. Intorno alle 8 l'arrivo di Nave "Gregoretti" della guardia costiera a Malta per sbarcare le 24 salme, mentre arriveranno a Catania nelle prossime ore i superstiti del barcone affondato al largo della Libia. "Oggi capiremo di più su quanti erano, se effettivamente c'erano tanti bambini a bordo", ha detto la portavoce dell'Unhcr Carlotta Sami ai microfoni di Sky Tg24. Nell'area del naufragio stanno operando 17 mezzi di soccorso nel tentativo di trovare ancora qualche superstite, ma le speranze dei soccorritori sono ormai minime. Nelle prime ricostruzioni si era parlato di 700 morti, ma un superstite del Bangladesh, ricoverato ieri in ospedale a Catania, ascoltato dai magistrati, ha parlato di 950 persone a bordo del barcone affondato. "Sembra una cifra molto alta", si è limitata a commentare Sami, "considerando che si tratta di una barca di una ventina metri, già 700 persone sembra una cifra molto alta. In ogni caso, anche se fossero 700, dall' inizio dell'anno oltre 1650 sono morte nel Mediterraneo". E con l'arrivo del periodo estivo sono numeri che non caleranno, perché "le guerre nel Mediterraneo continuano". Subito dopo lo sbarco delle salme e un controllo medico delle condizioni dei sopravvissuti, la nave Gregoretti dovrebbe ripartire facendo rotta verso Catania. Il nuovo molo di Isla, davanti al porto grande della fortezza de La Valletta, è affollato da centinaia di persone tra forze dell'ordine, militari, medici, giornalisti e troupe televisive. Oltre al personale dell'ospedale maltese Mater Dei in banchina si trovano anche gli operatori di Medici senza frontiere che proprio in questi giorni hanno stretto un accordo con l'ong maltese Moas (Migrant Offshore Aid Station) per prestare soccorso ai migranti nel Canale di Sicilia con una nave medica. E stamattina la polizia ha decapitato un'organizzazione dedita al traffico di esseri umani che aveva la base al Cara di Mineo, il più grande centro di accoglienza della Sicilia finito nel mirino dell'operazione "Mafia capitale" per l'affidamento dei servizi e degli appalti. La banda era composta da vari soggetti accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere, favoreggiamento dell'immigrazione e della permanenza clandestina. La cellula scoperta organizzata in tutta Italia il traffico di persone tra l'Africa e l'Europa, spesso compiacendosi di stipare i barconi fino all'inverosimile per guadagnare di più senza farsi scrupolo del rischio per la vita dei migranti. I provvedimenti sono stati emessi dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo. Le indagini hanno permesso di ricostruire le attività di una articolata organizzazione criminale transazionale - composta da eritrei, etiopi, ivoriani, guineiani e ghanesi - che ha favorito, con notevoli profitti economici, l'immigrazione illegale di centinaia di persone. L'inchiesta ha preso spunto il tragico epilogo del naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa, quando 366 persone persero la vita mentre tentavano di approdare sulla costa dell'isola. Giustizia: il Mediterraneo fossa comune, quei morti pesano sulle nostre coscienze di Roberto Saviano La Repubblica, 20 aprile 2015 Uomini, donne e bambini inghiottiti dall'acqua e ancora più in fretta dall'indifferenza Il dolore per gli affogati bollato come buonismo mentre i rimedi sono solo blocchi e respingimenti. Il mediterraneo trasformato in una fossa comune. Oltre novecento morti. Morti senza storia, morti di nessuno. Scomparsi nel nostro mare e presto cancellati dalle nostre coscienze. È successo ieri, un barcone che si rovescia, i migranti - cioè persone, uomini, donne, bambini - che vengono inghiottiti e diventano fantasmi. Ma sappiamo già che succederà anche domani. E tra una settimana. E tra un mese. Spostando la nostra emozione fino all'indifferenza. Ripeti una notizia tutti i giorni, con le stesse parole, gli stessi toni, anche accorati e dolenti, e avrai ottenuto lo scopo di non farla ascoltare più. Quella storia non avrà attenzione, sembrerà sempre la stessa. Sarà sempre la stessa. "Morti sui barconi". Qualcosa che conta per gli addetti ai lavori, storia per le associazioni, disperazione invisibile. Adesso, proprio adesso, ne stiamo parlando solo perché i morti sono 900 o forse più: cifra smisurata, disumana. Se ha ancora senso questa parola. Continuiamo a non sapere nulla di loro, ma siamo obbligati a fare i conti con la tragedia. Fare i conti: perché sempre e solo di numeri parliamo. Fossero mancati due zeri al bollettino di morte non l'avremmo neppure "sentita". Perché ormai è solo una questione di numeri (o dettagli drammatici come "migranti cristiani spinti in mare da musulmani") che fa la differenza. Non per i singoli individui, non per le sensibilità private, ma per la comunità che dovremmo rappresentare, che dovrebbe rappresentarci. Perché all'indifferenza personale, persino comprensibile, si affianca sul piano politico una gazzarra di dichiarazioni: litigi, accuse, toni violentissimi. Nessuno riesce a fare ciò di cui abbiamo più bisogno: far capire. Pochi si impegnano: Medici senza frontiere con la campagna #milionidipassi cerca di raccontare, evitando di ridurre queste persone al loro problema. Cioè a "profughi, clandestini, extracomunitari": parole che lasciano diluire la specificità umana per farci sentire meno lo spreco infinito dinanzi alla tragedia. Molti politici, anche in questo momento, gridano. Salvini parla di "invasione", quando invece la maggior parte di chi arriva non resta affatto in Italia ma va in Francia, in Germania o nei paesi dell'est. Il M5S che nelle sue proposte aveva aperto un dibattito interessante, purtroppo si è lasciato tentare dallo spostare il baricentro della questione dal "salvare vite" a "l'espulsione", assumendo quella falsa logica per cui più si rende difficile l'entrata clandestina in Italia meno tentativi di raggiungere le nostre coste ci saranno. Non è così, non si salvano vite irrigidendo le frontiere e non solo l'esperienza italiana l'ha mostrato, ma anche quella americana. Basta leggere il libro "La Bestia" di Martinez per comprendere come i flussi clandestini dal Messico agli Usa sono raramente gestibili e non fermabili. Il punto è che il primo obiettivo dovrebbe essere quello: salvare delle vite, prendersene cura. Invece si è riusciti a far diventare questa volontà come ridicola, romantica, naif. Qualunque riflessione sul dolore degli altri, di chi arriva da un "sottomondo", deve essere contenuta. C'è un'economia nella sofferenza. Chi valuta il dolore, chi misura la tragedia umana, chi cerca di svegliare il torpore della conta degli affogati è iscritto di diritto al movimento "buonista". "Buonista" è l'accusa di chi non vuol spender tempo a capire e ha già la soluzione: respingimenti, arresti, blocchi. Un miscuglio di frustrazione personale che cerca il responsabile del proprio disagio, una voglia di considerare realistica e vincente solo la soluzione più autoritaria. La bontà considerata come sentimento ipocrita per definizione. E, cosa assai peggiore, una qualità morale che può avere solo l'uomo perfetto, candido, puro: quindi nessuno se non i morti, la cui vita è trasfigurata e le cui azioni sono già spese. Chiunque cerchi, nella sua umana imperfezione, di agire diversamente è marchiato con un giudizio unico: falso. La bontà diviene quindi sentimento senza cittadinanza, ridicolo, proprio perché non può essere compiuto se non nella rotonda perfezione. Questo è il cinismo miope, che liquida tutto con solerte sarcasmo. Ovvio che razionalmente non è immaginabile una smisurata accoglienza universale, senza regole, ma la strada intrapresa delle mezze concessioni e dai mezzi respingimenti non regge più. Il peso politico che avremmo dovuto avere essendo Stato-cerniera non c'è stato riconosciuto. Dovevamo pretendere di scontrarci sul tema immigrazione con il resto dell'Europa. Dovevamo pretendere di essere ascoltati, senza che "il problema" venisse scaricato su di noi, delegato a noi. La perenne campagna elettorale di Renzi, che sul piano internazionale sembra più voler acquistare una credibilità diplomatica piuttosto che porre e imporre temi, non ci sta aiutando ma ci sembra ingeneroso dare a questo governo ogni responsabilità. L'Europa colpevolmente tace, possiamo però tentare di cambiare le cose. Possiamo impegnarci a interpretare, a raccontare, a non permettere che queste vite siano schiacciate e sprecate in questo modo. Che siano lasciate indietro, tanto indietro da sparire dalla nostra vista. Diventando un fantasma, uno stereotipo, un fastidio. Inventarci percorsi laterali, chiamare a raccolta tutta la creatività possibile. Parlarne in tv e sul web ma in modo diverso: come dicevamo "profugo" o "clandestino" sono termini che diluiscono la specificità umana costruendo una distanza irreale che abbassa il volume all'empatia. Dobbiamo chiedere ai partiti di candidare donne e uomini che vengono da quest'esperienza, aprire loro le università. Tutto questo diminuirà il consenso politico con la solfa del "prima noi e poi loro"? Probabilmente sì, accadrà questo. Ma solo nella prima fase ben presto ci si accorgerà dell'enorme beneficio che avremmo. La storia degli sbarchi e dei flussi di migranti deve diventare un tema che il governo sentirà fondamentale per il suo consenso. Renzi e il suo governo sono solleciti a rispondere quando un tema diventa mediatico e popolare: se percepiscono che il giudizio su di loro sarà determinato dal problema migrazione inizieranno a sparigliare, a trovare nuova strategia ad avere nuovi sguardi. Il semestre italiano in Europa è stato una profonda delusione, in termini di proposte sui flussi dei capitali criminali (era l'occasione per porre il tema del riciclaggio) e in termini di emigrazione. Ma in questo momento inutile rimpiangere il non fatto è necessario che l'Europa decida in maniera diversa. Dare spazio non episodico alle vicende dei migranti. La tv li accolga, cominciando a pronunciare bene i loro nomi e quelli delle loro nazioni, raccontando il loro quotidiano e la loro resistenza. Gli unici che in queste ore rappresentano ciò che l'Europa dovrebbe essere sono gli italiani, i molti italiani che salvano vite tutti i giorni rischiando di violare leggi. La figura che sintetizza questi italiani colmi di onore è descritta dal pescatore Ernesto nel bellissimo film "Terraferma" di Crialese che viola l'ordine della Capitaneria di tenersi con il suo peschereccio lontano da un gommone rispondendo con un semplice, umano e potente: "Io gente in mare non ne ho lassata mai". Giustizia: case famiglia protette per detenute-madri, il ritardo italiano di Marta Caldara www.lettera43.it, 20 aprile 2015 Le strutture devono ospitare i bambini con le madri detenute. Istituite nel 2011, non hanno ancora visto la luce. Questione di costi: servono 400 mila euro l'anno. Si tratta di una misura alternativa al carcere, istituita con la legge n.62 del 2011 con lo scopo di tutelare il bambino e preservare il legame con la madre. Con la cosiddetta casa famiglia protetta, la detenuta ha la possibilità di scontare parte della pena (se non c'è rischio di reiterazione del reato) in un luogo diverso dal carcere e il figlio non è più costretto a vivere dietro le sbarre di una cella. Una misura innovativa, che tuttavia - a quattro anni di distanza - non si è ancora concretizzata. Innanzitutto per problemi di carattere economico. La struttura in questione è fondamentalmente una casa famiglia, con la differenza che esiste un controllo costante da parte delle autorità. La casa inoltre deve essere inserita in un contesto urbano ben preciso: non può essere isolata dai principali servizi socio-sanitari, territoriali e ospedalieri. Può ospitare un massimo di sei nuclei familiari e deve rispecchiare le caratteristiche basilari di una casa, con luoghi separati e servizi; deve esserci un luogo per gli incontri personali (con operatori sociali, psicologi, altri