Alta Sicurezza: il girone dei dannati di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 18 aprile 2015 Molti miei compagni saranno probabilmente "deportati" e gettati, "come spazzatura umana", in altri carceri perché nel carcere di Padova sarà chiusa la sezione di "Alta Sicurezza". Mi ha colpito la loro poca voglia di lottare e penso che l'Assassino dei Sogni lo fa apposta, perché più un prigioniero è messo male e meno problemi produce. Probabilmente sanno che se tu metti una persona nella condizione di poter solo sopravvivere è difficile che poi possa pensare a qualche cos'altro. (Diario di un ergastolano: carmelomusumeci.com). La redazione di Ristretti Orizzonti da anni, fin dalla sua nascita, fa un giornalismo vero, rigoroso e scomodo tra le sbarre. E con la minaccia della chiusura della sezione di Alta Sicurezza del carcere di Padova, la redazione ha deciso di iniziare una inchiesta dal basso sui vari gironi "infernali" che esistono nelle nostre "Patrie Galere" e che non sempre i funzionari del Dipartimento Amministrativo Penitenziario governano con sensibilità, umanità e rispetto della legalità. In Italia esistono sostanzialmente tre gironi più o meno "infernali", il cosiddetto carcere duro (o se preferite il regime di tortura del 41 bis dell'Ordinamento penitenziario), il circuito di "Media Sicurezza" e quello di mezzo dell'Alta Sicurezza (diviso in AS1, AS2 e AS3). Sembra incredibile, ma essere declassificato dal circuito di "Alta Sicurezza" è molto più difficile e complicato che uscire dal regime di tortura del 41 bis. Chiunque è ristretto nelle Sezioni di Alta Sicurezza (ex Elevato Indice di Vigilanza ed ex braccetti della morte) non riceve alcuna comunicazione sulla riduzione dei diritti del normale trattamento. Ma questa locazione pone sostanzialmente limitazioni nel partecipare al programma di riabilitazione. Il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (Dap) si giustifica dicendo che le Sezioni di "Alta Sicurezza" sono appropriate alla personalità del detenuto e che non c'è alcuna lesione e riduzione dei diritti e delle regole trattamentali. Quest'affermazione a mio parere, più che una bugia mi sembra una cattiveria, perché in questi circuiti e all'interno di queste Sezioni diventa più difficile, per non dire impossibile, promuovere il lavoro di reinserimento delle persone detenute e sviluppare a questo scopo un insegnamento e una formazione, il che è in netta contraddizione con la funzione di reinserimento o di riabilitazione della pena (questo succede un po' meno nel carcere di Padova, ed è il motivo per cui riteniamo ingiusti questi trasferimenti che spezzano le cose buone che sono state fatte alla Reclusione di Padova, e che non esistono in altre sezioni AS). Ci sono però delle domande a cui vorremmo avere risposte serie: l'Amministrazione Penitenziaria, assegnando il detenuto alla Sezione di Alta Sicurezza, non adotta comunque un provvedimento non formale di sottoposizione al regime di sorveglianza particolare ex-art. 14bis (e come tale reclamabile), aggirando quindi le prescrizioni normative relative alla possibilità d'impugnativa, nell'intento di mantenere la Magistratura di Sorveglianza al di fuori delle tematiche inerenti l'assegnazione nei circuiti di "Alta Sicurezza"? Non è forse vero che il circuito detentivo di "Alta Sicurezza" non è previsto dalla legge, ma da una circolare ministeriale che finisce spesso per scavalcare le leggi e i regolamenti.? L'assegnazione restrittiva in Alta Sicurezza non viene infatti né comunicata né motivata. Non è preso in considerazione il comportamento soggettivo. E il soggiorno nelle sezioni di Alta Sicurezza opera senza possibilità di limitazioni temporali, ci sono detenuti allocati in queste sezioni (cambiano i nomi, ma non le caratteristiche del circuito) da decenni perché non viene mai rispettato quanto previsto dall'art. 32 comma 2 del D.P.R., 30 giugno 2000 n. 230: "La permanenza viene verificata semestralmente". Praticamente sono molteplici e non agevolmente enumerabili le limitazioni incluse nella sottoposizione al circuito di Alta Sicurezza: dall'esclusione del possesso d'oggetti d'uso comune; sino a limitazioni concernenti trattamento, difficoltà e limitazioni maggiori al diritto allo studio, alle mansioni lavorative ottenibili e alla partecipazione alle commissioni, per non parlare della mancanza della territorialità della pena e del marchio di pericolosità che questa assegnazione comporta. Che altro aggiungere? Dei miei ventiquattro anni di carcere ne ho passati cinque sottoposto al regime di tortura del 41 bis, diciotto in circuiti di "Alta Sorveglianza" (in passato si chiamava "Elevato Indice di Vigilanza") e adesso da un anno mi trovo in "Media Sicurezza". E quando ci penso provo tanta amarezza (e pena) perché l'Amministrazione Penitenziaria mi ha fatto inutilmente soffrire, a me e ai miei familiari, per due decenni, tenendomi detenuto per tanto tempo con una vivibilità ridotta e probabilmente illegale. Motivandola solo con una presunta pericolosità pregiudiziale inesistente e datata. Come sta accadendo a tanti miei ex compagni ancora assegnati, senza nessuna seria verifica temporale, nei gironi infernali dell'Alta Sicurezza. Giustizia: l'eredità del Novecento di Luigi Manconi Left, 18 aprile 2015 All'articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, si legge: "Il termine tortura indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti a una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito". A leggerla lentamente, parola dopo parola, si rivela come una definizione esemplare per il suo nitore letterario e giuridico. E in quel riferimento alle "sofferenze mentali" si ritrova l'eredità tragica e consapevole, crudele e meditata di due eventi che hanno segnato in profondità il 900. Ovvero le macchine concentrazionarie dei lager e dei gulag e i regimi dispotici che le hanno realizzate; e lo sviluppo delle discipline della psiche e delle scienze umane, utilizzate - nei lager e nei gulag grandi, medi e piccoli - in senso anti-umano. Di tutto ciò, di questa significativa cornice giuridica e storica, il disegno di legge approvato la settimana scorsa alla Camera conserva ben poco. È stato cancellato, infatti, il riferimento allo stato di privazione della libertà e alla condizione di minorata difesa che, nel testo originale, costituivano il necessario corollario della scelta di qualificare la tortura come un reato proprio: un reato, cioè, imputabile ai pubblici ufficiali e a chi eserciti pubbliche funzioni, e che derivi da un abuso di potere ai danni delle persone sotto custodia. Già il Senato, all'opposto, aveva finito con il qualificare la tortura come reato comune, attribuibile a "chiunque" abbia in affidamento, cura o custodia la vittima. A ciò si aggiunga il fatto che è stato introdotto il dolo specifico (la tortura finalizzata a "ottenere informazioni o dichiarazioni o infliggere una punizione o vincere una resistenza, ovvero in ragione dell'appartenenza etnica, dell'orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose"). E questo fa temere che resti fuori proprio la forma peggiore di tortura: quella, cioè, dovuta a mero sadismo e a violenza non solo del tutto priva di giustificazione, ma anche di qualsivoglia - seppur deteriore - motivazione. Infine, una serie di ulteriori elementi e condizioni rischiano di rendere di difficile applicazione la legge. Detto tutto ciò, ritengo in ogni caso che quella normativa vada approvata: perché tra non avere una legge - trentun anni dopo che l'Assemblea generale dell'Onu ha approvato la Convenzione e ventisette anni dopo la ratifica da parte dell'Italia - e averne una mediocre, preferisco questa seconda opzione. Scelgo, in altre parole, il male minore. Il motto "il meglio è nemico del bene" nasconde, spesso, ipocrisie e insidie, ma in questo caso ha una sua incontestabile ragionevolezza. Se il testo approvato la scorsa settimana venisse modificato dal Senato, dovrebbe tornare ancora alla Camera. Ciò potrebbe determinare un esito rovinoso: il rinvio alla prossima legislatura o, nella migliore delle ipotesi, un differimento di almeno due, tre anni. Possiamo permettercelo? Giustizia: la tortura ora è reato… ma il 41bis non è tortura? di Antonietta Denicolò (Componente Giunta Unione Camere Penali) Il Garantista, 18 aprile 2015 Dopo il plauso, con diversi toni espresso per salutare l'ingresso, seppur tardivo, del reato di tortura nel nostro ordinamento, la dovuta attenzione alla tutela dei diritti di ogni singolo cittadino ed il doveroso sguardo d'insieme delle disposizioni tanto codificate, quanto normative in genere, impone a noi, operatori di diritto, di interrogarci, con laica serenità, in punto alla coesistenza nel nostro sistema del neonato reato di tortura con il mantenimento e la frequente applicazione del regime custodiate disciplinato dall'art. 41 bis dell'ordinamento penitenziario. Regime (il 41 bis) al quale vengono indifferentemente sottoposti tanto i soggetti condannati in via definitiva, quanto chi soffre la carcerazione cautelare. L'Unione delle Camere Penali da anni è attiva nella battaglia di sensibilizzazione dell'opinione pubblica sull'esistenza di questo particolare regime, che previsto dal legislatore come strumento assolutamente eccezionale ed applicabile solo in relazione alla necessità di contenimento delle condotte criminali più efferate, esplicate nel contesto di associazioni di stampo mafioso, di fatto si è diffuso e si diffonde in modo spesso apodittico, e per ciò particolarmente inaccettabile. Proprio il regime al quale ex 41 bis il detenuto è sottoposto per decretazione ministeriale palesa una mistificazione della volontà di arginare le condotte lesive per la collettività con una concreta e reale tortura psicologica nei confronti del ristretto, che nulla ha a che vedere con le esigenze di tutela dei cittadini rispetto al crimine organizzato. Ammesso per ipotesi che la censura della corrispondenza, la registrazione audio-video dei colloqui del ristretto con i familiari, e le forme di restrizione idonee ad arginare la possibilità di contatto tra soggetti appartenenti alla medesima organizzazione possano astrattamente apparire tutele adeguate rispetto alla potenziale pervasività delle condotte dei soggetti inseriti in consorterie di stampo mafioso, l'adduzione di limiti obiettivamente inspiegabili trasforma la cautela in una sorta di tortura. Non si comprende perché chi è sottoposto a regime di 41-bis abbia diritto di incontrare i propri familiari solo per un'ora al mese ed in giornate preordinate e rigidamente calendarizzate. Così, se per ipotesi il mercoledì 24 di un certo mese la moglie non può fare visita al marito, il diritto di visita per quel mese "salta", né può essere recuperato nel primo mercoledì successivo disponibile, ma dovrà collocarsi nel mese successivo in un mercoledì contiguo alla data del 24, di modo che il ristretto subirà l'assenza di contatto con i familiari non più e non solo per un mese, ma addirittura per due. Si tenga ancora conto che se chi è ristretto in regime di 41 bis ha figli in età pre adolescenziale può vivere il contatto fisico con il minore solo per dieci minuti al mese e nel contesto di quel colloquio di un'ora cui sopra si accennava, colloquio che con i parenti viene appunto gestito attraverso una parete trasparente a chiusura ermetica. Anche di fronte a questa osservazione, solo apparentemente banale, ci si chiede: è la limitazione del contatto fisico con un figlio ciò che tutela la collettività, o piuttosto in questa limitazione va letta un'afflizione aggiuntiva alla pena? Ma quando ad afflizione si aggiunge afflizione, e soprattutto quando le stesse sono smaccatamente immotivate, la pena inverte il suo ruolo istituzionale in quello di tortura. Sull'argomento relativo all'afflittività sproporzionata della pena e sui danni che comporta si è recentemente diffuso anche il Pontefice. A noi tecnicamente residua dire che quella inflitta con il regime di 41 bis O.P è tortura nel senso pieno ed etimologico del termine: è sottoposizione del soggetto ad un male psicologico e morale così intenso, e così in grado di incidere, probabilmente in modo indelebile, sulla sua personalità -circostanza questa per la quale l'Italia sul punto è stata censurata oltre che dalla datata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche dal recente report del 19 novembre 2013 relativo alla visita effettuata in Italia dal Comitato europeo per la prevenzione e la tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti - non certamente giustificato dal diritto dello Stato di decontestualizzare