Chiusura Sezioni Alta Sicurezza a Padova. Comunicato Garante dei detenuti del Veneto Ristretti Orizzonti, 17 aprile 2015 Il Pubblico Tutore dei minori e Garante delle persone ristrette nelle libertà personali del Veneto, dott.ssa Aurea Dissegna, la scorsa settimana ha inviato una nota al capo dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) dott. Santi Consolo, chiedendo la sospensione del provvedimento relativo al trasferimento di tutte le persone della sezione Alta Sicurezza della Casa di Reclusione di Padova, in altre strutture carcerarie italiane. Faceva notare: la inopportunità di interrompere percorsi di studio, di lavoro, di partecipazione ad iniziative culturali, sportive; la non considerazione per molte delle persone, per le quali era stato previsto il trasferimento, della evoluzione delle diverse situazioni, dei risultati positivi del trattamento in corso, condizioni che potevano essere esaminate per una eventuale declassificazione. A margine di un incontro tra alcuni Garanti dei detenuti di Regioni e Comuni d'Italia ed il capo del Dap, che si è tenuto ieri a Roma, è stata data assicurazione da parte del capo del Dap, dott. Santi Consolo, alla dott.ssa Aurea Dissegna, che verranno rivalutate tutte le situazioni per le quali vi è trattamento in corso, in particolare quelle in trattamento avanzato. Giustizia: così l'imputato può "processare" i magistrati mentre la causa è ancora in corso di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 17 aprile 2015 Prima volta della legge sulla responsabilità delle toghe. Il caos dei procedimenti paralleli. Imputati che fanno un processo ai pm, "parallelo", d'ora in poi, al processo vero che i pm stanno istruendo a carico degli imputati: a dimostrazione dell'insidiosità delle ricadute della norma, specie dopo l'abolizione di qualunque "filtro" di ammissibilità, il primo caso in Italia di ricorso alla nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati debutta con una azione contro lo Stato che mette nel mirino non l'attività dei giudici, alla fine di tre gradi di giudizio di un dibattimento ormai concluso nel merito con assoluzione definitiva; ma l'attività ordinaria dei pm, nel pieno di una indagine economica sfociata in un rinvio a giudizio, e come reazione a una incidentale richiesta dei pm sul patrimonio di una grossa società. Ad avere lo scomodo privilegio del battesimo è la Procura di Roma in una inchiesta per l'ipotesi di bancarotta sui manager italiani di una azienda (Alivision) satellite della società britannica (Terravision) che gestisce il trasporto tra grandi città europee e gli aeroporti (come a Roma quello di Ciampino). Nel pool economico del procuratore aggiunto Nello Rossi, i pm Mario Dovinola e Paola Filippi hanno ottenuto sequestri di beni confermati finora in Cassazione, e il rinvio a giudizio degli indagati in un dibattimento che inizierà il 17 giugno. Ma nel 2013 i pm avevano anche avanzato al Tribunale Fallimentare una istanza di insolvenza di una delle società del gruppo. I giudici fallimentari avevano però respinto l'istanza, ritenendo che alcuni dei debiti in contestazione non dessero indizi inequivoci dell'insolvenza se raffrontati a quanto l'azienda contro-deduceva al consulente dei pm, tacciato di essere il marito di una gip romana indagata a Perugia. Normale dialettica processuale, i pm neppure fanno reclamo. Ma ora, interpretando la bocciatura della richiesta di insolvenza come "provvedimento definitivo" che la nuova legge legittima quale presupposto per una azione civile contro lo Stato per responsabilità dei magistrati, il gruppo di trasporti aeroportuale aziona la nuova legge in cinquanta pagine di argomenti difensivi automaticamente tradotti in "gravi e manifeste violazioni di legge": quelle che appunto sarebbero fonte di responsabilità per lo Stato, titolato (se condannato) a rivalersi poi sui magistrati fino a metà dello stipendio annuale e con penalizzazioni disciplinari. E qui iniziano i cortocircuiti. Il primo è che una azione così anticipata - non alla fine di tre gradi di giudizio ma nel pieno delle indagini - crea una situazione paradossale, nella quale i pm d'ora in poi sosterranno l'accusa contro gli indagati davanti al Tribunale penale, ma nel contempo dovranno invece sostanzialmente difendersi (tramite l'Avvocatura dello Stato peraltro ignara della complicata materia sottostante alla causa) dall'azione di responsabilità civile intentata contro i pm appunto dagli indagati. Al punto da paventare un altro quesito: i pm dovranno astenersi o no dal continuare a rappresentare l'accusa nel processo penale? Apparirebbe singolare suicidio delle Procure che i capi accettino l'astensione dei loro pm "denunciati" dagli indagati, accettando che di fatto gli indagati abbiano il potere di liberarsi dei pm sgraditi; e lo escluderebbe anche la giurisprudenza di Cassazione, per la quale non possono essere condotte endopro-cessuali a determinare l'astensione del pm o la ricusazione del giudice, e la causa di "grave inimicizia" deve precedere l'instaurarsi del procedimento. Ma è chiaro che la situazione creata dalla nuova legge, che è immaginabile si cercherà di svelenire con la co-assegnazione del fascicolo ad altri pm "immuni" al momento da azioni legali, non favorisce il massimo della serenità e anzi moltiplica i cloni del processo: quello penale agli imputati, ora la loro controazione civile sui pm, dopo che in questa vicenda già si erano registrati l'intervento dall'ambasciata inglese, pure una istanza di avocazione dell'indagine respinta dalla Procura generale di Roma, fino a numerosi esposti penali alla Procura di Perugia per eventuali reati commessi dai pm durante le indagini. Giustizia: riforma delle intercettazioni "pubblicabili solo le ordinanze, non gli allegati" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2015 La posizione di Bruti Liberati, Pignatone e Lo Voi: "Divieto per gli atti allegati". Pubblicabili, integralmente e non per riassunto, le ordinanze con cui si concludono le indagini, quelle di custodia cautelare o i decreti di sequestro, ma non anche gli atti allegati, depositati e messi a disposizione della difesa. In tal caso la pubblicazione va sanzionata con una pena pecuniaria - non con il carcere - per i giornalisti o, preferibilmente, per gli editori. I quali, pertanto, "se decidono di pubblicare un gossip, lo dovranno pagare". Parlano con la stessa voce i Procuratori della Repubblica di Milano Edmondo Bruti Liberati, di Roma Giuseppe Pignatone e di Palermo Francesco Lo Voi, sentiti dalla commissione Giustizia della Camera (i primi due ieri, il terzo mercoledì) nell'ambito delle audizioni sul ddl di riforma del processo penale in cui è contenuta anche la delega per la riforma delle intercettazioni telefoniche. I tre si erano sentiti primi (Bruti e Pignatone anche visti) concordando una posizione comune. Inoltre, le intercettazioni, come strumento di indagine, sono "assolutamente indispensabili" e sbaglia chi diffonde "dati allarmistici". "Delle intercettazioni si fa un uso molto accorto" ha detto Bruti, spiegando che a Milano, negli ultimi quattro anni, il numero dei bersagli è diminuito di un terzo, passando dai 14mila del 2009-2010 agli 8.491 del 2013-2014. "Numeri limitati considerato che si riferiscono a un bacino di 15 milioni di abitanti, che quasi ognuno di noi ha due telefoni e che qualsiasi mafiosetto di mezza tacca può arrivare a 20", ha osservato, aggiungendo che "moltissime conversazioni perfette per il gossip" non vengono evidenziate proprio per evitare che finiscano sui giornali. Tuttavia, poiché il Pm "non può governare" tutto ciò che viene allegato alla richiesta - i cosiddetti "atti a sostegno" che vanno alle parti - bisogna prevedere sanzioni pecuniarie se quegli atti vengono pubblicati. Secondo Bruti e Pignatone, è "impossibile" garantire il segreto sugli atti delle indagini che non possono essere pubblicati, come le intercettazioni, che finiscono sui giornali sebbene non inserite nell'ordinanza. Ed è "illusorio" pensare di risalire alla fonte del giornalista visto che quelle carte, ha spiegato Pignatone, in un processo medio passano "legittimamente nelle mani di 150-200 persone". Perciò l'unica strada per evitare il "massacro mediatico" è "limitare drasticamente" ciò che è pubblicabile integralmente, e non per riassunto come qualcuno propone senza rendersi conto che "il riassunto è il massimo della manipolazione" e dunque "peggiora la situazione" così come è "deprecabile, per i rischi di fraintendimenti, la rappresentazione scenica in tv". Ma se è pacifica la pubblicazione dell'ordinanza del Gip (sulla richiesta del Pm "decida il Parlamento") - perché pacifico è il "controllo democratico" sull'amministrazione della giustizia esercitato dall'informazione - non si può dire altrettanto per il materiale sottostante l'ordinanza, "che deve continuare ad essere messo a disposizione delle parti ma non dovrebbe essere pubblicabile". Pignatone ha spiegato che agli atti delle indagini ci sono "immense quantità di informazioni raccolte che molto spesso non hanno dato vita a nessuna indagine". E ha fatto l'esempio di quanto accaduto con l'inchiesta Mafia capitale: "L'ordinanza era di un migliaio di pagine, i documenti allegati oltre 7mila. Dentro, però, c'erano molte verifiche finite in un vicolo cieco, non utilizzate né dai Pm né dal giudice ma che i difensori avevano il diritto di conoscere". Informazioni da tenere riservate almeno fino all'udienza preliminare, che può coincidere con l'udienza filtro di cui tanto si parla, hanno osservato i Pm. Anticipare quest'ultima "non andrebbe bene", perché bisognerebbe escludere le parti dalla selezione di ciò che è rilevante da ciò che non lo è, il che sarebbe "poco garantista". Ai deputati che sostenevano la "mala fede" di alcuni Pm e giudici nell'inserire nelle ordinanze anche atti irrilevanti, i magistrati hanno risposto che in simili casi - estremi - si potrebbero prevedere sanzioni disciplinari. Così come possono introdursi sanzioni disciplinari per i Pm nei "casi macroscopici di artificiosa non iscrizione immediata della notizia di reato", finalizzata ad allungare i termini dell'indagine. "Assoluta contrarietà", invece, alla proposta di introdurre un regime di inutilizzabilità degli atti nel caso di iscrizione intempestiva: al Pm va infatti lasciato un minimo di valutazione sul momento in cui effettuare l'iscrizione, che non è un atto neutro e, quindi, non può essere stabilito con certezza. Giustizia: Radicali in sciopero della fame per l'amnistia e la legalizzazione della cannabis di Sabrina Della Corte www.internapoli.it, 17 aprile 2015 Tra le strutture menzionate dal Rita Bernardini spunta anche il penitenziario di Secondigliano con un sovraffollamento del 153%. Spunta anche il carcere di Secondigliano nell'elenco menzionato da Rita Bernardini che, attraverso una dichiarazione riportata dalle pagine del sito Notizie Radicali, ha denunciato l'emergenza del sovraffollamento delle carceri: con Marco Pannella, la segretaria dei Radicali Bernardini è da diverse settimane in sciopero della fame per chiedere l'amnistia mirata a chi è in carcere per droga. Secondo i dati della Polizia Penitenziaria aggiornati al 31 marzo scorso, presso il carcere di Secondigliano si registra un sovraffollamento del 153%, ovvero la presenza di 1353 detenuti in 886 posti effettivi. Altri 57 penitenziari italiani soffrono di un sovraffollamento superiore al 130% e, sebbene dopo soli 5 mesi dalla dichiarazione di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi e dopo i 2 provvedimenti svuota-carceri vi sia stata una veloce riduzione dei detenuti (di oltre 6400 unità), oggi il numero è ripreso a salire. Tra le cause del sovraffollamento contestate da Rita Bernardini vi è il grave problema della lungaggine dei procedimenti penali pendenti (oggi se ne contano circa 4.600.000): un paradosso assurdo che inibisce l'amministrazione della giustizia, determinando un aumento di costi pubblici e di disagi per i detenuti stessi, spesso reclusi in condizioni indecorose, afflitti da malattie psichiche o da tossicodipendenza, senza la possibilità di essere curati o riabilitati. Quello che preoccupa maggiormente i politici radicali è in particolare il numero dei detenuti che non hanno avuto la possibilità economica di pagare un avvocato per richiedere la revisione al ribasso della pena: in base alla modifica della Fini-Giovanardi, che in precedenza non faceva alcuna distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, oggi si è passati a pene detentive che vanno dai 2 ai 6 anni, anziché dai 6 ai 20. Oltre alla bocciatura di tale legge da parte della Consulta, anche la Direzione Nazionale Antimafia (Dna) si è espressa a favore della legalizzazione, considerando i dati derivanti dal totale fallimento delle politiche proibizioniste rispetto alla cannabis e dei suoi derivati. Il business che ruota attorno al mercato illegale della marijuana alimenta ogni giorno la criminalità organizzata, generando ogni anno un giro d'affari di ben 10 miliardi di euro. Secondo i dati della Dna, quindi, è arrivato il momento di prendere in considerazione la legalizzazione della cannabis, soprattutto se si considera anche l'aspetto terapeutico della sostanza. La battaglia di Rita Bernardini, infatti, è condotta anche a sostegno dei malati italiani che necessitano delle terapie a base di farmaci cannabinoidi: se ogni paziente potesse coltivare autonomamente semi di canapa femminizzati di questo tipo, ad esempio, potrebbe ovviare agli attuali impedimenti burocratici ed economici legati al reperimento di cannabis medica. Attualmente, infatti, questi farmaci sono importanti dall'Olanda, nonostante lo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze abbia appena inaugurato un progetto pilota per la prima produzione italiana di cannabis terapeutica, che potrà essere distribuita nelle farmacie indicativamente a partire da fine 2015. Come i Radicali, anche molti altri esponenti Pd e M5S stanno presentando in questo periodo alcune proposte di legge per la legalizzazione della cannabis sul modello di altri Paesi europei, come Spagna, Svizzera e Olanda, e del continente americano, come