A proposito della chiusura delle sezioni di Alta Sicurezza nel carcere di Padova Ristretti Orizzonti, 16 aprile 2015 In qualità di docenti della sede carceraria dell'I.T.S.C.T. "Einaudi-Gramsci" sezione AS1, teniamo a sottolineare che l'attività scolastica, viste anche le condizioni nelle quali si attua, richiede da parte degli alunni un impegno ed una perseveranza superiori a quanto ci si aspetti come consuetudine. Accettare di sottoporsi a verifiche e valutazioni, da parte di adulti e in particolare di adulti ristretti, denota l'acquisizione di un atteggiamento positivo che non può che riverberarsi su tutte le scelte di vita. Per questo crediamo sia giusto valorizzare al massimo la partecipazione degli alunni ristretti all'attività di studio e, per contro, pensiamo sarebbe un segnale fortemente negativo non considerarla adeguatamente all'interno del percorso trattamentale. L'obiettivo della scuola, infatti, non è solamente trasferire contenuti disciplinari bensì, attraverso questi, favorire ed indurre una riflessione su di sé e sulle proprie scelte di vita. I docenti del Consiglio di Classe della 5EES (sez. AS1) L'appello dei Cappellani del Triveneto "no all'ergastolo è una pena di morte mascherata" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 16 aprile 2015 Una ventina di cappellani penitenziari del Triveneto premono affinché si abolisca definitivamente l'ergastolo. In pratica hanno deciso di spingere sull'acceleratore e - riprendendo con forza l'intervento scritto da papa Francesco all'Associazione internazionale di Diritto penale - dicono che è tempo di ripensare radicalmente all'istituto dell'ergastolo che, come dice il Pontefice, "è una pena di morte nascosta" e che bisogna cercare un'alternativa più efficiente e giusta. I cappellani penitenziari hanno espresso questa tesi incontrandosi, nei giorni scorsi, a Venezia, per uno dei convegni che, periodicamente, li vedono insieme per la formazione comune e per approfondire alcuni aspetti o enucleare proposte comuni. "Il problema non è solo l'ergastolo ostativo, quello che nega permessi o semilibertà e in ragione del quale è praticamente impossibile uscire dal carcere, ma anche duello "ordinario", che comporta comunque 26 anni di detenzione", rileva fra Nilo Trevisanato, cappellano del carcere femminile della Giudecca e uno dei due cappellani - insieme a don Antonio Biancotto - degli istituti penitenziali lagunari. "Che possibilità di rieducazione e di recupero ci sono - sostiene sempre padre Nilo - se, dato un periodo lunghissimo come 26 anni, quasi non si avverte la speranza che la carcerazione ad un certo punto finirà? Lo si vede nelle detenute che si trovano in questa condizione e che, anche al più piccolo litigio in carcere, non si tirano indietro e sembra quasi dicano: "tanto che cosa abbiamo da perdere?". Cosa fare per convincere l'opinione pubblica che ha la percezione che non esista la "certezza della pena"? "È comprensibile - risponde il frate francescano - ma non giustificabile. Ed è molto spesso inutile. La realtà dice che una persona che ha subito un reato si sente ripagata non tanto da una pena esemplare, perché poi il reo può anche scontare tantissimi anni di carcere e uscire con la convinzione di aver pagato il proprio debito, senza mai curarsi di chi ha subito il danno". In parlamento è depositata da tempo una proposta di legge per l'abolizione dell'ergastolo ostativo. Che cosa sarebbe quest'ultimo? Ce lo spiega molto bene l'ergastolano, e promotore dell'iniziativa popolare presentata in parlamento, Carmelo Musumeci tramite il suo libro Gli uomini ombra: "Pochi sanno che i tipi di ergastolo sono due; quello normale, che manca di umanità, proporzionalità, legalità, eguaglianza ed educatività, ma ti lascia almeno uno spiraglio; poi c'è quello ostativo, che ti condanna a morte facendoti restare vivo, senza nessuna speranza. L'ergastolano del passato, pur sottoposto alla tortura dell'incertezza, ha sempre avuto una speranza di non morire in carcere, ora questa probabilità non esiste neppure più. Dal 1992 nasce l'ergastolo ostativo, ritorna la pena viva". Sono circa più di un centinaio i reclusi rassegnati all'idea di uscire di prigione solo a bordo di un carro funebre. Ma non tutti sono "mafiosi" così come viene inteso di solito. "Un rapinatore preso in flagrante a Scampia viene giudicato secondo criteri di contiguità ambientale alla camorra - ha osservato Carlo Fiorio, docente di Procedura penale all'Università di Perugia - mentre lo stesso reato commesso a Trento viene inquadrato in modo differente e meno rigido". Per effetto di alcune norme, anche ammettere la propria colpa, ma tacere le responsabilità altrui, è causa di ergastolo perenne. "Il dettato costituzionale è chiaro, quindi se l'ordinamento non prevede la possibilità di uscire dal carcere a condizioni raggiungibili, la pena dell'ergastolo va contro l'articolo 27 della Costituzione", ha detto Valerio Onida, presidente della Corte Costituzionale dal 1996 al 2005, in una riflessione apparsa su un numero della rivista del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria "Le due città". Giustizia: come si fa a dare la colpa ai "falliti" in un'Italia così? di Vincenzo Vitale Il Garantista, 16 aprile 2015 Tutti in Italia parlano della giustizia penale e del suo malfunzionamento, mentre nessuno, o quasi, sembra occuparsi della giustizia civile che evidentemente interessa pochi. Eppure così non è, se si pensa che oltre venti milioni di persone e/o società sono direttamente o indirettamente coinvolti in una qualche procedura di carattere civilistico, vale a dire circa un terzo della popolazione italiana. Ebbene, se la giustizia penale è pericolosa per chi vi incappi, quella civile è un terno al lotto. Tribunali che scoppiano, aule asfittiche, carta dappertutto, fascicoli che si smarriscono per anni, personale arrancante, nervoso e via di questo passo. Avete mai avuto la sorte di trovarvi in piena estate nel corridoio del Tribunale di Roma in attesa che venga chiamata la causa in cui difendete? È un'esperienza interessante e a suo modo unica: centinaia di persone in piedi, sudate, stanche, avvitate su fascicoli e incartamenti, irritate, asservite ad un ordine di chiamata del tutto sconosciuto, chi va di là, chi va di qua, chi si arrende accasciandosi perfino per terra, chi vorrebbe bere un sorso d'acqua ma non si può, chi vorrebbe soltanto respirare ma anche questo non si può perché il corridoio non ha finestre né aperture di sorta che diano verso l'esterno: insomma, una bolgia dantesca, un girone dell'inferno uscire dal quale sembra un premio di sopravvivenza. Non parliamo poi delle procedure che sembrano dettate da pazzi incoscienti, abituati a legiferare passeggiando per i viali delle dimore dei Campi Elisi e perciò completamente estranei alla dura realtà della vita di tutti i giorni. Prendiamo l'esempio del fallimento, oggi terribilmente attuale per gli effetti dannosi che produce con frequenza. Innanzitutto, la durata di anni o anche di decenni. Alcuni fallimenti si chiudono definitivamente dopo venticinque anni, quando molti dei creditori originari sono morti da un pezzo, mentre a volte lo è anche l'imprenditore fallito. Non solo: in tutto quel tempo a volte muoiono anche gli avvocati, con ulteriori effetti dilatori della procedura. In secondo luogo, la procedura fallimentare così come pensata può anche andar bene in casi normali, quando l'economia gira in modo fisiologico, l'amministrazione funziona, la macchina dello Stato garantisce l'equilibrio complessivo del sistema. Ma, come tutti sanno, da almeno sei o sette anni le cose stanno purtroppo ben diversamente: l'economia è in ginocchio a livello mondiale, la finanza spadroneggia, le imprese svaniscono, la pubblica amministrazione non paga i propri debiti, ma pretende il rapido pagamento dei propri crediti, lo Stato non garantisce un bel nulla... insomma una baraonda. Ora, se poteva esser prima accettata l'idea che un imprenditore fosse dichiarato fallito, quando non era in grado di pagare i debiti - in quanto non lo era perché appunto era fallito il suo difettoso progetto imprenditoriale - oggi, le cose stanno in modo molto diverso. La cronaca di tutti i giorni ce lo dice. Un imprenditore lavora con i privati e con la pubblica amministrazione; ad un certo punto nessuno lo paga più: non solo i privati - a loro volta impossibilitati a pagare perché non vengono saldati i loro crediti - ma nemmeno la pubblica amministrazione. I debiti si accumulano e restano inevitabilmente non pagati: da qui il fallimento. Ma in casi del genere, oggi frequenti, ha senso parlare di fallimento? Assolutamente, no! Non è che il progetto imprenditoriale sia fallito, ma semplicemente è stato bloccato dai mancati pagamenti di altri, dei privati e soprattutto da parte della pubblica amministrazione. Costui non può definirsi fallito, ma casomai affossato, ucciso dal punto di vista economico: dagli altri. E allora, perché ostinarsi ad applicare una procedura che invece suppone il suo fallimento? Qui non si tratta neppure di insolvenza incolpevole: si tratta semplicemente di "forza maggiore" alla quale, come dicono i civilisti, non è stato possibile in alcun modo resistere. La procedura dovrebbe allora essere del tutto diversa e senza gli effetti paralizzanti e penalizzanti che spesso ricadono sul fallito. Infatti, chi, vantando migliaia e migliaia di euro di crediti non pagati da parte di privati o da parte di Comuni o dello stesso Stato, potrebbe continuare a fare impresa? Ma neppure è un fallimento: è, piuttosto, una esecuzione prolungata, operata a suo carico da parte di altri. Ora, i legislatori, i giudici, gli avvocati civilisti che ogni giorno si scontrano ormai da anni con queste realtà queste cose le sanno bene, eppure sembrano ignorarle. Perché? Giustizia: il Tribunale di Milano, una cittadella arroccata dove non tutti sono uguali di Valerio Spigarelli (Unione Camere Penali) Il Garantista, 16 aprile 2015 Ci sono avvenimenti che contano più per i significati che i commentatori gli attribuiscono che non per l'evidenza dei fatti. È il caso del triplice omicidio di Milano. E non per quel che sarebbe inutile ribadire, ovvero che dal presidente della Repubblica, così come da magistrati - in pensione come Colombo o in servizio come quelli della sezione milanese dell'Anni - ci si dovrebbe aspettare un minimo di cautela prima di legare un fatto clamoroso, quanto determinato da condizioni del tutto particolari, a letture vittimistiche e generalizzanti nei confronti della funzione giudiziaria. Ciò è talmente evidente da incasellare quelle prese di posizione nella categoria degli infortuni, per quanto riguarda il presidente della Repubblica (intervenuto al Csm quando ancora la vicenda era oscura) o delle strumentalizzazioni, per gli altri. Infortuni e strumentalizzazioni che hanno fatto cadere nella stessa trappola, a parti invertite, anche chi, lamentando le amnesie o le supposte appropriazioni indebite dei primi, è corso a rivendicare la propria quota di martirio, come ha fatto più di un avvocato. Facendo la conta delle vittime qualcuno si è chiesto, infatti, perché il significato generalizzante non dovesse trarsi dal sacrificio di un giovane avvocato, e dunque il fatto non rappresentasse, altrettanto simbolicamente, la solitudine della difesa nella società moderna. Un errore cui, va dato atto, non è incorsa la madre del giovane Claris Appiani, che ha legato la vicenda ad un modo di fare l'avvocato, che era del figlio, autonomo ed indipendente anche dai voleri del cliente, come sempre dovrebbe essere per gli avvocati e spesso non è. Reazioni comprensibili solo perché il lutto si elabora in genere dando una spiegazione razionale agli avvenimenti, e ancor di più incasellandoli all'interno di dinamiche generali che li possano in qualche maniera spiegare. Del resto succede così da migliaia di anni, di fronte alla morte, non è una gran novità. Comprensibili ma non condivisibili, poiché, invece, il fatto di Milano non ha alcun significato generalizzante, né riguardo alla giurisdizione né rispetto al diritto di difesa. Questo è dimostrato, prima