il soggetto dall'ambiente criminale, ma smaccatamente proiettato a sollecitare la sua collaborazione con la giustizia. E se il principio di massima, con la censura che ne consegue, appare grave ed intollerabile nei confronti di ogni detenuto, maggiori e più inquietanti perplessità desta la prassi in via di consolidamento di collocazione in regime di 41 bis dei soggetti solo indagati, e per ciò colpiti da ordini di custodia cautelare. Ci siamo chiesti quale sia il limite di liceità etica che consente di violentare il nostro sistema, il principio costituzionale di presunzione d'innocenza sino all'intervento delle sentenze definitive di condanna, piuttosto che il diritto al silenzio negli interrogatori, sino a consentirci di inserire nei corpi di detenzione del cosiddetto "carcere duro" i cautelati in attesa di giudizio. Forse l'idea è preconcetta, ma la saggezza popolare insegna che a pensare male si fa peccato ma non sempre si sbaglia: la decretazione ministeriale che in modo apodittico colloca gli indagati in regime di 41 bis O.P. è la legittimazione di una forma di tortura. Un sistema civile, se da un lato non può che tollerare il fenomeno del cosiddetto pentitismo riconnettendolo al perseguimento dei fini di giustizia, dall'altro non può abbassarsi a torturare l'indagato con vessazioni morali del tipo di quelle accennate. L'inserimento e la debordante applicazione del regime di 41 bis agli indagati nei processi che seguono le regole del cosiddetto doppio binario (ovvero di deroghe procedurali applicate solo ad una determinata tipologia di processi) trasforma in una forma di tortura la custodia cautelare, getta una luce livida e sinistra sulla deroga alle garanzie costituzionali e trasforma il processo secondo il doppio binario in una sorta di binario 21, dal quale vorremmo che nessun treno fosse mai partito nel 1943 e dal quale pretendiamo oggi che nessun convoglio più si diriga per addentrarsi in un mondo in cui la valutazione preconcetta ed acritica condizionano l'esistenza di un uomo prima dell'intervento di una sentenza che, attraverso un giusto processo, abbia conclamato o escluso la sua responsabilità. Giustizia: il Presidente del Senato Grasso "introduzione del reato di tortura, basta rinvii" di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 aprile 2015 Il ddl torna da martedì prossimo in commissione Giustizia per il sì definitivo. Il presidente sprona i senatori: "Testo perfettibile ma gli italiani aspettano da troppo tempo". Amnesty Italia festeggia i 40 anni chiedendo il "reato subito". Torna in Senato per la seconda volta, e forse per l'ultima fase dell'iter di approvazione, il ddl che introduce il reato di tortura nell'ordinamento italiano. All'ordine del giorno dei lavori della commissione Giustizia di martedì e mercoledì prossimi c'è la discussione generale del testo licenziato dalla Camera il 9 aprile scorso. E il presidente Pietro Grasso esorta i senatori a non rinviare ulteriormente la discussione: "È un testo senza dubbio perfettibile ma non più rinviabile: è da troppo tempo che i cittadini italiani aspettano di veder inserito questo termine nel nostro codice penale", ha detto ieri celebrando in Campidoglio il quarantesimo anniversario di Amnesty International Italia. L'associazione ha poi organizzato nel pomeriggio una manifestazione per sollecitare il Senato ad approvare definitivamente il "reato di tortura subito!". Trecento delegati dell'assemblea di Amnesty che indossavano immagini e cartelli contro la tortura hanno disegnato l'immagine dell'Italia sulla scalinata dell'Ara Coeli. Perciò sullo stesso tasto ha battuto anche il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, intervenuto in Campidoglio: "Dobbiamo sviluppare la nostra agenda nazionale a cominciare dalle carceri, portare a termine il ddl sulla tortura. Ne abbiamo bisogno, dopo il caso della Diaz un Paese civile deve farlo". Mentre il sindaco Ignazio Marino ha parlato di "deviazioni", un "termine - ha detto - che ha caratterizzato la storia italiana e credo che possa essere applicato anche alla questione tortura". Perciò, ha aggiunto, "bisogna tenere sempre alta l'asticella dell'attenzione". Anche Amnesty International Italia - come Sel e il M5S - ha sollevato alcune critiche sulla fattispecie del reato di tortura così come è scritto nel testo del ddl che ora torna al Senato, pur tuttavia ritiene ormai indispensabile procedere speditamente verso l'approvazione, tanto più dopo la condanna inflitta all'Italia dalla Corte europea dei diritti umani per le violenze della polizia perpetrate contro i manifestanti nella scuola Diaz a Genova, nel 2001. Una sentenza arrivata grazie al ricorso presentato da Arnaldo Cestaro che oggi ha 75 anni e da quella notte ha riportato danni permanenti ad un braccio e ad una gamba. Ieri il combattivo Cestaro si è presentato nella sede del manifesto per "ringraziare la redazione - ha detto - di aver sostenuto la mia, la nostra battaglia". Ma a rendere ancora più cogente la questione è il bailamme che non accenna a diminuire scatenato dalla Lega e dalla destra contro il capo della polizia Alessandro Pansa dopo la sospensione dal servizio di Fabio Tortosa, il poliziotto che su Facebook aveva rivendicato l'irruzione alla Diaz ("In quella scuola rientrerei mille e mille volte", aveva scritto suscitando una valanga di sproloqui anche provenienti da esponenti delle forze dell'ordine), e del comandante del Reparto Mobile di Cagliari, Antonio Adornato, che aveva manifestato apprezzamento per quelle frasi choc. Anche ieri il leader leghista Matteo Salvini è tornato all'attacco, con dubbio beneficio per le forze dell'ordine: "Io sto coi poliziotti e i carabinieri, che hanno un ministro inadeguato e un capo della polizia inadeguato - ha detto dai microfoni di Radio Padania - Pansa vada a fare altro, vada a collaborare con la Fondazione Migrantes, i poliziotti hanno bisogno di qualcuno che stia dalla loro parte". Perfino lo stesso Tortosa continua a rinfocolare la polemica: "Adornato? La sua rimozione è un atto grottesco", ha detto durante un'intervista a Radio 24 unendosi al coro di proteste sollevate dai sindacati di polizia più conservatori. Così, in Senato, mentre si ricomincia a lavorare sul ddl - relatore del provvedimento sarà il socialista Enrico Buemi - sono ormai tre le proposte depositato per istituire una commissione parlamentare d'inchiesta: monocamerale, per Sel e per il senatore Pd Luigi Manconi, bicamerale secondo la pdl dell'ex M5S Francesco Campanella. Il presidente Grasso però non sembra molto convinto dell'utilità di una commissione che potrebbe accertare reati ormai prescritti. "Eppure - spiega la presidente dei senatori di Sel, Loredana De Petris - Solo così si potrà spezzare la catena di omertà che ha sinora impedito di raggiungere la verità sia storica che processuale". Giustizia: tortura, una legge spaventa più del reato di Ilaria Giupponi Left, 18 aprile 2015 Montecitorio si accontenta di un compromesso. Ma i giuristi attaccano il provvedimento approvato dalla politica: "Un testo dannoso che era meglio non avere". A oggi il nostro Paese consente che il corpo di polizia torturi le persone. Lo Stato, che deve proteggere l'individuo, al punto da punire chi compie un tentato suicidio (perché non legittimato ad attentare alla propria vita), non punisce l'inflizione volontaria di sofferenza fìsica o mentale al prossimo. Chi tortura non deve temere processo, e chi viene torturato non è, al momento, tutelato. Questo dice la sentenza della Corte europea dei diritti umani che l'8 aprile, di nuovo, ha richiamato all'ordine l'Italia, questa volta per la mattanza alla scuola Diaz, avvenuta nel 2001 durante il G8 di Genova. E questo dice il nostro ordinamento giuridico che non ha ancora introdotto - a 27 anni dalla ratifica della Convenzione Onu di New York - il reato di tortura con annesse pene "adeguate che ne prendano in considerazione la gravità", come recita l'art. 4 della Convenzione da noi baldanzosamente firmata. Stavolta, però, la condanna di Strasburgo ha riattivato l'iter per il disegno di legge fermo sulle scrivanie parlamentari da due anni. Il ddl sul reato di tortura, l'ultimo di una lunga serie, è stato approvato alla Camera il 9 aprile, giusto il giorno dopo la sentenza europea. E attende ora il via definitivo dal Senato. Il testo uscito dalla Commissione giustizia di Montecitorio, però, è un evidente compromesso. "Un pasticcio di maggioranza", per usare le parole del deputato di Sel Daniele Farina, i pareri di politici e i giuristi sono discordanti, ma l'insoddisfazione è comune. E mentre i primi mediano e si accontentano, i secondi si allarmano e denunciano. La politica si accontenta Tra i componenti della Commissione giustizia serpeggia l'insoddisfazione rispetto alla qualità del testo approvato. Per molti quello che sanziona la tortura non avrebbe dovuto essere trattato come un reato comune, ma tant'è. Sostanzialmente, tutti convergono sul principio del "meglio che niente". "È una legge necessaria che colma un vuoto", sostiene il deputato indipendente Claudio Fava, "il reato proprio sarebbe stato più efficace - continua - perché chi rappresenta la pubblica istituzione dovrebbe avere un dovere in più". Sarà efficace? Consentirà di accertare le responsabilità a tutti i livelli? "L'impunità non dipende solo dal fatto che non ci fosse una legge", ragiona il parlamentare, che porta l'esempio della Diaz, "ma anche dal fatto che non siano venuti fuori i nomi dei responsabili, di chi ha coordinato dalla cabina di regia. C'erano dei ministri del governo, capi delle forze dell'ordine, individuare le responsabilità politiche è volontà politica", punta il dito Fava. Più conciliante è il deputato Pd Davide Mattiello: "Il comportamento penalmente rilevante è descritto in una maniera sufficientemente ampia. E, con l'aggravante, non si pone il rischio di lasciare fuori certe condotte". Certo, ammette, "non nascondo che il testo sia frutto di un compromesso. Le resistenze al reato proprio sarebbero state difficilmente superabili: per le forze di destra significava mettere la museruola alla polizia, non fidarsi della polizia, mentre è esattamente al fine opposto che serve una legge del genere". Per Mattiello, piuttosto, la carenza grave è un'altra: l'assenza del delitto di depistaggio e inquinamento processuale "fermo da qualche parte alla Camera, e cugino di primo grado del reato di tortura". Così, avverte il dem, l'arbitrio del potere è incontrollato: "La tortura si colloca sull'orizzonte dei diritti umani, non della violazione della libertà personale. Ha a che fare con il potere. Stiamo parlando di quella particolare forma di violenza esercitata dall'autorità pubblica. È questo il tema". Mentre, a proposito della punizione dei mandanti, l'articolo sull'istigazione è sufficiente: "Da domani c'è qualche possibilità in più che l'ultimo poliziotto della fila dica: "Oh, a me l'hanno ordinato". La legge serve anche a incoraggiare comportamenti che prima sarebbero stati disperatamente eroici. È un messaggio culturale molto forte". Anche Sel, alla fine, ha votato la legge "perché è meglio una norma mediocre che nessuna norma", spiega Daniele Farina. Ma le critiche al testo restano "piuttosto profonde". "Il provvedimento è un pasticcio di maggioranza, una riformulazione dei confini del reato, con delle modifiche che complicano il lavoro di chi dovrà attuarlo". Per Farina, insomma, in casi come quello della Diaz, "il reato rischia di non applicarsi". La pensa così anche il M5s che, a differenza di Sei però, si è astenuto durante la votazione. Per i 5 stelle si tratta di una legge che "aiuterà i torturatori" a causa delle "difficoltà probatorie inserite nell'attuale formulazione", ha commentato in Aula il deputato Vittorio Ferraresi. Un esempio? L'intenzionalità. Tra le modifiche apportate rispetto al testo originario, infatti, all'articolo 1 è stata aggiunto l'avverbio "intenzionalmente", che lascerebbe ampio margine rispetto alla possibilità di provare il reato, e che il M5s aveva chiesto di abolire presentando un emendamento. I giuristi sono allarmati Gli uomini di legge, che con il reato e la sua applicazione dovranno avere a che fare, hanno giudizi ben più netti: "È un testo dannoso", sentenzia l'avvocato Fabio Anselmi, legale della famiglia Cucchi e di altre vittime della violenza carceraria. "Consegna la patente di legittimità processuale a comportamenti che invece andrebbero sanzionati". Tradotto: così com'è, frastagliato di specifiche e precisazioni, la legge consentirebbe di avviare un processo ma non di poterlo concludere con una condanna: "I paletti