Colorado (USA) o Uruguay. Giustizia: decreto anti-terrorismo, gli "007" potranno essere in incognito tra i detenuti di Damiano Aliprandi Il Garantista, 17 aprile 2015 Il Senato ha dato via libera al decreto anti terrorismo. Ci sarà il carcere per i "foreign fighters", l'obbligo di arresto in flagranza per gli scafisti e i servizi segreti saranno autorizzati ad infiltrarsi nelle carceri italiane attraverso i suoi 007. La legge prevede dai 5 agli 8 anni di reclusione per i foreing fighters, cioè coloro che si arruolano per andare a combattere all'estero con i terroristi dell'Isis, nonché per chiunque organizzi, finanzi o propagandi viaggi finalizzati al terrorismo. Per essi scatta la custodia cautelare in carcere ed è prevista anche la perdita della potestà genitoriale se viene coinvolto un minore. L'uso del Web e di strumenti informatici per perpetrare reati di terrorismo (arruolamento di foreign fighters propaganda, ecc.) diventa un'aggravante che comporta l'obbligo di arresto in flagranza. Ma dopo le polemiche che si erano susseguite alla presentazione del decreto, è stati eliminata la norma che autorizzava la polizia a utilizzare programmi per acquisire "da remoto" le comunicazioni e i dati presenti nei Pc. Però l'intercettazione preventiva sulle reti informatiche degli indagati di reati di terrorismo internazionale può essere utilizzata, così come i dati relativi al traffico telefonico e telematico, nonché le chiamate senza risposta, dovranno essere conservati dal fornitore fino al 31 dicembre 2016. La legge, come già detto, prevede anche l'ingresso al carcere dei 007 in incognito con la scusa di prevenire l'arruolamento dei terroristi. Ma non solo. In pratica - sempre per fronteggiare il terrorismo - ci saranno maggiori poteri ai servizi, compreso maggiore immunità. In gergo, le chiamano "garanzie funzionali". Significa il potere degli agenti speciali di violare la legge pur di arrivare al risultato. La legge 124 del 2007 prevede già una procedura specifica: previa autorizzazione del presidente del Consiglio, l'agente dei Servizi può essere autorizzato a commettere reati. Ma mai di quelli troppo gravi come ad esempio l'omicidio. Nel caso dovessero aumentare le cosiddette "garanzie funzionali", i nostri 007 potrebbero avere la licenza di uccidere. Il paletto tolto considerato "ingombranti" rimane comunque quello di dare la possibilità ai servizi segreti di operare sotto copertura all'interno delle carceri. Cosa vuol dire? In pratica, un agente potrà mantenere la sua personalità di copertura anche se arrestato, se interrogato e se condotto in carcere. La legge attuale n. 124 del 2007 lo vieta espressamente. Ma se esiste è perché c'è un motivo. La normativa venne varata dall'allora Governo Prodi con un ampio consenso parlamentare e andò a riformare in modo sostanziale i Servizi Segreti italiani. La revisione precedente del settore era avvenuta trent'anni prima, nel 1977. Entrando nello specifico di quella normativa si andò a modificare il funzionamento dei Servizi, alla luce dell'evidente mutato contesto storico e politico internazionale, che era ancora basato sul modello della legge del 1977 nata in piena Guerra Fredda; ovvero, due servizi distinti e dipendenti da altrettanti ministeri (Difesa e Interni) sui quali il Governo e il Parlamento avevano un controllo limitato. Con la riforma dell'intelligence avvenuta nel 2007 si andarono a definire tutta una serie di garanzie funzionali per gli agenti; una sorta di regole di ingaggio che vanno a prevedere la possibilità di compiere una serie di reati senza il rischio di essere puniti se questi atti sono indispensabili alle finalità dei Servizi. Giustizia: strage di Milano. Il Ministro Orlando: standard unici di sicurezza nei tribunali di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2015 L'incontro con i Pg delle 26 Corti d'appello: primo passo un censimento distretto per distretto, poi l'estensione dei controlli con metal detector. No alle "improprie sindromi di assedio", sì a "scelte che tendano verso un equilibrio tra indispensabili misure di salvaguardia dei luoghi e della incolumità delle persone che accedono negli uffici giudiziari, e la necessità di contenere i disagi per l'utenza". A dirlo è il ministro della Giustizia, che nel corso di due informative rese ieri prima al Senato poi alla Camera ha ricostruito la dinamica della strage che il 9 aprile ha insanguinato il palazzo di Giustizia di Milano. Confermando, a breve, il superamento del quadro normativo sulla sicurezza degli uffici giudiziari ("connotato da obiettivi profili di frammentarietà e disorganicità") che oggi vede competenze ripartite tra ministero (direttamente, solo sugli uffici di Roma e Napoli) e Comuni per quanto riguarda la gestione degli edifici (risorse materiali, beni e servizi) e i Procuratori delle Corti d'appello cui è affidata l'adozione dei provvedimenti per assicurare la sicurezza interna delle strutture, in coordinamento con prefetti. Da settembre, in base a quanto stabilito dall'ultima legge dì Stabilità, l'attuale modello di gestione datato 1941 verrà abbandonato, e il ministero avrà competenza diretta a tutti gli uffici giudiziari, e in particolare per quanto riguarda la forni tura di beni e servizi per la sicurezza. Su questo fronte, con riferimento ai fatti di Milano, non risultano comunque inadempienze o ritardi di via Arenula, dal momento che "ogni richiesta di autorizzazione" in relazione alle esigenze dì sicurezza del Palazzo di giustizia "è stata puntualmente evasa" e non risultano "richieste pendenti" da parte degli uffici. Aggiornando il quadro delle inchieste in corso, che ancora non permettono di valutare le responsabilità penali per l'adeguatezza dei controlli e delle misure di sicurezza nei tribunali, il ministro ha poi confermato l'apertura da parte della Procura di Brescia, di un fascicolo per il delitto di omissione dì atti dì ufficio. L'indagine, a carico di ignoti, è "in relazione all'ipotesi che l'ingresso di persona illegalmente armata all'interno del Palazzo di giustizia milanese possa essere avvenuto in conseguenza della mancata, ovvero inadeguata, adozione di condotte doverose". Nel pomeriggio Orlando ha poi incontrato al ministero i Pg delle 26 Corti d'appello italiane per fare il punto sulla sicurezza. Tra le priorità, una semplificazione delle competenze e "una riflessione sulle modalità dì regolamentazione degli accessi e dell'utilizzo dei servizi di vigilanza". Primo passo: "Un censimento distretto per distretto". Tra le indicazioni arrivate dai Pg il rafforzamento del servizio di sicurezza con l'impiego di Carabinieri e l'estensione dei controlli con metal detector a chiunque entri nei tribunali, compresi i Pg. Una misura, questa, adottata in molte sedi dopo i fatti di Milano, che a Napoli ha portato alla proclamazione dì uno sciopero delle udienze il 15,16 e 17 aprile da parte dell'Ordine degli avvocati per protesta contro il caos e le lunghe attese davanti agli Uffici giudiziari. Ieri il Garante per gli scioperi ha chiesto la revoca immediata dell'astensione per "violazione dell'obbligo del preavviso". Giustizia: "Mafia Capitale" travolge le coop buone. Centinaia di posti di lavoro a rischio di Errico Novi Il Garantista, 17 aprile 2015 Nel calderone dei pm è finita anche la società "Edera". Le prove? I precedenti penali di un socio, cioè il nulla. Ma 200 posti di lavoro sono in bilico. E sì, poi magari fra qualche anno capiremo. Se Salvatore Buzzi era davvero un mafioso, per esempio. O se aveva piuttosto trasformato la cooperazione in una forma di rampantismo imprenditoriale, in un gioco di scambio con la politica. Allora, magari, le immagini del blitz del 2 dicembre e quella stessa intestazione, "Mafia Capitale", ci faranno sorridere. Ma sarà troppo tardi. Almeno per aggiustare il destino delle cooperative vere. Quelle che dall'inchiesta della Procura di Roma sono state solo lambite. Contagiate appena. Eppure messe in ginocchio. Forse non dal punto di vista penale, processuale. Ma economico sì. Rischia di essere il caso della cooperativa Edera. La numero due, a Roma, tra le società mutualistiche che impiegano ex detenuti e svolgono servizi di pubblica utilità. Nelle carte del procuratore Giuseppe Pignatone e dei suoi sostituti ci finisce quasi per caso. O per paradosso, si potrebbe dire. Un suo ex amministratore, Franco Cancelli, attualmente socio lavoratore, è indagato per turbativa d'asta nell'ambito della maxi inchiesta. Secondo i pm Ielo, Cascini, Prestipino e Tescaroli avrebbe truccato una gara Ama, la numero 30 del 2013. Prove? Nessuna intercettazione in cui echeggi la voce di Cancelli. Solo una in cui il solito Buzzi dice ad altri che Cancelli gli ha rappresentato una richiesta di un consigliere regionale, Eugenio Patanè: "Vuole 120mila euro". E si può chiedere la custodia cautelare, seppure ai domiciliari, perché un terzo soggetto dice che l'indagato in questione è intermediario di una presunta mazzetta, senza avere altre prove che la transazione ci sia stata, che la Edera di Cancelli e la 29 Giugno di Buzzi si siano spartite l'appalto, senza insomma il dispositivo logico che autorizzerebbe la misura? "Avevano solo un modo per giustificare gli arresti domiciliari a mio carico: la presunta pericolosità sociale del sottoscritto". E su cosa si basa questa pericolosità? Vediamo. Cancelli ha precedenti di un certo peso. È stato arrestato nel 1978 per banda armata, con condanna definitiva nell'82. Avrebbe militato secondo le accuse nella formazione "Guerriglia comunista". Fatale, per Cancelli, è stata una rapina a cui avrebbe partecipato e che, secondo un brigatista pentito, serviva a finanziare la lotta armata. Nella sua fedina penale compare addirittura un concorso in omicidio: "Nell'82, nel carcere di Trani, durante l'ora d'aria, uccisero il detenuto Ennio Di Nolfo. Non riuscirono a individuare l'autore e incriminarono tutti quelli che erano in cortile, compreso me". Nel 1996 ottiene la semilibertà, nel 1999 l'affidamento in prova. Da allora non ha più avuto storie con la giustizia "a parte un paio di occupazioni con altri compagni". Insomma, è un comunista dal passato molto agitato. Che però a inizio anni 90 si è organizzato appunto "con altri compagni detenuti ed ex detenuti" per vedere "cosa potevamo fare una volta fuori". Da lì nasce la coop Edera. Che si occupa all'inizio di pulizie condominiali, qualche appalto nei giardini pubblici, la concorrenza insostenibile della 29 Giugno e poi le prime commesse nei servizi di igiene urbana. Oggi parliamo di 200 lavoratori, 780 mezzi prevalentemente destinati alla raccolta differenziata. Sulla carta una grande testimonianza di privato sociale che funziona. Nei fatti, una bella storia messa in ginocchio dall'inchiesta romana. Perché appunto Cancelli finisce nel tritacarne degli arresti. A giustificare la misura cautelare, pur scontata ai domiciliari, è per il gip la sua "pericolosità sociale". Come si giustifica, visto che Cancelli ha chiuso i conti con la giustizia penale da quattordici anni, nel lontano 2001? Con il fatto che si è "reinserito in attività criminali di elevatissima pericolosità". E quali sono? I presunti affari con Buzzi. Cioè, la pericolosità sociale sarebbe dimostrata dagli stessi reati oggetto dell'inchiesta. Reati che evidentemente non sono mai stati provati, visto che siamo alla fase preliminare del procedimento. Un paradosso giuridico. Che ai magistrati del Riesame appare grande quanto una casa. Tanto che il Tribunale della libertà revoca gli arresti domiciliari a Cancelli lo scorso 24 dicembre. Ma ormai l'immagine della cooperativa Edera è compromessa. "Dal giorno stesso del blitz, dal 2 dicembre, abbiamo avuto una montagna di problemi", dice ancora il cofondatore. Nessuno si fida più. O meglio: nessuno al Comune di Roma e nelle municipalizzate se la sente di concedere appalti e credito a Edera. Sarebbe sconveniente. Un attimo dopo i giornali che hanno montato la storia della Capitale oppressa da una Cupola Mafiosa sparerebbero: la giunta Marino fa affari con i complici di Buzzi. Così andrebbe. E ora 200 persone rischiano di veder disintegrata la loro fonte di reddito. La "creatura" messa insieme in oltre quindici anni di sudore, "fatica spesa, soprattutto all'inizio, nei lavori più umili, che abbiamo sempre accolto come un privilegio". C'è un capannone a San Lorenzo che Edera vorrebbe prendere in affitto, per farne un deposito dei mezzi della società. "Eravamo in trattativa e ora si è bloccato tutto. Avevamo proposto al Comune e ai proprietari di assumere l'incarico dello smaltimento dell'Eternit, presente nella struttura in grande quantità. Sembrava fatta. Dal 2 dicembre non ci rispondono neppure alle mail". Stessa storia per una terreno Ater (Azienda territoriale per l'edilizia residenziale di Roma) sulla Palmiro Togliatti, in zona Torraccia: "Abbiamo proposto di prendere l'incarico per trasformare l'area in un grande parco pubblico. Giochi per bambini e aree picnic. Molti nostri soci abitano lì, avrebbero la soddisfazione di lavorare e realizzare nello stesso tempo qualcosa di utile per il loro quartiere. Cosa ci guadagneremmo? A parte l'installazione delle strutture, gli introiti di un baretto da aprire sul posto. Niente di che, ma è un progetto in linea con lo spirito a cui cerchiamo di riferirci da quando siamo nati: attività mutualistica che realizza servizi utili alla comunità, possibilmente alla stessa comunità di cui fanno parte i soci. Senza velleità di accumulo capitalistico... Cosa c'entra una cosa del genere con la Mafia della Capitale?". Chissà se l'inchiesta sarà capace di evadere il quesito. Intanto anche il discorso intavolato con Ater si è incagliato nelle secche della maldicenza. Cancelli è stato fatto passare per uno che s'accorda e spartisce gli appalti con Buzzi. "Eppure mi sono sempre sentito lontano da lui. Già dalle prime riunioni, agli inizi della 29 Giugno. Gli dissi chiaro e tondo che non apprezzavo il rampantismo di certi suoi discorsi. Ci vedevo una forma impropria di impresa di capitali classica. Diciamo che dal punto di vista ideologico, tra me e Buzzi c'è da anni grande distanza". Ci sono state tensioni tra i due anche durante