ancora dei dettagli che man mano stanno emergendo, da un paio di semplici constatazioni. In tutte le sue declinazioni, infatti, il significato generale che è stato attributo all'avvenimento - al netto delle parzialità in buona o cattiva fede di cui sopra - è il valore fortemente simbolico di un omicidio avvenuto in un tribunale, in quella che dovrebbe essere la casa (laica) della composizione dei conflitti. Il luogo, prima di tutto, è il simbolo, e su questo alla fine tutti hanno convenuto. Aver ucciso in tribunale, là dove la forza dovrebbe essere sempre riportata alla ragione del diritto e da questa dominata, sarebbe il segno di crisi di sistema. Una sorta di profanazione civile che, proprio per la sacralità (laica) del luogo, colpisce i fondamenti del vivere civile. In più uccidere in tribunale, cioè in un luogo in cui massima dovrebbero essere la garanzia di sicurezza, rappresenterebbe, su di un altro versante, la crisi, ma dello Stato apparato, stavolta. Uno Stato inadeguato al punto da non riuscire a garantire l'incolumità dei cittadini neppure laddove amministra la privazione delle loro libertà o la risoluzione dei loro conflitti, cioè dove coinvolge i loro beni primari. La sicurezza, mito irraggiungibile ed al tempo stesso il totem dei tempi moderni, vero simbolo della forza dello Stato, non garantita nei Tribunali come nelle strade di periferia. La sicurezza, la vera vittima, cui fiumi di parole di esperti più o meno autentici, tributano il vero funerale di Stato invocando un suo rafforzamento alle porte dei tribunali. Ora, se tutto ciò fosse vero, ci sarebbe da chiedersi, in primo luogo, come mai in occasione di altri avvenimenti, anche tragici, accaduti nel corso degli ultimi anni all'interno dei tribunali, tutto questo simbolismo non è emerso. Quando i parenti di alcuni imputati, inferociti nei confronti di una sentenza da loro ritenuta ingiusta, avevano messo a ferro e fuoco l'aula del Tribunale di Velletri, tra anni fa, con il collegio rifugiato in camera di consiglio e le forze dell'ordine incapaci di sedare la rivolta, il fatto era stato a mala pena riportato dalle cronache locali. Il simbolismo, in quel caso, poteva essere identico, anzi ancor più diretto nei confronti della giurisdizione, eppure il Csm non era stato convocato d'urgenza, Porta a Porta (che è la vera misura dell'interesse nazionale) non aveva subito cavalcato l'avvenimento, e le pagine dei giornali non erano rimaste per giorni sul fatto ed i suoi significati. E non è si può rispondere che lì non c'erano state vittime. Gli omicidi, che sicuramente rendono la cosa diversa dal punto di vista della cronaca (e ovviamente dei parenti delle vittime nel loro incommensurabile dolore cui si deve i massimo rispetto) non dicono nulla sotto l'aspetto simbolico. Comunque, a voler tenere questa contabilità dolorosa, nulla di tutto quel che stiamo leggendo era venuto in mente ai commentatori neanche quando un padre, folle o reso folle dalla vicenda giudiziaria che lo aveva coinvolto, aveva ucciso la moglie e il suo avvocato a Reggio Emilia, entrando in un tribunale armato, come armato aveva varcato la soglia di un palazzo di Giustizia un altro cittadino qualche anno prima, in un'altra città del nord. In realtà questo fatto appare diverso perché di simboli, ma una simbologia del tutto mediatica, si nutre il palazzo di Giustizia di Milano. Quel Palazzo rappresenta una idea palingenetica della Giustizia, quella che "rivolta l'Italia come un calzino", quella della lotta senza fine all'altro Palazzo, quello della politica, quella che processa le malefatte dei potenti, tangenti o partouze non fa differenza, diritto od etica neppure. Quello dove la saldatura tra circuito giudiziario e stampa e collaudato da oltre venti anni. No, la cosa che è avvenuta a Reggio non è eguale a quella di Milano ma non perché Milano sia il luogo che è (oppure perché come prova generale dell'Expo non c'è da stare allegri sul fatto che la prima ambulanza sia arrivata in venticinque minuti) semplicemente perché la giustizia di quel palazzo conta di più. E questo spiega perché, mettendo in imbarazzo sia i capi degli uffici giudiziari milanesi - che non a caso hanno ammonito quasi subito i loro colleghi a "misurare gesti e parole e non è il tempo per rivendicazioni corporative o sindacali" - i sindacalisti di Anni di quella città abbiano rivendicato la loro alterità, parlando di delegittimazione della Giustizia e persino dimenticando all'inizio le altre povere vittime. La Giustizia in Italia è diventata una cittadella in cui non tutti sono eguali, neppure le vittime inermi di gesti assurdi o folli, e quella cittadella ha un suo fortino, chiuso tra via Freguglia e via Manara, al cui interno si possono consumare feroci battaglie castali ma le cui mura sono intangibili ed a chi le profana si imputa di aver profanato l'idea della nuova Giustizia. E non va meglio sull'altro versante simbolico, quella della sicurezza, su cui si sta tanto strologando in queste ore. Ci sono luoghi in cui l'ideale di sicurezza assoluta non si può realizzare, per definizione. Potrai sicuramente tamponare qualche falla, mettere a punto nuove procedure, ma se a Milano, come su di un aereo, un folle decide di ammazzare senza senso, nessuno potrà mai essere al sicuro, a meno di non barattare quella sicurezza con qualcosa di diverso che assomiglia molto da vicino ad una società non più libera. Ovviamente questo non ha nulla che vedere con le lamentele querule di questa o quella categoria che pretende trattamenti privilegiati, ergo sarà possibile anche fare ingressi riservati per avvocati, magistrati e personale dotati di tecnologia adeguata. Certo sarebbe più utile che schierare i militari all'esterno, come appena, ahimè simbolicamente, fatto proprio a Milano, oppure vessare, concretamente, gli avvocati ritenuti ormai il quarto stato del mondo giudiziario, come a Napoli, ma sicuramente non sarebbero misure a prova di follia, perché a prova di follia non c'è quasi nulla a questo mondo, neppure i manicomi criminali tant'è che li abbiamo appena chiusi. L'importante sarebbe, però, affrontare la questione senza lasciarsi travolgere dal pensiero facile degli adoratori della sicurezza sopra ogni cosa, quelli che sono disposti a barattare le caratteristiche di una società libera per una rassicurazione di facciata, da un lato, o per un grammo di potere in più, dall'altro. Si finisce con i funerali di Stato, simbolici come non mai poiché giustificati solo dal tentativo di continuare a dare significati che questo episodio non ha. Simboli e sicurezza, quando si parla di giustizia, in Italia, è sempre la stessa storia. Giustizia: strage di Milano "che la pena redima il killer", il perdono del Cardinale Scola di Errico Novi Il Garantista, 16 aprile 2015 Amore". "Amicizia civica". "Educazione morale". Sono le risposte che il cardinale Angelo Scola chiede a Milano, accorsa ai funerali di Stato di due delle tre vittime della strage in tribunale, l'avvocato Lorenzo Claris Appiani e il giudice Fernando Ciampi. Nel Duomo c'è un'atmosfera di commozione vera, scandita dal silenzio della maggior parte dei familiari delle vittime e dalla presenza di molti rappresentanti delle istituzioni. Dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella ai vertici di Senato e Camera, Pietro Grasso e Laura Boldrini, al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Moltissimi avvocati, moltissimi magistrati, senza toga come avevano chiesto i leader dell'Anm milanese. Il Capo dello Stato, in particolare, ha un incontro con i congiunti di Appiani e Ciampi prima che cominci la cerimonia, nella cripta del Duomo. Un colloquio definito "intenso e commovente". Da dietro l'altare, l'arcivescovo chiede che sulle vittime della strage compiuta il 9 aprile da Claudio Giardiello "non si stenda la coltre dell'oblio", e questa sarà possibile solo se nascerà, appunto "una maggiore responsabilità di educazione civica, morale e religiosa nella famiglia, nella scuola" fino "alle istituzioni". Una crescita collettiva che richiederà, dice Scola, di non "fermarsi alla comprensibile paura, alla giusta elaborazione di più rigorosi sistemi di sicurezza, a dialettiche, talora strumentali, fra le parti". Non si tratta insomma solo di mettere qualche metal detector in più, ma di trasmettere il valore della giustizia e preservarne l'integrità. Messaggio che arriva in ritardo per l'omicida Giardiello, a cui pure il Cardinale rivolge, "con travaglio", parte dell'omelia: "Attraverso la giusta pena espiatoria, prenda consapevolezza del terribile male che ha compiuto fino a chiederne perdono a Dio e agli uomini che ha così brutalmente colpito". Il commercialista Stefano Verna, uno dei due feriti nell'incursione a Palazzo di Giustizia, lo definisce un pensiero "difficile ma giusto". Non se la sentono di dire nulla la vedova di Ciampi la madre di Appiani. Parole che esprimono tenerezza arrivano solo dallo zio materno di quest'ultimo, Alessandro, che ringrazia il Milan per la presenza di Galliani. Non c'è il feretro di Giorgio erba l'altra vittima, che riceve l'ultimo saluto nel Duomo della sua Monza, come voluto dalla vedova dopo che il cerimoniale di Stato s'era dimenticato di contattarla. Pietro Grasso è il solo a presenziare, seppure in forma privata, anche a queste altre esequie. All'imprenditore e coimputato di Giardiello non va dunque il breve applauso tributato agli altri due feretri da piazza Duomo. Ma è da credere che Milano abbia pianto anche lui. Giustizia: il "concorso esterno", tra inerzia politica e attività interpretativa dei magistrati di Giovanni Fiandaca (Giurista) Il Foglio, 16 aprile 2015 Dagli addetti ai lavori il "concorso esterno" viene definito un istituto di prevalente elaborazione giurisprudenziale perché gli elementi che lo costituiscono, com'è noto, non sono previsti in maniera puntuale e dettagliata dalla legge: essi vengono ricostruiti dagli interpreti (dottrinali e giurisprudenziali) grazie a un adattamento al reato associativo delle norme generali sul concorso di persone. Per carità, nulla di eterodosso in questa operazione di adattamento, la quale si avvale di un metodo giuridico di cosiddetto combinato disposto tra norme che può considerarsi fisiologico nell'attività interpretativa a opera dei giudici. Solo che questa logica combinatoria, come ho già spiegato su questo giornale nell'aprile dello scorso anno, presenta qualche complicazione in più a causa delle peculiarità del reato associativo, che è a sua volta un tipo di reato sui generis. Da qui la obiettiva difficoltà per la giurisprudenza di procedere a una tipizzazione giudiziale del concorso esterno soddisfacente sotto tutti i possibili aspetti. E ciò spiega perché l'elaborazione dei presupposti di un concorso esterno punibile sia andata progressivamente evolvendo nel corso del tempo, scandita da tre importanti sentenze della Cassazione a sezioni unite rispettivamente del 1994, del 2002 e del 2005. A mio giudizio, nonostante l'ultima di queste pronunce - la cosiddetta Mannino - abbia segnato un significativo passo avanti nel chiarire i presupposti della punibilità del concorrente esterno, l'onestà intellettuale induce a riconoscere che residuano ancora in proposito non pochi spazi di incertezza. Sicché, se è vero che nel nostro ordinamento la Costituzione affida in via prioritaria al legislatore democratico il compito di definire la materia penale, non può che ribadirsi l'auspicio che le forze politiche si responsabilizzino una buona volta e sul serio della spinosa questione. Ma il ceto politico attuale è in grado di precisare con una legge ad hoc la fisionomia tuttora sfuggente del concorso esterno? È lecito dubitarne. Comunque sia, la recente presa di posizione della Corte di Strasburgo nel caso Contrada, secondo la quale all'epoca dei fatti (1979-1988) il reato "non era sufficientemente chiaro", si spiega anche in base a quanto si è detto fin qui. Nel periodo considerato la Cassazione riunita non si era ancora pronunciata sul concorso esterno, il che assume un rilievo tutt'altro che secondario nella prospettiva della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Infatti, secondo