della formulazione rischiano di consentire a chi si dovesse essere reso responsabile di questi episodi, di uscire a testa alta dicendo "mi hanno assolto, dunque non ho commesso tortura". In casi come quello di Cucchi, per esempio, "il dolo specifico non lo avremo mai: come fai a provarlo?", conclude il legale. Sulla stessa linea è Roberto Settembre, giudice a latere della sentenza di Bolzaneto. Per il magistrato, la norma "è un'arma spuntata" che "era meglio non avere. Una legge fatta malissimo, che equipara la tortura a chi fa del male, ma la tortura è qualitativamente un'altra cosa". È allarmato, Settembre, che da anni chiede l'introduzione del reato in questione: "Questa legge così com'è, serve per avere una copertura rispetto agli organismi internazionali che continuano a metterci in mora. Ma tradisce il principio della Convenzione di New York alla quale vorrebbe ispirarsi, per un motivo molto semplice. Definendo la tortura un reato comune, si perde il concetto alla base della tortura stessa: il reato che commette lo Stato quando abusa del proprio potere". Non un delitto contro la persona commesso fra pari, dunque, ma la vera e propria sopraffazione del potere sul cittadino: "Sta tutta in questo sbilanciamento di forze, l'atrocità di questo delitto", sottolinea il giudice. "Il sanzionamento dev'essere un deterrente per lo Stato. E così non è", spiega: "Prenda la pena minima del reato base, 4 anni? Bene. Presupponendo che queste persone siano incensurate, e che le attenuanti generiche non si negano a nessuno, la pena sarebbe ridotta di un terzo. Con il patteggiamento, via un altro terzo... Vede? È un'arma spuntata, non un deterrente. Stessa cosa per l'aggravante, che seguendo lo stesso iter, sparisce e si ritrasforma in un reato comune, punito come tale". Per non parlare della prescrizione: "Così, il gioco processuale rischia di annichilirla definitivamente". Nella giurisprudenza, dove tutto è un equilibrio fra pesi e contrappesi, termini e specifiche, non si può lasciare al beneficio dell'interpretazione, l'intenzione di una legge. "Prenda il plurale, per esempio: perché "violenze" (nel testo originario era al singolare)? Una sola sigaretta spenta nell'occhio è lesione e non tortura?". In cosa consiste la legge La tortura sarà introdotta come reato comune (e non come reato proprio del pubblico ufficiale): significa che per la configurazione del reato non è determinante il soggetto che compie l'azione. Chiunque commetta tortura - dunque anche un infermiere o una persona entro le mura domestiche - verrà punito con la reclusione da 4 a 10 anni. A rendere il reato più grave, se commesso da un esponente dello Stato (pubblico ufficiale o ufficiale incaricato di pubblico servizio), sarà l'aggravante: se commessa da un membro delle forze dell'ordine, la pena aumenta fino alla reclusione da 5 a 15 anni, aumentata di un terzo se ha provocato lesioni. L'ergastolo è previsto in caso di provocata morte del torturato, 30 anni invece se l'uccisione è involontaria (aumentata quindi rispetto al semplice omicidio preterintenzionale). Per tutti dev'esserci poi il dolo specifico, ovvero l'intenzionalità finalizzata a ottenere qualcosa ("intenzionalmente cagionata, al fine di"). Una specifica, quest'ultima, oggetto di non poche critiche e opposizioni. n secondo articolo introduce una novità importante: il reato di istigazione alla tortura. Si applica a prescindere dall'effettiva commissione della tortura, e punisce con la reclusione da uno fino a sei anni di carcere. Sebbene sia importante, perché mira ai più alti gradi della gerarchia, è di difficile applicazione, vista l'omertà del corpo già dimostrata nei fatti di Genova (e non solo), anche questa alla base della condanna: i giudici europei hanno infatti evidenziato come l'impossibilità d'identificare gli autori dei pestaggi sia derivata dalla "mancanza di cooperazione della polizia". Ancor più, chi denuncerebbe un proprio superiore? È tuttavia fondamentale stabilire che, dall'entrata in vigore della legge in poi, lo Stato non tollererà più l'istigazione alla brutalità e all'umiliazione. Cose alle quali ha finora acconsentito. I seguenti articoli sanciscono che le dichiarazioni ottenute attraverso il delitto di tortura non sono utilizzabili in un processo penale, che non è possibile rimpatriare qualcuno nel cui Paese vige una violazione dei diritti umani, e l'invalidità dell'immunità diplomatica per colui che all'estero sia indagato o condannato per reato di tortura. Ultima postilla: sebbene i termini della "scadenza" siano raddoppiati, il delitto di tortura può cadere in prescrizione. Giustizia chiusura dei manicomi criminali, i Cinquestelle contro il comitato "Stop Opg" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 18 aprile 2015 Il deputato Baroni: "il gruppo di Trieste è mosso da motivi ideologici. Il problema è che le Rems sono state imposte attraverso un provvedimento di legge, senza nessun tipo di discussione". Il Movimento 5 Stelle è contro l'alternativa agli ospedali psichiatrici perché pericolosi per la società e si scaglia contro il comitato Stop Opg perché, a detta sua, sono mossi da motivi ideologici. "C'è un problema fortemente ideologico dietro, - ha spiegato Massimo Baroni, deputato del Movimento 5 Stelle e portavoce alla Camera. per seguire un'ideologia molto forte, molto importante del gruppo di Trieste, Stop Opg, stiamo vedendo che, sì, è giusto prevedere delle piccole strutture a misura di uomo, ma c'è ed esiste il problema del fatto che non è mai stato affrontata la questione: le Rems sono state imposte attraverso un provvedimento di legge che non ha visto nessun tipo di discussione". Poi il deputato continua : "Questo è un altro modo per creare una mangiatoia di denaro pubblico. E tutti gli indicatori vanno nella direzione di mettere in luce una filiera di appalti su queste residenze molto torbida", continua il deputato. "Le intenzione sono buone, ma la questione è stata gestita malissimo, perché non si è stati attenti al progetto con cui si voleva deistituzionalizzare questi pazienti, che sono, però, socialmente pericolosi, non solo a loro stessi, ma anche ad altri". Ma la polemica non finisce qui, perché secondo il deputato del Movimento 5 Stelle un problema altrettanto importante è quello degli appalti e intravvede la corruzione. "Sembra che una delle Rems nel Lazio sia attenzionata dalla procura in merito all'appalto che è stato assegnato in regime d'urgenza, senza i controlli di routine volti a garantire che le ditte coinvolte siano senza macchia". Continua a spiegare il deputato Baroni: "Stanno facendo delle gare di appalto multiple: in un primo momento c'è un appalto per la costruzione di una prima struttura temporanea, in piedi per un anno, e all'interno della stessa gara di appalto rientra un secondo progetto per la costruzione della struttura permanente". Poi il deputato pentastellato aggiunge: "La prima struttura temporanea d'urgenza richiede una somma di denaro pubblico notevole per qualcosa di cui si usufruirà solo per un anno e nel frattempo si lavora alla costruzione della struttura permanente". Per Baroni questo modo di procedere è indicativo di un utilizzo sbagliato del denaro pubblico. Il Movimento 5 Stelle sta cercando di capire il sistema utilizzato per la costruzione e la gestione delle Rems: "Almeno nel Lazio - dice sempre Baroni - l'urgenza viene data dal fatto che se non risulterà partire un numero minimo di Rems, queste verranno commissariate", quindi secondo Baroni ci sarà l'intervento di un commissario esterno per l'attuazione della messa in opera delle Rems, con la conseguenza diretta che le Regioni non avranno più la libertà di gestione dei fondi messi a disposizione per la creazione delle strutture, somma che, come sostiene il deputato, si aggirerebbe attorno al milione di euro. "Ci sono appalti molto sospetti, perché è stato fatto tutto in fretta, con pochissime persone a conoscenza delle modalità con cui sono stati affidati gli appalti e con subappalti che potrebbero essere fuorilegge", spiega ancora l'onorevole Baroni. La Rems di Palombara Sabina (Roma), invece, è emblematica di un'altra problematica connessa alle strutture, quella legata alla sicurezza della comunità in cui le residenze vengono assegnate. La Rems di Palombara Sabina, ad esempio, è posizionata in un'ala dell'ospedale, "a 50 metri da una scuola, inserita nel contesto del paese e la comunità si è opposta a questa decisione", chiosa Baroni spiegando che a causa delle problematiche inerenti, la sicurezza verrebbe compromessa da una struttura del genere. Mentre il movimento cinque stelle polemizza contro i Rems perché - utilizzando le stesse polemiche di chi un tempo si opponeva alla chiusura dei Manicomi e quindi contro la legge Basaglia - li considera pericolosi contro la società libera, c'è chi chiede di vigliare affinché tutto si realizzi senza incertezze e ritardi. Il comitato nazionale Stop Opg, impegnato dal 2011 per l'abolizione di questo istituto "inaccettabile per la sua natura", aveva già annunciato la mobilitazione ad oltranza per una dismissione che sia "senza proroghe e senza trucchi" e che non produca, come si teme, una miriade di "piccoli Opg". Ad un anno dal di di proroga firmato "con estremo rammarico" dall'ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, le regioni sembrano affrontare ancora una volta con difficoltà il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Arrancano Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Puglia e Calabria secondo i dati di Stop Opg. Le due strutture di Grugliasco e Biella apriranno solo dopo il primo settembre. E, invece, prevista per il 4 maggio l'apertura delle due Rems in provincia di Trieste e Pordenone. La regione Puglia metterà a disposizione a fine maggio 20 posti, mentre si protrarrà fino al primo luglio l'attesa per la residenza di Santa Sofia d'Epiro, in provincia di Cosenza. Tra scadenze e ritardi si barcamenano più o meno tutte le regioni, fatta eccezione per il Veneto, che in polemica con soluzioni "raffazzonate", affronta il momento di transizione nella più completa impreparazione. L'assessore regionale alla Sanità Luca Coletto ha definito la sua regione "seria", anziché "inadempiente". "Il Veneto - aveva promesso Coletto -ha già individuato la sede e il progetto per la realizzazione di una nuova struttura definitiva con tutte le caratteristiche necessarie di sicurezza e di umanità". Il rischio, a cui va incontro la regione, è quello del commissariamento. Il sindaco di Roma Ignazio Marino, già Presidente della "Commissione parlamentare d'inchiesta per l'efficacia e l'efficienza del Servizio Sanitario Nazionale", si è dichiarato favorevole all'intervento di un "commissario che tolga alle regioni inadempienti il potere di indirizzo e di utilizzo delle risorse per la cura delle persone". Reduce da un giro di ispezioni negli Opg disseminati sul territorio, Rita Bernardini, Segretaria di Radicali Italiani, era intervenuta al convegno "Ergastolo Bianco", denunciando il ricorso da parte di molte regioni a soluzioni temporanee, il relativo rilascio di licenze a privati e l'assenza di misure di controllo previste per le Rems. Per Francesco Saverio Moschetta, ex direttore dell'Ospedale psichiatrico di Teramo, città che ha ospitato il convegno tenutosi il 26 marzo scorso, il rischio è che lo psichiatra "si trovi in quella situazione di ambiguità per cui deve curare e insieme custodire". La legge n. 9 del 2012 prevede, infatti, l'esclusiva gestione sanitaria delle strutture e il confinamento delle forze dell'ordine all'esterno delle Rems, impegnate in un controllo perimetrale di vigilanza esterna. Il paradosso per Moschetta consiste nell'affidare ai medici strutture concepite per l'esecuzione delle misure di sicurezza detentive. A preoccupare la magistratura è, invece, la disposizione della legge 81 del 2014, che prevede la revoca delle misure di sicurezza per quegli internati che, anche se ritenuti pericolosi, abbiano "superato il limite massimo della pena edittale". Il problema che si pone, secondo il Presidente del Tribunale di Teramo Giovanni Spinosa, è quello dell'organizzazione di una società, che a fronte delle nuove misure dovrà provvedere a "un'assistenza forte e coordinata" di tutela e controllo sul territorio. Nel complesso è forte la diffidenza con cui si guarda alle Rems, ma intanto si assiste alla chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari, luoghi di detenzione da troppo tempo dimenticati dalla sensibilità civile. Giustizia: intercettazioni, Renzi preferisce il testo Gratteri, ok a linea dura anti-abusi di Silvia