figli e familiari) e uno per far giocare i bambini. Al momento in Italia i bambini con meno di sei anni che si trovano in carcere sono 37. Sedici solo nella casa circondariale femminile di Rebibbia, dove il nido è in sovrannumero (il limite massimo di capienza è di 12 posti). La necessità di istituire una casa famiglia protetta nell'area capitolina è concreta e le promesse sono state molte, ultima quella dell'assessore alle politiche sociali del Comune di Roma Francesca Danese, che l'11 febbraio 2015 dichiarava: "Stiamo già valutando due strutture che potrebbero essere idonee. Inviterò a breve a visitarle la presidente di A Roma Insieme, Gioia Passarelli". Interpellata da Lettera43.it, la diretta interessata ha dichiarato che la sua associazione non è stata ancora invitata ad andare a visitare le strutture che il comune avrebbe individuato per l'istituzione delle case protette (nessuno sa, nello specifico, quali siano queste strutture). "Rimane l'impegno dell'Assessore", dice Passarelli, "e, conoscendola, sono sicura che qualcosa accadrà. Immagino che in questo momento non ci sia molto tempo da dedicare a questo tema (per via dello scandalo di affittopoli, ndr): aspettiamo fiduciosi che le condizioni siano migliori". Una misura diversa dalla casa famiglia protetta, ma non alternativa al carcere, è l'Icam (Istituto a Custodia Attenuata Madri), che è un tipo di prigione meno dura, più simile dal punto di vista del bambino a un asilo, con agenti in borghese e finestre senza sbarre. Ce ne sono ufficialmente tre in Italia, con un progetto di costruirne di nuovi. Nonostante sia un istituto di custodia attenuata, le dinamiche di un ordinamento penitenziario però rimangono. "Si tratta di una struttura di contenimento", spiega a Lettera43.it Mauro Palma, vice capo del Dap (Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria). "Se pensiamo all'Icam di Milano la struttura è veramente come fosse un appartamento e non assomiglia per nulla a un istituto detentivo. Differente invece il caso di Venezia che, pur essendo una bella struttura, è accanto ai nuclei di detenzione femminile". Palma si dice "abbastanza contrario a queste soluzioni che prendono una parte del carcere e la trasformano. Per me l'Icam deve essere in una struttura che garantisca la sicurezza, ma che abbia una connotazione abitativa e non di tipo detentivo. Sono dell'idea che sia preferibile puntare più sulle case famiglia protette". Aggiunge Scandurra, ricercatore per Osservatorio Antigone: "L'Icam rimane un carcere con alcune caratteristiche ineludibili. La vita è dentro un piccolo appartamento ma chiuso da sbarre. E questo immagino sia di grande impatto per chiunque, anche per un bambino. Inoltre è una vita molto costretta, legata sempre alle stesse persone, sempre agli stessi agenti e ai pochi altri bambini". I costi: fino a 400mila euro all'anno per ogni struttura "Per la casa famiglia protetta", continua Mauro Palma, "si sta lavorando con le associazioni e stiamo valutando un paio di situazioni su Roma (che però non vengono specificate, ndr) e la stessa cosa sta accadendo a Firenze". Passarelli sostiene che il costo di una casa famiglia protetta sia di circa 300-400 mila euro all'anno, mentre Mauro Palma non si sbilancia, affermando che dipende molto dalla struttura e dai singoli accordi. "È vero che c'è una certa arretratezza rispetto a quello che la legge prevede", spiega il vice capo del Dap, "però si devono prevedere strutture che ci siano un po' dappertutto, perché nel caso in cui alla detenuta non venisse concessa la detenzione alternativa, deve essere garantita una struttura come l'Icam". La distinzione più importante tra l'Icam e la casa protetta è proprio il fatto che la prima è una forma detentiva a tutti gli effetti, mentre la seconda è una misura alternativa al carcere, destinata maggiormente alle donne che non hanno un luogo dove poter scontare una pena agli arresti domiciliari. Ed è proprio questa caratteristica che "giustifica" la mancanza di fondi statali. L'art. 4 della legge 62 recita: "Il ministero può stipulare convenzioni con enti locali (comuni e regioni, ndr) per l'individuazione delle case famiglia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica". Per legge, quindi, qualsiasi costo riguardante le case protette ricade sugli enti locali e non sullo Stato. Però la legge 62 prevede lo stanziamento di ben 11,7 milioni di euro destinati alla costruzione delle Icam e nessun finanziamento per le case protette. "Visto che le Icam non ospitano molte detenute (addirittura a Cagliari c'è solo un bambino, mentre l'Icam di Venezia, che potrebbe ospitare ben 18 bambini, attualmente ne accoglie solo due) noi come associazione", racconta Passarelli, "chiedemmo, senza risultato, che almeno 1 milione di euro fosse passato al comune, perché uno dei motivi per cui le case famiglia protette non si riescono a fare è di tipo economico". Esiste una voce nel bilancio del ministero di Giustizia chiamata "Missione 33 - Fondi da ripartire" che ammonta a più di 130 milioni di euro per il 2015. "Questi soldi", spiega Palma, "vengono ripartiti tra i vari provveditorati e si utilizzano più che altro per manutenzione. Potrebbero essere utilizzati per le case famiglia se fossero di più". È bene ricordare però che solo nel 2014 i fondi da ripartire ammontavano a 49 milioni di euro circa e che l'incremento nel 2015 è stato del 165,11%, pari a circa 81 milioni di euro: "Dovremmo investire molto di più sull'informatica per almeno tre-quattro funzioni, come la telemedicina (quindi mettere un presidio medico in carcere e avere cartelle cliniche digitali), l'istruzione e i corsi a distanza, l'utilizzo di Skype per i colloqui con le famiglie e anche videoconferenze con i magistrati di sorveglianza. Quindi è meglio utilizzare questi fondi per investimenti strategici". Resta però il fatto che ci sono ancora bambini in carcere e destinare anche solo 1 milione di euro di questi fondi alle case famiglia protette significherebbe privare il ministero di appena lo 0,7% dei 130 milioni di euro di fondi da ripartire. Inoltre nell'ottobre 2013 la senatrice del Pd Emma Fattorini presentò un disegno di legge in cui si richiedeva l'utilizzo di altri fondi di riserva (in quel caso si trattava di fondi del ministero dell'Economia) per destinarli all'istituzione di due case famiglia, una a Roma e una a Firenze. Il ddl è ancora al vaglio. La situazione all'estero: figli in carcere fino ai 18 mesi di vita In molti Paesi esteri la legge stabilisce la possibilità per le detenute madri di portare con sé i figli in carcere. Mentre però in Italia il bambino può stare in prigione con la madre fino ai sei anni di età (come prevede la legge n. 62), in altri Stati si tende a non superare i 18 mesi di vita del bambino. Alcuni prevedono (e hanno fisicamente) strutture simili alle case famiglia protette, come ad esempio la Gran Bretagna, dove esistono le Mbu (Mother Baby Unit) che però sono inserite all'interno delle carceri femminili. Sono sei in tutto e ospitano un totale di 64 madri. Situazione simile in Norvegia, dove alle detenute non è consentito portare in carcere i propri figli: esistono strutture specifiche, le amødrehjem (casa per madri), dove le donne possono tenere con sé i bambini fino al loro nono mese di vita. In Francia invece non esistono strutture esterne e i bambini restano in carcere con le madri fino ai 18 mesi di età. In Spagna esistono padiglioni speciali all'interno delle carceri, dove i figli delle detenute possono restare fino ai tre anni di età. Stessa situazione in Grecia e in Belgio. Il nodo cruciale chiaramente è capire quale sia il bene per il bambino: restare con la madre per non spezzare un vincolo troppo forte nei primi anni di vita, oppure prediligere il suo futuro e affidarlo direttamente a una nuova famiglia? "Non è semplice capire fino a che punto sia meglio tenere insieme madre e figlio", dice Scandurra. "Di solito, comunque, si tratta di periodi brevi: settimane, mesi al massimo, ed è per questo motivo che la mamma chiede che il figlio stia con lei". Passarelli aggiunge: "Questa è una domanda che ci poniamo, perché da una parte bambini così piccoli non possono essere lasciati soli, vengono allattati a lungo ed hanno un rapporto veramente simbiotico con la madre. Io non so", conclude, "se i danni che un bambino chiuso in carcere può avere siano maggiori o minori del distacco immediato dalla madre. A questo non so dare una risposta. Forse da parte della madre è anche un fatto di egoismo, ma queste donne non hanno una situazione familiare dietro che le possa sostenere". Giustizia: dieci anni di carcere da innocente perché non credettero a lui, ma ai pentiti di Chiara Rizzo Tempi, 20 aprile 2015 Storia di Mirko Eros Turco, rinchiuso in carcere per le accuse di sette pentiti e condannato all'ergastolo per omicidio. Ma erano tutte menzogne. "Chiedo solo di avere giustizia. Non mi interessa un risarcimento, perché dieci anni di carcere da innocente li ho già trascorsi, ma voglio riavere indietro la mia vita perché adesso mi sono sposato e ho due bambini". Così ha detto in un'aula della corte d'Appello di Messina Mirko Eros Turco, 35enne di Gela (Cl), poco prima che venisse emessa la sentenza del suo processo di revisione, lo scorso 8 marzo. Mirko Eros Turco era stato arrestato a 17 anni nel 1998 e condannato per un duplice omicidio: dietro le sbarre è rimasto sino al 2008, quando la Cassazione ha accolto la sua richiesta di revisione. La sentenza dello scorso marzo racconta un ennesimo caso di malagiustizia. Turco è stato assolto, ritenuto innocente da tutte le accuse e oggi è un uomo libero. Con alle spalle però una vita distrutta da un errore giudiziario. Quando la corte d'Appello ha dato lettura del verdetto, Turco è scoppiato in lacrime. "È finito un incubo, la mia vita ricomincia oggi", sono state le sue prime parole ai cronisti. "Non ho mai finito di sperare, non mi sono mai lasciato prendere dalla depressione, e non ho mai pensato al suicidio" ha raccontato il giorno della sua definitiva assoluzione. È sopravvissuto ad un incubo kafkiano durissimo: Mirko non era nemmeno maggiorenne quando è rimasto invischiato in questa vicenda, probabilmente per il più prosaico dei motivi, in una piccola città del Sud come Gela, fortemente permeata dalla criminalità organizzata in quegli anni ‘90: Turco è finito sul banco degli imputati con le peggiori accuse, probabilmente, solo per delle brutte frequentazioni avute da ragazzino. L'11 agosto del 1998, in un canneto poco fuori da Gela, fu trovato in macabre condizioni il corpo di un sedicenne, Fortunato Belladonna, strangolato e arso vivo, dopo essere stato torturato. Le modalità del ritrovamento (il ragazzo aveva un panno in bocca) fecero capire che si trattava di un'esecuzione mafiosa, una punizione, forse perché Belladonna, vicino a Cosa Nostra, era stato coinvolto in un precedente omicidio. Gli inquirenti ritennero che l'autore dell'esecuzione di Belladonna fosse il mafioso Rosario Trubia, del potente clan Emmanuello: ma una volta arrestato, Trubia divenne collaboratore di giustizia, insieme ad altri affiliati del clan e ai tre fratelli. Dell'omicidio Belladonna i nuovi pentiti accusarono Turco, che in base a queste testimonianze fu condannato all'ergastolo. Poco dopo, inoltre, Turco fu accusato di un altro omicidio, quello di un salumiere di Gela, Orazio Sciascio, che si era rifiutato di pagare il pizzo. La moglie di Sciascio riconobbe nel volto di Turco quello di uno dei killer. Il giovane, inutilmente, tentò di dichiarsi innocente per entrambe le accuse. Arrestato in quello stesso ‘98, fu trasferito in un carcere lontanissimo da Gela e dalla sua famiglia, alla Dozza di Bologna. Per dieci lunghi anni, Turco ha cercato invano di dimostrare la sua innocenza. Ma contro di lui nel tempo si sono sommate le dichiarazioni di ben sette pentiti e presto sono arrivate i