i giudici di Strasburgo, il principio di legalità penale (art. 7 Cedu) esige che il cittadino sia posto in condizione non solo di conoscere anticipatamente la norma incriminatrice in sé considerata, ma anche di prevederne ragionevolmente l'applicazione che i giudici ne fanno nei casi concreti. Proprio perché la legalità penale viene giustamente concepita anche come prevedibilità degli orientamenti giurisprudenziali, la conclusione cui è giunta la Corte europea nel caso Contrada ha una giustificazione molto plausibile. È auspicabile, più in generale, che nella magistratura penale italiana aumenti via via la disponibilità culturale a far propri i principi garantistici della giurisprudenza di Strasburgo. La giustizia penale, come "arma a doppio taglio", richiede sempre - piaccia o non piaccia - un equilibrato (ancorché non sempre facile) bilanciamento tra lotta alla criminalità e garantismo individuale. Giustizia: "nulla poena sine lege"… la giurisprudenza creativa spesso è un po' illegale di Rinaldo Romanelli e Fabio Ferrara (Componenti Giunta dell'Unione Camere Penali) Il Garantista, 16 aprile 2015 La sentenza della Corte europea dei Diritti dell'uomo sul caso Contrada ha ritenuto che la condanna a suo tempo inflitta all'alto funzionario di Polizia per concorso esterno in associazione mafiosa sia stata emessa in violazione del principio nulla poena sine lege dettato dall'articolo 7 della Convenzione europea. È noto che il "concorso esterno in associazione per delinquere comune o di tipo mafioso" sia una figura di creazione giurisprudenziale elaborata a partire dai primi anni 90, non essendoci una fattispecie di reato di tale natura delineata dal Codice Penale; e poiché le condotte contestate al Dott. Contrada risalivano agli anni 80, quindi ben prima che la giurisprudenza creasse la figura del "concorrente esterno in associazione mafiosa", da qui la violazione del diritto fondamentale dell'imputato di conoscere le conseguenze penali della propria condotta prima di porla in essere. La decisione della Corte europea ripropone con forza la questione della non retroattività e della prevedibilità della legge penale, principi costituzionali posti a garanzia del cittadino che non possono essere travolti dalla giurisprudenza creativa spesso disegnata, e non disdegnata, della magistratura che nel caso specifico ha elaborato una nuova figura di reato (il concorso esterno in associazione mafiosa) estendendone inopinatamente gli effetti anche alle condotte anteriori al tempo in cui tale interpretazione fosse concepita. È una questione che deve sollecitare, più in generale, una riflessione sul diritto penale "giurisprudenziale", cioè su quell'estensione del perimetro della responsabilità penale disegnato dal legislatore attraverso una "giurisprudenza creativa" non sempre in concreto rispettosa del principio di stretta legalità e di tassatività della fattispecie, che, spesso, sulla base delle più varie ragioni anche di carattere etico e sociale, finisce per scavalcare il dettato normativo, punendo condotte che il legislatore non ha inteso punire, violando così non solo i principi dettati dalla Convenzione, ma prima ancora i diritti garantiti dalla Costituzione Italiana secondo la quale: "Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". Tale fenomeno, evidentemente di carattere culturale, che attraversa la magistratura è stato più volte stigmatizzato dall'Ucpi che ha aperto su tale tematica un dibattito pubblico attraverso i suoi, anche recenti, convegni, nel corso dei quali la Dottrina - in ultimo nel corso dell'inaugurazione dell'anno giudiziario dei penalisti italiani celebratosi a Palermo - per bocca del Prof. Fiandaca ha messo in rilievo la ripetuta la violazione di siffatti elementari principi di diritto. È necessario un ripensamento sotto questo profilo dell'esercizio della giurisdizione perché nel nostro ordinamento in materia penale, contrariamente a quanto previsto nei sistemi common law, la fonte del diritto è, e deve rimanere, la legge, senza che la giurisprudenza si ponga come fonte di diritto concorrente, travalicando i limiti che le sono assegnati dalla nostra Costituzione. Giustizia: se si scopre che il "mostro" è innocente di Davide Varì Il Garantista, 16 aprile 2015 Contrada era un servitore dello Stato e non un uomo al servizio dei boss. L'ha stabilito ieri la corte di Strasburgo: "L'accusa di concorso esterno non era sufficientemente chiara". Poche parole che radono al suolo 23 anni di indagini, centinaia di udienze, polemiche feroci, bugie e mezze verità. Come quella di Antonino Caponnetto che in un'aula del Tribunale riferì che Giovanni Falcone "disprezzava" il poliziotto del Sisde. Di più, nel corso del processo di primo grado a Contrada, l'ex capo del pool di Palermo raccontò un episodio che avrebbe dovuto definitivamente chiarire il rapporto conflittuale e avvelenato tra l'ex uomo del Sisde, il traditore di Stato, e l'icona antimafia, Giovanni Falcone: "Quando Contrada venne interrogato sull'omicidio Mattarella - raccontò Caponnetto - mi rimase impresso un gesto di Falcone: una volta che Contrada ebbe terminato, entrambi, io e Falcone, ci alzammo per stringergli la mano. Poi Falcone la fissò per qualche istante e la pulì vistosamente sui pantaloni. Era un chiaro segno di ribrezzo". Ma qualcosa non torna: il fatto è che quel giorno il giudice Falcone non era in aula. Di più l'interrogatorio a Contrada non era stato verbalizzato dall'ufficio istruzione di Falcone ma dal procuratore della Repubblica Vincenzo Pajno in persona, come verificarono gli avvocati e pochi, coraggiosi, giornalisti. E di fronte alla richiesta di qualche straccio di prova di quel che andava dicendo, Caponnetto cambiò versione e, con un'alzata di spalle, disse che forse si era sbagliato, che Falcone non lo disse in aula ma, "eventualmente", nel suo studio. Ma questa è solo aneddotica che pure ha contribuito a distruggere la carriera, e la vita, dello 007 italiano. La vita di Bruno Contrada va in frantumi la notte di Natale del 1992. Quattro pentiti sostengono che lui è il riferimento della mafia siciliana e tanto basta a rinchiuderlo preventivamente nel carcere militare di Forte Boccea dal quale uscirà solo 31 mesi e 7 giorni dopo. "Non c'era nessuna necessità di arrestarmi la vigilia di Natale - racconterà molto tempo dopo Contrada -. Avevo il telefono sotto controllo, sapevano benissimo che avrei passato le feste a casa con i miei figli. In anni di servizio non mi è mai capitato di arrestare i criminali nel giorno di Natale". Nel frattempo la pratica passa ad Antonio Ingroia che nel ‘95 - e anche grazie agli "aneddoti" di Caponnetto - ottiene una condanna a 10 anni di carcere per concorso esterno. Nella sua requisitoria, Ingroia accuserà Contrada di essere "un funzionario a totale servizio di Cosa nostra, l'anello di una catena all'interno di un patto scellerato tra pezzi dello Stato e la mafia, responsabile del tradimento nei confronti di Boris Giuliano e Ninì Cassarà fino ad arrivare alla strage di Capaci". Contrada cascò dalle nuvole, era legato da una fortissima amicizia con Cassarà, il poliziotto ucciso dai corleonesi nell'agosto dell'85: "Avevo un rapporto fraterno con Ninì, ci chiamavano Castore e Polluce. Quando lasciai il comando della Mobile di Palermo lo lasciai a lui, lo lasciai per lui". Passano gli anni, 5 per la precisione, il processo arriva di fronte ai giudici della Corte d'Appello di Palermo che sconfessano l'istruttoria e ribaltano il primo grado: Contrada viene assolto perché il fatto non sussiste, ma nel 2002 la Cassazione decide che l'Appello va rifatto davanti a una diversa sezione della Corte di Palermo. Il nuovo appello, dopo 35 ore di camera di consiglio, conferma la condanna a 10 anni di carcere e nel 2007 la Cassazione conferma la sentenza. Contrada torna in carcere, a Santa Maria Capua Vetere, e chiede la revisione del processo che, dopo un lungo tira e molla, viene negata: "La richiesta è inammissibile", scrivono i giudici. L'odissea giudiziaria, a quel punto, sembra finita. Per la giustizia italiana Bruno Contrada è un funzionario dei Servizi al soldo dei clan. Iniziano le pratiche per la richiesta di grazia che lui rifiuta: "Sono un servitore dello Stato e sono innocente, non voglio nessuna grazia. Dallo Stato mi aspetto un grazie e non una grazia", ripeterà dal carcere dove vive sempre più isolato e malato. Al solo sentir parlare di grazia, Rita Borsellino, la Fondazione Caponnetto e la Fondazione Scopelliti, levano gli scudi e, nonostante le gravi condizioni di salute dell'ex 007, chiedono un incontro con Napolitano per bloccare qualsiasi iniziativa. L'associazione delle vittime di via dei Georgofili tira addirittura in ballo presunti ricatti da parte di Cosa nostra allo Stato. Sono i primi indizi della teoria della trattativa tra Stato e mafia: "È importante da parte delle massime Istituzioni - spiega l'Associazione - ascoltare la voce di chi come noi ha pagato un prezzo incredibile, perché servitori dello Stato hanno tradito questo Paese. Ma soprattutto perché si sappia fino in fondo, che la mafia in carcere condannata per le stragi del 1993 sta giocando una partita per lei molto importante a suon di ricatti". E qui occorre aprire una parentesi. Contrada aveva infiltrati, confidenti e poteva contare su tutta quella serie di legami indispensabili per un uomo del Sisde. Chi lavora per i Servizi si muove su un crinale ambiguo, vive al confine della linea d'ombra, lì dove le regole del normale ingaggio saltano, si trasformano, diventano più flessibili. E proprio lì, lungo quel confine, si creano legami veri e legami ambigui, ci sono amici e nemici, si fanno patti che un minuto dopo si tradiscono. E proprio grazie a quei patti (o tradimenti) Contrada arrivò a un passo dalla cattura di Bernardo Provenzano. Siamo alla fine di novembre del 1992. Lo 007 ottiene notizie confidenziali su alcune utenze che fanno riferimento al nascondiglio di Provenzano. Erano i numeri di un nipote del boss che faceva da tramite tra lo zio e gli uomini di Cosa nostra. Contrada si ferma: il suo compito è quello di raccogliere informazioni e passarle agli "operativi". Allora va a raccontare tutto al capo della Criminalpol, il quale gli dà l'incarico di scegliersi gli uomini migliori per portare a termine l'operazione Provenzano. Contrada si mette immediatamente al lavoro e nel giro di poco tempo riesce a beccare il nascondiglio del boss. E con il covo sotto controllo la sua cattura era davvero a un passo. Lui riferisce ai superiori e rimane in attesa dell'ok, ma qualche giorno dopo arriva una velina dal ministero dell'Interno che chiede di sciogliere la squadra messa in piedi da Contrada con effetto immediato. Pochi giorni dopo lo 007 viene arrestato. Mistero. Due le ipotesi: o il ministero sapeva che su Contrada c'era un'indagine che di lì a poco lo avrebbe portato in galera, oppure l'ex 007 finisce in galera perché Provenzano doveva restare uccel di bosco. E se così fosse, non solo l'ex 007 non sarebbe un uomo della trattativa, ma una vittima sacrificale. Del resto le mancate catture di Provenzano hanno lasciato sul campo tante vittime e costruito nuovi eroi tra togati e giornalisti. Ma questa è un'altra (strana) storia. Torniamo al 2007 e a quella richiesta di grazia che viene regolarmente negata. Contrada a quel punto finisce in ospedale: ha perso 22 chili e i suoi avvocati chiedono il differimento della pena e la richiesta dei domiciliari proprio per le gravi condizioni di salute del condannato. Le associazioni protestano ancora una volta e il presidente Napolitano - memore delle "minacce" sulla trattativa Stato mafia - scrive al Guardasigilli per bloccare tutto: Bruno Contrada può tranquillamente morire in carcere. Lui è rassegnato da tempo e arriva addirittura a chiedere l'eutanasia. Uscirà dal carcere, malato e umiliato, solo nel 2012. Prima della sentenza di ieri, nel 2014 Strasburgo aveva già condannato l'Italia: "La detenzione era incompatibile con il suo stato di salute", e ora, a distanza di 23 anni da quel giorno di Natale in cui fu trascinato in