Barocci Il Messaggero, 18 aprile 2015 La proposta dei pm di Milano e Roma giudicata a Palazzo Chigi troppo blanda presto un incontro con Orlando. Meglio la proposta Gratteri, quella che vieta la trascrizione integrale delle intercettazioni nelle ordinanze e che è più severa con i giornalisti tanto da prevedere il carcere per coloro che pubblicano gli ascolti secretati. Sembra che Matteo Renzi ritenga troppo blanda l'ipotesi avanzata dai procuratori di Roma e Milano, Giuseppe Pignatone e Edmondo Bruti Liberati. "C'è una partita che dobbiamo chiudere: è il tema delle intercettazioni", aveva detto il premier mercoledì scorso all'assemblea del gruppo Pd strappando l'applauso dei presenti. Anche se la partita si chiuderà solo in giugno, nell'entourage renziano si cominciano a soppesare le diverse proposte che, dopo l'ennesimo richiamo del Garante della Privacy Antonello Soro, stanno arrivando dagli stessi magistrati. Con molti distinguo. Ad aver fatto breccia sarebbe la formula del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, a capo di una Commissione governativa di riforma della giustizia penale. Duecentocinquanta pagine che al capitolo ascolti riservano una modifica più soft di quella proposta dal pm di Venezia Carlo Nordio (vietate le intercettazioni nelle indagini ad eccezione di quelle preventive che, però, non hanno valore probatorio) ma senz'altro più dura di quella dei procuratori Bruti Liberati e Pignatone (per i pm resta tutto com'è ma si possono pubblicare solo le conversazioni riportate nelle ordinanze del giudice e non quelle agli atti dell'inchiesta, pena multe salate ai giornalisti e agli editori). Il presidente dell'Anni Rodolfo Sabelli non fa mistero di preferire quest'ultima ipotesi. Lo sforzo di sintesi dei diversi valori in gioco "non è semplice", ammette il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Che Renzi dia ascolto a colui che per 48 ore fu Guardasigilli in pectore è cosa nota; che la proposta del pm di Reggio Calabria debba trovare un riscontro col ministro in carica è scontato. Gratteri e Orlando si incontreranno alla fine del mese. Nel frattempo si stanno studiando le diverse opzioni tecniche per tradurre subito in un articolato la delega sulle intercettazioni contenuta nel ddl di riforma del processo penale ora in commissione giustizia alla Camera. Prendendo le mosse dalla proposta Gratteri, il governo punta a limitare nelle ordinanze del gip la pubblicazione integrale delle intercettazioni che può avvenire solo per sintesi. Il nodo politicamente più sensibile resta quello del carcere. Gratteri ha proposto un nuovo reato che va dai 2 ai 6 anni di carcere (trattandosi di una pena edittale superiore ai 5 anni gli indagati saranno intercettabili) per chi pubblica o diffonde le intercettazioni. Una pena senz'altro pesantissima, soprattutto in controtendenza con la depenalizzazione del reato di diffamazione a mezzo stampa. Giustizia: intercettazioni, più che pm-giudici vanno separate le carriere pm-giornalisti di Francesco Damato Italia Oggi, 18 aprile 2015 È la divisione da fare, più che quella fra giudici e pm, dice provocatoriamente Violante. Per evitare i processi in piazza con una sola campana. Non ha tutti i torti, diciamo pure che ha tutte le ragioni, l'insospettabile Luciano Violante, già magistrato, già presidente della Commissione parlamentare antimafia, già presidente della Camera, già dirigente comunista e post-comunista, quando nella sua nuova veste di garantista a ventiquattro carati sostiene la necessità di separare le carriere non tanto dei pubblici ministeri e dei giudici quanto dei pubblici ministeri e dei giornalisti. Almeno di quelli abituati a raccogliere e diffondere tutto ciò che esce dalle Procure e a imbastire contro indagati e imputati processi mediatici immediati, e sostitutivi di quelli veri, destinati a svolgersi dopo molto tempo e magari a non svolgersi neppure per l'archiviazione delle indagini. Di colpo i capi delle Procure della Repubblica di Milano e Roma, Edmondo Bruti Liberati e Giuseppe Pignatone, sono precipitati dalle stelle alle stalle nella rappresentazione della cronista giudiziaria della Repubblica, Liana Milella, per avere osato sostenere, davanti alla commissione Giustizia della camera che i giornali dovranno e potranno pubblicare solo "quanto è contenuto nelle ordinanze di custodia", già abbondanti di loro per sapere delle imputazioni per le quali l'indagato è finito in manette, o agli arresti domiciliari. Tutto il resto, "perfino le richieste del pubblico ministero, di solito più generose di dettagli, nonché le informative della polizia e i brogliacci delle intercettazioni, pur depositate per gli avvocati - scrive la Milella - non potranno finire sui giornali", almeno fino a quando non passeranno dalle scrivanie dei legali nelle aule dei processi. Probabilmente, a essere separate dovrebbero essere anche le carriere, o i mestieri, degli avvocati e dei giornalisti, evitando che questi ultimi ne diventino i "trombettieri", per ripetere una immagine - quella appunto del trombettiere - di recente evocata autocriticamente da Vittorio Feltri, sul Giornale, per ricordare i propri rapporti nella stagione di Mani pulite con l'allora sostituto procuratore Antonio Di Pietro. Che aiutò generosamente Feltri a portare il suo Indipendente da 20 mila a 55 mila copie, ritardandone quella che lo stesso Feltri ha definito la destinazione "cimitero". Gli avvocati sono una parte del processo, al pari dei pubblici ministeri. Hanno interessi opposti a diffondere notizie ai giornalisti, ma sempre interessi di parte, sempre a scapito di altri, magari incolpevoli, ma che intanto dovrebbero meritarsi la gogna, secondo un certo modo di fare informazione. Nella foga della delusione per le sortite dei capi delle Procure di Milano e di Roma, è sfuggita alla Milella la denuncia di una "rivoluzione nell'equilibrio esistito finora tra magistrati e giornalisti da una parte e politici dall'altra". L'equilibrio cioè della carriera unica dei magistrati e giornalisti. In questa situazione scambia solo la libertà d'informazione per licenza di linciaggio chi evoca il pericolo del bavaglio, aggravato dalle multe a editori e giornalisti, anche se un altro magistrato di punta come Nicola Gratteri, mancato ministro della Giustizia nel governo Renzi, vorrebbe pure il carcere. Giustizia: l'ex pm Caselli "giusto pubblicare le intercettazioni, così svelano gli scandali" di Liana Milella La Repubblica, 18 aprile 2015 L'ex procuratore: i cittadini devono sapere. Il governo per la linea dura: sì alla proposta Gratteri. "La pubblicazione delle intercettazioni può svelare i cosiddetti "arcana imperii" ed è proprio questo che il potere, per legittima difesa, non gradisce". Esordisce così Gian Carlo Caselli, magistrato oggi in pensione che non ha bisogno di essere presentato per via della sua storia, dalle indagini su terrorismo e mafia alla direzione di procure come Palermo e Torino. Lo dice a Repubblica nelle stesse ore in cui da Renzi trapela che tra la soluzione Bruti-Pignatone (pubblicabile solo ordinanza e richiesta, segreto il resto fino al processo) e quella Gratteri (niente intercettazioni neppure nelle ordinanze e carcere per i giornalisti che le pubblicano), è per la seconda. Bruti-Pignatone, che gliene pare? "Mi sembra evidente la preoccupazione che possa intervenire un qualche giro di vite ancora più stretto e quindi la volontà di provare a ridurre i danni. Ma sono pur sempre proposte che si prestano a critiche". Così si sposterebbe molto avanti la possibilità di apprendere dettagli importanti delle intercettazioni e dell'impianto stesso delle inchieste... "L'esperienza ci dice che da alcuni anni l'informazione ha avuto un ruolo decisivo per far conoscere, e quindi contrastare meglio, alcuni gravi problemi che il nostro Paese ha avuto. L'elenco è lunghissimo. Per usare il linguaggio giornalistico, parliamo di Tangentopoli, Bancopoli, Furbettopoli, Calciopoli, Vallettopoli, Crac Cirio, Crac Parmalat, e via via i nuovi scandali, Expo, Mose, Mafia Capitale. Se non ci fosse stata un'informazione attenta, come per fortuna c'è stata, la qualità della nostra democrazia avrebbe potuto peggiorare. Se questo ruolo fosse cancellato o pesantemente limitato sarebbero guai". Spostare in avanti la pubblicità dei materiali del processo, non è in contraddizione con l'ansia dirompente di sapere dell'opinione pubblica? "Comprimere più di tanto la libertà di informazione mi sembra molto pericoloso perché rischieremmo di non sapere più nulla degli scandali della cui gravità abbiamo detto. Tanto più se si tiene conto dei tempi del nostro processo che, se si aspettano le udienze pubbliche, campa cavallo... E attenzione che così anche le autorità di controllo e il potere politico, che in un sistema ben funzionante dovrebbero conoscere tempestivamente quel che succede di storto per poter intervenire, rischierebbero di non sapere più nulla per anni. I danni prodotti dalle storture potrebbero diventare irrimediabili". Si ipotizzano multe cospicue per i giornalisti se esce materiale riservato. E c'è chi pensa alla galera... "Se le pubblicazioni fossero davvero sanzionate con multe salatissime (alla galera non voglio neppure pensare perché mi sembra una boutade ) i giornali medio-piccoli sarebbero costretti ad autocensurarsi e il pluralismo dell'informazione, se non anche la sua libertà tout court, potrebbero sparire. La materia è delicatissima, e se si comincia con uno strappo, non si sa dove si potrebbe finire". Non trova assurdo che si pensi di multare l'editore? "È come se dalla catena di montaggio uscisse una macchina difettosa e il responsabile fosse il direttore del personale. È un'estensione pericolosa di responsabilità molto opinabile". Ma dove va piazzata l'asticella per gli ascolti? "In Italia il problema delle intercettazioni viene riproposto ciclicamente, in particolare quando emergono vicende che riguardano personaggi di una certa notorietà, soggetti "forti", che hanno voce politica e/o mediatica. In questi casi scatta, con una tempistica molto significativa, la richiesta di interventi restrittivi a tutela di coloro che si trovano sbattuti o temono di finire sulle prime pagine dei giornali. Richiesta da parte dei diretti interessati più che comprensibile. anche se non si può non sottolineare che la stessa sensibilità non si riscontra quando sono in gioco interessi di semplici cittadini". Ma cosa, e soprattutto quanto e quando, può diventare pubblico delle intercettazioni? "In linea di principio, si è di solito d'accordo nel sostenere che non devono essere utilizzabili all'interno del processo e neppure pubblicate all'esterno le conversazioni irrilevanti ai fini dell'accertamento della verità, ovvero relative a fatti o soggetti del tutto estranei al processo. Resta però il problema di un eventuale rete relazionale articolata che coinvolga più soggetti (con posizioni diverse, anche penalmente irrilevanti) quando questa rete, vista la tipologia del reato indagato, può incidere sulla sua prova. Sciolto questo nodo e fissati i paletti che espungono dal processo sia i terzi estranei sia le conversazioni private che non riguardano il processo, rimane soltanto più il materiale necessario all'accertamento della verità. E non dovrebbero esserci limiti alla pubblicazione di ciò che non è più segreto in quanto comunicato alle parti". Giustizia: e se fossimo tutti spiati e intercettati? di Katia Ippaso Il Garantista, 18 aprile 2015 Cominciamo dalla fine. Siamo in un luogo non bene identificato, che deve rimanere segreto. Il giornalista Glenn Greenwald incontra Snowden e gli racconta che sta per avere altre informazioni ancora. Queste notizie potrebbero essere addirittura più sconcertanti di quelle che ha fatto trapelare lui, l'allora ventinovenne ex informatico della Nsa che fece scoppiare lo scandalo a noi noto con il nome di Datagate. C'è un informatore molto potente che sta per dire cose che potrebbero far tremare l'America e il mondo. Ma cosa? La voce del giornalista arretra un attimo prima della parola. Non dice la cosa. La scrive. Appunta le informazioni con una calligrafia veloce, su dei fogli di carta bianca che mostra a Snowden. Leggendo quel che legge, il ragazzo mostra di avere quasi paura: "No, questo è davvero molto pericoloso". Cambia faccia. Poi Greenwald mette insieme tutti i foglietti, li strappa e li cestina. In modo che non resti niente di quanto è stato scritto e comunicato. Primo piano sulla carta che scompare. Partono i titoli di coda di "Citizenfour", il documentario di Laura Poitras, vincitore dell'Oscar 2015 come migliore documentario, dal 