verdetti della corte d'assise di Caltanissetta. Poi, all'improvviso, qualcosa è cambiato con l'arresto di due importanti killer del clan Emmanuello: Carmelo Massimo Billizzi e Gianluca Gammino. Solo quando entrambi, nell'intenzione di collaborare con la giustizia, si sono autoaccusati dell'omicidio Belladonna fornendo dettagli circostanziati e movente dell'uccisione, la giustizia ha capito di aver preso una cantonata e che le precedenti dichiarazioni dei pentiti non erano prove, ma balle concordate ad arte. Nel 2008, la Corte di Cassazione ha accolto la richiesta di revisione della condanna presentata da Turco e finalmente ne ha disposto la scarcerazione. Tornato a Gela, poco tempo dopo, Turco ha ricevuto una seconda buona notizia. L'approfondimento delle indagini e del dibattimento in aula, ha permesso di chiarire che Turco non è stato responsabile nemmeno dell'omicidio del salumiere Sciascio: la corte d'Appello di Catania nel 2012 ha revocato la precedente condanna in primo grado di Turco e lo ha prosciolto dall'accusa di omicidio. Infine, l'8 marzo, è giunta la parola fine anche sul delitto Belladonna: malgrado la procura generale di Messina, che nel processo di revisione ha sostenuto l'accusa a Turco, abbia ripetutamente chiesto di rigettare la richiesta di revisione, la Corte d'appello ha definitivamente assolto il 35enne. "In tutti quegli anni in cui sono stato considerato da tutti colpevole, in carcere, ho provato una profonda rabbia - ha detto Turco, poco dopo il verdetto. Una profonda delusione, anche, verso una giustizia ingiusta. Ma mai desiderio di vendetta. Ora voglio riavere la mia vita, con mia moglie e le mie figlie". Giustizia: Cassazione; non punibilità dei reati "lievi", contano la condotta e il danno di Luca Nisco Italia Oggi, 20 aprile 2015 Modalità della condotta ed esiguità del danno o del pericolo: sono questi gli elementi determinanti nella valutazione della non punibilità dei reati in base al dlgs 28/15. A chiarirlo la Corte di cassazione, Sez. III Penale, con sentenza n. 15449/15, depositata il 15 aprile 2015 (udienza dell'8 aprile 2015), con la quale ha rigettato il ricorso di un imputato, il cui difensore, per la prima volta in sede di udienza di legittimità, aveva invocato l'applicazione della suddetta causa di non punibilità, in vigore alla data dell'udienza da soli sei giorni. Se il Giudice di merito, ha spiegato la Corte, nel motivare la propria sentenza, ha apprezzato i fatti e graduato conseguentemente la pena, esprimendo giudizi che consentono di escludere la con-figurabilità della tenuità del fatto e/o della non abitualità del comportamento, la circostanza della previsione di un limite edittale inferiore a cinque anni è di per se irrilevante ai fini della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p.. La prima interpretazione. La sentenza della Suprema corte è di assoluta rilevanza giacché rappresenta la prima interpretazione in sede di legittimità della disciplina recata dal neo-introdotto art. 131-bis c.p. in relazione a un reato tributario e consente, dunque, di apprezzare alcuni importanti principi. Nella sentenza si legge che la rispondenza ai limiti di pena rappresenta soltanto la prima delle condizioni per l'esclusione della punibilità, che infatti richiede (congiuntamente e non alternativamente) la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento. Ed infatti, quello della particolare tenuità del fatto viene definito quale primo "indice-criterio", a sua volta articolato in due "indici-requisiti", rappresentati dalla modalità della condotta e dall'esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base di quanto indicato dall'art. 133 c.p. (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo e ogni altra modalità dell'azione, gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato, intensità del dolo o grado della colpa). In virtù di tale struttura, ciò che viene richiesto al Giudice è di rilevare se, sulla base degli "indici-requisiti", possa ritenersi sussistente l'indice-criterio della particolare tenuità dell'offesa e, una volta effettuata tale valutazione, se con quest'ultimo coesista quello della non abitualità del comportamento (secondo "indice-criterio"). Solo in questo caso si potrà considerare il fatto di particolare tenuità ed escluderne, conseguentemente, la punibilità. Il caso. Il caso sottoposto all'esame della Suprema corte verteva sulla condanna per sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11, dlgs n. 74/2000) da parte del Tribunale di Milano, successivamente confermata dalla Corte di appello di Milano, a carico di un soggetto che, al fine di evadere le imposte dirette e sul valore aggiunto, aveva fraudolentemente costituito un trust con il fine di rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva. Dopo avere richiamato la propria giurisprudenza in materia di configurabilità del reato di cui all'art. 11 del dlgs n. 74/2000, secondo la quale a tal fine si richiede esclusivamente che l'atto simulato di alienazione o gli altri atti fraudolenti sui beni (nel caso di specie, la costituzione del trust) siano idonei ad impedire il soddisfacimento totale o parziale del credito tributario, non essendo necessaria la sussistenza di una procedura di riscossione in atto, ed avere così rigettato i motivi di ricorso dell'imputato, la Suprema corte si sofferma sull'esame degli elementi assunti dalla Corte territoriale e, ancor prima, dal Tribunale, nella determinazione del trattamento sanzionatorio. Nello specifico, i Giudici territoriali avevano tenuto conto, nell'escludere il riconoscimento delle attenuanti generiche, di un precedente per bancarotta, dell'assenza di attività risarcitoria, di segnali di ravvedimento e di altri elementi positivi di valutazione, considerando anche l'importo del tributo evaso. Proprio a tale ultimo fine, assai rilevante data la strutturazione generale delle norme penali-tributarie quali contemplanti soglie di rilevanza, era stato assunto tout court l'importo del tributo evaso, quale risultante dal capo di imputazione, non attribuendo rilevanza all'intervenuta assoluzione in altro processo concernente quelli che venivano indicati come "reati presupposto". L'esame degli elementi che precedono, necessario dal momento che la questione presuppone inevitabilmente valutazioni di merito, ha, poi, consentito alla Suprema corte di procedere con la valutazione della sussistenza delle condizioni per l'applicazione della causa di non punibilità per tenuità del fatto, ex art. 131-bis c.p., previo excursus su talune caratteristiche dell'istituto. La valutazione dei giudici. In via preliminare, stante l'assenza di una disciplina transitoria, viene chiarito che l'istituto ha natura sostanziale, potendo pertanto trovare applicazione anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, con conseguente retroattività della legge più favorevole, secondo quanto stabilito dall'art. 2, comma 4, c.p. In aggiunta, trattandosi di questione che nel caso di specie non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello, risulta proponibile anche nel giudizio di legittimità, secondo quanto disposto dall'art. 609, comma 2, c.p.p. Fatta tale necessaria premessa, e alla luce dell'esame condotto circa gli elementi assunti dai Giudici territoriali nella determinazione del trattamento sanzionatorio, la Suprema corte affronta il punto nodale della questione, osservando, in primo luogo, che l'ambito di applicazione della causa di non punibilità è circoscritto ai soli reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, senza tenere conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. Ma la rispondenza ai limiti di pena rappresenta, come già anticipato, soltanto la prima delle condizioni per l'esclusione della punibilità, che richiede anche l'esistenza dei due sopra richiamati "indici-criteri" della particolare tenuità dell'offesa e della non abitualità del comportamento, da accertarsi sulla scorta di quanto emerso nel corso del giudizio di merito. In tale senso, prosegue la Suprema corte, occorre valutare se nella motivazione della sentenza impugnata sono presenti giudizi già espressi che abbiano escluso la particolare tenuità del fatto, riguardando, la non punibilità, soltanto quei comportamenti (non abituali) che, sebbene non inoffensivi, in presenza dei presupposti normativamente indicati risultino di così modesto rilievo da non ritenersi meritevoli di ulteriore considerazione in sede penale. Alla luce di tali considerazioni, considerato quanto apprezzato dai Giudici di merito, sono emersi plurimi dati chiaramente indicativi di una valutazione sulla gravità dei fatti addebitati al ricorrente, che hanno consentito di ritenere non astrattamente configurabili i presupposti per la richiesta applicazione dell'art. 131-bis c.p.. A tal proposito, la Suprema corte richiama l'irrogazione, da parte dei Giudici di merito, di una pena superiore al minimo, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e la non reiterazione dei benefici di legge, operando quindi una valutazione che esclude a priori ogni successiva valutazione in termini di particolare tenuità dell'offesa. Cassazione, Sez. III Penale. Sentenza n. 15449/2015 La previsione di un limite edittale non superiore a 5 anni rappresenta soltanto la prima delle condizioni per l'esclusione della punibilità ex art. 131-bis c.p., che richiede (congiuntamente e non alternativamente) la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento. Quello della particolare tenuità del fatto è un primo "indice-criterio", a sua volta articolato in due "indici-requisiti", rappresentati dalla modalità della condotta e dall'esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base di quanto indicato dall'art. 133 c.p.. In virtù di tale struttura, ciò che viene richiesto al Giudice è di rilevare se, sulla base degli "indici-requisiti", possa ritenersi sussistente l'"indice-criterio" della particolare tenuità dell'offesa e, una volta effettuata tale valutazione, se con quest'ultimo coesista quello della non abitualità del comportamento (secondo "indice-criterio"). Solo in questo caso si potrà considerare il fatto di particolare tenuità ed escluderne, conseguentemente, la punibilità. Se, pertanto, il Giudice di merito, nel motivare la propria sentenza, ha apprezzato i fatti e graduato conseguentemente la pena, esprimendo giudizi che consentono di escludere la configurabilità della tenuità del fatto e/o della non abitualità del comportamento, la circostanza della previsione di un limite edittale inferiore a cinque anni è di per se irrilevante ai fini delta causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p. Giustizia: mini-reati fiscali al test della non punibilità di Luca Nisco Italia Oggi, 20 aprile 2015 Non punibilità del reato per "tenuità del fatto" astrattamente applicabile anche in campo tributario. Dichiarazione infedele, omessa dichiarazione, occultamento o distruzione di documenti contabili o sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte sono solo alcuni degli illeciti penali che, grazie alle novità introdotte dal dlgs 28/15 (in vigore dal 2 aprile), potrebbero sfuggire, al verificarsi di determinate condizioni, alla condanna penale. Al contrario, non potranno "salvarsi" gli autori di reati come la dichiarazione fraudolenta con uso di fatture e altri documenti per operazioni inesistenti, o come l'emissione di fatture per operazioni inesistenti o ancora come la sottrazione fraudolenta aggravata al pagamento di imposte. È quanto emerge da un'analisi approfondita delle fattispecie di reato tributarie in rapporto al decreto legislativo 28 citato, introdotto nell'ordinamento con l'obiettivo di ridurre i processi penali. La nuova causa di non punibilità. L'art. 1 del dlgs n. 28/2015, in vigore dal 2 aprile 2015, ha introdotto nel codice penale l'art. 131-bis, rubricato "Della non punibilità per particolare tenuità del