una agitazione che coinvolse molte coop durante la giunta Alemanno. "Buzzi creò una delegazione con cui pretendeva di rappresentare anche Edera. Noi eravamo al presidio in 50 su 400, ritenevamo di dover avere una presenza diretta al tavolo con il sindaco. Non ce la diedero e ce ne andammo". Adesso la coop Edera ha in pedi due appalti importanti, sempre con l'Ama. Ma non ne prende altri e questo pregiudica l'abituale processo di assorbimento di nuova forza lavoro dal bacino degli ex detenuti, tanto da dover respingere le richieste avanzate dagli assistenti sociali. In base a quanto previsto dalla legge che ha istituito l'Authoritry di Cantone, le due commesse di Edera sono state commissariate. "I commissari sono due, professionisti di grande livello, che portano anche un valore aggiunto per i nostri soci lavoratori. Ma la nostra immagine è compromessa, Sulla base di un'accusa mossa al sottoscritto che si basa su mere presunzioni e chiacchiere di Buzzi al telefono", dice Cancelli. "La Mafia Capitale? Tra le tante carceri che ho girato c'è anche Fossombrone, dove ho diviso la cella con esponenti di spicco delle cosche siciliane. Al piano di sotto c'erano i cutoliani. Me li sono studiati. E posso dire che Buzzi e Carminati, con i mafiosi veri, non c'entrano nulla. Corruzione? Magari lo proveranno. C'era un sistema di scambio, questo mi sembra. Ma la mafia è un'altra cosa. E noi siamo finiti sotto questo marchio infamante che rischia di distruggere tutto". Giustizia: sospeso dal servizio il poliziotto che voleva essere come Salvini e Travaglio di Piero Sansonetti Il Garantista, 17 aprile 2015 Il poliziotto Fabio Tortosa è stato sospeso dal servizio dopo le sue demenziali dichiarazioni (via Facebook) a proposito della mattanza compiuta dalla polizia a Genova nel luglio 2001, e soprattutto dopo gli insulti (volgarissimi e, francamente, infami) nei confronti di Carlo Giuliani, il ragazzo che, in quei giorni folli di Genova, fu ucciso da un carabiniere a colpi di revolver e poi schiacciato dalla camionetta dei militari. La decisione di sospendere Tortosa è stata presa dal capo della polizia, Pansa. Sembra una decisione saggia. Per una ragione semplice: un poliziotto ha un potere molto grande sulle persone, e in teoria dovrebbe riscuotere la fiducia delle persone, e deve essere visto dalle persone come un rappresentante dello stato non come un fanatico di parte. Fabio Tortosa, invece, ha voluto dichiarare che lui è orgoglioso delle sue idee - immagino radicalmente fasciste, anche se poi ha detto che vota Pd - e ha voluto offendere un ragazzo morto, e la sua famiglia, e le tante persone che gli volevano bene. Ha detto testualmente: "Carlo Giuliani mi fa schifo, e ora che sta sottoterra credo che faccia schifo anche ai vermi". Per questa ragione è opportuno che sia tolto dal contatto con la gente e che sia privato del potere che in genere tocca - necessariamente - alla polizia con incarichi operativi. Non mi interessa una misura punitiva (non mi interessa mai una misura punitiva, e la vivo sempre con disagio e, comunque, con simpatia per il punito) ma penso che sia giusta una misura di cautela e di protezione dei diritti della gente, che va difesa dal rischio di essere sottoposta al potere fazioso di un poliziotto che si è dimostrato molto poco equilibrato. Tortosa deve essere allontanato dai servizi operativi e mandato a lavorare negli uffici, gli va assegnato un lavoro dignitoso e adeguato al suo grado, al suo ruolo e alle sue capacità. Delle dichiarazioni rilasciate da Tortosa su Facebook mi hanno colpito più quella su Carlo Giuliani che la rivendicazione orgogliosa della sua partecipazione all'intervento - ingiustificato - nelle aule della scuola Diaz e della violenza di quell'intervento considerato dalla Corte Europea vera e propria tortura. Perché le frasi contro Giuliani erano veramente di una ferocia sconcertante, cariche di odio esagerato. Probabilmente un po' dipende dal clima che si è ormai creato, in Italia, nello spirito pubblico. Provocato dai giornali e dalla fragilità culturale e psicologica di moltissimi esponenti politici. L'odio, la rivendicazione della propria capacità di odiare e di desiderare l'annientamento e l'umiliazione del proprio avversario ( o comunque di chi dissente da te) è un punto di onore per tutti. Il nuovo machismo è un tratto dominante della discussione pubblica, specie sui social network, ed è un machismo (solo in parte ereditato dalle rozzezze del fascismo o dello stalinismo) che tra l'altro coinvolge ampiamente anche le donne. È chiaro che in parte la virulenza della polemica di Tortosa è da addebitare a questa corrente di pensiero che sta travolgendo la nostra cultura. E infatti Tortosa, il giorno dopo quelle frasi obbrobriose su Carlo Giuliani, si è reso conto di cosa aveva detto e ha presentato le sue scuse alla famiglia di Carlo. Mi sono sembrate scuse sincere, anche perché Tortosa ha raccontato una storia tristissima, tragica, che lo riguarda, e cioè la morte di un suo fratellino di 15 anni. Io penso che le scuse di Tortosa andrebbero accolte, e però sono sconvolto dall'idea che una persona che ha vissuto un dramma umano così grande, e ha visto il dolore sconfinato dei suoi genitori, si possa far sfuggire, per sbaglio, quelle frasi su Carlo, provocando un dolore formidabile a Giuliano e Heidy, che sono il papà e la mamma di Carlo. Come è possibile? È possibile proprio per la ragione che dicevamo prima: il clima è questo, il dovere di una persona con la schiena dritta è quello di insultare a più non posso gli avversari, e se non lo fa, forse, è un venduto. La prova che le cose stanno così sta nelle dichiarazioni dei politici che hanno voluto commentare il caso Tortosa. Il solito Salvini non ha perso un attimo per attaccare Pansa, per attaccare Alfano e per chiedere addirittura le dimissioni del governo. E Daniela Santanché gli è andata dietro. Salvini ha rivendicato persino le idiozie che lo stesso Tortosa ha ripudiato, e ha esaltato l'azione selvaggia della polizia alla Diaz. Io penso che questa malattia profondissima (provocata dal crollo delle ideologie e dalla loro sostituzione con i folclorismi improvvisati e volgarissimi dei Salvini-Travaglio-Grillo) sia in questo momento il pericolo più grande per la nostra civiltà. Anche perché non c'è niente che si contrapponga a questa violenza. In genere, per contrapporsi, si ricorre ad altra violenza. Speculare. Si chiedono punizioni esemplari per Tortosa, si creano gruppi Face Book contro di lui, si propone la repressione inflessibile dei reati di opinione o - meglio - delle opinioni ritenute sbagliate. L'unica reazione civile a Tortosa l'ha avuta il papà di Carlo, Giuliano. Il quale non ha chiesto che il poliziotto fosse bastonato e messo in catene, solo ha chiesto al Presidente della Repubblica di chiedere scusa, in nome dello Stato, a Carlo. E questo sarebbe giusto che avvenisse. Temo che non avverrà, invece. Giustizia: la mossa del Capo della Polizia "colpire i responsabili, tutelare il Corpo" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 17 aprile 2015 Sospeso dal servizio in attesa dell'annunciato procedimento disciplinare. La mossa del capo della polizia Alessandro Pansa contro l'agente che ha pensato bene di rivendicare via Facebook la sanguinosa irruzione alla scuola Diaz durante il G8 di Genova è il segno di quanto poco il vertice dell'amministrazione abbia gradito questa nuova polemica sui fatti di 14 anni fa. E di come intenda scrollarsela di dosso il più in fretta possibile, incolpandone i responsabili. Così il poliziotto Fabio Tortosa, che fino a ieri era assegnato ai servizi di fureria nel Reparto mobile di Roma, paga da subito le parole diffuse via Internet che lui stesso ha poi definito - almeno in parte - inopportune, il dirigente del Reparto mobile di Cagliari Antonio Adornato, che quei pensieri ha ritenuto di condividere sottoscrivendo un "mi piace" telematico, è stato invece rimosso dall'incarico in vista degli ulteriori accertamenti. E altre verifiche sono in corso sulla decina di uomini in divisa che come lui si sono pubblicamente dichiarati d'accordo con le considerazioni di Tortosa. Senza atteggiamenti da "caccia alle streghe", chiariscono al Dipartimento della pubblica sicurezza, ma anche senza indulgenze verso comportamenti che possono gettare ombre e discredito sull'immagine dell'amministrazione. Lui, il poliziotto sospeso dal servizio, reagisce definendosi "vittima sacrificale" e valutando eventuali ricorsi. E continua a fornire una versione dei fatti del G8 in cui assolve se stesso e l'intero VII Nucleo del Reparto romano che la sera del 21 luglio 2001, dopo un'intera giornata di scontri di piazza, guidò l'ingresso della polizia alla Diaz nella tristemente nota perquisizione trasformatasi in pestaggio di massa. Si conta addirittura tra i danneggiati di quella situazione, lui e i suoi colleghi. Ma gli atti processuali, gli stessi che Tortosa e i politici scesi in campo a sua difesa citano di continuo, raccontano un'altra storia. La sentenza del tribunale di Genova del novembre 2008, che per la parte relativa alle violenza all'interno della scuola-dormitorio è stata confermata sia in appello che in cassazione, ha stabilito che i primi a entrare nell'edificio furono proprio gli uomini del VII Nucleo. Si evince dai filmati e lo confermò il comandante Vincenzo Canterini, il capo di Tortosa, che la sera stessa stilò una relazione di servizio in cui attestava che gli agenti avevano incontrato resistenze negli occupanti della scuola. Le persone colpite, invece, ricordano diversamente. Armando Cestaro, il signore che ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo ottenendo la recente sentenza che ha definito l'irruzione una "tortura", testimoniò: "Si aprì la porta e vidi che era la nostra polizia. Ho alzato le mani... I poliziotti hanno cominciato a colpire tutti con i manganelli. Avevano divise scure, caschi... Sono tornato a casa in sedia a rotelle, con le ossa rotte". Molti altri testimoni ricordarono che i picchiatori "indossavano giacche scure, caschi, e portavano davanti al viso dei fazzoletti rossi", nonché "uniforme blu scuro e parastinchi", mentre Tortosa cita solo le deposizioni di chi parla di aggressori vestiti da civili, al massimo con la pettorina della polizia. In ogni caso i giudici hanno stabilito che "le violenze risultano compiute da un gran numero di agenti, appartenenti non solo al VII Nucleo ma anche ad altri reparti"; le descrizioni su divise, caschi e manganelli branditi dai poliziotti indicano tra i picchiatori "la prevalenza degli appartenenti al VII nucleo", sebbene non escludano "che le violenze siano state poste in essere anche da operatori di diverse provenienze". Dunque il fatto che non ci siano state condanne per gli uomini della squadra di Tortosa - a parte quelle nei confronti di alcuni capi, poi prescritte - non implica affatto la loro estraneità alle percosse ingiustificate, ma semplicemente che non s'è arrivati ad attribuire singoli comportamenti a singoli agenti. L'inchiesta dei pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona non riuscì nell'intento, e i magistrati decisero di prosciogliere i circa ottanta indagati in forza al VII Nucleo (che peraltro, convocati dagli inquirenti, s'erano avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande su quella notte). Compreso Tortosa. Suscitando il seguente commento del tribunale: "Non si intende in alcun modo sindacare le scelte della pubblica accusa circa la richiesta di archiviazione delle imputazioni nei confronti dei possibili esecutori materiali delle violenze, ma deve riconoscersi che tale decisione non ha sicuramente favorito l'accertamento delle singole responsabilità". Giustizia: le sanzioni per agenti caso politico. Salvini li difende "roba da quarto mondo" di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 17 aprile 2015 Salvini li difende: punire i "mi piace" su Facebook è quarto mondo. Manconi: commissione d'inchiesta. Striscioni contro l'agente Fabio Tortosa all'università La Sapienza, proprio mentre ad un convegno dentro l'ateneo il capo della Polizia, Alessandro Pansa, annuncia la sospensione del poliziotto per le frasi su Facebook ("Ero alla Diaz, ci rientrerei mille volte") e la rimozione per Antonio Adornato, collega di Tortosa al G8 di Genova nel 2001 (anche lui al VII Nucleo di Roma) e fino a ieri capo del reparto mobile di Cagliari. Adornato aveva cliccato "mi piace" sotto il post di Tortosa. Contro le decisioni del capo della polizia, si scaglia invece Matteo Salvini, il leader della Lega, che critica pure il ministro dell'Interno Angelino Alfano per un tweet a favore delle misure: "Processare un mi piace è da quarto mondo - attacca Salvini. Un governo che punisce i poliziotti per le parole su Fb, libera i delinquenti e mette in albergo i clandestini, deve andare a casa il più presto possibile. Alfano dimettiti! Mi stupisce anche un capo della Polizia che parla dei suoi uomini come se fino a qualche anno fa fossero stati dei macellai: forse ha sbagliato mestiere. Io sono sempre e comunque con gli uomini in divisa, salvo chi sbaglia". Italia divisa, schierata su due fronti. "La sospensione è una buona notizia, serviva dare una risposta a ogni ambiguità", commenta Emanuele Fiano, responsabile sicurezza del Pd. Al fianco dei due agenti puniti scendono in piazza però i sindacati di polizia: davanti a Montecitorio compaiono car- telli con la scritta "Destituiteci Tutti". La Consap, il sindacato di cui fa parte Fabio Tortosa, chiede per lui l'assegnazione di una scorta, dopo le minacce di morte che gli sarebbero pervenute. Solidarizza con il poliziotto anche la deputata di For-za Italia, Daniela Santanché: "La sua punizione è ingiusta, dettata solo dall'onda emotiva, è un errore madornale". Replicando poi a Giuliano Giuliani, il padre di Carlo, il ragazzo morto durante il G8, che ha chiesto le scuse al capo dello Stato per le frasi scritte su Fb da Fabio Tortosa, la Santanché rincara la dose: "Ma quali scuse? Suo figlio era uno che aveva un estintore in mano e voleva fracassare la testa a un carabiniere. Dovrebbe chiedere scusa piuttosto chi ha voluto intitolare una sala