16 aprile nelle sale per I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection. Siamo partiti da questa sequenza perché è la vera sintesi di un viaggio documentario dai toni anche drammatici che lascia lo spettatore in uno stato di inquietudine, e di veglia. Come reagisce un volto a una scritta su un foglio di carta. Strumenti primari di conoscenza, su cui si regge una possibile battaglia fatta "con altri mezzi" ad un "sistema" che vampirizza e riduce i cittadini a sottomessi fratelli e sorelle del Grande Fratello. Come è noto, nel 2013 Edward Snowden, occhiali da secchione su un viso gentile, decide di buttare all'aria la sua "confortabile" vita e uno stipendio da 200.000 dollari e di rivelare al mondo la deliberata volontà da parte del governo americano e di quello inglese di setacciare le vite dei propri cittadini, intercettandoli e tracciando ogni loro movimento. Sono i mezzi segreti con cui si combatte quella guerra al terrorismo dichiarata subito dopo l'11 settembre e che trova nel Patrioct Act il proprio documento ufficiale, in grado di colpire però non tanto sospetti attentatori quanto sereni cittadini ignari di essere spiati. Laura Poitres ha già realizzato documentari di denuncia, il primo sull'occupazione americana dell'Iraq ("My Country, My Country"), il secondo su Guantánamo ("The Oath"). Nei primi mesi, i contatti con Snowden sono cifrati. Finché non riescono ad incontrarsi, in un albergo di Hong Kong. Assieme a Poitres, che filma tutto, c'è un giornalista collaboratore del Guardian, Glenn Greenwald, che strada facendo verrà affiancato dal giornalista investigativo del quotidiano inglese, Ewen Mac Askill, che con il suo blocchetto d'appunti fa quasi fatica a stare dietro al flusso di parole dell'informatore Snowden. È un cortocircuito fertile. Non un contrasto, ma un incontro tra mondi che non si sarebbero forse mai avvicinati se non ci fosse stata la volontà di un ragazzo di parlare alla stampa, fiducioso che alcuni professionisti del settore potessero aiutarlo ad organizzare i dati, a tirare fuori "la" storia, e non la "sua" storia. "Citizenfour" riabilita il mestiere del giornalista, quando questo si mostra capace di ascolto, pazienza, intelligenza, passione ostinata per la verità. Dal documentario (prodotto da Steven Soderbergh), esce fuori uno Snowden misurato, quasi timido, riconoscente. Ma sono parlanti anche i volti di Greenwald, di temperamento più acceso (ora è a capo di un nuovo progetto giornalistico, "Intercept") , e di Askill, chiamato lì per la sua capacità di ricostruzione e di memoria. Cosa può un blocchetto di carta contro un potente computer che contiene dentro di sé i segreti di un intero Stato? Può moltissimo. Può, per esempio, trasformare un flusso incontrollato di dati in narrazione (queste inchieste verranno poi premiate con il Pulitzer). Anche la macchina da presa di Laura Poitres segue il ritmo del giornalismo investigativo. Non va fuori perimetro. Non è innamorata di sé. Il suo film segue puntualmente le rivelazioni di Snowden attraverso le pubblicazioni dei reportage sul "Guardian", dando man mano essenziali informazioni sul destino dell'informatore che ad un certo si innesta con la storia di Assange, capo di Wikileaks, che lo aiuta a trovare riparo in Russia (con un permesso di soggiorno che scadrà l'anno prossimo), dopo che tutti gli altri paesi europei gli avevano rifiutato asilo politico. Ricercato dagli Usa per furto di dati governativi e diffusione di informazioni coperte da segreto di Stato, considerato dal presidente Obama, che si vede in una scena, un individuo di cui l'America non può andare fiera ("Snowden non è un patriota" ha detto il presidente degli Stati Uniti), in base alla ricostruzione che ne fa la regista in questo film, l'ex contractor americano racconta una storia plausibile di controllo e sorveglianza. "Le rivelazioni di Edward Snowden - aveva detto Laura Poitres durante la cerimonia di premiazione per l'Oscar - non mettono in luce solo una minaccia alla nostra privacy, ma alla nostra stessa democrazia. Quando le decisioni che ci governano sono prese in segreto, noi perdiamo il potere di controllare e governare noi stessi". Le domande portano altre domande. Un cittadino ricercato nella democratica America come spia chiede cittadinanza, e lo ottiene, dalla Russia di Putin, il cui nome non è certo sinonimo di trasparenza e democrazia. Questa sarà pure un'altra storia, ma ci porta comunque a fare i conti con le contraddizioni anche feroci che le democrazie portano in sé, e che diventano insostenibili quando si dichiarano guerre ad un indiscriminato terrorismo che minaccia la nostra pace. Fortunatamente, il film di Laura Poitres non è manicheo, non chiede di fare scelte ideologiche. Mostra i fatti. Prendendosi tutto il tempo che ci vuole. Seguendo volti che parlano e che ascoltano dentro anonime stanze d'hotel, file di computer, telefoni che squillano come in un thriller (la follia del quotidiano), mani che scrivono, teste che pensano con la propria testa. Lettere: i giudici non sono uomini di potere, semplicemente applicano il diritto di Roberto Settembre (Magistrato) Left, 18 aprile 2015 La strage di Milano e la delegittimazione della magistratura. Gherardo Colombo è stato aggredito per aver sostenuto il possibile legame tra le due cose. Claudio Giardello, l'uomo che era disperato: era disperato perché la Giustizia, cieca e implacabile, lo aveva giudicato colpevole di bancarotta fraudolenta. E allora, Claudio Giardello ha fatto una strage: è entrato nel palazzo di Giustizia di Milano, dove si decideva del suo destino, e ha ucciso un testimone, un avvocato e il suo giudice. E il dottor Gherardo Colombo - il Procuratore della Repubblica, famoso fin dai tempi di Mani pulite, oggi in pensione - ha espresso il suo dolore, e ha "osato" affermare che simili fatti sono in parte ascrivibili al processo di delegittimazione dei giudici in atto da anni. Ma contro il dottor Colombo, anche durante la trasmissione Virus su Rai 2, andata in onda giovedì 9 aprile, si sono levate voci cariche di sdegno, come se Colombo avesse osato dire una bestialità nel nome di un supposto e degenere spirito corporativo. E invece contro la delegittimazione dei giudici si è espresso persino il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, con la misura che gli è propria. Ebbene, la mattina dopo la trasmissione, mentre stavo in compagnia di un amico, una degnissima persona, l'ho sentito dire: "Vedi, questi fatti orribili, comunque, sono stati commessi contro uomini di potere, e a noi poveri cittadini il potere appare così lontano e prepotente, mentre le persone semplici ci appaiono così disperatamente sole ad affrontarlo, che non riesco emotivamente a sentirmi solidale con le vittime, sebbene sul piano razionale comprenda che è un fatto orribile da esecrare". Allora ho capito. Ho capito che, forse, è l'idea stessa della gente comune sul potere del giudice ad essere sbagliata. E sbagliata è l'idea di cosa sia il Tribunale: il tribunale, non è un luogo di potere, bensì il luogo di diritto. Un luogo in cui, al contrario, chi è vittima del potere o della prepotenza chiede - e deve ottenere - tutela. E proprio il giudice, è l'unico uomo del potere istituzionale che deve giustificare per iscritto ogni sua singola azione, e non a caso. Il tribunale, è il luogo dove hanno accesso, per pretendere risposte motivate, proprio i liberi e singoli cittadini che, da soli o con la rappresentanza di un avvocato, vi esercitano il loro potere garantito dalla Costituzione, cioè la loro libertà di chiedere tutela, e ottenerla. Il tramite e garante di questo diritto è, per l'appunto, il giudice. Allora, forse, la delegittimazione dei giudici ha fatto perdere di vista questa semplice verità: che i giudici applicano il diritto, e non esercitano arbitrariamente un potere. Forse, la reazione di sdegno alle parole del dottor Colombo è il frutto dell'incapacità di vedere questa verità. O forse no. Ma va detto. Lettere: Contrada e la sentenza della Corte Edu, una riflessione sui diritti di Mauro Anetrini L'Opinione, 18 aprile 2015 Se noi dovessimo sottoporre ad un rigoroso scrutinio la decisione del Corte Europea dei Diritti dell'Uomo sul caso Contrada verseremmo fiumi di inchiostro e, con grande probabilità, non renderemmo un buon servizio all'unica causa per la quale vale la pena di battersi: quella, appunto, dei diritti. Ho detto dei diritti, non di questo o di quel diritto; di questa o di quella persona. Le persone che non sono solite impegnare il loro tempo occupandosi di cose di Giustizia hanno una percezione labile della Corte Edu, intesa come una sorta di Giudice superiore addetto a rimediare agli errori delle Corti nazionali o come il famoso, e troppo lontano Giudice di Berlino dal quale ci si attende la decisione davvero giusta. Purtroppo, la Corte EDU non è né questo, né quello. Non è, e ci tiene a farlo sapere, il quarto grado di un giudizio ormai esaurito e non è neppure la sentinella di coloro che hanno subito un torto. Le procedure di introduzione del giudizio, a partire dai termini da rispettare, inquinano di formalismi a volte eccessivi rivendicazioni fatte, invece, di sostanza. Inoltre, le decisioni, quand'anche favorevoli, giungono con ritardo e non risolvono alla radice i problemi riscontrati. Contrada, ad esempio, non verrà riabilitato in conseguenza della sentenza che ha destinato così tanto clamore. la Corte ha detto che il condannato fu punito per avere violato una legge che, al momento del fatto, non esisteva ancora (non era elaborata in via definitiva) e per condotte che non poteva prevedere penalmente rilevanti. Risultato concreto: un modesto risarcimento economico che pagheranno i contribuenti italiani. Come al solito. Come quando, ad esempio, dopo la decisione che aveva condannato l'Italia per le inumane condizioni dei detenuti, il solito contribuente si è trovato a sborsare 8 euro per ogni giorno di quella sofferenza ingiustamente inflitta. E nonostante tutto, non dobbiamo essere pessimisti. Non del tutto, almeno. La Corte Edu ha contribuito, a volte significativamente, al riscatto, alla protezione di quei diritti - non solo di questo o di quel diritto - giornalmente e progressivamente erosi. La Corte ci dice quali sono i punti dolenti del nostro sistema giudiziario e ci ricorda le ingiustizie patite dai più deboli. Sta a noi fare il resto. Il punto è questo: loro decidono, ma il sistema lo cambiamo noi, consolidando i confini di quei diritti che appartengono ad ogni essere umano. Anche ai reietti. Emilia Romagna: dalla Regione due milioni di euro per il reinserimento dei detenuti Gazzetta di Reggio, 18 aprile 2015 Presentato il piano sperimentale 2015 di intervento per l'inclusione socio-lavorativa delle persone in esecuzione penale approvato dalla giunta regionale. Politiche formative e di accompagnamento al lavoro delle persone in esecuzione penale progettate congiuntamente da amministrazione penitenziaria, servizi sociali e per il lavoro, enti di formazione accreditati, imprese profit e non profit e associazioni di volontariato per qualificare l'elemento rieducativo e di recupero sociale come asse portante di sviluppo delle misure di detenzione. È quanto prevede il piano sperimentale 2015 di intervento per l'inclusione socio-lavorativa delle persone in esecuzione penale approvato dalla giunta regionale. a disposizione ci sono 2,1 milioni di euro, di cui 1,5 milioni euro da risorse del fondo sociale europeo per il finanziamento delle azioni formative e di accompagnamento al lavoro. "Potranno essere finanziate tutte le azioni che possono aiutare le persone in esecuzione penale a sviluppare progetti di reinserimento sociale fondati sul lavoro che, a partire dall'acquisizione di un profilo professionale spendibile, consentano loro di acquisire autonomia e rafforzarsi rispetto a possibili recidive e reiterazioni delle azioni che li hanno portati in carcere" ha spiegato patrizio bianchi, assessore regionale al lavoro e alla formazione. "La formazione professionale e il lavoro sono parte integrante del trattamento penitenziario e ne costituiscono una parte fondamentale ai fini del reinserimento sociale del condannato". Il bando per il finanziamento delle attività scade il 12 maggio 2015 e possono presentare progetti enti di formazione professionale accreditati. Campania: chiudono gli Opg, pronte le nuove strutture per ospitare gli ex internati Roma, 18 aprile 2015 Le uscite dei detenuti dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari cominceranno dalle prossime settimane. L'ora X è scattata. Da oggi gli Ospedali psichiatrici