fatto. Della modificazione e applicazione della pena", a mente del quale per i reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore ai cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, è esclusa la punibilità quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'art. 133, primo comma c.p., l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. Si tratta di una causa di non punibilità che può trovare concreta attuazione, sotto il profilo procedimentale, sia in sede di indagini preliminari, ove la figura preminente è quella del Pubblico Ministero, cui è attribuita la possibilità di attivare il procedimento di archiviazione, anche previa sollecitazione dell'indagato e del suo difensore, sia nelle successive fasi del procedimento e del processo, secondo quanto previsto dalle disposizioni del codice di procedura penale. La norma in esame prevede due requisiti ai fini della individuazione della "tenuità del fatto", la cui valutazione è comunque rimessa alla valutazione del Giudice: (i) la particolare tenuità dell'offesa, e (ii) la non abitualità del comportamento. È necessario soffermarsi su ciascuno dei predetti requisiti, onde comprenderne la portata e l'astratta riferibilità alle condotte ricadenti nel novero del reati tributari previsti dal dlgs n. 74/2000, facendo riferimento ai criteri previsti dall'art 133 c.p. Ai sensi di tale articolo, la gravità del reato, di cui deve tenere conto il Giudice nell'esercizio del proprio potere discrezionale, discende dagli elementi attinenti alla modalità dell'azione, dalla gravità del danno o pericolo cagionato alla persona offesa nonché dalla intensità del dolo. Onde valutare la sussistenza del secondo requisito, dato dalla non abitualità del comportamento, lo stesso art. 133 c.p. prescrive quali indicatori i motivi del delinquere e il carattere del reo, i precedenti penali e giudiziari e, in genere, la condotta e la vita del reo, antecedenti al reato, la condotta contemporanea o susseguente al reato, nonché le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. Tenuità del fatto e reati tributari. Considerato che la novità normativa riguarda tutti indistintamente i reati, essendo l'intento inequivocabilmente quello di ridurre in generale i processi penali, in modo tale da alleggerire il carico di lavoro dei tribunali laddove ne sussistano i presupposti, essa appare applicabile in prima battuta anche ai reati tributari, a condizione che la pena si collochi al di sotto della soglia dei 5 anni prevista dalla novella normativa. Alla luce di ciò, guardando ai reati tributari di cui al dlgs n. 74/2000, dovrebbero intendersi ricompresi: (i) la dichiarazione infedele ex art. 4 (punita con la reclusione da uno a tre anni); (ii) l'omessa dichiarazione ex art. 5 (punita con la reclusione da uno a tre anni); (iii) l'occultamento o distruzione di documenti contabili ex art. 10 (punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni); (iv) l'omesso versamento di ritenute certificate ex art. 10-bis, e di IVA ex art. 10-ter (entrambi puniti con la reclusione dai sei mesi a due anni); (v) l'indebita compensazione ex art. 10-quater (punita con la reclusione da sei mesi a due anni); (vi) l'ipotesi non aggravata di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte ex art. 11 (punita con la reclusione dai sei mesi ai quattro anni), che ricorre allorché l'ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi in relazione ai quali sono attuate le condotte normativamente previste non eccede 200 mila euro. Di contro, resterebbero escluse le ipotesi delittuose di: (i) dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture e altri documenti per operazioni inesistenti ex art. 2; (ii) dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ex art. 3; (iii) emissione di fatture per operazioni inesistenti ex art. 8; (iv) sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte nell'ipotesi aggravata ex art. 11, che ricorre allorché l'ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi in relazione ai quali sono attuate le condotte normativamente previste eccede 200 mila euro, dal momento che per tali reati la pena edittale è superiore ai cinque anni. Guardando esclusivamente alla misura della pena, pertanto, i reati tributari, ivi inclusi i così frequenti reati di carattere omissivo, potrebbero rientrare tra quelli teoricamente non punibili, ovviamente al ricorrere del requisito della tenuità del fatto, espressione ancora da riempire di significato, data l'assenza di consolidati orientamenti giurisprudenziali. Sotto questo aspetto, occorre però ricordare che sarà rimessa alla valutazione dei Giudici la circostanza della tenuità del fatto, non essendo chiaro se detta tenuità andrà valutata in termini assoluti, cioè sulla base dell'entità complessiva dell'imposta evasa, ovvero in termini relativi, cioè valutando il mero scostamento (differenza) tra quantum omesso e soglia di rilevanza penale, il tutto però da considerare in ragione dell'eventualità che sia stato commesso il medesimo reato, o un reato della stessa indole, per più anni d'imposta. Si dovrebbe escludere la non punibilità nel caso di realizzazione di più fattispecie con condotte finalizzate a violare disposizioni con caratteri fondamentali comuni (art. 101 c.p.) che, perciò, evidenziano l'assenza di particolare tenuità in termini complessivi, pur se ogni episodio potrebbe avere tali caratteristiche. Il richiamo alla commissione di reati impone che si tratti di reati accertati con sentenza definitiva. Da non sottovalutare, poi, anche in ragione dei tanti privilegi accordati alla tutela dell'Erario, che un altro parametro di valutazione ben potrebbe essere rappresentato dal "rango del bene tutelato", caso nel quale difficilmente un reato tributario potrebbe essere considerato esiguamente dannoso o pericoloso. Alla luce di quanto precede, appare difficile ipotizzare l'applicabilità della tenuità del fatto a contribuenti che abbiano posto in essere condotte penalmente rilevanti per una pluralità di periodi d'imposta, anche in assenza di condanne già divenute definitive per taluno di essi. La conclusione che precede appare avvalorata anche dai documenti operativi disponibili, ad esempio le prime linee guida introdotte dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lanciano, in data 1° aprile 2015, per la quale, nei reati per i quali sono previste soglie di punibilità, ossia quelle fattispecie, in particolare tributarie, in cui sono appunto previste soglie di punibilità, appare problematica l'applicabilità della causa di non punibilità avendo il legislatore previsto una soglia a partire dalla quale è punibile il reato, escludendo sostanzialmente in radice la suddetta applicabilità. Ciò che appare certo è che sicuramente non si può parlare di depenalizzazione in riferimento a quanto previsto dall'art. 131-bis c.p., giacché, come già evidenziato, una causa di esclusione della punibilità non rappresenta la sottrazione di una fattispecie di reato a sanzione penale o la trasformazione di taluni illeciti penali in illeciti amministrativi. In altri termini, non vi è alcun tipo di automatismo giuridico, essendo di contro rimessa al Giudice la valutazione, in base alla sua discrezionalità, delle caratteristiche e circostanze del caso concreto sottoposto al suo esame, verificando se ricorrono le condizioni della tenuità del fatto e della non abitualità della condotta del reo. Giustizia: il web, una prateria per il crimine e la repressione non tiene il passo Di Christian Benna Affari & Finanza, 20 aprile 2015 Secondo un report di Symantec il 69% degli italiani è vittima di attacchi informatici, il 10% ha subito truffe online e il 4% ha dovuto sopportare il furto della propria identità. Mentre i nuovi reati corrono la legge va lenta. I numeri del 2014 fanno impressione. adesso si attende una svolta. Internet è la nuova scena del crimine. E anche il codice penale deve aggiornarsi all'era digitale, Mentre il legislatore introduce nuovi 5 eco-reati ancora non definiti dalla normativa (dal disastro ambientale, all'omessa bonifica all'impedimento dei controlli) e si appresta a varare le pene per i cosiddetti foreign fighter, le fonti del diritto faticano a tenere il passo agli "upgrade" del crimine informatico. I delitti 2.0 non si consumano esclusivamente nelle alte sfere, nel cyber spionaggio delle multinazionali, ma ormai sono un fenomeno che riguarda tutta la popolazione. Secondo un report di Symantec il 69% degli italiani è vittima di un qualche attacco informatico, il 10%, invece, è stato vittima di una truffa online e il 4% si è visto derubato della propria identità. E c'è da pensare che questo è solo un assaggio. Big Data, pagamenti elettronici mobili, internet delle cose stanno costruendo uno spazio del tutto nuovo, nelle cui maglie proveranno a lavorare di grimaldello virtuale i criminali del nuovo secolo. Modifiche e cambiamenti del codice sono stati fatti negli scorsi anni, cercando dì bilanciare il pendolo della giustizia tra dritto alla privacy (e all'oblio) e sicurezza. Nel 2008, su recepimento delle direttive del Consiglio d'Europa (anche se non in modo integrale) stabilite dalla Convenzione di Budapest, il primo accordo internazionale riguardante i crimini commessi attraverso internet o altre reti informatiche, l'Italia ha modificato l'articolo 635-bis (danneggiamento informatico) aggiungendone due nuovi: il ter (Accesso abusivo a un sistema informatico o telematico) il quater (Detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso). Per capire quanto già incida il virtuale nelle attività fuorilegge basta dare un'occhiata alle attività della polizia postale nel 2014, l'anno in cui è nato il nuovo portale del Commissariato di Polizia di Stato online: 38 arresti per pedopomografica online e 428 denunce, 1635 inseriti nella black list in quanto ritenuti pericolosi, 300 casi di cyberbullismo compiuti da minori contro minori in cui sono intervenute le forze dell'ordine; blocco di oltre 3000 transazioni sospette di frode; 22 denunce per gioco d'azzardo illegale; denunciate 107 truffe su commercio elettronico con 572 reati. Mail problema è che se i nuovi reati corrono a tutta velocità mentre, le norme vanno molto più lente. Il Garante per la Privacy sta affrontando l'argomento, chiedendo ai produttori di App di informare adeguatamente chi le scarica, ma la complessità dei sistemi frena la scrittura di norme univoche ed efficaci. È evidente che si tratta una corsa contro il tempo, quello rapidissimo della tecnologia. È il caso del decreto legge contro il terrorismo che va a colpire anche i siti, e le persone che li gestiscono, dove si fa proselitismo per l'arruolamento dei foreign fighters. Altri nuovi reati vengono affrontati con l'arsenale legislativo già a disposizione. Come il furto di identità in rete che viene ricondotto dalla giurisprudenza di legittimità nell'ambito del reato di cui all'art. 494 del codice penale, relativo alla "sostituzione di persona", oppure la diffamazione online. Eppure non mancano ì dubbi sull'efficacia delle vecchie leggi per affrontare nuovi reati. Ad esempio, la sentenza de!2000 del tribunale di Torino con la quale il giudice aveva assolto dal reato di furto un imprenditore che aveva copiato alcuni programmi (per uso privato e quindi non ne traeva profitto) ha per la prima volta dimostrato quanto la normativa esistente può, almeno agli occhi di molti, risultare inadeguata. La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha ribadito che non risponde di furto di effettua la copiatura di files contenti dati riservati sulla clientela di un'impresa. Un precedente giuridico che mal si accorda all'epoca dati personali come nuova miniera dei business digitali. Tanto più che il 2015, con l'abbandono del cartaceo e la progressiva digitalizzazione della pubblica amministrazione, dei processi produttivi e di pagamento, sarà l'anno critico per la