a Montecitorio a Carlo Giuliani. Io in quella sala non ci sono mai entrata, mi vergogno che esista". Il senatore del Pd, Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani, chiede infine l'istituzione di una Commissione d'inchiesta sui fatti di Genova: "La sentenza della scorsa settimana (fu "tortura", secondo la Corte di Strasburgo, il trattamento inflitto ai manifestanti dalle forze dell'ordine, ndr) e le dichiarazioni stesse di Fabio Tortosa - conclude Manconi - che ha accusato decine e centinaia di suoi colleghi in borghese di comportamenti violenti dentro la scuola Diaz, esigono che si proceda al più presto". Lettere: rimosso l'agente… il resto passa di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 aprile 2015 Genova 2001. Destituito Tortosa, il poliziotto che non ha visto nulla di anomalo nella Diaz. Alfano trova così la via d'uscita al verminaio suscitato dalle frasi choc su Facebook. Pansa: "Ma la polizia è cambiata, oggi è paladina della legalità". E il Pd spera che ora si volti pagina: pochi sì alla commissione d'inchiesta. "Se pensano che per chiudere la ferita Diaz e venire a capo dei sentimenti che l'hanno attraversata in questi anni sia sufficiente liberarsi del sottoscritto e di qualche altro collega, si sbagliano". Stavolta non si può che essere d'accordo con la dichiarazione rilasciata a Repubblica da Fabio Tortosa - il poliziotto che su Facebook ha rivendicato con orgoglio l'irruzione nella scuola del massacro durante il G8 di Genova sollevando il verminaio che evidentemente ancora cova tra le forze dell'ordine - sospeso dal servizio ieri mattina, come anche il dirigente del Reparto mobile di Cagliari, Antonio Adornato, che aveva manifestato apprezzamento per il suo post. Parole, le sue ("in quella scuola rientrerei mille e mille volte"), e dei suoi colleghi ("torturatori con le palle") giustamente sanzionate perché oltrepassano il limite della libertà di espressione. Ma che mostrano al contempo un'omertà e uno spirito cameratesco da ultrà che è alla base dell'opacità delle forze dell'ordine. Problematica messa in evidenza dalla stessa condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo, e che non si combatte con due espulsioni, come fanno notare in molti, da Sel al senatore Manconi che ha depositato un'altra proposta per istituire una commissione d'inchiesta sui fatti di Genova, fino al segretario del Prc Paolo Ferrero. Il ministro dell'Interno invece spera che con il provvedimento emesso dal capo della polizia Alessandro Pansa si metta una pietra sull'intera vicenda. "Abbiamo fatto il giusto e lo abbiamo fatto presto", twitta Alfano in perfetto stile renziano. Ma Tortosa non ci sta: "Sono una vittima sacrificale, quello che ho scritto su Facebook è sulle carte processuali da 14 anni", dice annunciando l'intenzione di voler "ricorrere per vie legali contro la sospensione". Poi aggiunge una serie di scuse: "Non sono un torturatore. Non lo siamo stati noi del VII Nucleo. Non abbiamo commesso alcun atto contrario alle norme e all'etica di ogni uomo. E solo per questo motivo ho scritto che sarei tornato alla Diaz". Ma anche una serie di verità a cominciare dal fatto che lui e tanti altri sono entrati alla Diaz "obbedendo ad un ordine". Che fosse "legittimo" o meno è altra storia. Vero è che appare oggi "grottesco che nonostante molteplici sentenze non si sia fatta piena luce" e ora siano solo loro a pagare. Il realtà, il caso Tortosa ha fatto già scuola. A Genova, per esempio, l'assessore Montaldo ha deciso di annullare il convegno previsto per oggi sulla "salute in carcere" la cui direzione scientifica è stata affidata alla dottoressa Zaccardi, medico che operò nella caserma di Bolzaneto, condannata in appello (con condanna poi prescritta) per trattamento inumano. Va ricordato che a Bolzaneto c'erano quella sera personale di polizia penitenziaria, polizia di Stato, carabinieri e medici dell'amministrazione penitenziaria. Eppure, Pansa è convinto che oggi la polizia è cambiata, rispetto a 14 anni fa: "Abbiamo altri modelli comportamentali e altre tecniche operative. La polizia è paladina della legalità". Ecco perché "se c'è qualcuno che sbaglia, sbaglia lui, e verrà sanzionato". Un rigore che ovviamente non accontenta la Lega né la destra e neppure gran parte dei sindacati di categoria. "Mi ha stupito un capo della polizia che parla dei suoi uomini come se fino a qualche anno fa fossero stati dei macellai: probabilmente ha sbagliato mestiere", attacca Matteo Salvini. Daniela Santanché e i Fratelli d'Italia ovviamente giustificano ciò che nemmeno Tortosa ha più il coraggio di difendere. E Forza Italia non perde l'occasione per lavorare ai fianchi il suo competitor: "Alfano è forte con i deboli e debole con i forti". I sindacati di polizia più conservatori parlano di "tritacarne mediatico", "caccia alle streghe" e "sanzione preventiva" e qualcuno annuncia un esposto contro chi inneggia sui social all'odio verso Tortosa. Addirittura, Stefano Spagnoli, segretario nazionale della Consap, arriva a chiedere per il suo collega iscritto alla Confederazione sindacale autonoma di polizia che "si valuti immediatamente l'opportunità di assegnare a Tortosa e alla sua famiglia una scorta di adeguato livello, magari togliendola ai molti che ne beneficiano senza un giustificato motivo". Ma perfino Daniele Tissone, segretario del Silp-Cgil, parla di "strumentalizzazioni": "Il dibattito sulla sicurezza è qualcosa di serio e andrebbe ricondotto nelle sedi opportune, al di fuori di facili sensazionalismi", commenta Tissone che però ricorda ai colleghi che "chi riveste un ruolo di servitore dello Stato deve sempre tenere bene a mente che le dichiarazioni, in particolare quelle sui social, hanno un peso specifico maggiore". Il Pd, invece, quasi come un sol uomo, con rare eccezioni, difende la via d'uscita ideata dal governo e messa in opera da Pansa. Per esempio, la presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti: "Pansa ha scattato la fotografia della polizia attuale. C'è stata una riflessione interna, perciò fatti come quelli di Genova non potrebbero più accadere - risponde interpellata dal manifesto. Il resto appartiene al passato, che certo avrebbe avuto bisogno di una valutazione politica più approfondita, ma io non c'ero a quell'epoca e dunque mi fermo qui". Certo però, a giudicare dallo spaccato che il post di Tortosa ha rivelato, sembra ancora persistere da qualche parte, in seno ai corpi di polizia, una certa estraneità alla cultura della legalità e al rispetto costituzionale. E allora, si potrebbe andare più a fondo con una commissione d'inchiesta? "Non so, mi astengo - risponde Ferranti. Se dovessimo aprire una commissione per ogni fatto oscuro d'Italia… Però se qualcuno la propone io non mi oppongo". Lettere: la notte della Diaz, l'incubo che facciamo finta di non avere vissuto di Curzio Maltese Venerdì di Repubblica, 17 aprile 2015 La notte della Diaz non si può dimenticare. La telefonata di Vito di Indymedia sembrava quasi uno scherzo: "Alla scuola di fronte la polizia sta massacrando tutti". Perché, se era tutto finito? Con Filippo Ceccarelli, Alberto Flores, Anais Ginori e altri colleghi, corremmo alla Diaz, per ritrovarci dentro un incubo sudamericano. Il sangue, le ambulanze, le sirene, la rabbia dei poliziotti rivolta contro tutti, giornalisti compresi. Ci spingevano con gli scudi, ridendo, mentre gli elicotteri si abbassavano sulle nostre teste, puntando fari accecanti. Paolo Cento, parlamentare, si beccò pure una manganellata per aver osato protestare. Pareva di essere piombati nei racconti degli esiliati argentini o cileni, invece era il nostro Paese. Del resto, era la conclusione di un allucinante percorso: il lager di Bolzaneto, le cariche a manifestanti inermi, i pestaggi a caso per la città, la morte di Carlo Giuliani. Soltanto per il senso di responsabilità dei manifestanti non vi furono altre morti. Quella notte fu la prova generale di un regime. Che era esattamente il progetto della destra al governo e dei media al seguito. Se poi non si è realizzato è stato perché milioni e milioni d'italiani sono scesi in piazza a difendere la democrazia, dando vita negli anni - con i movimenti pacifisti, i social forum, la manifestazione del Circo Massimo e i girotondi - alla più grande mobilitazione di massa di tutti i tempi. Un Paese normale, dì fronte a tutto questo, si sarebbe interrogato nel profondo. Che cos'è, chiedeva Giorgio Bocca, questo fascismo eterno che rispunta come possibilità a ogni svolta della storia italiana? Ma non è stato così. Se non vi fosse stata la sentenza della Corte di Strasburgo, che dopo quattordici anni ha definito i fatti della Diaz per quello che erano - tortura - per noi italiani la storia sarebbe stata chiusa da tempo, rimossa dalla politica, dai media e anche dalla magistratura. Nessuno avrebbe chiesto le dimissioni di De Gennaro, che è il tipo d'italiano pronto per ogni occasione, capace di piacere sempre ai potente di turno, per quanto nemico del predecessore. Fra le tante inutili commissioni parlamentari d'inchiesta, non se n'è mai aperta una sui fatti di Genova. I governi di destra non la volevano, quelli di centrosinistra si trovarono di fronte la strenua opposizione di Antonio Di Pietro, legalitario a fasi alterne. È una storia esemplare di un Paese ormai smemorato e sorpreso d'inciampare ogni volta sulla stessa pietra. Speriamo che almeno in qualche angolo sia sopravvissuto qualcuno capace di leggere la propria storia. Napoli: violenze e misteri… ecco la prima foto della "cella zero" di Lorenzo Tondo Venerdì di Repubblica, 17 aprile 2015 "Eccola. Questa è la cella zero. Ma fate presto". L'agente apre la pesante porta blindata, al piano terra del padiglione Milano nel carcere di Poggioreale. È la prima volta che la casa circondariale consente ad un cronista di entrare nella gabbia più buia del penitenziario. Qui, dal 1981 e per oltre 30 anni, una squadra di poliziotti avrebbe torturato, secondo l'accusa, decine di detenuti. Presi a calci e pugni. Minacciati di morte e umiliati. Fatta eccezione per una vecchia panca di legno, la stanza è praticamente disadorna. È grande circa 6 metri quadrati. Oggi viene usata come sala d'attesa. I detenuti vengono portati lì in attesa di essere trasferiti in infermeria, in sala colloqui o prima di un interrogatorio. Sul vetro di sicurezza spicca una grossa crepa che si espande come una spessa ragnatela. Mentre passiamo all'interno c'è un uomo in attesa di essere trasferito in infermeria. Guarda fuori dalle grate di una finestra, l'unica, che si affaccia sul cortile interno. Sotto la calce appena stesa sui muri s'intravedono i segni dell'umidità. Sono le stesse pareti che le testimonianze degli ex detenuti descrivono "sporche di sangue ed escrementi". Sul tavolo della Procura di Napoli sono salite a 56 le denunce delle vittime raccolte dai pm Gianni Melillo e Alfonso D'Avino. Quattro gli agenti indagati che avrebbero agito a volto scoperto. Volti che Pietro loia, ex detenuto del carcere di Poggioreale, finito ben 4 volte dentro la cella zero, non dimenticherà mai: "C'era ‘u sfregiato con una grossa cicatrice sulla guancia. Melella, che si è guadagnato questo appellativo perché "quando beveva le guance gli diventano rosse come due mele". Ciondolino, che quando passava tra le celle, a notte fonda, lo riconoscevi da lontano con quel grosso mazzo di chiavi che ciondolava dai pantaloni. C'era piccolo boss. Basso, silenzioso, cattivo". Ioia si è fatto ventidue anni tra le sbarre di Poggioreale. Quando è uscito ha fondato l'associazione degli ex detenuti napoletani, con l'obbiettivo di migliorare le condizioni del carcere e denunciare gli abusi perpetrati dagli operatori penitenziari. "Ci venivano a prendere di notte" continua Ioia "ci chiudevano lì e in quattro ci riempivano di botte. Poi minacciavano: se avessimo spifferato la cosa ci avrebbero ammazzato. Era un modo per punire le piccole disobbedienze, come un mazzo di carte non registrate. Pian piano divenne un vero e proprio divertimento per loro. Un inferno per chi finiva dentro". Dall'inizio delle indagini, alla fine del 2013, al carcere di Poggioreale sono cambiati i vertici dell'istituto e della Polizia penitenziaria e le condizioni sembrano migliorate. Da Taranto è arrivato il nuovo direttore, Antonio Fullone: "Un carcere deve recuperare le persone e non limitarsi alla sola detenzione". Livorno: un carcere umano? A Gorgona c'è, ma l'affettività in prigione resta un tabù di Daniele Aliprandi Il Garantista, 17 aprile 2015 Si tratta di un raro esempio di detenzione civile, anche se ancora l'affettività in prigione resta un tabù. Il luogo ideale per sperimentare "l'affettività in carcere" potrebbe essere il famoso carcere di Gorgona. A dirlo è stato il garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone dopo aver visitato il carcere dove sono recluse 58 persone. "Si tratta di capire - ha detto Corleone, accompagnato dal garante dei detenuti di Livorno, Marco Solimano - perché tenere un carcere su un'isola. Mentre in passato si trattava di istituti speciali o per confinati, oggi ha senso se diventa qualcosa di alternativo con un progetto ben definito". Sugli interventi da compiere, Corleone ha specificato che andrebbe ampliata la vocazione dell'isola, un modello dal punto di vista ambientale, sociale e culturale, immaginando anche un intervento pubblico. "L'isola - ha proposto - potrebbe essere un richiamo per i corsi professionali: si potrebbero organizzare iniziative per alcune categorie di professionisti e far gestire ai detenuti l'accoglienza, lavorerebbero così per un progetto di sociabilità". Corleone ha definito Gorgona un "paradiso" dove i detenuti vivono in celle singole, spaziose, ben ammobiliate e con bagni decenti ma, ha ricordato, dove ci sono anche numerosi problemi a partire dalla mancanza di trasporti ai costi eccessivi per il mantenimento della struttura fino alla carenza di lavoro per i detenuti. "Non c'è più il collegamento della Toremar - ha rilevato il garante regionale - e per arrivare sull'isola ci vuole la pilotina della polizia penitenziaria. Quanto all'energia, è stato fatto un impianto con 11 generatori a