giudiziari italiani sono ufficialmente fuorilegge. I sei istituii del Paese si avviano, più per timore di eventuali commissariamenti che per effettiva presa di coscienza istituzionale, verso la dismissione. In Campania le uscite dagli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), per i residenti nella regione, cominceranno solo dalle prossime settimane, quando diventeranno pienamente operative le strutture previste dalle legge che prevede il superamento degli stessi Opg. La legge ha previsto al 31 marzo scorso lo spartiacque per il superamento degli Opg: luoghi dove per decenni sono stati rinchiusi uomini e donne, con sofferenze psichiche, che si sono resi responsabili di reati, di poco conto o gravi. In Campania è prevista un'articolata rete di strutture alternative che saranno gestite dal servizio sanitario regionale. Si tratta di due Rems (residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) che saranno localizzate a Calvi Risorta e a San Nicola Baronia, mentre le strutture intermedie di residenza devono essere attivate a Mondragone e a Stati-gliano di Roccaromana, entrambi in provincia di Caserta, e la terza in Irpinia. In alcuni istituti di pena della Campania, invece, sono sia state attivate le articolazioni per il superamento degli Opg, che sono strutture di accoglienza provvisoria. Dall'ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa (Caserta), che è il più antico di Italia, negli ultimi giorni sono usciti dicci ospiti, mentre altri attendono l'esito della decisione del Tribunale di sorveglianza. Tutti e dieci i dimessi hanno varcato il portone di uscita seguendo i canali consueti: per esempio, per la revoca della misura di sicurezza a loro carico o per l'ammissione a piani terapeutici individuali che possono essere seguiti anche presso case famiglie. Con circa centoquaranta anni di storia l'Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa è il più antico di Italia. Come gli altri sei istituti italiani dal 31 marzo scorso, non accoglie più "nuovi giunti" ma gli attuali suoi 86 ospiti (di cui la metà sono della Campania) dovranno essere trasferiti presso le Rems o le strutture intermedie che però non sono ancora completamente operative. L'Opg, secondo quanto si apprende, diventerà un carcere a custodia attenuata, per detenuti non particolarmente pericolosi. L'Opg di Aversa dopo la chiusura diventerà carcere Con circa centoquaranta anni di storia l'Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa è il più antico di Italia. Come gli altri sei istituti italiani dal 31 marzo scorso, non accoglie più "nuovi giunti" ma gli attuali suoi 86 ospiti (di cui la metà sono della Campania) dovranno essere trasferiti presso le Rems o le strutture intermedie che però non sono ancora completamente operative. L'Opg, secondo quanto si apprende, diventerà un carcere a custodia attenuata, per detenuti non particolarmente pericolosi. Prato: grave detenuto cinese ferito alla gola Ansa, 18 aprile 2015 Un uomo cinese, detenuto nel carcere pratese della Dogaia, è stato ricoverato all'ospedale Santo Stefano di Prato in codice rosso. Secondo quanto si apprende quando è stato soccorso dalle guardie carcerarie aveva una profonda ferita da taglio all'altezza della gola. Non è ancora chiaro se la ferita sia stata auto inferta dall'uomo o se sia frutto di un aggressione da parte di altri detenuti. Firenze: carcere di Solliccianino verso la chiusura? detenuti pronti a sciopero della fame www.gonews.it, 18 aprile 2015 "Siamo pronti allo sciopero della fame collettivo". I detenuti dell'istituto penitenziario Mario Gozzini, dopo aver scritto una lettera aperta, si preparano a questa estrema azione qualora non ci siano risposte certe sul futuro del carcere, chiamato più comunemente Solliccianino. I reclusi, nonché la direttrice dell'istituto, Margherita Michelini, temono che il trasferimento di 20 internati dall'Opg di Montelupo comporterà la chiusura definitiva di Solliccianino e il trasferimento dei reclusi a Sollicciano. A darne conto sono le parlamentari toscane di Sinistra Ecologia Libertà, sen. Alessia Petraglia e on. Marisa Nicchi che questa mattina hanno visitato l'istituto e incontrato la direttrice e tutti i reclusi, con i quali hanno parlato uno ad uno esprimendo forte preoccupazione. "Solliccianino è un carcere modello dove i detenuti sono trattati come persone e non come numeri, dove hanno la possibilità di seguire corsi di formazione e dove molti sono inseriti in progetti lavorativi - hanno detto le parlamentari di Sel Nicchi e Petraglia - Il trasferimento degli internati dell'Opg non è compatibile con l'organizzazione di questo istituto e temiamo, come spiegato dai detenuti e dalla direttrice, che questo trasferimento possa coincidere con la chiusura definitiva del Gozzini come carcere a custodia attenuata". "L'esperienza di Solliccianino dovrebbe essere valorizzata ed estesa, non messa in discussione - hanno proseguito - Con il trasferimento dei pazienti dell'Opg al Gozzini siamo di fronte al fallimento della Regione Toscana, di cui chiediamo il commissariamento, perché gli internati, contrariamente alle indicazioni del Governo, saranno praticamente trasferiti in un altro carcere. E siamo profondamente colpite dall'atteggiamento della Ministra Leorenzin, che anziché esigere l'attuazione della legge da parte delle Regioni preferisce far finta di nulla, mentre l'Opg di Montelupo pare destinato a rimanere aperto fino alla fine dell'anno. Comprendiamo bene che il tema degli Opg e dei carcerati non sia così attraente in campagna elettorale - concludono - ma tanto dall'assessore Stefania Saccardi, quanto dal Presidente Rossi ci saremmo aspettati qualcosa di più del vergognoso silenzio che grava su questa vicenda". Firenze: lettera delle Associazioni su trasferimento degli internati dell'Opg a Solliccianino Ristretti Orizzonti, 18 aprile 2015 Le sottoscritte associazioni di volontariato, operanti nel carcere di Sollicciano e al Gozzini (Solliccianino), intendono esprimere pubblicamente il loro pensiero sulla decisione della Regione Toscana di trasferire un gruppo di internati dell'Opg di Montelupo all'interno del Gozzini. Questo Istituto è un carcere a sorveglianza attenuata - celle aperte tutto il giorno, ove è in atto da diversi anni un importante lavoro di recupero e di risocializzazione dei detenuti, organizzato dal personale educativo del carcere secondo un ricco ed efficace programma di attività culturali, sportive e lavorative, ad alcune delle quali collaborano anche nostri volontari. La decisione della Regione è destinata ad interrompere questa esperienza, considerata l'impossibilità di conciliare, in una medesima struttura, presenze così diverse, che richiedono gestioni completamente difformi. La Legge 81 del 2014, che stabilisce la chiusura degli Opg, prevede l'inserimento degli internati psichiatrici in strutture (Rems) non più carcerarie, bensì a completa ed esclusiva gestione sanitaria, con servizi di sicurezza soltanto esterni. Non riusciamo a capire come si possa pensare di trasferire internati dei vecchi Opg da un carcere ad un altro carcere, contravvenendo in tal modo alla lettera e allo spirito della Legge 81. Questo anche significa, a nostro parere, mancanza di rispetto per la dignità e i diritti delle persone svantaggiate, così dei detenuti del Gozzini come dei pazienti di Montelupo. Avevamo avuto notizia che erano state individuate altre soluzioni, a nostro parere del tutto appropriate, come, ad esempio, la struttura sanitaria dismessa di Villanova, sulla collina di Careggi. Ha prevalso evidentemente, su ogni altra, la preoccupazione securitaria, anche se è per noi difficile pensare che detta preoccupazione potesse riguardare la vicinanza dell'ospedale pediatrico Meyer. Associazione Pantagruel, Associazione L'Altro Diritto, Associazione Volontariato Penitenziario, Coordinamento Chiese Evangeliche per le persone detenute, Associazione Il Muretto, Gruppo Carcere Comunità delle Piagge, Alessandro Santoro - volontario penitenziario. Aosta: il Garante; in 2 anni dimezzato numero di detenuti, ma fondi per sanità inadeguati Ansa, 18 aprile 2015 In due anni si è dimezzato il numero di detenuti al carcere di Brissogne, passando dai 281 di fine 2012 ai 134 di fine 2014 (122 ad oggi). Così il garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Enrico Formento Dojot. Criticità per "l'entità dei fondi trasferiti" con il passaggio delle competenze sanitarie dallo Stato alla Regione: "non garantisce la guardia medica 24 su 24, anche se con i fondi appositamente pervenuti questa copertura al momento c'è". "Il sovraffollamento, risolto con le misure salva-carceri non è l'unico problema", ha precisato in conferenza stampa Enrico Formento Dojot. Restano da considerare "la qualità dell'igiene personale, delle celle, un migliore riscaldamento e la necessità di più spazi". A fine 2014, su 134 detenuti, 84 erano stranieri e 50 italiani, di cui 10 nati in Valle d'Aosta e 39 residenti nella regione. L'anno scorso sono stati 60 i casi trattati dal garante, rispetto ai 72 del 2013. Sono stati 5 i detenuti lavoranti ammessi al lavoro esterno, contro i 12 del 2013. Due dei 10 detenuti coinvolti nel progetto del laboratorio di panificazione "Brutti e buoni", terminato nel novembre scorso, sono stati assunti a tempo parziale indeterminato nell'ambito della fase di avvio dell'impresa. I fatturati della lavanderia interna al carcere - che occupa sei detenuti tra "part time" e "full time" "sono in graduale aumento". Oristano: abusi su un compagno di cella, chieste condanne per quattro ex detenuti di Enrico Carta La Nuova Sardegna, 18 aprile 2015 La cella di piazza Manno era diventata un inferno. La convivenza con gli altri detenuti era ormai impossibile e la vittima ha spiegato il perché in una precedente udienza, durante la quale aveva avuto parecchi tentennamenti. Per la pubblica accusa e per la parte civile quella titubanza era dettata dalla paura, per la difesa è invece l'elemento che dice che i reati contestati erano gonfiati. Versioni diverse, sulle quali i giudici si esprimeranno nella prossima udienza fissata per il 25 giugno. Per ora i quattro imputati conoscono solo le richieste del pubblico ministero Rossella Spano che ha sollecitato le condanne a otto anni per Paolo Ungredda, 31 anni allora detenuto nel vecchio carcere oristanese per rapine e furti, Graziano Congiu 32 anni di Simala, allora detenuto per una rapina in una tabaccheria e ora accusato di essere l'autore dell'omicidio del commerciante ambulante Antonio Murranca, e per il sassarese di 26 anni Daniele Daga, allora detenuto a sua volta per rapina. Di un anno è invece la richiesta di condanna per il quarto imputato, Graziano Pinna, 42 anni di Borore ex detenuto per una rapina a Paulilatino. Per quest'ultimo l'accusa parlava solo di minacce, ma ben più gravi sono i reati contestati agli altri tra imputati chiamati a rispondere anche di abusi sessuali e lesioni commessi proprio all'interno del carcere di Piazza Manno. Approfittando della soggezione e della debolezza che la vittima avrebbe avuto nei loro confronti, l'avrebbero costretta a spogliarsi e a subire delle lesioni nelle parti intime. Il pubblico ministero Rossella Spano e l'avvocato di parte civile Marco Martinez hanno parlato di mozziconi di sigarette spenti sulla nuda pelle, di docce con gavettoni di urina e di altre molestie. Sono tutti elementi contenuti nella denuncia, ma la precedente deposizione della vittima in aula è stato il punto forte delle arringhe difensive degli avvocati Lorenzo Soro, Aurelio Schintu e Gabriele Satta. Troppe le incertezze, troppi i passi indietro e le correzioni tanto che i difensori hanno ribadito al collegio composto dai giudici Francesco Mameli, Enrica Marson e Andrea Mereu che le accuse di abusi sessuali non avevano fondamento. In ogni caso si sarebbe trattato di episodi isolati che gli avvocati hanno anche qualificato come scherzi. Ma erano davvero tali? Roma: detenuti al call center per prenotazioni dell'Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Fiorenza Sarzanini Io Donna, 18 aprile 2015 Ogni giorno arrivano circa mille telefonate, una media di 30mila richieste mensili per un totale di prestazioni ambulatoriali che ogni anno superano il milione e 400 mila. Chiamano da tutta Italia, anche dall'estero, perché l'Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma è sicuramente un centro di eccellenza. Ma pochi sanno che tra gli addetti al Centro unico di prenotazione ci sono i detenuti del carcere di Rebibbia. La convenzione è stata siglata quattro anni fa e da allora sette reclusi, da una