giustizia 2.0. Secondo Raoul Chiesa, uno dei maggiori esperti di sicurezza a livello internazionale, e consulente per l'Onu, ci sarà un'escalation di attacchi contro l'e-Governement, Nel mirino degli hacker entreranno anche Pos e Totem dei parcheggi, e le tecnologie alla base dei pagamenti mobili, come Near Field Communication. Giustizia: sui reati ambientali legge attesa da 21 anni, ma c'è chi punta ad affossarne l'iter di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 20 aprile 2015 A chi ancora è convinto che il bicameralismo in salsa italiana sia un bene prezioso da tutelare consigliamo di dare un'occhiata a quello che sta accadendo in parlamento. Succede che il Senato approvi una legge che si aspettava da 21 anni, e che questa legge debba ora passare alla Camera come prevede la nostra Costituzione. È un provvedimento che fa entrare i reati ambientali nel codice penale, nato da una iniziativa del grillino Salvatore Micillo, del democratico Ermete Realacci e di Serena Pellegrino di Sinistra ecologia e libertà. "Evviva!", esultano gli ambientalisti alla notizia che la maggioranza è determinata ad approvarla senza modifiche anche a Montecitorio per evitare non soltanto le lungaggini del ping pong che inevitabilmente scatterebbe (dalla Camera di nuovo al Senato e poi chissà...), ma soprattutto il rischio che in quel rimpallo la legge possa finire come molte altre sul binario morto. E lì dissolversi. Per capirci, il provvedimento stabilisce che chi inquina, o si rende responsabile di danni ambientali, o ancora impedisca i controlli, non se la possa cavare con una semplice contravvenzione ma debba finire nelle patrie galere. Per giunta con il raddoppio dei tempi di prescrizione e la possibilità per gli inquirenti di utilizzare le intercettazioni telefoniche e ambientali. Peccato che lì dentro sia stata infilata una pillola avvelenata in forma superecologista. In Senato è infatti passato un emendamento che vieta l'utilizzo del cosiddetto air gun per le ricerche petrolifere in mare. Si tratta di una tecnica che utilizza l'aria compressa e ha suscitato non poche critiche a livello internazionale da varie organizzazioni ambientalista per le possibili ripercussioni su pesci e cetacei. L'emendamento viene dunque votato con convinzione anche dai senatori di Sel e del Movimento 5 stelle, più attenti a queste tematiche, nonostante arrivi da uno schieramento dove non tutti fanno salti di gioia per l'introduzione degli eco-reati. In proponente è il senatore Antonio D'Ali, esponente di Forza Italia, trapanese, evidentemente preoccupato dalle possibili conseguenze dell'impiego dell'air gun nello splendido mare siciliano. Il fatto è che il divieto di ricorrere a quella tecnica, fortemente contestato com'è comprensibile dalle compagnie petrolifere a partire dall'Eni, renderebbe complicatissime, se non addirittura impossibili, le ricerche marine di idrocarburi in determinate condizioni. Ecco allora spuntare in Commissione giustizia alla Camera, a sorpresa, un emendamento. Lo firmano due deputati che chiedono l'abrogazione del divieto di cui sopra introdotto al Senato. Due deputati, per inciso, Carlo Sarro e Luca Squeri, che appartengono allo stesso schieramento politico che a palazzo Madama ha proposto di introdurlo. Ma perché un partito dovrebbe sostenere una certa norma in un ramo del parlamento, per poi cercare di affossarla con una esattamente contraria nell'altro ramo? Come sappiamo, in Italia i parlamentari non hanno vincolo di mandato. Agiscono dunque secondo coscienza, e nulla impedisce che nello stesso partito si possano confrontare posizioni anche radicalmente diverse. Soprattutto su certi argomenti. C'è chi può essere più sensibile ai temi ambientali, e chi invece è più interessato alle ragioni dell'industria. Ovvio. Qualcuno tuttavia sospetta un'abile manovra studiata a tavolino per far ritornare il disegno di legge appena approvato dal Senato, di nuovo a palazzo Madama per quel ping pong che affosserebbe definitivamente il provvedimento. Quel sospetto è palpabile in una lettera che 25 associazioni, da Libera di Don Luigi Ciotti a Legambiente, da Greenpeace al Fai, hanno spedito al presidente del consiglio Matteo Renzi oltre che ai ministri e ai politici competenti con la richiesta di adoperarsi per scongiurare l'eventualità che inizi un letale rimpallo fra Camera e Senato. La legge sugli eco-reati si discute da due anni, il 22 aprile dovrebbe avere il via libera della commissione Giustizia e il 27 aprile dovrebbe cominciare la discussione in aula In anni (troppi, ormai) nei quali le Camere si limitano a ratificare decreti o disegni di legge del governo sarebbe anche uno dei pochi provvedimenti di peso partoriti dal Parlamento. Finirà anche questo nel buco nero del bicameralismo perfetto? Giustizia: nel "libro delle leggi" ogni anno vengono aggiunti 14 milioni di caratteri di Michela Finizio Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2015 Ogni giorno in Italia vengono scritte 21 pagine di nuovi provvedimenti normativi. Se tutti insieme (leggi, decreti legge, decreti legislativi e leggi regionali approvati nel 2014) venissero raccolti in un unico libro, il testo complessivo sarebbe composto da oltre 14,2 milioni di caratteri battuti su carta, articolati in migliaia di commi e articoli. Un'opera redatta a più mani, approvata con tempistiche differenti sul territorio, di cui cittadini e contribuenti diventano lettori e protagonisti quotidiani. A rappresentare la prolifica produzione normativa dei governi e delle diverse assemblee nazionali e regionali è l'ultimo Rapporto sull'attività legislativa pubblicato a marzo dalla Camera dei Deputati, elaborato nella seconda "Infodata del Lunedì" del Sole 24 Ore. I provvedimenti approvati possono essere più o meno lunghi: si va dai 38mila caratteri medi delle leggi in Friuli Venezia Giulia, approvate in circa 45 giorni, alle 6.200 battute (3,5 pagine, ciascuna da 1.800 caratteri) delle leggi emanate in Basilicata. Ad approvare un provvedimento le varie assemblee in media impiegano dai 21 ai 204 giorni. Il tempo record lo ha toccato la regione Campania, che in un anno ha approvato solamente una ventina di leggi. Scrivere tanto non vuol dire per forza essere efficaci: contare il numero di caratteri medi di ciascun provvedimento non racconta la complessità o la qualità dell'attività legislativa, ma restituisce la fotografia di un articolato corpus normativo che gli italiani ogni giorno devono interpretare. A contribuire in modo diverso alla produzione normativa nazionale sono stati gli ultimi cinque Governi: in circa 15 mesi di presidenza Mario Monti ha scritto oltre 1.130 pagine di decreti legge (in tutto 41, di cui 6 decaduti), circa 330 in meno rispetto a quelle scritte dall'ultimo Governo Berlusconi che, però, ha governato per 42 mesi. Giustizia: responsabilità civile dei magistrati; l'Anm si divide e lo sciopero non passa La Stampa, 20 aprile 2015 All'assemblea prevale la mozione della maggioranza di Area e Unicost. Ancora una volta non passa la linea dura dello sciopero all'assemblea dell'Anm. Ai voti ha prevalso la mozione della maggioranza di Area e Unicost, che chiede al legislatore di introdurre un filtro contro le azioni temerarie per responsabilità civile, e prosegue senza arrivare alla rottura col governo, ma con una protesta simbolica di sospensione, per tre giorni a giugno (22, 23 e 24 di giugno), delle "attività di supplenza", ossia quelle a cui i magistrati si prestano per far camminare la macchina giudiziaria, pur non essendo loro compito. All'assemblea, richiesta con una raccolta firme, si è ricompattato il fronte delle Toghe "moderate", con una mozione unitaria di Magistratura Indipendente e Autonomia e Indipendenza (la corrente nata per scissione, in dissenso con la partecipazione al governo dell'ex leader di MI Cosimo Ferri), che prevedeva in ultima analisi anche uno sciopero ad ottobre. Ma i numeri, 756 a favore contro i 1.212 di quella di maggioranza, restituiscono una Anm divisa sulle iniziative da adottare, e una fetta di magistratura in dissenso con la giunta. "Chiediamo fiducia e rispetto, ascolto, buona organizzazione, leggi adeguate, per la giustizia, per chi lavora nella giustizia e per tutti i cittadini", ha detto il presidente Rodolfo Sabelli, aprendo l'assemblea, dopo un minuto di silenzio in memoria delle vittime della strage al palazzo di giustizia di Milano. "Siamo sgomenti - ha aggiunto Sabelli - davanti alla rabbia che può raccogliersi sulla giustizia". Il documento approvato rinnova la richiesta di modificare la norma sulla responsabilità delle toghe: che il legislatore si faccia carico "attraverso diversi strumenti giuridici da inquadrarsi nell'ambito della lite temeraria o dell'abuso del processo, dell'esigenza di stroncare sul nascere azioni pretestuose o che si presentano manifestamente infondate", attraverso "meccanismi che impediscano un uso strumentale dell'azione contro lo Stato volta a rimettere in discussione, in modo non ammissibile, gli esiti di vicende processuali definite o magari ancora in corso di definizione". Propone, inoltre, al Csm di individuare i carichi esigibili, chiede la cessazione delle attività di supplenza, e di indire un tavolo tecnico col governo per "il decoro e la sicurezza degli uffici giudiziari". Oltre a questi punti, il documenti di MI e A&I chiedeva, in assenza di risposte adeguate, uno sciopero nel mese di ottobre. La spaccatura, ha commentato il segretario di Magistratura Democratica, Anna Canepa, "non è una pagina bellissima. Dopo i fatti di Milano, si pensava di trovare unità su cose importanti come la difesa della giurisdizione, e resta l'amarezza per non esserci riusciti". Al contrario per il segretario di MI Antonello Racanelli, "è il segno che una grossa fetta della magistratura è del tutto scontenta rispetta alla linea della giunta. Questa maggioranza ha il timore di qualsiasi iniziativa forte contro il governo". Lettere: G8, dopo la sentenza di Strasburgo forse qualcuno si vergognerà davvero di Alessandra Ballerini La Repubblica, 20 aprile 2015 La Corte Europea dei diritti dell'uomo negli ultimi anni, accogliendo ricorsi di detenuti, manifestanti e profughi, ha dovuto a più riprese condannare il nostro Paese per violazione dell'art. 3 della Convenzione, ovvero per aver sottoposto i ricorrenti a trattamenti inumani e degradanti. Non esattamente un figurone a livello internazionale! Nelle nostre carceri i detenuti erano sistematicamente fino a qualche mese fa (ma anche oggi la situazione non è drasticamente migliorata nonostante alcune modifiche legislative e gli sforzi di molti operatori) costretti a subire costanti violazioni della loro dignità personale a causa della ristrettezza e inadeguatezza degli spazi e dell'impossibilità di svolgere reali e costanti attività trattamentali. Eppure come ci ricorda la Corte Europea "la carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere maggiore bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l'articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell'assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana". Nei centri di accoglienza per stranieri richiedenti asilo la situazione non è certo migliore. Basti pensare al centro di Mineo, dove sono ammassate quattromila persone, per mesi ed anni in attesa di vedere quantomeno evasa se non accolta la propria domanda di riconoscimento dello status di rifugiati. Qui i caporali attingono a grandi mani prelevando direttamente dal centro braccianti o meglio braccia per la raccolta di pomodori o carciofi. Sarà anche per questo che la Corte Europea dei Diritti dell'uomo ha recentemente sentenziato nella famosa decisione Tarakhel, che nel nostro bel Paese ci sono "fondati timori che un alto numero di richiedenti asilo possa essere lasciato senza alloggio o sistemati in situazioni iper-affollate, insalubri e violente", ristretti in gabbie, a