carcere, sempre dall'Europa arriva una seconda sentenza che rade al suolo decenni di controversie legali: l'ipotesi di aver aiutato i boss siciliani non è sufficientemente chiara, dicono i giudici. Fin qui la fredda cronaca. Ma la storia di Contrada è piena di chiaroscuri, di detti e non detti, ed è attraversata da vicende che si impastano con la storia più cupa e contraddittoria della nostra Repubblica e dei nostri eroi presunti. Giustizia: intervista a Bruno Contrada "il mio strazio aiuterà a costruire vera giustizia" di Errico Novi Il Garantista, 16 aprile 2015 Esultanza? Non proprio. Né a casa Contrada, né nello studio del suo simpaticissimo avvocato, Giuseppe Lipera. "Non va bene", dice il legale, che ha il quartier generale a Catania e fatica a comunicare con il suo assistito, letteralmente bombardato di telefonate. "Non va bene perché la Corte europea dei diritti dell'uomo ha sì stabilito che Contrada non avrebbe potuto essere condannato per un reato non previsto all'epoca dei comportamenti contestati, ma è pur vero che i giudici di Strasburgo non mettono in discussione la sussistenza di quella assurda fattispecie". Cioè del concorso esterno in associazione mafiosa, che in effetti non è definita da uno specifico articolo del codice penale ma è l'esito della combinazione di più reati così come la giurisprudenza italiana li ha "armonizzati". "Ci vediamo a Caltanissetta", dice dunque Lipera, "lì ho presentato due mesi fa la quarta domanda di revisione del processo e la Corte d'Appello mi ha fissato l'udienza per il 18 giugno". E la sentenza con cui i giudici della Cedu hanno condannato lo Stato italiano a risarcire l'ex numero due del Sisde? Possibile che non peserà, davanti ai magistrati italiani? "Sarà un altro elemento per ottenere la revisione della condanna", dice il legale. Lui, il perseguitato, l'uomo che è stato stritolato per 23 anni da una macchina processuale infernale, ha invece per sé solo un aggettivo: "Sono frastornato". Come "frastornato", dottor Contrada? "E sì. Quando l'avvocato Lipera mi ha chiamato sono entrato un po' in confusione. Sa com'è: dopo 23 anni non me l'aspettavo". Stenta a crederci. "Sì, non ci contavo. Anche se avevo già avuto una sentenza favorevole, dalla Corte europea, per l'ingiusta detenzione. Avrei avuto diritto ai domiciliari, anche per la mia età e il mio stato di salute. Ma la distruzione di una vita non si risarcisce neppure con 10 miliardi". In pratica i giudici di Strasburgo dicono che lei ha fatto da "cavia di laboratorio" per un reato definito successivamente. "Sì è vero: ho fatto proprio da cavia. Si sono detti: se funziona, facciamo così anche con gli altri". Un esperimento. "Un preludio al processo Andreotti. Difatti, il processo Andreotti iniziò subito dopo la mia condanna. E il giudizio di primo grado a suo carico fu celebrato davanti alla stessa sezione penale che aveva condannato me. Stessa cosa: in appello: il processo di secondo grado ad Andreotti finì davanti alla stessa sezione che aveva condannato il sottoscritto". Come andare sul sicuro. Ma la sentenza di Strasburgo segnala una giustizia italiana lasciata all'arbitrio assoluto dei magistrati? "Non sono in grado di dare un giudizio del genere, andrei oltre i miei limiti. Allo stato attuale sono un cittadino condannato, non ho la veste per giudicare coloro che mi hanno giudicato. Ben altri organi possono valutare la condotta dei magistrati che si sono occupati di me: Csm, Parlamento, ministero della Giustizia. Un semplice cittadino non può". E lei si aspetta che l'operato di giudici e pm del caso Contrada venga effettivamente messo in discussione? "Non mi aspetto che il Csm se ne occupi, non penso lo farà. Ogni magistrato può valutare i fatti come vuole e il Csm non lo può sindacare". La sentenza di Strasburgo peserà sulla richiesta di revisione del processo presentata dal suo avvocato a Caltanissetta? "Vedremo, è un incrocio giuridico complesso. Ora so solo che secondo la Corte europea non avrei dovuto essere condannato". Avverte almeno un sollievo? "So di aver lottato per anni. Di aver fatto tutto il possibile per dimostrare che non era vero niente. Contro la sentenza di condanna ho prodotto dieci volumi di motivi di appello, più venti volumi di motivi aggiuntivi". Erano sentenze già scritte? "Sì, guardi, è così: io sono stato condannato nel momento stesso in cui mi hanno arrestato, il 24 dicembre 1992". Ingroia dice che la Corte europea ha preso una cantonata. "Posso fare un'obiezione?". E siamo qui apposta, dottore. "Lui deve dimenticare di essere stato magistrato inquirente e requirente al mio processo. È un avvocato, adesso, pensi ai suoi assistiti e non agli ex inquisiti o imputati. Il mio processo è il suo fiore all'occhiello, ma non è che può stare sempre lì a esibirlo". Basta sventolare sempre la stessa bandiera. "Faccia l'avvocato, adesso. Non è più un pm". I processi si celebrano in tv e sui giornali più che in tribunale? "Io non voglio accusare nessuno". Che senso dà alle sofferenze che ha vissuto? "Mi hanno rubato la vita, so solo questo". La sua vicenda potrà contribuire a cambiare la giustizia? "Sì, spero possa essere utile a qualcosa, indipendentemente da come si chiude il mio caso". Che non si è ancora concluso. "Mi interessa la giustizia italiana, devo dire, più che quella europea. La sentenza di Strasburgo è importante, senza dubbio, ma deve essere un tribunale italiano a dire che sono stato condannato e messo in prigione da innocente". Non si sente risarcito? "Nessuna cifra può ripagare la distruzione di un uomo da punto di vista morale e fisico, civile e sociale, professionale e familiare. Non è questione di prezzo, non mi interessa. Voglio essere giudicato innocente da un tribunale italiano. In nome del popolo italiano, va emessa la sentenza". Il tempo è davvero galantuomo come dicono? "E cosa posso dirle? Ho 84 anni, dall'arresto ne sono passati quasi 23. Comunque, guardi: mi farebbe piacere poter leggere il Garantista perché non lo distribuite in Sicilia?" Siamo nati da poco, un passo per volta. "Sì ma qui a Palermo la maggior parte dei giornali che mi piacerebbe sfogliare non è disponibile in edicola: il Garantista, il Foglio, il Tempo, l'Opinione. Non trovo neppure il Mattino di Napoli, che è il giornale della mia città". Adesso non ci colpevolizzi, dottore. I distributori chiedono cifre folli, sa? E poi c'è la versione on line, potrebbe leggerci comodamente. "E no. A internet non mi converto, può giurarci. Sono fermo a penna e calamaio". Dottore, in questi anni l'ha aiutata la fede in Dio? "Mi ha aiutato la mia forza morale. E la coscienza di non avere nulla da rimproverarmi". Giustizia: se la Cassazione fosse una fabbrica, sarebbe praticamente sul lastrico di Maurizio Tortorella Tempi, 16 aprile 2015 Volete sapere perché la giustizia penale italiana è tanto malata? Volete Sapere perché, come ha dimostrato per ultimo il caso del processo per l'omicidio di Meredith Kercher (che ci ha fatto fare una figuraccia mondiale), troppo spesso le condanne e le assoluzioni vanno e vengono come su una giostra? Beh, le cause del disastro sono tante. Ma qualunque medico, data un'occhiata ai dati che state per leggere, potrebbe diagnosticare che lo stesso cuore della nostra giustizia, la Corte suprema di cassazione, è di fatto un organo infartuato. Fate finta che la Cassazione penale sia una fabbrica dove lavorano 112 magistrati, che come altrettanti operai devono lavorare pezzi di metallo: questi pezzi sono i ricorsi presentati contro le sentenze pronunciate dalle corti d'appello e contro tutti i provvedimenti dei tribunali, da un arresto a un patteggiamento, fino a una qualunque misura cautelare. Bene. Nel 2014 i giudici-operai della Cassazione penale hanno ricevuto 53.374 ricorsi-pezzi di metallo. I difensori degli imputati ne hanno presentati 49.694, i pubblici ministeri si sono fermati a 3.116, altri 564 sono stati presentati da entrambe le parti in causa. E questa è già una prima anomalia. Perché, con un numero di giudici equivalente, la Corte di cassazione francese affronta in media soltanto 8 mila procedimenti, e quella tedesca circa 3 mila. Ma negli altri paesi i patteggiamenti bloccano dagli otto ai nove decimi del carico giudiziario. E in particolare nei paesi anglosassoni le assoluzioni di primo grado non possono essere appellate. Il terzo grado? Un'eccezione Ma torniamo alla nostra fabbrica. In 12 mesi, i 112 giudici-operai hanno dovuto trattare 477 ricorsi a testa, impegnando una media di 215 giorni dall'iscrizione del procedimento fino all'udienza che lo ha chiuso. Lavoro utile? Non proprio tutto, visto che 32.549 di quei ricorsi sono stati analizzati e studiati, ma poi respinti al mittente perché giudicati inammissibili, come fossero altrettanti pezzi di metallo fallati, inservibili. Sono sei su dieci, mica uno scherzo. Chi ha fatto lavorare a vuoto la Cassazione? In questo caso, più gli avvocati dei pubblici ministeri, perché è stato definito inammissibile il 64 per cento dei loro ricorsi, contro il 20,9 per cento dei secondi. Il problema vero riguarda però quel che è sopravvissuto a questo primo vaglio "produttivo". Perché, subito dopo, i giudici-operai hanno dovuto lavorare quel che restava di buono. E hanno dovuto annullare o rispedire indietro altri 13 mila ricorsi: in parte sono processi "annullati con rinvio", che quindi sono stati costretti a tornare indietro a una Corte d'appello, per un nuovo processo. In questo caso si sono comportati peggio i pm: si sono visti annullare il 59,8 per cento del totale dei loro ricorsi, mentre gli annullamenti attribuiti ai ricorsi degli avvocati sono stati il 19,8 per cento. Ma insomma, alla fine, che cosa ha prodotto la fabbrica? Nel 2014, quante sono state le sentenze definitive pronunciate dalla Corte suprema di cassazione? Quanti processi sono terminati con una condanna o un'assoluzione nel fatidico "terzo grado di giudizio"? Sono stati 7.821 in tutto, il 14,7 per cento del totale iniziale. La fabbrica della giustizia è riuscita quindi a tornire, a completare solamente un pezzo di metallo su sette. Tutto il resto è finito in nulla, è tornato indietro, come in un assurdo gioco dell'oca. Giustizia: decreto antiterrorismo; ok del Senato alla fiducia per via libera definitivo di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2015 Il Governo ha incassato la fiducia del Senato sul decreto antiterrorismo con 161 sì, 108 no e un astenuto. Il provvedimento è stato approvato in seconda lettura, in via definitiva, nel testo votato dalla Camera il 31 marzo. Il decreto scadeva il 20 aprile. Hanno votato sì i partiti della maggioranza ("Possiamo dividerci su molte cose ma sul terrorismo la nostra unica parola deve essere unità" ha detto il capogruppo Dem al Senato Luigi Zanda). Voto contrario dalle opposizioni. Sandro Bondi e Manuela Repetti hanno votato la fiducia al governo. I due senatori hanno di recente lasciato Forza Italia confluendo nel gruppo Misto. Il decreto oltre a prevedere misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale, rifinanzia con circa 917 milioni la partecipazione italiana a diverse missioni internazionali per il periodo gennaio - settembre 2015. Tra le modifiche approvate dalla Camera e confermate dal Senato figura il finanziamento, per oltre 40 milioni, dell'operazione "Mare sicuro". Alfano: decreto è legge, da oggi più forti. "Il decreto antiterrorismo è legge! Da oggi più forti nella lotta al terrorismo per la difesa della democrazia e della libertà". È il primo commento scritto su Twitter del ministro dell'Interno Angelino Alfano. Giro di vite contro i foreign fighters. Tra le principali novità, il Dl antiterrorismo istituisce la superprocura nazionale antimafia e antiterrorismo e prevede un giro di vite contro i "foreign fighters", quelli che partono per la Siria o l'Iraq per arruolarsi nelle file dei terroristi: rischiano da 5 a 8 anni di reclusione. Stessa pena per chi organizzi, finanzi o propagandi i viaggi. Da 5 a 10 anni sarà invece punito chi fabbrica armi fai-da-te e mette in atto comportamenti "finalizzati in maniera univoca" al compimento di atti di violenza con finalità