gasolio, costato 2 milioni di euro e ogni giorno per farlo funzionare occorrono 400 litri di gasolio, nessuno ha pensato ai pannelli solari o all'eolico. Manca, infine, il lavoro per i detenuti, e quello che c'è non ha riconoscimenti professionali". L'istituto penitenziario di Gorgona è comunque "perfetto" per dare il via all'affettività, ma prima deve essere approvata una legge visto che nelle carceri italiane è vietato fare sesso. Ricordiamo che è stato depositato al Senato un disegno di legge, a firma del parlamentare Pd Sergio Lo giudice e altri colleghi, a favore dell' umanizzazione delle viste ai detenuti e soprattutto alla legalizzazione dell'affettività in carcere, "Il presente disegno di legge - si legge nel testo del ddl - riprende una proposta già depositata nella scorsa legislatura alla Camera dei deputati dall'Onorevole Rita Bernardini e dai deputati radicali, recante norme in materia di trattamento penitenziario". Il testo disegno di legge prosegue spiegando che "La detenzione rappresenta un evento fortemente traumatico per gli individui che ne vengono coinvolti. La Costituzione, all'articolo 27, prevede che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbano sempre tendere alla rieducazione del condannato. Ne consegue un obbligo per il legislatore e per le istituzioni a vigilare affinché i diritti inviolabili dell'uomo siano garantiti e tutelati. Tra i diritti basilari vi è senza dubbio quello di mantenere rapporti affettivi, all'interno della famiglia e nell'ambito dei rapporti interpersonali". Per superare questo problema, i senatori propongono delle soluzioni. Ad esempio rendere legale l'affettività in carcere "come del resto -spiegano nel testo - già avviene in altri Paesi europei e permette di agevolare il reinserimento sociale attraverso la valorizzazione dei legami personali e, nel contempo, attenua la solitudine che accompagna i detenuti durante il periodo di espiazione della pena". La sessualità è un ciclo organico, un impulso fisiologicamente insopprimibile, un bisogno di vita; trattare di affetti in carcere e, molto di più, di sessualità, suscita critiche, imbarazzi, polemiche, oltre che perplessità. La sessualità costituisce l'unico aspetto della vita di relazione dei detenuti a non essere normativizzato, quasi che l'afflizione della privazione sessuale debba necessariamente accompagnare lo stato di detenzione. Carcere e affettività sembrano due parole inconciliabili, perché se c'è qualcosa che nega la confidenza, la libertà di espressione dei sentimenti, questo è proprio il carcere. A tal proposito, diversi paesi europei hanno già da tempo introdotto, nei propri ordinamenti, apposite disposizioni normative volte a garantire l'esercizio - in ambito carcerario - del diritto personalissimo a coltivare relazioni familiari, affettive, sessuali e amicali con persone libere, destinando allo scopo spazi appositi e locali idonei. In particolare, in Canton Ticino, ad esempio, l'affettività può esprimersi attraverso una serie articolata di colloqui ed incontri intimi per i detenuti, con la possibilità di trascorrere momenti d'intimità con i propri familiari o amici per sei ore consecutive in una casetta situata nella zona agricola del carcere: una zona immersa nel verde, non lontana dall'Istituto e protetta da una recinzione. In Italia mancano simili spazi e le proposte avanzate sono recepite con non poca resistenza, così, quando si è iniziato timidamente a parlare di "stanze dell'affettività" in carcere, le hanno subito battezzate "stanze del sesso", "celle a luci rosse". Da un punto di vista utilitaristico, però, il riconoscimento di un "diritto all'affettività" avrebbe senza dubbio un ritorno in termini di vivibilità e di gestione penitenziaria. E a sostenere tutto ciò non ci sono solo le associazioni laiche o partiti come i radicali, ma anche movimenti cattolici come la Comunità Papa Giovanni XXIII. Quindi se non c'è ancora il diritto all'affettività in carcere non è perché in Italia c'è il Vaticano. Non ci sono scuse. Pordenone: il nuovo carcere non si farà, il Dap non intende più riadattare l'ex caserma Messaggero Veneto, 17 aprile 2015 Arriva da Roma quella che sembra tanto essere la pietra tombale sul carcere di San Vito al Tagliamento. La struttura da 300 posti che doveva sorgere al posto dell'ex caserma Dall'Armi di via Oberdan, per alleggerire il sovraffollamento dell'istituto penitenziario di Pordenone e tamponare l'emergenza che avvolge le case circondariali di tutta la regione Friuli Venezia Giulia, rimarrà sulla carta. Il progetto che cinque anni fa era stato inserito nel piano carceri del ministero delle Infrastrutture è finito nell'elenco, messo nero su bianco dal capo del Dap (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) Santi Consolo, delle nuove carceri per cui non si intende più procedere. La notizia è trapelata ieri dopo un vertice romano tra lo stesso Consolo, accompagnato dal vice Mauro Palma, già consigliere del ministro Orlando, e una quindicina di garanti per i diritti dei detenuti da tutta Italia, promosso da Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia, già consigliere provinciale a Udine e oggi garante dei detenuti della Regione Toscana. Tra i punti all'ordine del giorno, assieme alla qualità della vita dei carcerati, anche la questione scottante dell'edilizia penitenziaria. "Con sorpresa ho appreso che l'edificio previsto a San Vito è stato cancellato dall'elenco delle strutture carcerarie in via di realizzazione", fa sapere Corleone. Quello in provincia di Pordenone non è, però, l'unico stop disposto dal Dap, ma rientra nei tagli di nuovi istituti, padiglioni e previsioni di ampliamenti per complessivi 130 milioni di euro. Per la struttura di San Vito, che aveva già subito forti rallentamenti e che puntava a vedere la luce nel 2016, è un fulmine a ciel sereno. L'iter per la realizzazione, infatti, sembrava avere raggiunto finalmente il giro di boa, tanto che era già stata pubblicata la graduatoria finale delle offerte relative al bando gara sulla base dei punteggi per la parte tecnica ed economica e la tempistica del cantiere, da 20 milioni di euro. Senza contare che era stata la stessa presidente della Regione Debora Serracchiani ad assicurare di essersi "già rivolta al ministro della Giustizia Andrea Orlando per sollecitare il governo nazionale a proseguire sulla strada dell'avvio della nuova struttura, che andrebbe anche a sostituire l'attuale vecchio carcere ospitato nel castello di Pordenone". Ma nessun garante dal Friuli Venezia Giulia era presente al vertice di ieri per poter puntare i piedi contro la decisione. Che "non tiene conto - avverte Corleone - dello stato indecente in cui versa il carcere di Pordenone. Sul numero di posti e sulla dislocazione della struttura si poteva discutere, ma è indubbia la necessità di un nuovo carcere per risolvere l'emergenza. Il quadro degli istituti in Friuli Venzia Giulia non brilla certo per qualità della vita dei detenuti. L'istituto di Gorizia è in stato comatoso - precisa Corleone, a Udine manca uno spazio aperto verde e Trieste è sovraffollato". Ecco perché, spiega l'ex sottosegretario, "abbiamo richiesto tutta la documentazione per conoscere quali siano le intenzioni del governo su questo tema. Sono d'accordo che non bisogna costruire nuove carceri - aggiunge, però le scelte devono essere razionali". Il sindaco di Pordenone, Claudio Pedrotti, si lascia andare a un momento di rassegnazione. "Non è mai finita - confida il primo cittadino. Sul carcere di San Vito era stata presa una decisione molto chiara. Sembra che i temi controversi della nostra provincia non trovino mai una soluzione finale. Nell'istituto di Pordenone il problema di dignità dei detenuti esiste - precisa Pedrotti - e su questo noi non molliamo, faremo sentire la nostra voce, andremo a Roma e chiederemo quali sono le intenzioni su una struttura a oggi inaccettabile". Pordenone: nuovo carcere "cancellato", Sindaco di San Vito chiama Regione e Ministero di Massimo Pighin Messaggero Veneto, 17 aprile 2015 Sindaco di San Vito preoccupato, "ma nulla è pregiudicato". Liva (Pd): opera prioritaria. Loperfido (Fdi): annunci disattesi. "Mi sono già mosso con Regione e ministero della Giustizia affinché il carcere di San Vito al Tagliamento non venga considerato inutile e, di conseguenza, venga costruito così come previsto. Esistono forti preoccupazioni, inutile negarlo, ma nulla è pregiudicato: opereremo il massimo sforzo per portare a casa un risultato che sarebbe importante per tutta la provincia". Non getta la spugna il sindaco di San Vito al Tagliamento, Antonio Di Bisceglie, nemmeno dopo l'inserimento della prevista struttura penitenziaria in un elenco, composto da dieci progetti, di carceri ritenute non più necessarie, sulla scorta dei dati relativi alla popolazione carceraria. A indicarlo è stato uno studio, che il primo cittadino sanvitese definisce avulso dalla realtà del Friuli occidentale. "Non stiamo chiedendo la realizzazione di un secondo penitenziario - osserva Di Bisceglie -, bensì la sostituzione di quello esistente, fatiscente e igienicamente non adatto a ospitare detenuti. Si pensa che trecento posti nel carcere di San Vito sarebbero troppi? Si realizzi una struttura da duecento posti, ma la si faccia: noi non arretreremo di un millimetro". Gli avvocati. Dal canto suo, il consiglio dell'Ordine degli avvocati di Pordenone, senza entrare nel merito delle scelte politiche "che hanno per l'ennesima volta penalizzato la provincia di Pordenone", rileva la necessità di risolvere "nel più breve tempo possibile il problema del carcere cittadino al castello. Le condizioni edilizio-igieniche in cui si trova l'edificio di piazza della Motta non sono infatti più tollerabili né per i detenuti né per gli operatori, costretti a lavorare in condizioni di emergenza (avvocati e magistrati non dispongono neanche di una stanza per gli interrogatori), né per il personale di servizio - sottolineano gli avvocati pordenonesi -. Il consiglio dell'Ordine auspica che venga al più presto individuata una collocazione alternativa a quella attuale". Reazioni politiche. Da registrare anche gli interventi del consigliere regionale Renzo Liva (Pd) e del consigliere provinciale e del Comune di Pordenone Emanuele Loperfido (Fratelli d'Italia). "Il nuovo carcere di San Vito, da realizzare su un'area demaniale che consente il riutilizzo con risparmio finanziario e ambientale di una caserma dismessa - scrive in una nota il democratico, si colloca su un livello di urgenza e civiltà che nessuna azione generica di contenimento della spesa pubblica può permettersi di bloccare. Si tratta di un iter ormai avviato e di un cantiere di "piccoli lavori" che il nuovo ministro alle infrastrutture Delrio ha definito prioritari rispetto alle grandi opere anche ai fini della ripresa economica". Questo invece il commento del rappresentante di centrodestra: "Ormai anche a Pordenone è palese che la politica del Pd si limita agli annunci su Twitter, da parte di Renzi e Serracchiani - tuona Loperfido -. Annunci di opere e investimenti che poi vengono categoricamente smentiti dai fatti. Neanche governando la completa filiera degli enti coinvolti il Pd, che vanta anche un esponente della Camera proprio dell'area sanvitese, riesce a realizzare il carcere a San Vito". Milano: quei 3 milioni spesi per i monitor anziché per un tribunale sicuro di Giovanni Maria Jacobazzi Il Garantista, 17 aprile 2015 I funerali di Stato non hanno cambiato la tabella di marcia in vista dell'Assemblea generale straordinaria dell'Associazione nazionale magistrati, convocata per domenica prossima a Roma. A seguito dei tragici fatti di giovedì scorso era stata, in particolar modo dalla giunta Anm di Milano, avanzata la richiesta di un differimento. Il Comitato Direttivo Centrale dell'Anm, alla luce di quanto accaduto, ha però preferito mantenere ferma la data di domenica 19 aprile, motivando il fatto che è necessaria una "risposta immediata e condivisa" delle toghe. Oggi, quindi, si procederà anche a Milano alla raccolta delle deleghe per i magistrati che non potranno essere presenti a Roma. Come si ricorderà, erano stati 1447 i magistrati, circa il 25% degli iscritti all'Anm, che avevano aderito all'appello lanciato dal gruppo di Magistratura Indipendente per la convocazione di un'Assemblea straordinaria che, nelle intenzioni, dovrebbe decidere quali iniziative intraprendere riguardo la recente modifica della responsabilità civile. Lo scorso novembre, l'Anm aveva infatti detto no alla proposta di sciopero avanzata da Mi, preferendo forme di protesta più "blande". Anche per evitare il rischio, come disse il presidente Rodolfo Maria Sabelli, di possibili strumentalizzazioni. La scarsa adesione all'appello di Mi si è prestata ad una duplice lettura. Da un lato la sostanziale inutilità per un'assemblea da farsi a legge ormai approvata. Da l'altro il diffuso sentimento di sfiducia verso le forme di associazionismo giudiziario. Che - se può rincuorare le toghe - riguarda un pò tutti gli italiani, portati a considerare, a proposito delle forme di rappresentanza, sindacati e partiti politici come istituzioni ormai anacronistiche. La mozione di Mi, a dire il vero, prevedeva oltre al tema della responsabilità civile e ai problemi connessi alla copertura assicurativa per la quale la libera facoltà di recesso dell'assicuratore può esporre il magistrato, in caso di plurimi sinistri, al rischio di assenza di tutela, anche altri aspetti. Come il tema dei carichi esigibili, cioè il numero massimo e adeguato di procedimenti, provvedimenti e udienze che, per le diverse funzioni giudiziarie, può essere richiesto al magistrato a cui si deve consentire lo studio, la preparazione, il serio esercizio della propria attività (il numero massimo di sentenze e fascicoli per anno dovrà, nelle intenzioni, essere chiaro e conosciuto da subito dal magistrato). O l'annosa questione del taglio delle ferie, anche se il Csm nel Plenum del 26 marzo scorso ha già provveduto a metterci una "pezza", considerando non più obbligatoria la presenza in ufficio il sabato. Infine la richiesta di misure di defiscalizzazione che consentano ai