volte respinti, spesso indicati e indagati come "clandestini" anziché come portatori di uno dei più sacri ed inviolabili dei diritti universali. E non è che i minori stranieri non accompagnati se la passino meglio se il Capo del Dipartimento per le Libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'Interno, Mario Morcone, intervistato da un giornalista dell'Avvenire, è arrivato ad ammettere: "Nel 2014 abbiamo accolto oltre 14 mila minori in un modo che mi fa vergognare di essere italiano". Ed infatti di questi minori più di 3.700 sono scomparsi nel nulla. Comunque a tutti loro è andata ancora bene. Avrebbero potuto essere respinti verso Paesi "non sicuri" e rispediti in definitiva verso le persecuzioni e i conflitti dai quali scappavano. Quindi, la condanna inflitta dalla Corte Europea all'Italia per il massacro della scuola Diaz. Leggiamo queste decisioni (e aspettiamo con trepidante attesa la sentenza riguardo le torture subite dai manifestanti del G8 nella Caserma di Bolzaneto per mano non solo delle forze dell'ordine anche dell'impunito dott. Toccafondi), esaminiamo i rapporti e i comunicati sulle violazioni dei diritti fondamentali delle quali si rende artefice questo Paese e non possiamo che provare vergogna. Sarebbe già un primo passo se gli autori materiali di queste torture e i loro mandanti politici fossero altrettanto capaci di vergogna, perchè, come dice Carofiglio, "diversamente dalla colpa, la vergogna può permettere a chi la prova di migliorare se stesso, di rifondarsi... Essa protegge l'uomo, ed ancor più l'uomo politico, dalla violazione dei codici etici, interiori ed esteriori. In questo senso vergogna è una parola politica". Lettere: le vie per evitare la corruzione Di Giuseppe Fiengo (Avvocato dello Stato) Affari & Finanza, 20 aprile 2015 Opinione diffusa che la corruzione negli appalti pubblici presenti in Italia aspetti sistemici, che portano a riproporre il fenomeno malgrado i ricorrenti scandali e l'unanime condanna che li accompagna. Diventa utile capire quali siano questi problemi strutturali e vedere se esistono percorsi per risolverli. Robert McNamara, ministro della Difesa ai tempi di John F. Kennedy, poneva come requisito essenziale per realizzare senza sprechi una grande opera pubblica tre semplici condizioni: the money (i finanziamenti), the management (la gestione) e the environmental impact assessment (la valutazione d'impatto ambientale, Vai). Le tre condizioni riguardavano tutte il progetto definitivo, la cui esistenza e completezza costituiscono una pre-condizione e la base di partenza di ogni iniziativa. Le amministrazioni pubbliche italiane, a partire dagli anni 80, hanno perso progressivamente, in quasi tutti i settori della loro attività, la loro tradizionale capacità tecnica: occorre oggi ricostruirla e metterla a disposizione di chi decide. È un'operazione lunga e complicata, che tuttavia può essere agevolata creando il modo, nel medio periodo, di fidelizzare i piccoli e grandi progettisti privati all'amministrazione che progetta piuttosto che alle imprese appaltatrici. Il rapporto tra i progettisti, anche privati, e i poteri pubblici deve essere diretto e non può dipendere dall'impresa che realizza l'opera. Il vantaggio dei progettisti sarebbe quello di avere maggiore stabilità e trasparenza negli incarichi e di evitare il taglio dei loro onorari usualmente praticato dalle ditte appaltatrici; per le amministrazioni quello di poter contare su un progetto e una direzione dei lavori di pieno affidamento. L'Oice (l'associazione delle organizzazioni di ingegneria e consulenza tecnico-economica) nel 2000 rifiutò questa ipotesi. Da allora il problema non si è più posto: il progetto e le sue varianti restano il più delle volte saldamente in mano alle ditte appaltatrici. La separazione tra l'iter, tutto pubblico, del progetto e l'appalto, contratto privatistico necessario per realizzarlo, è il primo passo sulla strada della trasparenza e dell'efficienza. La fretta è spesso cattiva consigliera e i dibattiti preventivi non svolti nella fase in cui si elabora un progetto, si trascinano poi, per anni, nelle aule giudiziarie. L'inchiesta pubblica sul progetto e una procedura, anche semplificata, di Vai garantiscono la ragionevolezza (e probabilmente la non impugnazione) della scelta finale. Aspettare autorizzazioni, visti e pareri nella fase in cui l'opera è già stata appaltata apre un discorso a più interlocutori, foriero di tangenti e malaffare, che allunga indefinitamente i tempi dell'appalto. Se c'è un progetto approvato, ci dovrebbero essere contestualmente anche i permessi. Quanto ai finanziamenti, la spesa per le opere pubbliche fa mille passaggi, viene parcellizzata ed erogata con il contagocce; tutto ciò non consente una programmazione dei pagamenti correlata a un realistico cronoprogramma dei lavori. Le somme stanziate dovrebbero tener conto dei tempi nei quali si realizzano e si pagano le opere pubbliche e degli eventuali oneri finanziari delle imprese appaltatrici. Una buona amministrazione deve tener conto anche delle spese di conservazione e manutenzione, programmando in sede di progetto le modalità di gestione. Una serie di accordi con il mondo bancario può facilmente fluidificare questa fase. Va considerato che un'opera pubblica in corso di realizzazione presenta una doppia passività: per i soldi fino a quel momento spesi e per la circostanza che non produce il servizio alla collettività che l'opera completa è destinata a rendere. La soluzione spesso adottata dei cosiddetti stralci funzionali è spesso solo una scusa per coprire un compromesso tra le priorità politiche nella ripartizione dei fondi. I mancati collaudi e le richieste di risarcimento da parte degli appaltatori completano lo scenario dei costi aggiuntivi che restano a carico dei cittadini. Resta un'ultima questione: l'indotto. L'opera pubblica, anche attraverso la sua mera localizzazione, valorizza uno spicchio di territorio: si propone un nuovo stadio con gli impianti connessi e, con l'occasione, si urbanizza a fini residenziali l'area limitrofa fino a quel momento destinata ad area protetta. Questa scelta di urbanizzazione, collaterale e secondaria, aderisce all'opera principale e finisce per condizionarla nel bene o nel male. Ma qui il problema diviene più complesso. Da sempre l'Italia è l'unico Paese in Europa a non conoscere una legge generale sul regime dei suoli, che renda economicamente neutra la scelta di dove allocare un'infrastruttura pubblica servente. Fare opere pubbliche in un contesto così variabile diventa una sorta di gioco d'azzardo, spesso connotato da illegittimità e corruzione. Meglio, almeno per questo aspetto, procedere con la regola di fare una cosa alla volta: l'opera pubblica. Sassari: è morta Maddalena Fois, ieri l'addio alla suora amica dei detenuti La Nuova Sardegna, 20 aprile 2015 Nel 2002 ha fondato la comunità di recupero di Marritza. Aveva 74 anni, ieri i funerali nella chiesa del Buon Pastore. La vicenda umana e spirituale di suor Maddalena incarna perfettamente il passo del vangelo di Matteo dedicato ai bisognosi: la sua vita, infatti, è scandita da una serie di tappe assai significative prima come vincenziana, poi come animatrice dell'Azione cattolica e infine come punto di riferimento per i disadattati e i carcerati". Questo il ricordo di padre Paolo Atzei, arcivescovo di Sassari, di suor Maddalena Fois, per diversi anni garante dei detenuti nelle carceri di Sassari, Alghero e Macomer. Nuorese, 74 anni, suor Maddalena era un punto di riferimento non soltanto per i detenuti, ma per tutti coloro che a vario titolo avevano necessità di una guida spirituale. Negli ultimi trent'anni, prima di arrivare a Sassari, dove a Marritza, nel 2002, aveva fondato la comunità "Giovani in cammino", era stata a Sorgono e Tempio, quindi a Bosa e infine ad Alghero. A Sassari, aveva cominciato la sua attività nel quartiere di Santa Maria di Pisa dove tutti la ricordano con grande affetto e altrettanta stima. "Un carattere forte - ricorda ancora padre Paolo - ma mitigato da una grande dolcezza nei confronti delle persone sofferenti, in particolare per i detenuti che hanno rappresentato il culmine della sua attività spirituale". A chi le chiedeva se avesse mai provato timore a contatto con i carcerati, amava rispondere: "Questi sono i miei figli". E ancora: "A volte mi metto nei panni di una madre che entra in carcere e scopre dove vive suo figlio: credo che al posto suo non riuscirei a sopravvivere. Non potrei mai accettare che mio figlio sia condannato a stare in un posto che lo priva di ogni dignità". Erano gli ultimi a starle a cuore: "Dietro le sbarre, è bene che si sappia, ci restano i poveri. Chi ha i soldi ottiene sempre tutto. Un buon avvocato, un trattamento di riguardo, una pena ridotta. In qualche modo se la cava sempre. Sono i poveracci a restare lì dentro". E quando si trattava di scegliere chi aiutare, aveva le idee molto chiare: "Nella mia comunità "Giovani in Cammino" preferisco sempre accogliere i più poveri. Per esempio non mi piace prendere i grossi spacciatori di droga. Raramente sono finiti dentro per disperazione. Perciò non hanno bisogno di me, purtroppo sono quelli che, vada come vada, poi cadono sempre in piedi. Non prendo quelli che continuano a bucarsi: non voglio sostituirmi alle comunità di recupero per tossicodipendenti. I miei ospiti in genere sono ragazzi con un passato di droga, reati contro il patrimonio. A metà della pena ottengono la semilibertà. A quel punto chiedo di poterli portare a Marritza. Hanno dei talenti sorprendenti, capacità sprecate. Aiutarli a tirarle fuori è una grande soddisfazione. E poi hanno una sensibilità speciale, diversa da quella degli altri ragazzi che vivono una vita normale. Il carcere scava dentro, tocca corde particolari". Il funerale è stato celebrato ieri, nella chiesa di Santa Maria di Pisa, presieduto dall'arcivescovo affiancato da una ventina di sacerdoti, a dare l'ultimo saluto, tanta gente che l'ha conosciuta e amata. Per volontà dei familiari, la salma verrà traslata e tumulata nel cimitero di Nuoro. Nuoro: chiusura del carcere di Macomer, il Comune alla ricerca di nuove soluzioni di Tito Giuseppe Tola La Nuova Sardegna, 20 aprile 2015 Macomer, Oggi l'incontro dei consiglieri comunali con il senatore Giuseppe Luigi Cucca della commissione Giustizia. Ormai è più che chiaro a tutti che riaprire il carcere di Macomer così com'era è un'ipotesi irrealizzabile. Si passa allora alle alternative, che puntano al riutilizzo della struttura per progetti comunque legati all'attività penitenziaria, ma su un fronte più specialistico. Domani, nel corso di un incontro al quale sono stati invitati tutti i consiglieri comunali di maggioranza e di minoranza (non si tratta di una riunione dell'assemblea, ma di un incontro informale), si parlerà delle strategie di sostegno agli interventi che l'amministrazione comunale si propone di portare avanti. L'incontro, che si terrà alle ore 11:30 nell'aula consiliare, interverrà il senatore Giuseppe Luigi Cucca, componente della commissione Giustizia del Senato. "Il senatore Cucca - ha scritto il sindaco Antonio Succu nella lettera con la quale invita i consiglieri a partecipare all'incontro - ha già dimostrato attenzione per il nostro territorio anche nel recupero dell'ufficio del giudice di pace e sul carcere è più volte intervenuto nelle sedi opportune nel tentativo di salvare questo importante presidio territoriale". Probabilmente parteciperà all'incontro anche il presidente dell'Anci Sardegna, Pier Sandro Scano. L'Anci potrebbe svolgere un ruolo importante nell'ambito di un accordo tra comune, assessorato regionale alla Sanità e ministero di Grazia e giustizia se si dovesse riuscire a sbloccare la situazione di stallo nella quale è finita la questione del carcere dopo la decisione del ministero di cancellare l'istituto di Macomer, assieme a quello