terroristiche. Nel Codice penale sono introdotte due nuove contravvenzioni: la detenzione abusiva di precursori di esplosivi (sanzionata con la pena congiunta dell'arresto fino a 18 mesi e ammenda fino a 1.000 euro) e la mancata segnalazione all'autorità di furti o sparizioni dei precursori (arresto fino a 12 mesi o ammenda fino a 371 euro). Pene aggravate, infine, per chi addestra potenziali terroristi se utilizza strumenti telematici o informatici. Aggravanti analoghe sono previste per il possesso e la fabbricazione di documenti falsi, delitti per cui scatta l'arresto obbligatorio in flagranza (ora invece è facoltativo). Maglia più larga per le intercettazioni. Il decreto permette di usare programmi per acquisire "da remoto" le comunicazioni e i dati presenti in un sistema informatico e modifica la disciplina delle norme di attuazione del Codice processuale penale sulle intercettazioni preventive, anche in relazione a indagini per delitti in materia di terrorismo commessi con l'impiego di tecnologie informatiche o telematiche. La polizia postale dovrà essere costantemente aggiornare una black-list dei siti internet che inneggiano al terrorismo, anche per favorire lo svolgimento di indagini da parte della polizia giudiziaria, pure sotto copertura. Immunità per gli 007. Con il decreto si estende la possibilità di rilasciare agli stranieri permessi di soggiorno a fini investigativi. Si introduce inoltre in via transitoria la facoltà, per i servizi di informazione e sicurezza, di effettuare colloqui investigativi con detenuti per prevenire azioni terroristiche. Per il personale di Aisi, Aise e Dis sono previste disposizioni volte alla tutela funzionale e processuale: potranno usare le generalità "di copertura" anche mentre depongono in un processo penale sulle attività svolte in incognito e sono autorizzati a commettere reati (nei loro confronti si applicherà la speciale causa di non punibilità). Giustizia: Gratteri (Pm Reggio Calabria); la corruzione? da Tangentopoli è aumentata Ansa, 16 aprile 2015 "Da tangentopoli ad oggi la corruzione è aumentata di molto, per vari fattori. Fattori culturali, perché abbiamo un'etica e una morale più bassa rispetto a 20 o 25 anni fa". Lo ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, intervenendo questa mattina a Coffee Break su La7. "Oggi le gare si fanno - ha aggiunto - con la procedura del massimo ribasso, quindi si stanno aggiudicando dei lavori con un ribasso anche del 30 o 40 per cento. Questo vuol dire sicuramente costruire opere in difformità al progetto. Non conformi ad esempio alla legge anti sismica. Questa procedura è sbagliata. E poi c'è il problema delle varianti in corso d'opera. Non esiste un'opera che si costruisca in Italia dove non ci siano 4 o 5 varianti ed è lì che ci sono le varie mazzette". "Per quanto riguarda la riforma della giustizia - ha detto ancora Gratteri, che ha presieduto la Commissione per la revisione della normativa antimafia - se vogliamo velocizzare i processi e non vogliamo arrivare alla prescrizione, dobbiamo informatizzare il processo penale. Noi, ad esempio, abbiamo previsto di far sparire la carta. L'avvocato che vuole le copie, va con la penna usb. Va introdotta, inoltre, la video conferenza: tutti i detenuti ad alta sicurezza, cioè, stanno in carcere e seguono il processo via skype e così risparmiamo anche 70 milioni di euro. Ad oggi si fanno le video conferenze solo per i 41 bis. Ma sono solo 800 detenuti, quando abbiamo una popolazione carceraria di 44 mila persone. Noi utilizziamo 10 mila uomini della polizia penitenziaria solo per le traduzioni. Uomini che potrebbero essere utilizzati per il trattamento dei detenuti nelle carceri o fuori dalle carceri". "Un'altra cosa importante - ha concluso il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria - è rendere non conveniente delinquere. Un capo mafia non può stare in carcere solo 5 anni. Noi abbiamo previsto di parificare il 416 bis all'associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, con una pena conseguente che va dai 20 anni in su". Giustizia: a Milano arrivano le prime iscrizioni di indagati per il reato di auto-riciclaggio di Cristina Bartelli Italia Oggi, 16 aprile 2015 A Milano arrivano le prime iscrizioni per il reato di auto-riciclaggio, introdotto nell'ordinamento penale con la legge 186/2014 (legge sulla voluntary disclosure) e in vigore dal 1° gennaio 2015. Una qualche decina di nomi, in poco più di tre mesi, su cui la procura milanese e il team guidato da Francesco Greco ha riscontrato l'applicabilità della figura assente nel codice penale italiano. il dato è stato evidenziato da Nicola Mainieri, dirigente della Banca di Italia intervenuto al convegno del comune di Milano, "Antiriciclaggio nella pubblica amministrazione. Il caso del comune di Milano", lo scorso 13 aprile. Prima dell'entrata in vigore del reato di auto-riciclaggio, la giurisprudenza italiana con il reato di riciclaggio ha faticato non poco a contestare la fattispecie di reato del riciclaggio. Basti pensare che sempre la procura di Milano in cinque anni è riuscita a contestare qualche centinaia di riciclaggi, pochi dei quali andati a giudizio. Ora un cambio deciso di rotta con l'auto-riciclaggio. Fa notare infatti Mainieri nel suo intervento che "non c'è dubbio che se il riciclaggio è un reato per pochi, l'auto-riciclaggio prefigura una platea assai più ampia". Il nuovo reato, introdotto e innestato nella legge sulla collaborazione volontaria si ritiene sia "una norma senza dubbio importante, una norma che per le sue caratteristiche", ha spiegato Mainieri, "troverà applicazione assai più frequentemente della precedente sul riciclaggio, ma anche una norma che sin d'ora si presenta con dubbi applicativi e necessita di nuove interpretazioni giurisprudenziali". Anche se come specifica Fabio Vedana di Unione Fiduciaria "la legge sulla collaborazione volontaria garantisce, per chi effettua il rimpatrio la non punibilità per questo reato". Uno dei problemi allo studio dei professionisti e degli operatori del diritto è il concreto rischio di ultrattività del reato e cioè la sua non prescrizione. I reati che discendono dall'articolo 648 del codice penale (ricettazione) sotto cui l'auto-riciclaggio è iscritto, essendo rubricato come 648-ter, 1, hanno in sé l'indicazione che il reato presupposto si applica anche quando l'autore dello stesso o non è imputabile o non è punibile ovvero manchi una condizione di procedibilità. Ecco dunque che quel reato resta in vita. Di più. Per l'articolo 170 del codice penale quando un reato è il presupposto di un altro reato, la causa che lo estingue non si estende all'altro reato. E la Corte di cassazione con una sentenza del 2014 l'estinzione (per esempio, per prescrizione) del delitto non colposo presupposto del riciclaggio è priva di effetti sulla configurabilità del riciclaggio. E quindi a maggior ragione il principio potrebbe essere esteso all'auto-riciclaggio con delle conseguenze dirompenti. Giustizia: lettera di Giuliano Giuliani a Mattarella, il poliziotto "torturatore" chiede scusa di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 aprile 2015 Da orgoglioso "torturatore" che nella scuola Diaz rientrerebbe "mille volte", a super pentito che non sa darsi pace, nel giro di qualche ora, dopo una breve parentesi da incompreso e vittima di "strumentalizzazioni". Fabio Tortosa, il poliziotto del Nucleo Celere che ha ribattezzato "azione ineccepibile" la "macelleria messicana" che è costata all'Italia la condanna da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo, deve aver capito che potrebbe diventare il solo capro espiatorio che paga per tutti i suoi "fratelli", con buona pace dello spirito cameratesco del reparto. "Su Carlo Giuliano ho sbagliato, è la cosa di cui più mi rimprovero e della quale non riesco a darmi pace", ha detto ieri a Sky Tg24 dopo che il padre del ragazzo ucciso il 20 luglio 2001 a Genova, Giuliano Giuliani, ha chiesto in una lettera aperta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella se non ritenga di dover "chiedere scusa a Carlo in nome dello Stato" per le "offese insopportabili" rivolte a suo figlio dall'agente. "Non so se al signor Giuliani basteranno le scuse di un uomo dello Stato che non ne è il capo - ha aggiunto - ma la colpa di quello che ho scritto è mia". Le parole con le quali, sul suo profilo Facebook poi cancellato, Tortosa ha oltraggiato la memoria del giovane ucciso in Piazza Alimonda - "Carlo Giuliani fa schifo e fa schifo anche ai vermi sottoterra" -, quelle con le quali ha rivendicato con esaltazione di essere stato tra coloro che la sera del 21 luglio 2001 forzarono cancello e portone e fecero irruzione nella scuola del massacro, e quelle usate per chiarire meglio il suo agghiacciante pensiero in alcune interviste rilasciate ieri, hanno infatti suscitato un moto di sdegno soprattutto sui social network - la pagina Fb "Fabio Tortosa fuori dalle forze dell'ordine" ha ottenuto oltre 10 mila adesioni in poche ore - e messo in imbarazzo le stesse istituzioni. Le frasi di Tortosa "provano in maniera inequivocabile che una parte delle forze di polizia è gravemente malata", fa notare il senatore Pd Luigi Manconi che chiede una "tempestiva e radicale riforma della polizia, a cominciare dalle modalità di accesso", e "l'adozione del codice identificativo". Mentre l'ex grillino Francesco Campanella, senatore del Gruppo misto, annuncia di aver appena depositato un ddl che prevede l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta su Genova. Il coordinatore di Sinistra Ecologia Libertà, Nicola Fratoinanni, incalza invece Angelino Alfano che aveva annunciato "massima severità" nelle sanzioni contro il poliziotto: "Ci auguriamo che il ministro dell'Interno non mancherà di informare dettagliatamente il Parlamento di ciò che verrà deciso. Forse però è arrivato il momento di spalancare davvero porte e finestre nei Palazzi degli apparati". Anche Donatella Ferranti, presidente della Commissione Giustizia della Camera, dai microfoni di Rai Radio Uno, dà "ragione ad Orfini" sull'"opportunità politica" delle dimissioni dalla presidenza di Finmeccanica di Gianni De Gennaro, capo della polizia all'epoca dei fatti, processato e poi prosciolto. Ferranti ha poi risposto anche a Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, il giovane morto da recluso nell'ottobre 2009 una settimana dopo essere stato arrestato, che le chiedeva in una nota "se sono questi i rappresentanti dei sindacati che sono stati sentiti in audizione mentre si discuteva il ddl sulla tortura". "No, Tortosa non è stato audito", ha ribattuto la deputata Pd dicendosi altrettanto "ferita e amareggiata" "per le gravissime affermazioni" del poliziotto. Ma in sede di audizioni in commissione, ha aggiunto Ferranti, "posso assicurare che da parte di tutti i sindacati delle forze dell'ordine è giunto un contributo responsabile e costruttivo". In attesa di ulteriori contributi, la Fandango, casa di produzione del film di Daniele Vicari, annuncia con un tweet: "Noi #Diaz il Film lo rifaremmo altre mille e mille volte!". Emilia Romagna: la Garante regionale dei detenuti, Desi Bruno, incontra i vertici del Dap Ristretti Orizzonti, 16 aprile 2015 Nuovo padiglione a Parma, stop a Ferrara e Bologna. A Parma prosegue 41bis, bene su Opg e Rems. Stop al progetto per i nuovi padiglioni nelle carceri di Bologna e Ferrara, mentre verranno portati a termine i lavori di ampliamento del penitenziario di Parma, già in corso. E proprio Parma continuerà ad ospitare detenuti in regime di 41bis, mentre Ravenna è l'unica struttura sul territorio regionale che potrebbe essere coinvolta dal piano a medio-lungo termine di chiusura degli istituti con meno di 100 detenuti. Sono queste le principali novità che riguardano l'Emilia-Romagna emerse nel corso dell'incontro, "molto utile e ricco di buoni propositi", tra i vertici del sistema penitenziario nazionale e i Garanti regionali dei detenuti, tra cui la Garante delle persone private della libertà personale dell'Emilia-Romagna, Desi Bruno, oggi a Roma. Con Santi Consolo, capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Mauro