magistrati di provvedere rapidamente e in autonomia al reperimento delle ulteriori dotazioni, anche tecnico-informatiche, utili allo svolgimento del proprio lavoro, senza dover sottostare alle complesse procedure centralizzate degli acquisti. La strage di Milano ha aggiunto in cima a questi argomenti il tema della sicurezza negli uffici giudiziari. Sicurezza non solo "fisica" ma intesa anche come "restituzione della dignità all'Ordine giudiziario". Come scrive, nel comunicato preparatorio all'Assemblea, Autonomia ed Indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo, "è necessaria un'analitica opera di monitoraggio della situazione dei vari uffici giudiziari in materia di sicurezza, in modo da smascherare le responsabilità della politica anche su questo aspetto. Confido nella volontà e capacità dell'intera magistratura di trovare unità e compattezza in questo difficilissimo momento, convergendo su iniziative serie ed incisive". Ora, va bene criticare l'operato del governo su riforme che possono non essere di gradimento, come il taglio dei giorni di ferie (che, anzi, con la giornata del sabato non più obbligatoria saranno anche aumentati), ma cosa c'entri la politica con la sicurezza nei Tribunali nessuno lo sa. Si continua ad ignorare che il Procuratore generale presso la Corte d'Appello è il primo responsabile della sicurezza del Palazzo di Giustizia. Senza il suo avallo - parliamo del Palazzo di Giustizia di Milano, il Comune non avrebbe potuto procedere alla tanto, ex post, criticata gara per l'affidamento del servizio di vigilanza ad un dispositivo misto di portieri e guardie giurate. La politica è per principio inefficiente. Ma sulla sicurezza dei tribunali, questa volta, non ha colpe. Prima o poi, qualcuno affronterà il discorso dei 16 milioni di finanziamenti che sono stati dati in questi ultimi anni per rendere il Tribunale di Milano più "moderno" in occasione dell'Expo. Di cui tre milioni, ad esempio, spesi per "il rifacimento dei segnali informativi del palazzo di giustizia tramite monitor". Magari si poteva comprare qualche schermo in meno (schermi collocati anche nei cortili interni) e qualche metal detector in più. Napoli: avvocati a rischio multa dopo lo sciopero. Authority: "astensione senza preavviso" di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 17 aprile 2015 Un caso nazionale, quello di Napoli: discusso ieri in sede di plenum del Consiglio degli avvocati, ma anche al centro del confronto tra i Pg di tutti i distretti di corte di appello italiani e il ministro Orlando. Un caso nazionale, con quelle code lungo i varchi del Palazzo di giustizia, anche alla luce di due questioni. La prima: gli avvocati napoletani rischiano una multa (fino a 100mila euro) per aver fissato tre giorni di sciopero (oggi scade il terzo) senza i dieci giorni di preavviso; la seconda: perché, sul fronte della vivibilità del Tribunale, lo scenario sembra tutt'altro che migliorato. Ieri mattina, altra giornata di tensione, a cominciare dalla Procura di Napoli: circa duecento esponenti del personale amministrativo hanno inscenato una sorta di sit-in all'esterno del Palazzo dei pm, per protestare contro un regime di controlli (tra metal detector e analisi dei documenti) che di fatto rallenta il loro accesso ai rispettivi posti di lavoro. Questione tutt'altro che risolta anche ai tre varchi del Tribunale, dove ieri mattina la situazione è apparsa più tranquilla solo grazie al minore afflusso di avvocati e cittadini, in seguito alla proclamazione dello sciopero. Non piacciono le direttive assunte dal pg Luigi Mastrominico, sulla scorta di quanto determinato dal ministero della giustizia: gli avvocati sono comunque tenuti a passare sotto i metal detector e, anche dopo aver mostrato la propria tessera professionale, devono comunque sottoporsi a un regime di controllo rigoroso, capillare. E dispendioso. Lunghe file, tesserino alla ma-no, metal detector per ogni accesso in Tribunale, monta la rabbia. Un caso su cui è intervenuto ieri il procuratore generale Luigi Mastrominico, a margine dell'incontro romano con il ministro Guardasigilli. Stando a quanto riportato dall'Ansa, il pg partenopeo ha commentato come "poco edificanti" le proteste che si sono verificate in questi giorni davanti alla sede di Palazzo di Giustizia a seguito del rafforzamento dei controlli all'ingresso: "I controlli - ha detto - non sono un'offesa per la dignità, non hanno funzione vessatoria, ma servono a garantire maggiore sicurezza a tutti. E penso che tutti, anche i pm e gli avvocati, debbano sottoporsi a tali controlli". Intanto, proprio sul fronte delle proteste, va avanti il braccio di ferro sullo sciopero. Interviene l'autorità di garanzia per gli scioperi, che chiede al Consiglio dell'Ordine di revocare immediatamente l'astensione dalle udienze: si tratta di una iniziativa - secondo l'Autorità - illegittima, in quanto viola l'obbligo di dieci giorni di preavviso previsto dal codice di autoregolamentazione degli avvocati. Un caso che ha animato anche un confronto a più voci tra i penalisti di piazza Cenni. Riunione estemporanea e affollata ieri nella camera penale di Napoli, con un gruppo di penalisti che chiedono di sostenere il Consiglio dell'ordine e di anticipare lo sciopero dei primi di maggio all'inizio della prossima settimana. Lo chiedono a viva voce alcuni veterani della camera penale, tra cui l'avvocato Gaetano Inserra, che propone anche un flash mob lunedì mattina alle 10, all'esterno del Palazzo di giustizia. Spiega invece il presidente dei penalisti Attilio Belloni: "Abbiamo proclamato astensione nel rispetto dei termini del codice deontologico, ma la camera penale teme che con la ripresa della normale attività si ripetano le gravi situazioni di disagio all'esterno del Tribunale. A nostro avviso, il Pg non ha tenuto conto del numero di utenti del Tribunale rispetto ai mezzi a disposizione, temiamo altre file interminabili a partire da lunedì mattina. Stiamo inoltre verificando eventuali profili di responsabilità per i difensori di ufficio che hanno consentito la celebrazione dei processi in cui gli avvocati di fiducia erano assenti perché in fila". Treviso: quindici ex detenuti psichiatrici in arrivo al Gris di Mogliano Veneto di Matteo Marron Tribuna di Treviso Al posto della cittadella della salute, al Gris ci arrivano gli ex detenuti degli ospedali psichiatrici giudiziari. La struttura di via Torni è una delle tre "residenze intermedie e provvisorie" individuate dalla Regione Veneto per ospitare una quota dei 45 malati di mente in fase di dimissione dai manicomi criminali, chiusi per legge dal 31 marzo scorso. Quelli attesi a Mogliano sarebbero circa una quindicina. La cifra filtra da fonti interne all'istituto, assieme alla notizia che la Regione metterebbe anche a disposizione le risorse necessarie all'opportuno allestimento di sicurezza di uno specifico stabile dedicato all'accoglienza di questi nuovi ospiti. In tutto sono 41 gli ex detenuti degli ospedali psichiatrici che in Veneto devono trovare nuova sistemazione, alcuni sono autori di gravi reati e sono considerati socialmente pericolosi; altri, sono psicolabili e propensi all'autolesionismo. La notizia che questi soggetti arrivano a ripopolare il Gris sta causando non poche polemiche. Il primo a gettare benzina sul fuoco è il Consigliere regionale Diego Bottacin, ipotizzando anche l'accoglienza in via Torni di alcuni profughi: "Apprendo che il Gris si prepara a ospitare, sempre che non siano già arrivati, profughi ed ex detenuti dei manicomi criminali" commenta "Questo è il regalo che Luca Zaia, Giovanni Azzolini e Remo Sernagiotto hanno pazientemente confezionato per la nostra comunità. Ora è tutto chiaro. Ecco a cosa sono serviti anni di commissariamenti e altre manovre poco chiare: è in atto una radicale trasformazione della vocazione assistenziale e territoriale del Gris. Si sta tornando a fare una struttura di natura psichiatrica, che nel tempo era stata faticosamente demolita. Non si farà più nulla in favore del territorio. Che senso avrebbe creare una cittadella della salute vicino a un manicomio criminale?", si chiede Bottacin. L'ex sindaco di Mogliano ci va giù duro anche con il governatore uscente: "Zaia sapeva da tempo che il 31 marzo sarebbero stati chiusi gli Opg" dichiara "e che in Veneto non ci sono strutture adatte, ma aveva i soldi e il tempo per attrezzarsi: in 5 anni non ha fatto niente. Ora chiedo almeno che si faccia chiarezza quanto prima". Quando arriveranno? Quanti sono? Come saranno accolti, in che struttura e con quali misure di sicurezza? Arriveranno anche i profughi? Sono molte le domande che Bottacin inoltra ai vertici del Gris, con un sostanziale rammarico: "Questa operazione mette la pietra tombale sui progetti tanto decantati" conclude "rappresenta un cambio radicale della vocazione dell'istituto e dell'area". Milano: morire di Expo, silenzio sulla morte dell'operaio di 21 anni caduto da ponteggio www.dagospia.com, 17 aprile 2015 È polemica sulla morte di Klodian Elezi, il 21enne morto sui cantieri della Teem, che sta costruendo la futura tangenziale esterna di Milano. Per lui non c'è stato nulla da fare: è caduto da un ponteggio che stava smontando facendo un volo di oltre dieci metri. Il giovane era un dipendente della Iron Master di Bergamo, e stava lavorando all'imbocco di una galleria nei pressi del futuro casello di Pessano con Bornago. Dalle prime ricostruzioni non avrebbe avuto l'imbracatura di sicurezza. È il primo incidente mortale nei tre anni di lavori al cantiere che sta lavorando a ritmi serrati con l'obiettivo di inaugurare il nuovo tratto stradale prima dell'apertura di Expo2015, prevista per il primo maggio. Di origini albanesi, Klodian era in Italia da tanti anni. Cresciuto a Chiari, in provincia di Brescia, in paese lo conoscevano in tanti: giocava a calcio negli Young Boys, che nella partita successiva alla sua morte lo hanno ricordato con un minuto di silenzio. La salma tornerà in Albania, dove si svolgeranno i funerali. Sulla morte è scattata la polemica: "Klodian Elezi è morto per garantire l'inaugurazione di una galleria nei pressi del futuro casello di Pessano con Bornago, che va inaugurata per l'Expo, perché sarà la prossima futura tangenziale esterna milanese. Un morto di Expo, volato giù come una mela, impiegato in un cantiere ora posto sotto sequestro e da cui son subito sbucate molte irregolarità, tra cui in primis l'assenza dell'imbracatura di sicurezza, che avrebbe permesso a Klodian di assaporare questa primavera e tante altre". In queste ultime settimane i lavori ai cantieri aperti in vista di Expo 2015 fremono e i ritmi dei lavoratori sono sempre più serrati. L'idea è quella di arrivare il "più pronti possibile" all'inaugurazione, prevista per il primo maggio". Proprio il cantiere dove lavorava Klodian era finito sotto la lente dei magistrati nell'inchiesta sulla ‘ndrangheta in Lombardia che ha portato all'arresto di 13 persone, compreso un ex consigliere comunale del Pd di Rho, la città dove sorgono i cantieri del grande evento. La società che avrebbe acquisito l'appalto (Skavedil) era riconducibile a Giuseppe Galati, presunto boss finito in manette. L'impresa possedeva "la certificazione antimafia e così aveva concluso un affare di 450mila euro", come spiegato dal procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini". Secondo le indagini Galati, già detenuto per traffico di stupefacenti, avrebbe "continuato a gestire dal carcere, attraverso alcuni familiari, due società operanti nel settore edile, titolari tra l'altro di alcuni subappalti in alcuni cantieri della Teem", si legge in una nota degli inquirenti. I reati contestati sono di partecipazione ad associazione mafiosa, importazione e detenzione abusiva di armi da fuoco." Vicenza: detenuto domiciliare evade per 12 ore dalla Comunità e poi rientra, non è reato www.vicenzatoday.it, 17 aprile 2015 Un giovane di origini brasiliane è stato assolto dopo essere scappato dalla comunità in cui viveva ai domiciliari. Era uscito per una festa per tornare nella comunità poche ore dopo. Era scappato dalla comunità San Gaetano a Recoaro dove scontava i domiciliari per andare a trascorrere qualche ora in un locale. Nonostante la fuga L.C. 27 anni di origini brasiliane ma residente a Venezia, è stato assolto dal giudice. La sua assenza, quella sera di giugno 2011, è durata meno di 12 ore e quindi non è reato. I dipendenti della comunità avevano dato l'allarme ai carabinieri, che, anche dopo il rientro spontaneo del giovane, avevano deciso di riportarlo in carcere. Quella fuga, però, non costituisce reato. La sentenza del tribunale di Vicenza non ha fatto altro che applicare quanto deciso dalla Corte Costituzionale nel 2009. Il paletto deciso per le "mini evasioni" è di 12 ore, un tempo di assenza considerato legittimo e fissato per consentire alle madri detenute di allattare la prole. Come riportato da il Giornale di Vicenza, la sentenza, la prima del suo genere nel territorio berico, complica l'attività di controllo delle forze dell'ordine presso le case del centinaio di detenuti ai domiciliari presenti in provincia. Se non dovessero rispondere al campanello, occorrerà attendere le 12 ore decise dal giudice, prima di iniziare le ricerche. Lecce: "Made in Carcere", il braccialetto cucito dalle detenute compare al polso del Papa Ansa, 17 aprile 2015 "Per noi è stato un sogno". Così le detenute di "Made in Carcere" di Lecce commentano il fatto che un braccialetto speciale da loro cucito, bianco, con la frase "Non fatevi rubare la speranza", è stato indossato da Papa Francesco lo scorso 21 marzo, durante il pranzo nel penitenziario di Poggioreale, a Napoli. Ne ha dato notizia oggi Luciana Delle Donne, fondatrice dell'Officina Creativa "Made in Carcere" che recupera tessuti. "Si tratta - ha spiegato - di una Super Special Edition con tiratura limitata: solo 300 pezzi. Grazie alla collaborazione del direttore dell'istituto di Poggioreale, Antonio Fullone, e del cappellano, don Franco Esposito, è stato consegnato ai 120 detenuti partecipanti al pranzo, finendo, poi, anche al polso di Bergoglio. Il Papa lo ha indossato accogliendo la proposta di un