di Iglesias, dall'elenco delle carceri sarde in funzione. Che il comune stesse giocando altre carte lo aveva detto il sindaco nel corso di una riunione di consiglio comunale nella quale si parlò delle questioni legate al carcere e della dismissione della struttura come istituto di detenzione. Il consiglio comunale ha approvato una mozione unitaria con la quale dava mandato al sindaco per esplorare tutti i fronti per il riavvio del servizio e tutte le possibilità di utilizzo. La chiusura del carcere di Macomer ha una duplice ricaduta negativa. La prima è legata alla perdita dei posti di lavoro, un centinaio tra agenti di polizia penitenziaria e personale civile. Il loro trasferimento rappresenta comunque una perdita economica, come lo è anche la ricaduta sull'indotto locale. C'è poi il problema del riutilizzo della struttura. Un carcere non è convertibile in un caseggiato scolastico, di cui ce ne sono altri inutilizzati, o in strutture diversamente utilizzabili, ma è destinato all'abbandono. Inizialmente doveva accogliere i detenuti condannati per mafia Doveva diventare un carcere per detenuti di mafia sottoposti dal regime di detenzione duro previsto dall'articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario. Il progetto venne poi abbandonato. Alla fine degli anni Novanta divenne un carcere per "detenuti di difficile governo". Negli anni prima della chiusura una parte della struttura fu utilizzata per la reclusione di detenuti condannati per reati di terrorismo legato al fondamentalismo islamico. Ora il carcere è vuoto. Le ipotesi di utilizzo avanzate dall'amministrazione comunale sono diverse. Una riguarda l'uso del complesso per accogliere i detenuti con problemi psichiatrici e i tossicodipendenti. Per gli istituti di carcerazione ordinaria sarebbe la soluzione di un problema importante, mentre questi detenuti troverebbero risposte in termini di trattamento e cura in una struttura specializzata nuova che funzionerebbe a Macomer, dove a quel punto ritornerebbe la detenzione. C'è anche un'altra proposta di utilizzo alternativo, che è quella di trasformare la struttura, mantenendo sempre la destinazione carceraria, per accogliere i detenuti a fine pena che possono essere coinvolti in progetti di formazione o di lavoro. Aosta: Sottosegretario Ferri in visita al carcere "bene il lavoro negli istituti penitenziari" Ansa, 20 aprile 2015 Visita alla Casa circondariale di Brissogne (Aosta) del sottosegretario alla giustizia, Cosimo Maria Ferri. Con lui c'era anche il presidente dei giovani industriali Marco Gay. Al centro della loro attenzione ci sono state le attività lavorative e imprenditoriali che si svolgono nella struttura penitenziaria, in particolare una lavanderia, un panificio e la produzione di miele. "Il lavoro nei nostri istituti di pena - ha commentato il sottosegretario Ferri - consente ai detenuti di acquisire delle abilità che potranno essere spese una volta scontata la pena riducendo il rischio di recidiva e favorendo il loro reinserimento nella società". Secondo Ferri, "è importante da una parte garantire la retribuzione dei detenuti-lavoratori, ma dall'altra garantire altresì che lo Stato possa recuperare le spese processuali e di mantenimento nelle strutture carcerarie". Palermo: oggi una manifestazione della Polizia penitenziaria davanti all'Ucciardone www.palermotoday.it, 20 aprile 2015 La Cgil Funzione Pubblica di Palermo, il Sippe (sindacato polizia penitenziaria), l'AD&T (associazione diritti e tutele) e altre associazioni della società civile, si sono date appuntamento a Palermo, per domani dalle 11 alle 14 nel piazzale antistante il carcere dell'Ucciardone per denunciare "la crisi del sistema penitenziario siciliano ed in particolare quella del carcere dell'Ucciardone". Per le organizzazioni "gli operatori penitenziari operano in condizioni degradanti". "Dal 2011 ad oggi i vertici dell'amministrazione penitenziaria siciliana - spiegano - non hanno garantito condizioni lavorative compatibili con i parametri costituzionali e con quelli dello statuto dei lavoratori. Il personale lavora in ambienti insalubri, saturi di umidità, invivibili sia in estate per l'assenza di condizionamento che in inverno per l'inadeguato riscaldamento, laddove i poliziotti penitenziari tentano di sopravvivere nei periodi invernali con vetuste stufette elettriche quando funzionano. Impressionanti sono anche le condizioni igieniche e di sicurezza, completamente carenti, con cui il personale deve quotidianamente confrontarsi. Appare superfluo a questo punto evidenziare la presenza di un profondo malcontento e di gravi problemi in seno alla Polizia Penitenziaria. La carenza di personale, il trattamento degradante a cui viene sottoposto, l'inesistenza di qualsiasi misura di sicurezza volta a tutelarlo, la vergognosa condizione dei luoghi in cui opera, la "sospetta" organizzazione del lavoro che determina giornalmente una disparità di trattamento, creando quindi una situazione allarmante nel carcere borbonico di Palermo. La turnazione del personale ovviamente non rispetta la norma, i turni mensili non vengono programmati (tranne per un ristretto gruppo di persone che operano all'interno di un reparto). I "soliti" dipendenti non prestano mai servizio durante i festivi, contrariamente a quanto disposto dagli accordi che ne prevede l'obbligatorietà. L'assenza del servizio mensa costringe il personale, costretto a lavorare anche dieci ore, a consumare un semplice panino quando però il bar interno è aperto. La presenza di manufatti in cemento amianto nel carcere dell'Ucciardone rappresentano un attentato alla salute dei lavoratori e a quella dei detenuti. "Massima comprensione - proseguono - per chi sconta una pena detentiva ma come in Italia spesso accade, si dà eccessiva priorità a situazioni rispetto ad altre che ugualmente, se non maggiormente, sono bisognose di tutela… non fosse altro che la Polizia Penitenziaria si trova a dover scontare e subire in carcere un trattamento inumano e degradante, senza avere mai commesso un delitto ma solo al fine svolgere il proprio lavoro. Quanto appena descritto non riguarda lo stato dei luoghi in cui si trovano a scontare la pena i prigionieri delle carceri Turche, bensì la condizione in cui si trovano a lavorare i dipendenti statali del Carcere dell'Ucciardone di Palermo, in Italia". "La sicurezza e la dignità del lavoratore - concludono - così come costituzionalmente protetti e garantiti, vengono sistematicamente oltraggiati dal datore, ossia lo Stato stesso e proprio in un ambiente dove questo dovrebbe di converso promuovere se non addirittura reclamizzare la propria autorità e la propria efficienza. Manifestiamo anche perché bisogna eliminare gli sprechi per aumentare le risorse disponibili per la sicurezza dei cittadini. Il comparto sicurezza del quale fa parte anche il corpo di polizia penitenziaria, ha subito negli ultimi anni dei pesanti tagli di risorse, peggiorando la situazione delle forze dell'ordine che hanno invece bisogno di maggiori strumenti per garantire la sicurezza sociale. Occorre razionalizzare i servizi, rimodellare le strutture e aumentare gli stipendi, attraverso una riforma delle forze di polizia ed in particolare del Corpo di Polizia Penitenziaria, così da rendere più efficiente l'assetto attuale. I sindacati e le associazioni manifestano perché nel corso del tempo innumerevoli sono stati gli appelli, le denunce, le richieste ed i tentativi di sensibilizzazione rivolti a chi detiene la pubblica responsabilità nonché il dovere giuridico e morale di porre rimedio ad una realtà non più sopportabile, ma che ha ritenuto superfluo intervenire, procrastinando ad infinitum una situazione di pericolo nonché di degrado che all'oggi, nell'inerzia e nell'imperante irresponsabilità degli organi di controllo, pare letteralmente al collasso e difficilmente rimediabile". Catanzaro: concerto di musica classica oltre le sbarre del carcere www.catanzaroinforma.it, 20 aprile 2015 Iniziativa curata da Mario Sei e dal soprano Giovanna Massare. Portare anche la musica lirica in un carcere sembra insolito, eppure il successo e l'apprezzamento da parte dei circa 150 detenuti di Alta sicurezza ha dimostrato che anche la musica, per certi versi considerata d'élite e comunque per intenditori, entusiasma tutti e soprattutto emoziona. Con questo intento l'amministrazione della casa circondariale di Catanzaro, nella persona del Direttore - Angela Paravati - di concerto con Mario Sei, assistente volontario presso la struttura, ha organizzato un evento cosi importante e di alta qualità musicale. Il teatro collocato all'interno del carcere quasi per incanto si è trasformato in un piccolo "teatro dell'opera", con un programma degno di grandi palcoscenici che certamente resterà nella memoria sia dei detenuti che in maniera composta hanno assistito a circa due ore di repertorio, ma anche nella memoria degli stessi artisti che porteranno il ricordo di un'esperienza davvero significativa. L'evento si è avvalso della presenza ed organizzazione del maestro Giovanna Massara, noto soprano catanzarese, la quale ha curato il programma, attenta a ricercare brani ed arie che, nel corso della kermesse, potessero gradualmente "avvicinare" gli spettatori detenuti verso il canto lirico, passando per brani di musica sacra e classica. Presenti anche il maestro Amedeo Lobello, docente di pianoforte e sassofono al Conservatorio e due giovani talenti, che alle spalle hanno già diverse esperienze anche a carattere regionale e nazionale, Laura Screnci, vincitrice della VIII^ edizione di "Una voce per lo Jonio" e Giuseppe Froio, cantattore in diversi musical. Oltre al bel canto non sono mancati anche altri momenti altrettanto entusiasmanti grazie alla lettura di alcune poesie a cura dei detenuti attori che da tempo sono impegnati in un laboratorio teatrale con lo stesso Mario Sei e già vincitori di alcune poesie in concorsi nazionali in ambito carcerario. Tante le arie d'opera che sono state interpretate da Giovanna Massara, tra cui Casta Diva ed Un bel di vedremo e poi ancora Laura Screnci che ha eseguito Seguidilla e Habanera (Carmen-Bizet) e Giuseppe Froio che ha cantato Nessun Dorma, oltre ad alcuni brani di Andrea Bocelli. Tanti i brani di musica classica, tra cui due famosissimi brani del premio oscar Ennio Morricone e due emozionanti Ave Maria, rispettivamente di Schubert e di Gounod. Amedeo Lobello ha accompagnato magistralmente oltre al soprano, anche la lettura delle belle ed intense poesie, scritte dai detenuti Pasquale, Giovanni e Francesco e lette, tra gli altri anche da Davide, che presto sarà tra i protagonisti della rappresentazione teatrale dal titolo "Riprovare", scritta e diretta da Mario Sei. Con The Prayer i quattro artisti si sono congedati con l'augurio, cosi come dice il testo di questa famosissima canzone, che si possa sognare un mondo senza più violenza… un mondo di giustizia e di speranza. Il direttore della struttura, Angela Paravati, non perde mai occasione di portare oltre i muri e decine di cancelli eventi di qualità, che consentano ai detenuti di "conoscere" realtà che esprimono positività, modelli da imitare, artisti che volontariamente decidono di regalare emozioni a chi non ne avrebbe diversamente la possibilità, se non attraverso l'immaginazione. Gli artisti sono stati premiati con alcuni oggetti in ceramica, creati e decorati a mano per l'occasione da alcuni detenuti e da un decoratissima e gustosissima torta, preparata da alcuni detenuti pasticcieri, donata al soprano Giovanna Massara con tanto di note musicali e nome di questa brava artista calabrese. Perugia: al carcere di Capanne le "evasioni" sono golose, evento previsto per mercoledì Corriere dell'Umbria, 20 aprile 2015 È già al completo la cena Golose Evasioni prevista il 22 aprile. Si tratta di un evento specialissimo, che si tiene nel carcere di Capanne di Perugia, giunto