Palma, consigliere del ministero della Giustizia, e Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti del trattamento del Dap, insieme ai Garanti regionali di Toscana, Piemonte, Campania, Puglia, Marche e Veneto e ai Garanti locali di Ferrara, Milano, Firenze, Nuoro ed Avellino, Desi Bruno ha discusso del progetto di ristrutturazione e di riorganizzazione del Dap e delle principali modifiche che riguarderanno il sistema penitenziario italiano. A fronte di una significativa riduzione del sovraffollamento, ha spiegato Palma, con un miglioramento a livello nazionale da 64.000 detenuti per 42.000 posti a 54.000 ristretti su una capienza di 49.000 unità, la linea di tendenza sarà la chiusura dei piccoli istituti. "In Italia il numero di strutture penitenziarie è esorbitante - commenta Bruno, in Emilia-Romagna è la casa circondariale di Ravenna che potrebbe essere interessata a medio termine da queste dismissioni". Come riferito da Consolo, il Dap sta valutando anche come concludere il piano di edilizia penitenziaria. "Ciò che è stato costruito, o i cui lavori sono già avviati, verrà utilizzato per non sprecare risorse, e nel nostro territorio è il caso di Parma- ragiona la Garante-, mentre i cantieri che devono ancora partire, come Bologna e Ferrara, non verranno realizzati". Al centro del dibattito anche la Casa Lavoro di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena: "Si tratta di una tematica che al Dap hanno ben presente e su cui sono ben intenzionati ad agire, ma il progetto partirà una volta terminata la ristrutturazione del Dap". Si è parlato a lungo anche degli Opg, continua la Garante, "e l'Emilia-Romagna si è rivelata tra i diligenti e quelli in regola, abbiamo rispettato i tempi e fatto il nostro dovere, per questo motivo ho invitato i Garanti di altre Regioni ad intervenire affinché sui loro territori avvenga lo stesso. Mi sono rivolta in particolare a Piemonte e Veneto, perché in questo momento stiamo ospitando nelle nostre Rems 45 internati che da lì provengono". I vertici di Dap e ministero della Giustizia, prosegue Bruno, "per quanto riguarda il futuro dei condannati con infermità sopravvenuta, hanno spiegato che verosimilmente saranno destinati nei luoghi di cura psichiatrici che avranno collocazione all'interno delle carceri". La Garante ha poi sollevato anche altre questioni di carattere locale, come "l'enorme affluenza di detenuti, ben oltre i posti letto disponibili, al Centro clinico di Parma, e la carenza di attività nel carcere di Piacenza". Infine, per avere un Garante nazionale dei detenuti, riporta Bruno dopo l'incontro, "bisognerà attendere ancora qualche mese, speriamo si concluda tutto entro la fine dell'anno, il regolamento di attuazione della legge è in vigore ufficialmente da oggi": con lui, in concerto con tutti i Garanti territoriali, il Dap si confronterà per trovare la soluzione a numerosi problemi di carattere generale sollevati. Fra tutti, i contratti per il vitto e il sopravvitto, l'autorizzazione ai colloqui individuali per i collaboratori organici degli Uffici dei garanti, i trasferimenti che interrompono il trattamento, un numero maggiore di telefonate e schede e gli interventi su situazioni limite in alcune aree del territorio, come la questione banconi divisori per i colloqui. Piemonte: la situazione delle carceri nella Relazione del Garante regionale per i detenuti www.atnews.it, 16 aprile 2015 "Quello del carcere, in Piemonte, è un pianeta complesso e in continua evoluzione". Lo ha affermato, nella seduta del 14 aprile, il Garante regionale per i detenuti Bruno Mellano introducendo in Aula la relazione sulla propria attività. "Grazie ai provvedimenti normativi e organizzativi adottati in seguito alla sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell'uomo - ha dichiarato Mellano - si è passati a un progressivo decremento dei detenuti all'interno delle carceri piemontesi, che da oltre 5.000 sono oggi poco più di 3.500. Occorre però tener presente che le criticità e illegalità del sistema penitenziario non sono attribuibili in via esclusiva ai problemi di sovraffollamento ma riguardano soprattutto l'efficacia del periodo di detenzione rispetto all'obbiettivo individuale e collettivo della pena". "Dalle statistiche, inoltre - ha proseguito il Garante - si evince come siano aumentate di molto le persone in esecuzione penale esterna, che in Piemonte sono circa 2.700. Pare quindi giunto il momento di approfittare di un'opportunità impensabile fino a qualche anno fa per rilanciare e approfondire una collaborazione istituzionale e sociale mirata a rendere la pena detentiva utile ed efficace". A poco meno di un anno dal proprio insediamento, avvenuto il 12 maggio scorso, il Garante regionale ha visitato complessivamente una settantina di volta i tredici istituti penitenziari per adulti del Piemonte, il carcere minorile e il Centro di identificazione ed espulsione di Torino, promosso incontri e siglato due protocolli d'intesa per il recupero e il reinserimento dei detenuti, specialmente tossicodipendenti, e per favorire l'esercizio del diritto allo studio e il reinserimento sociale e occupazionale dei reclusi. "Tra le emergenze da affrontare - ha concluso Mellano - spicca quella del lavoro per abbattere il rischio di recidiva: è dimostrato che su dieci detenuti che hanno avuto occasione di sviluppare e arricchire la propria professionalità e di abituarsi agli orari e ai ritmi di lavoro, solo tre hanno fatto ritorno in carcere. Da quando i fondi dell'Ufficio ammende non sono più impiegati per finanziare progetti lavorativi, è purtroppo diminuito sensibilmente il numero di detenuti che può accedere al lavoro. Urge trovare nuove forme e nuove risorse per non perdere un'occasione tanto importante per il reinserimento lavorativo dei detenuti". Nel dibattito, al termine della relazione, sono intervenuti i consiglieri Stefania Batzella, Gian Paolo Andrissi (M5S), Domenico Rossi (Pd) e Marco Grimaldi (Sel). Sicilia: addio Opg, arrivano le Rems per riabilitare gli ex internati di Angela Ganci Quotidiano di Sicilia, 16 aprile 2015 Fino a oggi l'Isola ha ospitato 180 detenuti nell'ex Ospedale psichiatrico di Barcellona Pozzo di Gotto. In Sicilia attiva una struttura a Naso, presto ne verrà aperta un'altra a Caltagirone. 1 febbraio 2013-31 marzo 2015. Ventisei mesi, più di due anni, di proroghe, promesse, progetti carenti e carenze strutturali, ma finalmente il 31 Marzo scorso la chiusura degli Ospedali Psichiatrici giudiziari è divenuta realtà. Quei soggetti "pericolosi per la società", secondo quanto disposto dal decreto-legge n. 211 del 22 dicembre 2011, verranno adesso ospitati nelle Rems, strutture residenziali socio-sanitarie per l'esecuzione della misura di sicurezza. Niente a che vedere con le ristrettezze di una cella o la scarse condizioni igienico-abitative del passato, un'assistenza sanitaria e psichiatrica adeguata al trattamento delle patologie mentali e alla reintegrazione sociale, secondo il principio costituzionale per cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Alla luce di tali esigenze di salute e civiltà, come si stanno organizzando le Regioni nella gestione di tali strutture alternative e quali le possibili ripercussioni della legge sulla sicurezza pubblica? Al 31 Marzo, il Ministero della Giustizia riferisce che quasi tutte le regioni si siano già attrezzate per garantire la piena funzionalità delle Rems; un ritardo di qualche mese è previsto in Friuli Venezia Giulia, Puglia, Provincia autonoma di Trento e Piemonte. In Sicilia è già attiva la prima Rems di Naso, in provincia di Messina, e a breve sarà utilizzabile quella di Caltagirone, per ospitare i 180 detenuti dell'ospedale di Barcellona Pozzo di Gotto. Già al 9 Aprile però i primi intoppi: succede in Emilia Romagna, dove il trasferimento dall'Opg di Reggio Emilia alle Rems di Parma e Bologna non risulta ancora effettuato. L'effettiva fruibilità di una struttura idonea a "curare e riabilitare", come conversione del vecchio "Manicomio criminale", appare al momento impresa tutt'altro che semplice. A ciò si aggiungono i problemi nella gestione di gravi atti di autolesionismo, episodi di gravità eccezionale, come sbattere violentemente la testa contro il muro o tentare di darsi fuoco. Se una nota positiva esiste (il numero degli internati è sceso da 1.282 nel 2001 a 988 nel 2013), la natura dei reati (nel 54% dei casi, omicidio o tentato omicidio), qualora vengano abolite celle o altre forme di detenzione, ridesta infatti legittimi fremiti di allarme sociale. Contrapporre civiltà e sicurezza non è però che una trappola, secondo Mario Sellini, presidente dell'Associazione Unitaria Psicologi Italiani, e, in questa conciliazione, due "armi" appaiono prioritarie: garantire alti livelli assistenziali, che non lascino da soli famiglie e pazienti, e agire tempestivamente per prevenire episodi di violenza e allarme sociale (come la possibilità di fuga in fase di trasferimento alle Rems). Coniugare sicurezza sociale e rispetto della dignità umana è questione delicata che può, e deve, essere risolta con la collaborazione tra Rems e territorio (adozione di telecamere e sorveglianza esterna organizzata dalle Prefetture). Vento di ottimismo dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, secondo cui non esisterebbe nessun pericolo per la sicurezza collettiva, poiché gli internati più pericolosi verranno ospitati in strutture più idonee per la cura, nella garanzia della sicurezza per la collettività. Il capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, da parte sua, ha assicurato la più ampia collaborazione con il ministero della Salute per affermare il diritto alla cura e i livelli di sicurezza attesi dai cittadini. Sicilia: cancellato l'Ufficio del Garante per i detenuti... ma con quali conseguenze? di Cetty Mannino www.respubblica.it, 16 aprile 2015 C'è una petizione firmata dagli stessi detenuti, che chiedo l'assegnazione del garante, e le lettere, sigillate, arrivate dai diversi penitenziari Nel Titolo II del testo della finanziaria regionale, l'articolo 3 riporta: "L'ufficio del Garante dei diritti dei detenuti istituito con l'articolo 33 della legge regionale 19 maggio 2005, n. 5 e successive modifiche e integrazioni, è soppresso. Le funzioni dell'ufficio del Garante dei detenuti sono trasferite al dipartimento regionale della Famiglia e delle Politiche Sociali". Ciò significa che, se il testo sarà approvato, si chiuderà un capitolo aperto 13 anni fa, e negli ultimi anni oggetto di polemiche. Dal 2013, infatti, manca il garante, la figura vertice che dovrebbe gestire tutta la macchina e, nonostante ci sono dipendenti in funzione e detenuti che si rivolgono alla struttura, l'ufficio non funziona. "L'ufficio del Garante ha negli anni stipulato 30 protocolli d'intesa con le associazioni di volontariato che operano all'interno delle carceri, in un anno ha effettuato 2 mila colloqui, circa 4 mila pratiche e ricevuto lettere anche da detenuti "eccellenti". Inoltre grazie al lavoro quotidiano è stato possibile appurare, denunciare e dunque trasferire i detenuti, che hanno subito abusi, anche sessuali, o maltrattamenti. I casi più gravi accertati all'interno del carcere Piazza Lanza, a Catania, e al Pagliarelli, Palermo". A raccontare cosa ha fatto l'ufficio del Garante, dal giorno dell'istituzione, è una dipendete, Gloria Cammarata, che afferma: "Di Stefano Cucchi ce ne sono tanti in tutt'Italia, anche in Sicilia. Il Garante si è costituito parte offesa per ogni caso di morte avvenuto in carcere ed alcuni casi sono stati riaperti per scoprire che non erano suicidi". "Da 2 anni però ci troviamo in uno stato d'incertezza, nonostante i solleciti fatti al Presidente della Regione, Rosario Crocetta". "In pratica ogni giorno gli impiegati arrivano, si siedono e aspettano le ore 14 per uscire". "L'ufficio - afferma Cammarata- è stato un grande punto di riferimento per i detenuti siciliani e non solo. Lo è stato, infatti, anche per gli avvocati e per i familiari". A confermarlo c'è una petizione firmata dagli stessi detenuti, che chiedo