detenuto, suo connazionale, che gli sedeva accanto. La foto del Pontefice con il braccialetto al polso è stata postata su Facebook lo scorso 10 aprile proprio da don Franco". I tessuti di recupero "Made in carcere" erano anche sulle tavole allestite per il pranzo di Francesco a Poggioreale, con gli stessi colori e la stessa frase per le cinque tovaglie da 20 metri e per le 120 tasche portatovagliolo cucite per l'occasione dal reparto femminile per detenute in regime di alta sicurezza della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) con tessuti donati dall'Officina Creativa. "Per noi - ha detto Delle Donne - è stato un sogno e poi uno straordinario regalo poterlo incontrare. Crediamo da sempre nella seconda chance di cui lui stesso ha parlato ai carcerati. Quella che diamo ai tessuti di scarto, a cui restituiamo vita, e, ancor di più, quella che offriamo alle detenute che, imparando un nuovo mestiere, hanno la possibilità di reinventarsi e reinserirsi nel contesto sociale, avviando un concreto percorso di riavvicinamento al mondo del reale". Porto Azzurro (Li): Sappe; detenuto aggredisce agente, dotarci di spray anti aggressione Ansa, 17 aprile 2015 Un detenuto tunisino ha aggredito un agente di polizia penitenziaria all'interno carcere di Porto Azzurro (Livorno) all'isola d'Elba. A darne notizia, oggi, è il sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), che per questo ha avanzato la richiesta al ministro della Giustizia e ai vertici dell'amministrazione centrale di dotare gli agenti in servizio nelle carceri di spray anti aggressione. "Il detenuto era stato fatto uscire dalla cella per fare la doccia - spiega il segretario generale del Sappe, Donato Capece - trascorso molto tempo, l'agente lo ha richiamato più volte, ma noncurante l'uomo si è attardato nel locale doccia e improvvisamente si è avventato contro il collega, scaraventandolo a terra e facendogli sbattere la testa a terra più volte. Il collega è rimasto ferito e si è reso necessario accompagnarlo al pronto soccorso dell'ospedale di Portoferrario, da dove è stato dimesso con una prognosi di 9 giorni". Nel carcere di Porto Azzurro, riferisce il Sappe, ci sono stati tre tentati suicidi, 34 episodi di autolesionismo, 16 colluttazioni. Reggio Calabria: "Detenuti e lavoro", 29 aprile seminario nella sala biblioteca Provincia di Francesco Guarnaccia www.ntacalabria.it, 17 aprile 2015 Lunedì 20 aprile alle ore 9.00 nella sala biblioteca della Provincia di Reggio Calabria, si terrà un seminario dal titolo "Detenuti e Lavoro" per illustrare i risultati del progetto Agis (Agenzia inclusione sociale) rivolto all'inserimento lavorativo e sociale delle persone provenienti dai circuiti penali e dei loro familiari. Agis è una infatti una vera e propria Agenzia per favorire l'inserimento lavorativo e l'integrazione delle persone provenienti dai circuiti penali e dei loro familiari. Agis è un servizio pubblico promosso dalla Provincia di Reggio Calabria e sostenuto dalla Regione Calabria nell'Ambito del Por 2007-2013; la prima edizione si è svolta a Locri nel 2011-2012. La seconda edizione, cui si riferisce il seminario, è attualmente in corso a Reggio Calabria attraverso un apposito sportello attivato c/o il Cedir, settore H, nei locali messi a disposizione dal Comune di Reggio Calabria. Il seminario ha lo scopo di riflettere sulle metodologie utilizzate dal servizio Agis per facilitare l'ingresso dei beneficiari e delle loro famiglie nel mercato del lavoro, traducendolo in un servizio di accrescimento delle risorse umane, sia sotto il profilo del capitale delle competenze professionali, sia del capitale relazionale, puntando sulla qualità della formazione. Esso è rivolto ai servizi sociali dei comuni ricadenti nel circondario di Reggio Calabria, ai servizi della Giustizia sia essi adulti e minori, alle parti sociali, al Terzo Settore ed al mondo istituzionale locale, provinciale e regionale. Il seminario sarà introdotto da Giusi Palermo, vice presidente nazionale Idea Agenzia per il lavoro. I risultati del progetto Agis attualmente in corso saranno illustrati da Giuseppe Carrozza, Concetta Vaccaro e Maria Angela Ambrogio della Cabina di regia Agis. Il seminario prevede specifici contributi degli "addetti ai lavori": Maria Carmela Longo, Coordinatrice Tavolo Penitenziario, Daniela Calzelunghe, Direttore Uepe Ufficio di esecuzione penale esterna di Reggio Calabria, Daniela De Blasio, referente Provincia di Reggio Calabria Patto Penitenziario, Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, Giuseppe Marino, Assessore Servizi Sociali Comune di RC, Pier Francesco Campisi, Assessore Lavoro Provincia di Reggio Calabria, Aldo Cavallari, Responsabile Workfare Rete Macramè. La sessione conclusiva, verterà sulla ricerca di nuove condizioni perché il servizio Agis possa essere organizzato a regime in modo costante e duraturo; ad essa cui parteciperanno Mario Nasone - Forum Terzo settore Provincia di Reggio Calabria, Francesco Barreca, Dirigente Comune di Reggio Calabria, Alessandra Sarlo, dirigente Provincia di Reggio Calabria, Tonino De Marco, direttore generale di settore della Regione Calabria. Teramo: domani il Circolo "Tana Libera Tutti" promuove una giornata anti-carceraria www.contropiano.org, 17 aprile 2015 Sabato 18 aprile 2015 Azione Antifascista Teramo organizza presso il Circolo "Tana Libera Tutti", sito in via Nazario Sauro, una giornata anti-carceraria. Questa iniziativa mira a rompere il muro del silenzio che spesso avvolge i luoghi di detenzione e attraverso la presentazione dell'opuscolo "Oltre le mura del silenzio" racconteremo la vita carceraria, le sue peculiarità e soprattutto le sue contraddizioni. Questo libricino, composto da 58 pagine e autoprodotto dal Casale Alba 2, descrive in maniere dettagliata e commovente la vita di chi vive o ha vissuto l'esperienza carceraria. Dalla detenzione comune ai Centri di Identificazione ed Espulsione, dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari al 41-bis, dalla detenzione minorile alle madri detenute, tutti i racconti di esperienze dirette che lasciano un segno profondo nel lettore A seguire verrà presentato il video "Dentro/Fuori", performance video di Kyrahm e Julius Kaiser, un progetto in divenire con interviste ed esperienze ad ex detenuti, tra cui Salvatore Ricciardi ex brigatista condannato all'ergastolo, ora liberato dopo 30 anni, autore dei libri "Maelstrom" e "Cos'è il carcere". Come una vera detenuta, il 23 agosto 2014 nell'ex carcere del castello Orsini a Soriano nel Cimino, Kyrahm ha portato in scena la performance Dentro/Fuori, vivendo nella cella di isolamento per due giorni: la branda per dormire, cibo e acqua attraverso il pertugio, il pensiero rivolto a chi soffre in carcere, ricordando che l'Italia, 20 anni dopo aver ratificato la Convenzione Onu contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, non ha ancora introdotto nel suo ordinamento il reato di tortura e che nel mondo la pratica dell'isolamento è imposta per tempi dilatati al punto da essere disumani. Il video della performance ha preso parte alla Biennale Deformes in Cile, da sempre attenta ai Diritti Umani. Firenze: il 30 aprile concerta a Sollicciano, un prison blues in ricordo di Johnny Cash Dire, 17 aprile 2015 La Notte bianca di Firenze, in programma il 30 aprile, si aprirà ufficialmente nel carcere di Sollicciano che ospiterà il rifacimento del mitico concerto che Johnny Cash, "The Man in Black", tenne nel 1968 nel carcere di Folsom: il cantante, che aveva passato in cella un periodo della sua vita, volle omaggiare i detenuti con una performance poi divenuta leggendaria. Se il tema dell'edizione 2015 - dal titolo "Black Night"- è la musica, l'evento, fanno sapere gli organizzatori, "non poteva aprirsi diversamente. Il ruolo che in passato era stato affidato alla "lectio magistralis" di un pensatore sarà affidato alla potenza delle chitarre. Sollicciano Prison Blues, spiegano ancora gli organizzatori, "intende unire detenuti e cittadini in un momento di svago e sensibilizzare ancor di più l'opinione pubblica sulle tante questioni relative alla vita in carcere. Sollicciano come luogo attivo della città, questo il messaggio che la Notte Bianca vuol lanciare". Sul palco insieme ai detenuti che seguono corsi di musica ci sarà il cantautore Massimiliano Larocca, l'americano di Rifredi, che vanta numerosi album all'attivo e le prestigiose collaborazioni con Massimo Bubola e Hugo Race. Ad accompagnarlo ci saranno i romagnoli Sacri Cuori, anche loro fortemente orientati su sonorità roots, e come Larocca non nuovi a progetti a sfondo sociale. Immigrazione: Lega e Cinque Stelle a caccia di voti sulla pelle dei morti di Khalid Chaouki Il Garantista, 17 aprile 2015 Oggi cade finalmente il velo sul Movimento Cinque Stelle che, insieme alla Lega Nord, si presenta per quello che è: populista e ipocrita! Oggi finalmente esce allo scoperto il cinismo politico non solo della Lega, la quale ci ha abituati a bassezze di ogni genere, ma anche del M5S. Il Movimento, obbediente alla posizione del capo in materia di immigrazione, ha deciso di votare contro la nostra proposta di legge per l'istituzione della giornata della memoria delle vittime dell'immigrazione in ricordo della tragedia di Lampedusa il 3 ottobre 2013. In aula si è dato così libero sfogo alla vena populista dei deputati pentastellati i quali, di fronte alla pressione dell'opinione pubblica, mettono in scena un bieco spettacolo di sciacallaggio per raccattare voti sulla pelle dei profughi e morti in mare. A dispetto di tutto questo oggi invece è stata votata dall'Aula una legge di buon senso, il cui significato sta proprio nel fare memoria, coltivare il ricordo della tragedia avvenuta il 3 ottobre 2013 sulle coste di Lampedusa, e favorire - come si legge nel testo stesso della legge - "una più diffusa consapevolezza delle problematiche relative all'immigrazione, nonché ai valori dell'accoglienza e della convivenza". Noi crediamo che quelle vittime abbiano il diritto di essere ricordate, crediamo che il 3 ottobre sia stata scritta una pagina terribile della nostra storia, una pagina di dolore, che deve però trovare anche un altro significato; è infatti necessario rendere atto della straordinaria umanità del popolo di Lampedusa, in prima fila durante l'emergenza sbarchi allora come adesso; del lavoro prezioso della Marina Militare e della Capitaneria di porto che hanno, in qualche modo, cambiato la storia e modificato il corso degli eventi grazie al loro intervento. Dopo quel tragico 3 ottobre l'Italia infatti ha dato avvio ad una straordinaria operazione umanitaria di salvataggio di vite, unica nel suo genere, con Mare Nostrum il governo di Enrico Letta ha posto in essere un'operazione che è stata continuamente dileggiata e ostacolata dal partito di Salvini e dai Cinque Stelle, che l'hanno definita inutile e costosa, operazione che, invece, per noi resta un vanto e un grande motivo di orgoglio, perché salvare 150 mila vite in un anno, sottrarre alla morte certa donne e bambini per noi non è mai una questione di costi. Mare Nostrum ha restituito al nostro Paese quel senso di giustizia e umanità che, invece, durante il periodo buio del cattivismo dell'ex ministro degli Interni Roberto Maroni si era completamente perso. Oggi il tandem Salvini - Di Battista, pur di racimolare qualche voto in più, cede con piacere alle tentazioni demagogiche, mettendo in scena un teatrino vergognoso per offendere la Presidente della Camera Laura Boldrini e ridurre la complessità della gestione dei flussi migratori ad una serie di slogan populisti e svuotati di ogni significato, dove tutti sono colpevoli e nessuno è responsabile. Noi non vogliamo negare la complessità dell'argomento, e il Partito Democratico è stato il primo a volere con forza una Commissione di inchiesta per fare luce sulla gestione dei Centri di Accoglienza, commissione che oggi è presieduta dal deputato del Pd Gennaro Migliore e che controllerà in modo capillare tutte le strutture presenti sul nostro territorio. Perché chi specula sulle persone più deboli e si appropria indebitamente dei soldi pubblici non ha colore politico, è da condannare e basta. Un'operazione-verità questa che dobbiamo non solo all'Italia e agli italiani, ma anche alle 366 vittime della tragedia di Lampedusa, e a tutte le persone morte in mare in questi anni mentre cercavano di raggiungere un Paese più accogliente e civile; da oggi le ricorderemo in maniera ufficiale e solenne ogni 3 ottobre. Mondo: oggi, 17 aprile, è la Giornata internazionale del prigioniero politico di Francesco Cecchini www.pressenza.com, 17 aprile 2015 Tra i tanti ricordo Sybila Arredondo e Fernando Gonzalez Gasco. Sybila Arredondo, cilena e vedova di José Maria Arguedas, trascose 14 anni nelle carceri peruviane perché accusata di essere una militante di Sendero Luminoso. Fernando Gonalez Gasco, morto lo scorso 14 ottobre, militante del Mir (Movimiento de Izquierda Revolucionaria) di De La Puente Uceda, fu imprigionato in undici prigioni peruviane, dove subì 11 volte la tortura. Il 17 aprile è la giornata internazionale del prigioniero politico. Molte sono le manifestazioni in tutto il mondo, anche in Italia. A Firenze l'associazione Assopace nei giorni 17 e 18 organizza un evento per la liberazione dei prigionieri politici palestinesi. "Le prigioniere ed i prigionieri palestinesi sono regolarmente sottoposti a torture, le visite dei familiari e degli avvocati e degli avvocati sono proibite o fortemente limitate, non c'è assistenza medica. Storicamente i martiri ed i rivoluzionari ed i prigionieri rappresentano il seme di ogni rivoluzione. La loro libertà rappresenta uno dei punti cardine su cui le forze della Resistenza si uniscono. Il dovere di tutte e di tutti deve essere quindi quello di sostenerli, senza esitazioni. Privati della loro libertà mettono a disposizione i loro corpi per continuare la lotta; noi possiamo e dobbiamo mettere a disposizione la nostra solidarietà per sostenerli" Le parole di Assopace che convocano l'evento spiegano con chiarezza il significato politico della giornata. È impossibile in un articolo raccontare la situazione dei