alla terza edizione e organizzato dalla cooperativa sociale Frontiera Lavoro con la direzione del complesso penitenziario e in collaborazione con l'Unione regionale cuochi umbri (sezione umbra della Federazione italiana cuochi). Protagonisti assoluti della serata sono i ragazzi della sezione maschile che hanno seguito il corso per diventare "Addetto alla cucina" del progetto "Intra: azioni integrate per la transizione al lavoro delle persone detenute" finanziato dalla Provincia. Il ricavato della serata sarà destinato a ulteriori progetti di sensibilizzazione al reinserimento socio-lavorativo in loro favore. A quello che è ormai diventato uno degli appuntamenti più attesi e partecipati del Perugino prendono parte anche ospiti illustri come Giancarlo Polito, uno dei più importanti chef del panorama della ristorazione italiana, che coordinerà i ragazzi nella preparazione del menù studiato per la serata. E non finisce qui; ad allietare il convivio la partecipazione di Gabriele Mirabassi e Roberto Taufic, rispettivamente clarinettista e chitarrista di fama internazionale. Milano: un aperitivo-incontro preparato per Expo dalle detenute di San Vittore di Elisabetta Longo Tempi, 20 aprile 2015 Durante il periodo dell'esposizione, nel giardino del penitenziario milanese prende vita un progetto che coinvolge le carcerate. Expo toccherà ogni zona di Milano. Quello che, però, nessuno si aspetterebbe è che entrerà anche all'interno del carcere di San Vittore. Saranno le detenute stesse della casa circondariale a invitare gli ospiti grazie al progetto "Libera scuola di cucina" di A&I Onlus, una cooperativa sociale che si occupa di sostenere il lavoro in contesti di fragilità. La A&I Onlus, nata nel 1998, porta avanti il progetto "Libera scuola di cucina" dal 2012, e già l'anno scorso ha realizzato eventi aperti al pubblico di San Vittore, come spiega a tempi.it la responsabile dell'attività, Marina De Berti: "Noi non forniamo catering o servizi legati al cibo, ma siamo un'unità formativa permanente all'interno del carcere, sia con la "Libera scuola di cucina", riservata alle detenute donne, sia con il corso formativo per barman e assistenti di sala, riservato ai detenuti uomini. Il nostro obiettivo è rendere utile quel tempo di attesa che i carcerati di entrambi i sessi devono scontare a San Vittore, che molto spesso è solo un luogo di passaggio. Anche un periodo di transizione può diventare un'esperienza formativa. Abbiamo scelto il tema della ristorazione perché non servono tempi troppo lunghi per acquisire delle conoscenze". Le lezioni in cucina sono tenute dallo chef Stefano Isella. Si impara a spadellare, a impiattare, a scegliere gli abbinamenti tra cibi, a capire i tempi della cucina. Ma soprattutto ad accogliere gli ospiti, perché non ci sarebbe la cucina se non ci fossero attendenti in sala: "Nella primavera dell'anno scorso abbiamo organizzato degli "Aperitivi", e li organizzeremo anche quest'anno, per tutta la durata dell'Expo, nei giardini del carcere. Sul nostro sito sarà possibile registrarsi, per un massimo di 40 persone alla volta, e chi verrà potrà fare un'esperienza ben più ricca di un semplice happy hour. I visitatori saranno accompagnati in un giro per il carcere, sarà spiegato loro come funziona l'organizzazione al suo interno, potranno conoscere le detenute e le poliziotte penitenziarie che ci aiutano. Dopo questa doverosa introduzione, gli ospiti potranno rifocillarsi con quanto realizzato dalle ragazze. Chiediamo a tutti una donazione di 20 euro, come se si stessero ordinando due cocktail in un locale milanese. Ma quei 20 euro varranno molto di più, perché non prendiamo finanziamenti pubblici, e le donazioni serviranno per pagare il cibo ma anche a finanziare le spese stesse del carcere. Noi lo chiamiamo "il tesoretto", e serve laddove i finanziamenti pubblici non arrivano, per comprare beni di prima necessità per le detenute". Per la serata inaugurale dell'Expo, il 1° maggio, nel carcere milanese sarà organizzato un evento speciale. Sarà infatti proiettata, in contemporanea con il Teatro della Scala, la prima dell'opera Turandot. A occuparsi del catering di benvenuto saranno le ragazze di "Libera scuola di cucina", molto emozionate all'idea: "Mi dicono sempre che non vedono l'ora che arrivi il periodo degli Aperitivi. È molto importante per loro confrontarsi con persone esterne, è come se incontrassero il futuro che le aspetterà una volta uscite". Un aiuto importante nello svolgimento delle attività è dato dalle poliziotte penitenziarie: "È profondamente errato chiamarle "guardie", visto che fanno ben più di aprire o chiudere un cancello a chiave. Sono esse stesse parte attiva della "Libera scuola di cucina". Basta vedere con quanto impegno curano l'organizzazione degli eventi. Se non fosse per la divisa, non si distinguerebbe una detenuta da una poliziotta, mentre spostano tavoli e sedie per i preparativi". Spesso le detenute sostano a San Vittore per poco tempo, perciò A&I ha studiato una rotazione e un attestato da conseguire in poche lezioni. Bastano cinque ore di frequenza per dimostrare di avere appreso delle conoscenze, utili per il "dopo". Dal 2012 a oggi "Libera scuola di cucina" ha formato 40 detenute. Sono loro stesse a riconoscersi una nuova identità, fin dalla prima ora di lezione frequentata. Perché indossare il grembiule le rende donne nuove, pronte a rimettersi in gioco: "Quando penso alle ragazze che ho conosciuto, me ne viene sempre in mente una in particolare. Desiderosa di imparare, ligia ai suoi compiti, questa detenuta ha ottenuto in breve tempo l'attestato. Grazie al nostro impegno, un ristoratore del centro di Milano le aveva assicurato un lavoro part time come cameriera e, grazie alla rete di social housing, eravamo riusciti a trovarle una sistemazione. Tutto sembrava volgere verso un futuro migliore, ma il giorno in cui ha varcato il cancello di San Vittore è arrivata la Polizia a prenderla, per trasferirla al Centro di accoglienza a Tor Vergata, a Roma, per una questione di problematiche legate al suo Paese d'origine. Il futuro dell'ex detenuta è svanito in un attimo, e questo perché non c'è ancora sufficiente dialogo tra le istituzioni italiane. Invece dovremmo lavorare tutti per un unico obiettivo, quello di rispettare l'articolo 27 della Costituzione, che sottolinea l'importanza della rieducazione del condannato". Stati Uniti: scandalo sull'Fbi, esami di laboratorio truccati per incastrare gli imputati di Vittorio Zucconi La Repubblica, 20 aprile 2015 Bufera sugli investigatori americani. I controlli sospetti hanno ingiustamente mandato a morte 32 persone. Morire per un capello, nell'illusione della pseudoscienza investigativa piegata agli imperativi della politica e di indagini che devono produrre un colpevole a tutti i costi e persino ucciderlo: è la morale raggelante della scoperta che l'Fbi ha sopravvalutato, male interpretato o addirittura truccato per anni migliaia di "prove" costruite sull'esame dei capelli. Prima che la genetica smentisse, con gli esami del Dna, decine di sentenze rivelando l'innocenza dei condannati, il Federal Bureau of Investigation aveva individuato nei capelli trovati sui luoghi del delitto, più attendibili delle controverse impronte digitali, una della direttissime per identificare i responsabili. Ma dopo un riesame minuzioso condotto dalla Associazione Nazionale degli Avvocati Difensori, la Nacdl, e dal "Progetto Innocenza", emerge che l'Fbi ha barato quasi sempre a favore dell'accusa utilizzando l'esame microscopico dei capelli. Trentadue imputati furono condannati a morte e quattordici di loro giustiziati, sulla base di queste presunte prove truccate. L'espressione che l'inchiesta condotta sui processi prima del 2000 e pubblicata ieri dai media americani come il Washington Post è volutamente cauta, per non creare l'impressione che la massima agenzia investigativa del governo federale e la sola nazionale bari al gioco terribile della verità giudiziaria: l'Fbi ha overstated, si dice, ha esagerato, ha sopravvalutato le evidenze probatorie cercate con il microscopio nei capelli e nei peli sui luoghi del delitto, offrendo agli investigatori, all'accusa, alle giurie popolari certezze che certezze non erano. Ma le parole non possono cambiare i numeri che sono raggelanti. Nei 268 casi nei quali i capelli sono stati usati contro l'imputato l'Fbi ha portato in dibattimento prove che non erano prove, elementi fasulli. Nel 95 per cento dei casi studiati, l'errore è andato a favore dell'accusa, contribuendo alla sentenza di colpevolezza. Soltanto raramente l'errore, che sempre e comunque è possibile, ha portato all'assoluzione. Sono dati, comunque parziali perché ancora le polizie e le procure della repubblica rifiutano di aprire gli archivi su 1200 processi, che tendono a confermare il classico sospetto di ogni avvocato difensore e di ogni imputato, che la macchina investigativa, l'apparato della Giustizia siano costruiti intenzionalmente non per portare alla determinazione della colpevolezza o della non colpevolezza, ma per raggiungere a ogni costo una sentenza di condanna. L'Fbi, che dopo i decenni della implicita, autocratica certezza di infallibilità che il suo creatore e zar, J. Edgar Hoover aveva creato con instancabile propaganda, ha risposto, insieme con il Ministero della Giustizia, che il Bureau, come tutti i magistrati inquirenti e i tribunali "sono fortemente impegnati a perfezionare e rendere ancora più accurate le analisi dei capelli, così come l'applicazione di tutte le scienze forensi ". Mentre tutti i condannati in processi basati sull'esame dei capelli saranno informati dei possibili errori giudiziari. Un impegno che sarà di poco conforto per i quattordici uomini già passati attraverso le camere della morte nei penitenziari. La rivelazione, che si aggiunge alle vicende di detenuti, alcuni addirittura da anni nei bracci della morte, scagionati completamente dai nuovi test sul Dna, non certifica la fallibilità dei test sui capelli, ma fa di peggio: insinua il dubbio che l'Fbi, come le Procure, le polizie, la pubblica accusa giochino a carte truccate pur di ottenere prima l'incriminazione e poi la condanna dell'accusato. E così giustificare davanti a elettori che chiedono "giustizia" indagini e celebrazioni di processi, valutate positivamente soltanto se portano a una condanna. I prosecutor, i magistrati dell'accusa, sono misurati in funzione delle sentenze di colpevolezza che riescono a ottenere. Il principio del dubbio pro reo, che deve valere nelle aule di giustizia quando il procedimento è pubblico, non vige nei laboratori delle analisi scientifiche dove, se questi dati sono concreti, sembra funzionare l'esatto opposto: nel dubbio, si va contro il presunto reo. Un dubbio che apre un altro, amarissimo capitolo nell'amministrazione della Giustizia anche nelle nazioni apparentemente più garantiste e rispettose dei diritti dell'accusato e dell'imputato. Che siano i soldi e non la scienza ha determinare l'esito di un procedimento. Nel sospetto che anche le prove e gli indizi qualificati con la solennità della scienza siano piegati alla soggettività di chi investiga e conduce l'accusa "nel nome del popolo", la difesa deve ricorrere a controanalisi e controperizie capaci di confutare, o almeno di mettere in discussione le conclusioni degli accusatori. Un diritto che ha un enorme e ovvio limite nei costi: non tutti gli imputati possono permettersi le batterie di contro analisi forensi e quelli che non possono si devono affidare al lavoro di agenzie governativa teoricamente al di sopra delle parti. Una semplice, quanto evidente spiegazione del perché sia molto più facile mandare in carcere o al patibolo i poveri e sia più facile scampare, per i ricchi. Eppure anche i meno ricchi pagano le tasse che finanziano il lavoro dei funzionari governativi che li trascinano in carcere tirandoli per i capelli.