stanza appositamente allestita nel penitenziario, si occupano di soddisfare le istanze dei cittadini. Il ruolo è delicato, la maggior parte delle persone che chiamano sono genitori di bambini malati e dunque è necessario avere nei loro confronti un atteggiamento "accogliente e comprensivo". Non a caso il personale segue corsi particolari prima di essere impiegato e lo stesso fanno i detenuti che vogliono svolgere questa particolare mansione. Un servizio che evidentemente funziona bene visto che la convenzione è stata rinnovata per altri tre anni. Del resto è stato lo stesso Papa Francesco a scegliere il carcere di Rebibbia per festeggiare la Pasqua e officiare il rito della lavanda dei piedi. La riabilitazione di chi ha commesso reati anche gravi e ha cominciato un percorso di recupero passa certamente per la possibilità di imparare un mestiere e poi svolgere un lavoro. Ecco perché questo accordo viene ritenuto esemplare e si sta cercando di replicarlo anche in altre strutture. Roma: Dipartimento Pari Opportunità festeggerà il 25 Aprile nel carcere di Regina Coeli Ansa, 18 aprile 2015 Il 25 Aprile, in occasione delle celebrazioni per il 70esimo Anniversario della Liberazione d'Italia, il Dipartimento Pari Opportunità e l'Unar (Ufficio antidiscriminazioni) hanno scelto di portare nel carcere di Regina Coeli a Roma lo spettacolo teatrale "Tante Facce nella Memoria" tratto dal libro di Alessandro Portelli "L'Ordine è già stato eseguito", in cui si racconta il drammatico eccidio delle Fosse Ardeatine. "Questo carcere può essere considerato un monumento della lotta della Resistenza. Qui vennero infatti rinchiusi tanti italiani rei solo di aver dissentito con il regime nazifascista: tra gli altri Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, che rimasero detenuti per quasi un anno prima di riuscire a evadere insieme il 24 settembre 1944, scampando a una condanna a morte senza processo" spiega Giovanna Martelli, delegata del presidente del Consiglio per le Pari Opportunità, che ha voluto fortemente questa iniziativa. "Abbiamo scelto di celebrare questa giornata in un luogo di privazione della libertà proprio perché crediamo che la memoria della Resistenza ci debba aiutare, oggi, ad avere maggiore consapevolezza rispetto a quella che è stata nel passato quella esperienza storica, che ha segnato profondamente la vita del nostro Paese, e quelle che possono essere le nuove forme di Resistenze della società contemporanea per il riconoscimento dei diritti. Penso soprattutto a quelle persone che vivono sulla loro pelle il peso della disuguaglianza e dell'esclusione sociale e per le quali la Liberazione deve rappresentare il valore della realizzazione di una prospettiva di pari diritti e pari dignità per tutti". Lo spettacolo, a cura di Mia Benedetta e Francesca Comencini, ripercorre attraverso gli occhi di sei protagoniste femminili la grande tragedia in cui persero la vita 335 civili e militari italiani. Lunetta Savino, Mia Benedetta, Carlotta Natoli, Simonetta Solder, Chiara Tomarelli e Bianca Nappi metteranno in scena le voci di alcune delle donne che hanno attraversato come protagoniste femminili quei terribili giorni come parenti delle vittime, come partigiane, come testimoni, come figure di resistenza all'occupazione di Roma. Piacenza: don Rigoldi "siamo diventati analfabeti nelle relazioni", parla anche del carcere www.piacenzasera.it, 18 aprile 2015 Don Gino Rigoldi, cappellano dell'Istituto penale per minorenni "Beccaria" di Milano, è intervenuto a Piacenza venerdì 17 aprile, per presentare e discutere del suo ultimo libro: "Non amate troppo Dio, la felicità è anche di questa terra". Prima di iniziare la conferenza pubblica a S. Ilario ha parlato del rapporto con i giovani. "I ragazzi sono nuovi alla vita e prendono strade talvolta sbagliate, proprio perché - ha affermato ai cronisti - sono nuovi alla vita imparano dagli adulti che hanno intorno, la famiglia, la scuola, la società sportiva; e anche dalla cultura dei media che hanno intorno, soprattutto il web e poi io giornali e la televisione. A me pare di incontrare una bassa capacità di guida generale, da parte dei genitori, degli educatori, della chiesa che spesso usa un linguaggio assolutamente off limits per i giovani. Troppo spesso questi ragazzi e queste ragazze siano orfani di figure paterne, di un accompagnamento non che restringa la loro libertà, ma che sia in grado di dire qui va bene, qui va male. La carenza più pesante dal punto di vista educativo è quella relazionale, ovvero come guardi gli altri, l'idea dominante è quella del "guardati alle spalle", "misura quel che dai in base a quel che ricevi", "c'è tanto male nel mondo"... ma con principi così, siamo finiti. Questa è la cosa peggiore che si può fare ai nostri ragazzi, perché è la qualità della loro vita e della nostra sta nella qualità delle nostre relazioni. Ad esempio la grande ignoranza in amore a cui ho cercato di dare risposta in questo libro, è legata a questa consapevolezza, guardando a come vanno i matrimoni, come si creano i gruppi, a quello che succede a scuola, i vari episodi di bullismo che esprimono il disprezzo per l'altro. Io vedo una bellissima gioventù, che si muove bene, che ha bisogno che qualcuno loro dica "vieni come", che guardi agli altri come una risorsa. Per i cristiani questo è un comandamento, non è un optional. I cristiani devono essere applicati quotidianamente a voler bene, a perdonare, a costruire delle relazioni. Questo papa per fortuna enfatizza tanto questa parte. Siamo così analfabeti di relazioni che forse dovremmo andare a scuola di relazioni, dovrebbe essere la competenza principale degli insegnanti. I docenti hanno una parte di ore obbligatorie da dedicare alla formazione, dovrebbero essere più capaci di relazioni, di dialogo. Si può cambiare tanto e in positivo nei confronti dei giovani. E sulla chiusura di "Sosta Forzata" il periodico scritto dai carcerati delle Novate, ha detto: "Ogni occasione di messaggio, di dialogo e di conoscenza verso l'esterno che si offre alle persone detenuta è una forma educativa importante, una sorta di respiro per chi vive dietro le sbarre e coltiva tanti desideri, sogni, sentimenti, l'idea di futuro; e un giornale può essere un veicolo importante di sfogo. E poi è importante che la gente sappia che dentro alle carceri ci sono esseri umani come noi, con desideri e volontà" Ad affiancarlo, all'auditorium Sant'Ilario dove si terrà l'incontro con il pubblico, l'assessore comunale Tiziana Albasi, il garante per i diritti delle persone private della libertà Alberto Gromi e la giornalista Patrizia Soffientini. Il dibattito è stata occasione per affrontare i temi del disagio giovanile, dell'educazione e della fiducia nelle nuove generazioni, a partire dalla testimonianza di don Rigoldi che, nel 1972, scelse e ottenne di prestare servizio come assistente spirituale accanto ai giovani detenuti, fondando, l'anno successivo, l'associazione Comunità Nuova e, nel 1999, la Onlus Bambini in Romania. Cittadino benemerito di Milano e Cavaliere della Repubblica, insignito della laurea honoris causa dell'Università degli Studi di Milano in Comunicazione pubblica e d'impresa, don Gino Rigoldi è autore di numerosi volumi incentrati sulla solidarietà e sulla vicinanza ai più deboli. Milano: al Teatro Carcano "Waiting to Go" con gli attori detenuti del carcere di Bollate www.mi-lorenteggio.com, 18 aprile 2015 Martedì 28 aprile al Teatro Carcano di Milano (C.so di Porta Romana) andrà in scena Waiting To Go, opera liberamente tratta da Samuel Beckett. Lo spettacolo, per la regia di Riccardo Mallus, è frutto di un progetto nato lo scorso anno all'interno della II Casa di Reclusione di Bollate, grazie al gemellaggio del Laboratorio di Poesia con l'Associazione Arte In Tasca. Protagonisti in scena 14 persone detenuti, donne e uomini, accompagnati da un ensemble dell'Orchestra a plettro i Mandolinisti Bustesi. L'attesa, tema centrale nella commedia di Beckett, è parte imprescindibile della vita quotidiana di ogni detenuto e non è un caso se proprio Aspettando Godot, nel 1957, venne rappresentato nel carcere di San Quintin a San Francisco con un risultato inaspettato. Nonostante l'obiettiva difficoltà dell'opera le 1.400 persone detenute capirono il messaggio. In Waiting To Go, gli attori, oltre ad interpretare alcune scene di Godot, reciteranno le loro poesie, che bene si sono adattate al testo di Samuel Beckett. Il progetto, che vede l'alternanza tra lavoro individuale e di gruppo attraverso l'esplorazione delle diverse forme artistiche, ha come obiettivo quello di lanciare un messaggio: Godot non arriverà ma nonostante ciò è necessario affrontare la vita. Le donne e gli uomini che hanno scelto di intraprendere questo cammino tra poesia e teatro sono la dimostrazione che è possibile dare una svolta alla propria esistenza. Un messaggio valido anche per la società esterna: anche tra le grigie mura di un carcere può fiorire il bello. Stati Uniti: Ismael Nazario, l'ex detenuto che ora aiuta i giovani a reinserirsi in società di Ginevra Montanari www.europinione.it, 18 aprile 2015 La storia di Ismael Nazario che fu prima un detenuto del carcere di New York Rikers Island, mentre ora prova a cambiare la cultura delle galere americane. rikers Island. Da ragazzo, Ismael Nazario fu imprigionato nel carcere di New York Rikers Island, un'isola proprio di fronte alla città in cui passò trecento giorni in isolamento, ancor prima di essere condannato per un crimine. È stata recentemente ribattezzata "Prigione degli orrori", un titolo decisamente infelice, che porta con sé numerosi casi di violenza ai danni dei detenuti, soprattutto i più giovani. Ora, lottando per la riforma carceraria, Ismael lavora per cambiare la cultura delle galere e delle carceri americane, suggerendo alcuni modi per aiutare, e non danneggiare, i più giovani. Lo stato di New York è tra i pochi, negli Usa, che arresta e processa sedicenni e diciassettenni come fossero adulti. Questa cultura della violenza costringe i detenuti in un ambiente ostile, in cui le guardie carcerarie rimangono indifferenti a tutto quello che si verifica. Si può fare davvero poco per sviluppare i propri talenti e riabilitarsi per davvero. Per questo bisogna riuscire a cambiare la quotidianità dei ragazzi. E Nazario lo sa per esperienza personale: "Prima di compiere diciotto anni, ho passato circa quattrocento giorni a Rikers Island e, come se non bastasse, ho passato quasi trecento giorni in isolamento, e lasciate che vi dica una cosa: urlare a pieni polmoni tutto il giorno contro la porta della tua cella, o urlare con tutto il fiato fuori dalla finestra è stancante". Visto che non c'è molto da fare quando ti trovi in una situazione del genere, racconta Ismael, l'unica cosa che si può fare è camminare avanti e indietro per la cella, iniziare a parlare da solo, con i tuoi pensieri che ribollono e impazziscono, diventando il tuo peggior nemico. Anche Cesare Beccaria, col suo Dei delitti e delle pene (1764), pensava che le prigioni dovessero riabilitare le persone, e non accrescerne la rabbia, la frustrazione e l'umiliazione per tutto il tempo della pena. Ma dal diciottesimo secolo non ci sono stati chissà quanti passi avanti. "Tutto inizia dalle guardie". Può essere spontaneo, automatico, vedere le guardie come i "buoni" e i detenuti come i "cattivi", o in alcuni casi viceversa, ma in realtà c'è di più. Le guardie sono persone normali, come quelle che si incontrano ogni giorno. Vivono nello stesso quartiere in cui vive quella fetta di popolazione per cui lavorano. Sono persone normali. Niente di speciale, fanno il loro lavoro e si comportano di conseguenza. La guardia uomo vuole parlare e flirtare con la guardia donna. Si divertono a giocare come compagni di banco. Discutono di politica. E le guardie donna spettegolano. Un po' sulla falsa riga di Orange is the new black, serie di successo incentrata sulle vicende di un carcere federale femminile. Durante questa esperienza, Ismael ha passato molto tempo con le guardie, ma soprattutto gli piace raccontare di una guardia in particolare, e si chiamava Monroe. Un giorno la guardia Monroe lo ha spinto tra le porte A e B che separano la zona nord e sud della loro unità. Lo ha spinto lì perché aveva avuto uno scontro fisico con un altro detenuto, un ragazzo; e lui pensò che, siccome sul piano al momento dello scontro lavorava una guardia donna, Ismael aveva approfittato della situazione. "Così mi colpì al petto. Mi fece mancare il fiato. Non ero un impulsivo, non reagii, perché sapevo che quella era casa loro. Non potevo vincere. Doveva solo