prigionieri politici nel mondo, pochissimi sono i paesi che non imprigionano esseri umani per ragioni che sono, essenzialmente, politiche. Quanto scrivo è riduttivo. Stati Uniti. Vi sono ad oggi 535 prigionieri politici, in carceri colme di neri e latini. Sono imprigionati oltre a Oscar López Rivera altri portorriqueños, i prigionieri più antichi del continente americano che testimoniano ogni giorno, con dignità, la loro volontà di non riconoscere l'imperialismo Usa come padrone fedeli alla causa della liberazione nazionale di Porto Rico. Perù. Centinaia di donne ed uomini continuano ad essere incarcerati da 25 anni in carceri dove hanno vissuto torture, assassinii e massacri. Ad oggi vengono negati i loro diritti e perfino loro avvocati difensori vengono incarcerati. Un caso fra i tanti, lo stretto isolamento che vengono tenute donne prigioniere politiche a Piedras Gordas. Paraguay. Decine e decine di donne ed uomini subiscono lunghe condanne in carceri orrende, eredità, condanne e carceri, della dittatura feroce di Stroessner. A questi si aggiungono campesinos che ogni giorno affrontano latifondisti per il diritto alla proprietà della terra. Vanno ricordati i campesinos, ora ai domiciliari, accusati ingiustamente del massacro di Curuguaty e l'accanimento contro un loro leader Rubén Villalba che continua ad essere incarcerato. Vanno ricordate anche le donne dell'Epp, incarcerate nella carcere del Buen Pastor. Cile. Nelle diverse carceri cilene sono imprigionati decine di prigionieri mapuches, tra di loro anche dei minorenni, ai quali viene applicata la vergognosa legge anti terrorista in vigore dal governo dittatoriale di Pinochet. I mapuches sono un popolo indigeno che abita nel territorio meridionale del Cile e dell'Argentina e che da secoli lotta per la difesa della propria terra contro devastazioni e occupazioni illegittime. Colombia. I prigionieri politici sono oltre 9500. Frutto di decenni di un conflitto politico, sociale e militare che ha attraversato il paese. Sono donne ed uomini che hanno esercitato il diritto alla ribellione sociale e politica ed anche vittime di montature giudiziarie. I negoziati di pace tra governo colombiano e Farc, in corso a L'Avana non possono eludere l'istanza di un'amnistia generale, per questi 9.500 prigionieri politici, condizione necessaria per la pace. India. Oltre 10.000 sono i prigionieri politici naxaliti o maoisti rinchiusi nelle prigioni indiane, a questi si aggiungono altre migliaia di prigionieri implicati nei movimenti di liberazione nazionale (Kashmir, Manipur, ecc.) e di altri movimenti democratici. Oltre il 90% di questo numero sono uomini e donne dei villaggi Adivasi che hanno resistito all'evacuazione forzata; contadini in lotta contro i protocolli di intesa firmati dai governi e dalle multinazionali per sfruttare il popolo e proseguire la rapina capitalista e imperialista delle risorse; attivisti delle minoranze nazionali organizzati contro la crescente minaccia del fascismo indù; studenti, intellettuali, artisti appartenenti a diverse organizzazioni democratiche, donne del popolo, femministe che si sono unite per ribellarsi contro l'enorme aumento degli stupri, condotti in parte dalle truppe del governo e dalle squadre paramilitari fasciste al servizio del governo. In carcere, i prigionieri subiscono ogni genere di vessazione, torture, negazione di assistenza, condizioni di vita disumane, trasferimenti arbitrari, brutali pestaggi e isolamento prolungato e ingiustificato e le prigioniere vengono spesso stuprate. Stati Uniti: pena di morte; diminuite le esecuzioni ma i tribunali continuano a condannare di Guido Bolaffi www.west-info.eu, 17 aprile 2015 Negli Usa i condannati alla pena di morte invecchiano, sono troppi e rischiano lo sfratto. Per la semplice ragione che mentre si è drasticamente ridotto il numero delle esecuzioni (scese nel 2014 al livello più basso degli ultimi vent'anni) i tribunali, invece, hanno continuato a sfornare condanne capitali con lo stesso ritmo di sempre (in media 20 l'anno). E nei bracci della morte delle carceri statali non sanno più dove metterli. Una situazione paradossale che, ad esempio, rischia di portare al tracollo la struttura penitenziaria che da sempre ha rappresentato l'emblema del capital punishment americano: San Quintino. Dove dal 2006, quando un giudice, due ore prima dell'esecuzione, impose di risparmiare la vita a Michael Morales, nessuno è stato più giustiziato. Ed oggi si trova costretto ad "alloggiare" un vero e proprio esercito di 751 dead men walking. Al punto da costringere il governatore della California, Jerry Bown, a chiedere uno stanziamento straordinario di 3,2 milioni di dollari per il reperimento di nuove, speciali strutture dove "traslocare adeguatamente" i detenuti in attesa di esecuzione in soprannumero. Ormai dal braccio della morte di San Quintino, così come da quelli degli altri penitenziari del paese, i più escono defunti per vecchiaia, overdose o suicidio. Come è capitato, per ultimo, a Teofilo Medina, in attesa di essere giustiziato dal 1987, e passato a miglior vita lo scorso 22 marzo alla rispettabile età di 70 anni. Ma non basta. L'invecchiamento in carcere dei detenuti condannati a morte rischia, infatti, di rappresentare anche una vera e propria bomba per la cultura giuridica americana. Ed in particolare per quella della California. Al punto che alla fine dello scorso anno un magistrato dello stato ha dichiarato giuridicamente irrazionale e, quindi, incostituzionale, un sistema che infliggendo ma non eseguendo la pena di morte commina, con crudeltà, di fatto l'ergastolo ma "arricchito" dall'eventuale possibilità, un giorno o l'altro, di essere giustiziati. Medio Oriente: Hamas invita a rapire israeliani, da scambiare con i palestinesi detenuti Aki, 17 aprile 2015 È un invito a rapire cittadini israeliani, per poi scambiarli con palestinesi in carcere in Israele, quello che viene da un alto rappresentante del movimento islamico di Hamas nella giornata di solidarietà con i detenuti. "Diciamo al nemico sionista: voi siete tutti un obiettivo per noi e per la resistenza. Noi vi combatteremo fino a quando ci sbarazzeremo di voi e prenderemmo più ostaggi possibili per liberare i nostri eroi", ha detto da Gaza Khalil al-Haya. "I nostri uomini, le nostre donne, i nostri bambini, tutti devono arrivare a rapire i vostri soldati e coloni, ovunque siano", ha aggiunto. "E questo è un nostro diritto perché non abbiamo altro modo per liberare i nostri eroi e perché il nemico sionista è responsabile per questo stato di cose", ha detto Haya a una folla di centinaia di palestinesi. Ogni anno, il 17 aprile, i cittadini palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania manifestano in solidarietà con i circa seimila detenuti in Israele. Haya si è quinti rivolto ai palestinesi in carcere, dicendo loro di "stare tranquilli" perché i gruppi militanti guidati dall'ala armata di Hamas, le Brigate Ezzedine al-Qassam, "vi libereranno come hanno fatto con i vostri fratelli" nel 2011. In quell'anno le autorità israeliane hanno scarcerato oltre mille detenuti palestinesi in cambio della liberazione del caporale israeliano Gilad Shalit. Ahmed al-Mudalal, altro esponente del movimento islamico palestinese, ha detto che "la resistenza non si fermerà fino a quando le carceri israeliane saranno svuotate dai prigionieri palestinesi". Medio Oriente: "Io, prigioniero politico per 23 anni, ho visto svendere la Palestina" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 17 aprile 2015 Palestina. Dal 1967 ad oggi 850mila palestinesi sono passati per un carcere israeliano. Parla un ex detenuto: "Il movimento dei prigionieri è colonna della resistenza, perché forma e educa". In 48 anni di occupazione di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est e Golan, Israele ha chiuso dietro le sbarre delle sue prigioni 850mila palestinesi. Un numero esorbitante di prigionieri politici dal 1967 ad oggi, che non tiene conto degli arresti compiuti dal 1948, anno di creazione dello Stato di Israele e della Nakba (catastrofe) palestinese. Nel 1974 l'Olp dichiarò il 17 aprile Giornata dei Prigionieri Palestinesi. Lunedì, in vista della commemorazione di oggi, il Comitato dei Detenuti Palestinesi ha presentato i numeri della repressione: degli 850mila prigionieri dal ‘67 all'aprile 2015, 15mila sono donne e decine di migliaia bambini. Il numero di minorenni è spaventosamente aumentato negli ultimi 4 anni: 3.755 bambini arrestati, 1.266 solo nel 2014. Martedì l'ennesima scure si è abbattuta sui prigionieri politici: la Corte Suprema ha rigettato la petizione presentata da diverse organizzazioni per i diritti umani che chiedeva la cancellazione della legge approvata nel 2011 e che vieta ai detenuti palestinesi di studiare per laurearsi all'università. Il diritto all'educazione, spiega la corte, non è considerabile un diritto fondamentale per chi è incarcerato. Una delle tante violazioni del diritto internazionale: "Gli arresti e le procedure usate da Israele violano il diritto umanitario - ha spiegato il Comitato dei Detenuti - I detenuti sono torturati, fisicamente e psicologicamente. Il 100% degli arrestati ha subito almeno una volta torture". Dal 1967 206 prigionieri hanno perso la vita in carcere, 71 per le torture subite, 54 per mancanza di cure mediche, 81 uccisi dai soldati. E oggi? Mentre scriviamo dietro le sbarre sono rinchiusi 6.500 detenuti politici. Di questi 480 condannati all'ergastolo; 30 in carcere da prima gli Accordi di Oslo, nel 1994; 500 in detenzione amministrativa (restrizione cautelare che non prevede accuse ufficiali e quindi un processo); 24 donne; 14 parlamentari e un ministro; 200 bambini. E tante guide del movimento di resistenza, su tutti Marwan Barghouti, da molti considerato il più influente leader palestinese. Tra quegli 850mila prigionieri c'è anche Khaled al-Azraq, rilasciato il 30 ottobre 2013, dopo 23 anni di prigionia. Israele ha dettato le condizioni della liberazione: per 10 anni non potrà uscire dalla Cisgiordania, Gerusalemme è bandita per sempre. Ventitré anni dietro le sbarre sono tanti. Esci e il mondo è cambiato: sei entrato prima di Oslo, esci dopo un'altra Intifada e tre guerre contro Gaza, con il campo profughi in cui vivi - Aida - circondato dal muro. "Dopo tanti anni, uscendo, i cambiamenti della società si vedono con grande chiarezza - spiega al manifesto. Vedi il fallimento della società palestinese: la lotta non si è sviluppata. Dal 1936 usiamo gli stessi mezzi senza prospettive di lungo termine. La mancanza di una leadership fa sì che le lotte restino separate, tra Territori, Gerusalemme, Palestina ‘48 [l'attuale Stato di Israele, ndr], i rifugiati della diaspora". Eppure dentro le carceri si combatte come fuori, spesso ispirando la società esterna. "La prigionia non è mai un'esperienza personale, ma di popolo. Le storie dei prigionieri sono simili. Come la mia: ho partecipato alla prima manifestazione a 10 anni. Cominci con i graffiti sui muri, prosegui con il lancio di pietre e arrivi alla resistenza armata". Fino alla prigione. Dove la vita politica non cessa, anzi, si radica. Negli anni il movimento dei prigionieri palestinesi è diventato il centro del pensiero politico, ha formato nuovi leader e educato la base. "Dentro la prigione la vita è estremamente organizzata - continua Khaled. Ci sono istituzioni collettive e ogni sei mesi si va alle elezioni. Ogni giorno si tengono lezioni di politica, storia, letteratura. In passato, i prigionieri che avevano frequentato la scuola insegnavano ai contadini a leggere e scrivere". "E poi ci si mantiene in stretto contatto con le altre carceri: le comunicazioni sono frequenti, attraverso avvocati, familiari o detenuti che vengono trasferiti. Così si organizzano le azioni collettive, come gli scioperi della fame. Sono iniziati negli anni ‘70 quando ci fu presa di coscienza dei metodi della repressione israeliana: imprigionare gli attivisti e i leader, nella visione israeliana, è il modo per spezzare il movimento di liberazione, di indebolirlo. Ma non ci sono mai riusciti". Gli scioperi della fame più noti risalgono al 1974 e al 1976, con l'obiettivo di costringere Israele a riconoscere i detenuti come prigionieri politici. Quello del 1976 durò 45 giorni, alcuni detenuti morirono per denutrizione. Ne seguirono altri, nel 1984, nel 1992, nel 2004. "L'alto grado di organizzazione interna, sia nella vita quotidiana che durante gli scioperi, è stato alla base dello scoppio della prima Intifada - spiega Khaled. Fino alla doccia fredda: gli accordi di Oslo. Ci privarono della nostra causa, la liberazione della Palestina storica, provocando un collasso del movimento dei prigionieri, che restò in una sorta di limbo fino al 2004. È inaccettabile proseguire nel cosiddetto processo di pace quando dietro le sbarre restano migliaia di prigionieri politici". Ma Khaled è ottimista: il carcere rimane il luogo della formazione politica, dell'educazione degli attivisti, della loro trasformazione in futuri leader. Ancora oggi le prigioni - in assenza di una vera leadership politica - sono la guida della resistenza. Cina: giornalista Gao Yu condannata a 7 anni di carcere. Amnesty: persecuzione politica Askanews, 17 aprile 2015 Una nota giornalista cinese, Gao Yu, è stata condannata oggi a Pechino a sette anni di prigione per divulgazione di segreti di stato. Settantuno anni, ricompensata per il suo lavoro con diversi premi internazionali, Gao Yu è stata la prima giornalista insignita nel 1997 del Premio mondiale della libertà di stampa dell'Unesco. Gao Yu, secondo il tribunale, avrebbe "trasmesso segreti di stato a stranieri". Shang Baojun, uno degli avvocati della giornalista, si è detto "molto deluso" dal verdetto. Non appena questo è stato pronunciato, Gao Yu ha espresso ad alta voce la sua volontà di presentare appello, poi è stata rapidamente allontanata. Amnesty International ha immediatamente denunciato un "affronto alla giustizia" e un attacco "contro la libertà di stampa". "Questa sentenza preoccupante nei confonti di Gao Yu non è altro che una persecuzione politica flagrante", ha affermato William Nee, esperto di Cina per Amnesty.