l'assegnazione del garante, e le lettere, sigillate, arrivate dai diversi penitenziari. "Non possiamo aprirle perché sono intestate ancora a Salvo Fleres, ex garante, e quindi non possiamo intervenire nelle richieste di aiuto, abbiamo anche ricorsi pronti, di casi appurati ed accertati, ma non possiamo presentarli". A sollevare la polemica negli ultimi 2 anni sono stati anche i costi dell'ufficio, 500mila euro. "Oggi l'ufficio è composto - spiega Cammarata - da un dirigente che si trova nella sede di Catania, 4 dipendenti a Catania e 2 a Palermo. L'ufficio costava 16 mila euro l'anno più i costi di gestione, cioè acquisto di materiale per ufficio, spostamenti del personale per andare a trovare i detenuti e gli stipendi dei dipendenti, che comunque sono distaccati da altri uffici regionali". E adesso? "Siamo dimenticati, senza risposte e con la preoccupazione di essere cancellati". Il garante sarà, secondo la bozza, un autority e sul personale non c'è nessun accenno, se non: "L'articolo 16, comma 4 della legge regionale 6 febbraio 2008, n. 1, è abrogato". Firenze: le Associazioni protestano "assurdo trasferire internati dell'Opg a Solliccianino" La Nazione, 16 aprile 2015 "C'è mancanza di rispetto per la dignità e i diritti delle persone svantaggiate, così dei detenuti del Gozzini come dei pazienti di Montelupo". Una lettera scritta da alcune associazioni di volontariato che operano nel carcere di Sollicciano e al Gozzini (Solliccianino) esprime la contrarietà di queste associazioni verso la decisione della Regione Toscana di trasferire un gruppo di internati dell'Opg di Montelupo all'interno del Gozzini. A firmarla sono Pantagruel, L'Altro Diritto, Associazione volontariato penitenziario, Gruppo carcere delle Piagge, Associazione Il Muretto, Alessandro Santoro (volontario penitenziario) e Coordinamento chiese evangeliche per le persone detenute di Firenze. "Questo Istituto è un carcere a sorveglianza attenuata - si legge nella lettera - con celle aperte tutto il giorno, ove è in atto da diversi anni un importante lavoro di recupero e di risocializzazione dei detenuti, organizzato dal personale educativo del carcere secondo un ricco ed efficace programma di attività culturali, sportive e lavorative, ad alcune delle quali collaborano anche nostri volontari. La decisione della Regione è destinata ad interrompere questa esperienza, considerata l'impossibilità di conciliare, in una medesima struttura, presenze così diverse, che richiedono gestioni completamente difformi. La Legge 81 del 2014, che stabilisce la chiusura degli Opg, prevede l'inserimento degli internati psichiatrici in strutture (Rems) non più carcerarie, bensì a completa ed esclusiva gestione sanitaria, con servizi di sicurezza soltanto esterni. Non riusciamo a capire come si possa pensare di trasferire internati dei vecchi Opg da un carcere ad un altro carcere, contravvenendo in tal modo alla lettera e allo spirito della Legge 81. Questo anche significa, a nostro parere, mancanza di rispetto per la dignità e i diritti delle persone svantaggiate, così dei detenuti del Gozzini come dei pazienti di Montelupo. Avevamo avuto notizia che erano state individuate altre soluzioni, a nostro parere del tutto appropriate, come, ad esempio, la struttura sanitaria dismessa di Villanova, sulla collina di Careggi. Ha prevalso evidentemente, su ogni altra, la preoccupazione securitaria, anche se è per noi difficile pensare che detta preoccupazione potesse riguardare la vicinanza dell'ospedale Meyer. Cgil: internati Opg non vadano a Solliccianino Sul futuro degli internati dell'Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Montelupo Fiorentino, la Cgil esprime "preoccupazione e forte perplessità per la soluzione individuata dalla Regione" perché "anziché' risolvere un problema si rischia seriamente di crearne due". Se la legge Marino impone la chiusura delle strutture, la gestione degli ex internati, ricorda il sindacato, è demandata alla Regione Toscana e al Servizio sanitario nazionale. La Regione quindi, per quei pazienti in situazione di maggiore gravità, non dimissibili, ha optato per l'ala dedicata alla detenzione attenuata del Mario Gozzini, più noto come carcere di Solliccianino. Una scelta contestata dai detenuti -preoccupati di dover tornare, almeno parte di loro, nelle carceri ordinarie per far posto agli internati gravi- e dal sindacato che rintraccia "l'evidente rischio di compromettere una esperienza di rilevante valore sociale e civile come quella della custodia attenuata prevista all'istituto Gozzini. Una struttura, quella di Solliccianino, impegnata sin al 1989 nella realizzazione di interventi terapeutici e psico-socio-educativi a favore di una parte della popolazione detenuta. Un fiore all'occhiello nel settore del trattamento riabilitativo e del reinserimento sociale, così come previsto dalla Costituzione". Per la Fp-Cgil, inoltre, altro fondamentale elemento di preoccupazione sta proprio nella legge Marino, che ha disponendo la chiusura degli Opg, ha escluso che le Rems, strutture residenziali socio-sanitarie per l'esecuzione della misura di sicurezza, siano collocate all'interno di strutture penitenziarie come è appunto l'istituto Mario Gozzini. "Si disattendono in tal modo- sottolinea il sindacato- il senso e le finalità della legge che ha voluto separare il trattamento sanitario, pur in situazione di custodia e di sicurezza, dalla condizione detentiva". Infine, conclude la Cgil, i lavoratori "che non sono solo dipendenti pubblici, ma anche quelli che lavorano per i servizi esternalizzati, hanno diritto di sapere quale sarà il loro destino lavorativo e come dovranno organizzarsi con le loro famiglie. In questi anni si è costituito un patrimonio di professionalità che non può essere disperso o dequalificato". Caltagirone (Ct): costruzione nuovo padiglione detentivo bloccato dallo scorso novembre di Mariano Messineo La Sicilia, 16 aprile 2015 Il carcere calatino di contrada Noce attende ancora di essere ristrutturato. Maledetta burocrazia. I lavori per la costruzione di un nuovo padiglione nella casa circondariale di Caltagirone (una delle tre carceri siciliani - le altre sono Trapani e Siracusa - a essere interessate da questi interventi), che comportano un investimento di ben 11 milioni di euro, sono bloccati da novembre a causa del protrarsi dei tempi necessari per alcuni "passaggi". Il 31 luglio 2014, infatti, sono cessate con decreto le funzioni del commissario straordinario del Governo per le infrastrutture carcerarie. Risale invece al 10 ottobre scorso il decreto ex piano carceri che suddivide le competenze prima commissariali fra il ministero delle Infrastrutture e il ministero della Giustizia, attribuendo al primo la titolarità degli interventi riguardanti il carcere di Caltagirone e altre strutture interessate da interventi con le stesse caratteristiche. È pertanto il Ministero delle Infrastrutture a subentrare nelle convenzioni, nei protocolli, nei rapporti attivi e passivi, nei contratti di lavori, forniture, servizi e di collaborazione relativi alla struttura penitenziaria calatina. Fatta chiarezza su questo aspetto, si attende adesso la ripresa dei lavori che, stando a notizie giunte da fonti accreditate, dovrebbe avvenire in tempi brevi. Sinora le opere effettuate costituiscono il 25% circa dei lavori complessivi. Effettuati gli interventi di carpenteria, restano infatti da fare pavimenti, facciate, impianti e altro ancora. "Ci rifiutiamo di pensare che siano solo difficoltà di ordine burocratico - afferma Salvatore Lo Balbo, della segreteria nazionale Fillea Cgil - questo è anche un problema di volontà politica, che va al più presto chiarito, ponendo fine a questa situazione di impasse che riguarda numerosi e attesi interventi nel settore. Il paradosso - aggiunge Lo Balbo - è che ancora non c'è alcuna notizia ufficiale sui tempi per il riavvio delle opere. Auspichiamo che agli impegni di legalità negli appalti assunti dal commissario per i vari lavori nelle carceri venga adesso data continuità. Occorre che la macchina dei controlli preventivi messa in campo attraverso i protocolli di legalità, venga fatta ripartire al più presto per evitare fenomeni di presenza mafiosa e di abbassamento delle tutele dei lavoratori". Con il nuovo padiglione, la capienza della casa circondariale calatina sarà aumentata di 200 unità. Attualmente i reclusi sono poco più di 260, ma il penitenziario ne ha ospitati anche 300. È invece già pronto, ma si attende il definitivo via libera per il suo utilizzo, il nuovo reparto (ex infermeria) per un centinaio di ospiti. Ciò significa che, nel giro di un paio di anni, il carcere di Caltagirone è destinato a contenere sino a 600 detenuti e a diventare, quindi, una delle strutture penitenziarie con il maggior numero di ospiti in Sicilia. Genova: la Uil-Pa denuncia "una bombola d'ossigeno nel corridoio della Sesta Sezione" www.ligurianotizie.it, 16 aprile 2015 Da tempo la Uil-Pa Penitenziari segnala l'incauta e "irresponsabile" presenza di una bombola d'ossigeno nel corridoio del Piano Terra Sesta Sezione. A denunciarlo è Fabio Pagani, Segretario regionale della Uil-Pa Penitenziari - che aggiunge - "fino a qualche giorno fa le bombole di ossigeno erano addirittura due ed erano utilizzate per due detenuti italiani con seri problemi respiratori". Pagani punta il dito contro l'Amministrazione Penitenziaria e soprattutto contro l'Asl che pur avendo a disposizione un Centro Clinico, preferisce curare i detenuti in reparti comuni con tutto il pericolo del caso, come avvenuto in uno scoppio a Milano il 12 aprile scorso, causato da una bombola d'ossigeno che ha praticamente carbonizzando due persone e distrutto l'intero stabile. "Questa volta - precisa il sindacalista - a rischio ci sarebbero circa 80 detenuti nel reparto sesta sezione e soprattutto i Poliziotti Penitenziari in servizio" Avellino: detenuto rischia di morire soffocato, non c'è pace per il carcere di Ariano Irpino di Gianni Vigoroso www.ottopagine.it, 16 aprile 2015 Un boccone di cibo di traverso e rischia di morire soffocato, pomeriggio rocambolesco per un detenuto cinquantenne rinchiuso nel carcere di Ariano Irpino. Prima la corsa in ospedale al pronto soccorso dell'ospedale Sant'Ottone Frangipane accompagnato dai sanitari del 118 (con il supporto mediante staffetta da parte di carabinieri e polizia penitenziaria), dove l'uomo è stato sottoposto a tutti gli esami del caso, poi il trasferimento verso il Moscati di Avellino, interrottosi per strada prima di imboccare l'A16 Napoli Bari, essendosi ripreso quasi per miracolo, dopo aver espulso il boccone rimasto incastrato nella parte iniziale della trachea. Ai sanitari e agenti non è rimasto altro che fare dietrofront verso la struttura sanitaria arianese, dove il detenuto oramai ripresosi dal problema "ab ingestis", è stato sottoposto ad un una ulteriore visita medica e successivamente dimesso e trasferito nella sua cella. Ancora una giornata in affanno per il personale della casa circondariale arianese, dopo gli ultimi gravi episodi avvenuti a cascata tra cui l'aggressione a due agenti e il l'ingestione di lamette da parte di un detenuto extracomunitario. Una vicenda quest'ultima, gestita così come le altre in precedenza con grande rapidità e professionalità. Perugia: due detenuti hanno partecipato al premio nazionale "Giornalisti Nell'Erba" di Cristina Ventura La Stampa, 16 aprile 2015 Si è presentato così: "Ho 28 anni e sono un fine-pena-mai". Ha commesso un omicidio, quando era poco più che un ragazzino. Come lui Emanuele, che di anni ne ha 27, stesso reato, stessa pena e un figlio a casa ad aspettare. Loro sono i due giovani detenuti del carcere di San Gimignano che hanno partecipato al premio nazionale Giornalisti Nell'Erba. Antonio ed Emanuele hanno una vita da passare dietro le sbarre, ma hanno trovato una nuova finestra per guardare l'orizzonte, un "oltre" per vedersi nel mondo. Gliel'ha portato in carcere una psicologa e tutor del progetto, Michela Salvetti, il giorno che gli ha proposto di iscriversi al premio di giornalismo ambientale. Mercoledì 15 aprile alle 14, all'Hotel