premere il pulsante e sarebbero subito arrivati gli altri. Quindi lo guardai solo negli occhi, e credo che vide la rabbia e la frustrazione che aumentavano, e mi disse: "I tuoi occhi ti daranno un sacco di problemi, perché guardi come se volessi lottare". Si slacciò il cinturone, si tolse la maglia e il suo badge, e disse: "Possiamo lottare". Dopo un attimo di sbigottimento, e dopo essersi assicurati che nessuno dei due avrebbe fatto rapporto a terzi, iniziarono a lottare. Alla fine del combattimento, Monroe gli strinse la mano, gli disse che lo rispettava. Gli regalò una sigaretta, e lo lasciò andare. "Credeteci o no, ma Riker Island ci sono guardie con cui lottare corpo a corpo." Alcune guardie sentono di essere in carcere, esattamente come chi è prigioniero per davvero. Ecco perché hanno quella mentalità, e quel comportamento. Comunque, le istituzioni devono dare alle guardie carcerarie una preparazione corretta sul come relazionarsi con gli adolescenti, e devono anche prepararli ad affrontare detenuti con problemi mentali. Queste guardie hanno un grande impatto sulle vite di questi giovani, fino a quando non si arriva a una sentenza. Quindi perché non cercare di educare questi giovani mentre sono lì? Perché non aiutarli a cambiare le loro vite? "Quando ero a Rikers Island, la cosa peggiore era l'isolamento". L'isolamento è stato pensato inizialmente per spezzare le persone, fisicamente ed emotivamente: questo era il suo scopo. Fortunatamente, il Procuratore Generale recentemente ha affermato che elimineranno l'isolamento nello stato di New York, per i giovani. "Una cosa che mi ha mantenuto lucido durante l'isolamento è stato leggere; e, a parte quello, scrivevo canzoni e piccoli racconti". Sarebbe molto utile riformare i programmi dati ai giovani: per Ismael aiuterebbero enormemente programmi terapeutici per chi disegna, o ha inclinazioni musicali e artistiche. "Quando gli adolescenti arrivano a Rikers Island, il C74 Rndc è l'edificio in cui vengono ospitati". Viene soprannominato La scuola dei gladiatori, perché ci sono giovani ragazzi di strada che pensano di essere dei duri, e che si trovano circondati da altri ragazzi che vengono dai cinque distretti, e tutti pensano di essere dei tipi tosti. Così si viene a creare un gruppo di giovani che gonfiano il petto pensando di dover provare di essere forti come gli altri, o più forti. Ma siamo onesti: può non essere pericolosa una cultura del genere? Quanto può danneggiare i giovani? È fondamentale aiutare le istituzioni, e i minorenni, a capire che non devono per forza seguire la strada che hanno sempre percorso quando torneranno in libertà, che possono davvero cambiare. "Mi sento triste se penso a quando ero in prigione, e sentivo dei tizi parlare di quando sarebbero stati rilasciati, e di quali crimini avrebbero commesso una volta tornati fuori." Stando in prigione, Ismael afferma di aver conosciuto alcuni degli uomini più intelligenti, brillanti e di talento che abbia mai incontrato. Ha visto individui prendere un sacchetto di patatine e trasformarlo in una stupenda cornice. Ha visto alcuni prendere una saponetta e trasformarla in una scultura così bella "da far apparire Michelangelo un bambino dell'asilo". Una volta parlò con un anziano che stava in mezzo al cortile con il naso verso il cielo. Ai quei tempi scontava una condanna di trentatré anni, e ne aveva già scontati venti. Gli chiese cosa stesse guardando, e lui in tutta risposta lo invitò a dirgli cosa vedesse lui. Nuvole, fu la sua prima risposta. Non fu soddisfatto. Ma poi passò un aeroplano, e lo prese come un segno. Un aeroplano, disse. E quel signore fece un cenno d'assenso, e gli chiese che cosa ci fosse su quell'aereo. Persone, bisbigliò Ismael. La morale della fiaba era: quell'aereo, con delle persone, va da qualche parte, mentre noi siamo bloccati qui. È la vita che scorre mentre noi rimaniamo fermi, bloccati. "Quel giorno ha acceso qualcosa nella mia mente, e mi ha fatto capire che dovevo cambiare. Crescendo, sono sempre stato un ragazzo buono, intelligente. Alcuni direbbero che ero troppo sveglio, per il mio bene. Sognavo di diventare un architetto o un archeologo. Oggi lavoro per la Fortune Society, che è un programma di riabilitazione, e lavoro con le persone ad alto rischio di recidiva, come coordinatore. Li metto in contatto con i servizi di cui hanno bisogno una volta rilasciati dal carcere così che possano vivere una transizione positiva nella società." Se oggi Ismael incontrasse il se stesso di quindici anni, gli direbbe di non stare con Tizio e Caio. Di non andare in quel posto o in quell'altro. Lo incoraggerebbe ad andare a scuola, perché è lì che deve essere. Perché è ciò che gli farà ottenere qualcosa nella vita. Questo è il messaggio che dovremmo condividere con i giovani uomini, e le giovani donne. Non dovremmo trattarli da adulti, facendogli subire una cultura della violenza da cui non possono fuggire. Libano: rivolta nel carcere di Rumiyeh, agenti presi in ostaggio Aki, 18 aprile 2015 Rivolta di un gruppo di detenuti nel carcere di Rumiyeh, sulle colline a nordest di Beirut, in Libano. Secondo il sito web del giornale libanese The Daily Star, che cita fonti della sicurezza, i detenuti di un gruppo integralista islamico hanno "preso in ostaggio" tre guardie carcerarie durante una protesta contro le condizioni di detenzione. Stando a Mtv, gli agenti presi in ostaggio sarebbero 20. La protesta è scoppiata nella sezione D del carcere, spesso teatro di rivolte, dove molti detenuti sono stati trasferiti a inizio anno per motivi di sicurezza. Stando alla ricostruzione del Daily Star, i detenuti hanno prima dato alle fiamme alcuni materassi o poi bloccato una zona della prigione, prendendo in ostaggio gli agenti. A inizio anno il trasferimento dei detenuti è avvenuto dopo un'operazione delle forze di sicurezza nella sezione B del carcere. Successivamente, secondo il sito web del giornale An Nahar, tra gli 800 e i 900 detenuti sono stati trasferiti nella sezione D. Il carcere di Rumiyeh, notoriamente sovraffollato, è il più grande del Libano. Cina: "Ha diffuso segreti di Stato", 7 anni di carcere per Gao Yu, giornalista dissidente di Simone Pieranni Il Manifesto, 18 aprile 2015 In Cina, quando si arriva ad un processo c'è la certezza della pena. Tutti i procedimenti alla fine terminano con una condanna e non ha fatto eccezione Gao Yu, giornalista di 71 anni, arrestata nell'aprile del 2014 e condannata a sette anni di carcere per aver "fornito illegalmente a persone all'estero segreti di Stato". Una pena pesante, con un'imputazione dura. Nella fattispecie, secondo l'accusa, Gao Yu avrebbe diffuso il noto "documento numero 9", dopo averlo ottenuto, fotocopiato e poi inviato fuori dal paese. Il "documento numero 9" è un testo interno al partito, scritto appositamente dalla leadership per i funzionari di livello inferiore. Alcuni stralci vennero pubblicati dal New York Times due anni fa (ed esattamente un anno dopo Gao Yu sarebbe stata arrestata). Nel documento venivano criticati i cosiddetti "concetti universali" dell'Occidente, in particolar modo la libertà di parola e i diritti umani. Nel "documento numero 9" si avvisavano i funzionari di partito di stare in guardia contro questi valori e il loro utilizzo compiuto dalle potenze occidentali, con il duplice scopo di screditare la Cina nell'immaginario collettivo e irretire i quadri del Partito. Si trattava di un insieme di avvertenze, contro quella che in Cina viene definita la "corruzione spirituale", un insieme di sistemi valoriali da cui guardarsi, che Xi Jinping sembra tenere in gran conto. Nel testo trovava spazio anche una critica alla democrazia occidentale, che ricalcava i toni e le argomentazioni usate spesso dalla dirigenza di Pechino. La condanna contro l'autrice di articoli molto duri contro la dirigenza cinese, recentemente pubblicati sul magazine tedesco Deutsche Welle, è l'ennesimo vivido esempio di come negli ultimi tempi l'ondata di arresti di intellettuali, giornalisti e "dissidenti" pare non aver fine, rendendo la leadership di Xi Jinping ormai famosa per il suo pugno duro contro ogni forma di dissidenza (al momento sarebbero 14 i giornalisti in carcere). Non è la prima volta che la giornalista Gao Yu si trova a dover affrontare la durezza del sistema penale cinese. Nel 1989 era stata accusata di aver scritto articoli - sul suo magazine Economic Weekly - destinati a infiammare le proteste e venne condannata a 15 mesi di reclusione. Per Gao come per tanti altri, quell'arresto fu un marchio impresso per la vita. Tutte quante le persone arrestate in occasione delle manifestazioni di Tiananmen rimangono controllate nel tempo; ad ogni scadenza, ogni 4 giugno, di ogni anno, vengono tenuto sotto controllo. E proprio la mancata partecipazione di Gao a una celebrazione del 4 giugno, lo scorso anno, ha preoccupato i suoi conoscenti. Si è così scoperto che Gao Yu era agli arresti, dal 24 aprile. Ma le vicissitudini della giornalista trovarono un altro momento dirimente tra il 1993 e il 1999: sei anni di carcere, perché accusata di aver diffuso segreti di Stato. Anche in quel caso l'accusa sosteneva che Gao Yu aveva criticato duramente la leadership, consegnando documentazione riservata ad Hong Kong. Come sottolineano gli avvocati di Gao anche dopo la recente condanna di sette anni, non ci sono prove della colpevolezza di Gao, che si è sempre dichiarata innocente. La nota giornalista, in realtà, le colpe le aveva ammesse, ma in diretta tv. Gao ha dovuto subire la gogna di una confessione in televisione, salvo poi ritrattare tutto e sostenendo di essere stata costretta e di aver subito minacce ai suoi figli. Gran Bretagna: nuovo "rito" nelle carceri inglesi, la droga che rende pazzi i detenuti di Claudia Gennari www.interris.it, 18 aprile 2015 "Black Mamba", questo è il nome di una nuova droga, diventata protagonista dell'ultima moda in "riti di benvenuto" nelle carceri inglesi: I detenuti incitano i nuovi arrivati a fumare questa cannabis sintetica, per divertirsi poi a guardare i novellini andare fuori, e nella maggior parte dei casi questo gioco termina con un viaggio in ambulanza, soprannominata appunto "mambulance". Questa nuova sostanza stupefacente è fatta di erbe essiccate e innaffiate di sostanze chimiche che dovrebbero replicare gli effetti della cannabis, ma non è esattamente così: gli effetti sono devastanti, "non è come l'erba, la coca, o l'eroina, con cui sai come ti comporterai tu o come reagirà un tuo compagno. Questa è davvero roba folle", afferma un ex detenuto. La "spice", come la chiamano invece i secondini, è sempre più popolare, ma particolarmente insidiosa, sia per i secondini, dato che non è rintracciabile con i test delle urine e nemmeno i cani riescono a fiutarla, tanto che si sospetta che sia già diffusa in ogni carcere del Paese, perché riesce a entrare attraverso i visitatori. Ma i pericoli ci sono anche per i consumatori, infatti sono in molti a non averla provata prima e non sono in grado di gestire gli effetti, che colgono i detenuti di sorpresa, tanto che spesso corrono al pronto soccorso. Un ex detenuto afferma che "ti manda completamente fuori di testa, chi ne consuma si imbambola, prende a testate il muro, oppure tenta di colpirti o di colpire gli agenti". Medici e paramedici ormai sono preparati ad affrontare attacchi epilettici, allucinazioni, perdita di controllo totale, che sono solo alcuni degli effetti della Black Mamba. La Prison Officers Association cita la cannabis sintetica come il problema principale per le guardie carcerarie, perché rende i detenuti instabili, violenti, attaccabrighe. Molte guardie carcerarie hanno vissuto in prima persona o hanno assistito a scoppi di violenza dovuti agli effetti della marijuana sintetica, tra cui Michael che ha raccontato di un superiore, che "è stato aggredito da un detenuto sotto gli effetti della spice - e prosegue - aveva già perso i sensi ma il detenuto ha continuato a picchiarlo. Ora ha perso l'udito da un orecchio e il suo equilibrio è permanentemente danneggiato. Non credo tornerà mai al lavoro, e questo per colpa della spice". Secondo un rapporto del Centre for Social Justice, nel 2010 c'erano stati solo 15 sequestri di questa droga, mentre nei primi sette mesi del 2014 le confische sono state 430. Accanto a quest'enorme crescita nell'utilizzo, i tagli del governo al personale carcerario hanno aggravato il problema. Peter McParlin, presidente della Prison Officers Association, ha dichiarato: "Da sempre ci sono episodi di violenza in carcere, ma negli ultimi 32 anni il livello non è mai stato così alto".