Sangallo di Perugia durante il panel di Giornalisti Nell'Erba, al Festival Internazionale del Giornalismo, si potranno ascoltare Emanuele e Antonio, le loro letture e scritture, il racconto di Michela Salvetti che li ha seguiti, e le riflessioni dello scrittore e giornalista Gaetano Savatteri e di Carmelo Sardo, autore di "Malerba", scritto a quattro mani con Giuseppe Grassonelli, all'ergastolo per crimini mafiosi. Modera Alfredo Macchi. Attraverso la scrittura, un mezzo nuovo da sperimentare, Emanuele e Antonio hanno trovato un nuovo modo per guardare lontano, per entrare in contatto con il mondo esterno, per essere in un certo senso pari ai coetanei, facendosi leggere da loro. Hanno riscoperto l'importanza delle loro radici e del territorio in cui vivevano, del rispetto della natura da cui l'uomo dipende, ma anche come luogo psichico che li ha profondamente segnati. Antonio viene dalla Sicilia ed ha descritto il legame intimo che lo lega al mare, mentre Emanuele, calabrese, ha raccontato il rapporto con la sua terra e con tutte le persone che gli hanno insegnato ad amarla, in un viaggio nella memoria a partire dai colori e dagli odori. "L'iscrizione a questo concorso vuole essere una possibilità di confrontarsi con dei coetanei, di andare oltre i confini della loro cella, di ritrovarsi ragazzi e non solo carcerati, di riappropriarsi di un rapporto positivo con l'ambiente in cui sono cresciuti", dice Salvetti. Nei loro articoli, attraverso l'indagine giornalistica nei gesti di un quotidiano passato e nei ricordi di famiglie fortemente legate alla terra, "ritrovano nella salvaguardia dell'ambiente valori diversi da quelli dell'illegalità". Ed è proprio grazie a questo viaggio nella memoria che sono stati obbligati, attraverso l'esercizio della scrittura, ad ordinare gli eventi della vita, a fare chiarezza, aprendosi a sentimenti e paure e, infine, affrontare anche i crimini. "Non bisogna mai dimenticare che c'è stata una vittima e loro ne sono responsabili" continua la psicologa, "ma la pena dovrebbe divenire un progetto per favorire la riabilitazione". La scrittura giornalistica, la possibilità di scrivere e anche di farsi leggere, sembra che abbia gettato qualche base per il viaggio lungo e difficile del reinserimento nella società. Avellino: convegno; prevenire la violenza sui minori, medicina e giustizia a confronto Il Quotidiano, 16 aprile 2015 Una riflessione sugli strumenti per prevenire la violenza sui minori che riunisca intorno allo stesso tavolo medici, giudici dei tribunali e politici. È il convegno, "I minori e la violenza. Maltrattamenti, abusi", in programma domani, a partire dalle ore 9, nell'aula magna dell'Azienda "Moscati" (Città Ospedaliera, settore B, primo piano). Dopo i saluti del Direttore Generale dell'Azienda "Moscati", Giuseppe Rosato, e del Presidente Lions Club Avellino Host, Concita De Vitto, apriranno i lavori del convegno Mirella Galeota e Maricetta Speranza Sanfilippo, responsabile nuovo service distrettuale Lions Violenza sui minori. Donatella Palma, medico-chirurgo presidente dell'Associazione Neuropsichiatria Infanzia e Adolescenza in Rete Campania, fornirà quindi indicazioni per riconoscere le violenze e gli abusi sui minori, mentre la psicoanalista Maria Luisa Califano, componente della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica, parlerà del significato psicodinamico della violenza. La mattinata si chiuderà con gli interventi del neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale Aldo Diavoletto, che parlerà della violenza negli adolescenti, e della psicologa e psicoterapeuta dell'età evolutiva Rosanna Gentile, che relazionerà sulle forme della violenza. I lavori della sessione pomeridiana si apriranno, alle ore 14.30, con gli interventi, moderati dalla giornalista Marina D'Apice, del neuropsichiatra infantile Carlo Barbati, giudice onorario presso il Tribunale per i minori di Napoli che parlerà delle memorie della violenza e di Pasquale Andria, Presidente del Tribunale per ì Minorenni dì Salerno, che relazionerà sul tema "La giurisprudenza come interviene?". Il convegno si chiuderà con un dialogo tra istituzioni sui metodi per il riconoscimento e la prevenzione della violenza, che vedrà confrontarsi il consigliere della Regione Campania Rosa D'Amelio, presidente della in Commissione consiliare speciale in materia di politiche giovanili, lo psichiatra psicoterapeuta Antonio Acerra, Direttore della sede di Avellino della Scuola Romana di Psicoterapia Familiare, il neurofisiopatologo e neuropsichiatra infantile Salvatore Baga-là, direttore del Dipartimento Materno-Infantile dell'Asp di Crotone e il deputato parlamentare Guido Milanese, direttore dell'Unità operativa di Psichiatria dell'Asl Salerno 3. Le conclusioni della tavola rotonda saranno affidate a Renato Rivieccio, Vicegovernatore del Distretto 108. "Il nostro obiettivo - spiega ancora la dottoressa Galeota - è quello di dare voce ai più piccoli, ma anche soffermarsi su quanta importanza assumano la comunicazione e la diffusione di alcuni concetti per incidere e sollecitare un'educazione alla civilizzazione. Di qui l'idea di promuovere un dialogo interdisciplinare tra i soggetti, che, a vario titolo, intervengono nella cura e nell'aiuto ai minori". Messina: "un calcio ai pregiudizi", detenuti contro studenti... e vince lo sport di Antonio Maimone www.sicilians.it, 16 aprile 2015 Si è concluso con la vittoria di una rappresentativa di detenuti di diverse nazionalità il triangolare di calcio a 7 "Un calcio ai pregiudizi" giocato con due compagini universitarie composte da studenti universitari e collaboratori del Cus Unime nel campo del carcere di Gazzi. Il rettore dell'Università di Messina Pietro Navarra e il direttore della casa circondariale Calogero Tessitore, hanno voluto organizzare l'evento "per rilanciare una visione dello sport come strumento di promozione di valori meritevoli e di tutela sociale, quali il rispetto reciproco dei contendenti, la solidarietà e il sacrificio individuale a vantaggio del risultato collettivo". L'evento, nato da un'idea del delegato alle attività sportive dell'Università Daniele Bruschetta, è stato una vera e propria festa dell'amicizia che ha superato qualsiasi barriera, in cui lo sport non ha rappresentato solo una parentesi agonistica, ma soprattutto un momento di impegno civile e sociale. Tutti i rappresentanti delle istituzioni si sono dichiarati entusiasti per la perfetta riuscita del torneo e hanno annunciato nuove iniziative per il futuro. Larino (Cb): poesia e musica in carcere, perché c'è una vita al di là del proprio passato www.termolionline.it, 16 aprile 2015 C'è una forza straordinaria nella cultura, è quella capace di toccare dritto al cuore, ai sentimenti e capace di cambiare ogni cosa: è questa la poesia, una passione che da oltre un decennio accompagna la detenzione di Francesco Luigi Frasca, una passione che grazie a don Marco Colonna si è trasformata in un libro presentato nella casa circondariale di Larino. È una storia di riscatto quella di Francesco, oggi 30 ma da oltre un decennio recluso. Il suo passato non lo spaventa più perché conserva la certezza che nonostante le sbarre è libero, libero nel cuore grazie alla sua passione, ai suoi studi e alla capacità che ha avuto negli anni di comprendere il passato e puntare dritto a costruire un futuro migliore. Si emoziona mentre parla, la sua è una ordinarietà dal sapore di "straordinario" perché forgiata nella difficoltà con l'imprinting di chi ha un obiettivo e vuole realizzarlo. Parla della mamma, dei compagni di sbarre, dei professori e della direttrice ma anche dei preti e di quella che è diventata la sua passione: la poesia. Per Francesco Luigi Frasca: "riassumere tutto in una parola sarebbe molto difficile per me perché la poesia per me è stato un lungo percorso che mi ha visto crescere, aprirmi alla società esterna e soprattutto per me la poesia oggi rappresenta un punto di riscatto mi rifaccio delle parole del Pascoli che diceva che la poesia sono quelle parole che tutti abbiamo sulla labbra ma nessuno osa dire, invece il poeta le scrive. Io scrivo poesie per pronunciare le parole che gli altri o che io stesso non voglio dire nelle situazioni in cui andrebbero dette. La poesia per me rappresenta libertà, andare oltre le sbarre e quel muro che per me è invisibile ed è un punto non di arrivo ma di inizio per la mia vita futura". L'appuntamento culturale nella casa circondariale di Larino è segno della capacità di un istituto di accompagnare i propri "ospiti", come ama chiamarli Rosa La Ginestra e farlo fondendo il riscatto nella cultura che è sì poesia, ma è anche musica. Quella di Simone Sala, tra i pianisti più apprezzati nel panorama nazionale che ha accompagnato i versi interpretati dai detenuti e contenuti nella raccolta "I segreti dell'anima". Parte invece dal presupposto che "la musica e la letteratura, l'arte e la poesia siano la vera grande libertà e la speranza che può essere raccontata attraverso i suoni di un pianoforte o di un brano", il pianista Simone Sala che aggiunge: "il mio sogno era quello di portare un messaggio di speranza alle persone che non sempre possono godere di quello che è un concerto musicale vero e proprio. L'idea di questo progetto è nata un po' per scherzo e un po' per caso perché ho conosciuto una persona che era stata in questo carcere e mi ha raccontato della sofferenza e siccome io penso che la musica sia il più grande antidepressivo che esista al mondo, un antidepressivo che dà una buona dipendenza quel giorno ho pensato e sognato di portare la musica all'interno di questo istituto e poi la fortuna quest'anno che mio cugino è diventato professore all'interno dell'istituto e siamo riusciti ad arrivare alla direttrice, alla preside e a fare una proposta e loro l'hanno caldamente accettata e ci hanno aiutato". Gli fa eco la direttrice del carcere Rosa La Ginestra che evidenzia: "musica e poesia sono, con tutta probabilità, quello che non ti aspetti di incontrare in carcere ma che oggi riusciamo a mettere insieme in maniera inaspettata. Il messaggio è quello di trovare i canali diversi per arrivare al cuore delle persone e convincerle che ci sono percorsi diversi di reinserimento. La musica è il mezzo più efficace per arrivare al cuore in profondità e la poesia è la stessa cosa del resto nasce all'interno e il nostro ospite che ha fatto tesoro di quella che è la sofferenza di stare in carcere riuscendo ad arrivare a versi di grande efficacia e sensibilità. Sono tentativi e percorsi diversi, input che vengono dati a tutta la collettività per dire che il carcere ha tanto di positivo, tanto da poter dare all'esterno e da poter far crescere all'interno. Un grande entusiasmo perché c'è l'incontro con la collettività esterna che è sempre molto auspicato dai detenuti e perché una buona parte della manifestazione è incentrata su uno di qui, uno di noi, uno che è cresciuto all'interno, ha vissuto e continua a vivere e vivrà ancora per un certo periodo quelle che sono le difficoltà di stare all'interno del carcere ed è la dimostrazione che anche dall'interno si può uscire e si può uscire alla grande". Il resto della giornata è tanta emozione, quella messa in versi nelle poesie e quella che ha solcato i volti commossi dei tanti che hanno preso parte all'appuntamento. Applausi per don Marco Colonna, cappellano del Carcere, ma anche per don Benito Giorgetta e la preside e vicesindaco Maria Concetta Chimisso che tanto si sono speri nella realizzazione di questo progetto; presenti in sala tanti detenuti, ma anche i genitori di Francesco Frasca. Uomini "duri" per molti, ma sempre uomini, persone capaci di emozionarsi, perché nessuno è il suo errore, come professava don Oreste Benzi ma anche cambiare ed andare avanti… e a volte riuscirci anche grazie solo a qualche poesia e qualche nota. Iran: 8 detenuti impiccati in una prigione di Karaj, condannati per reati legati alla droga www.ncr-iran.org, 16 aprile 2015 Nella prigione centrale della città di Karaj lunedì scorso sono stati impiccati otto detenuti, condannati a morte per reati legati alla droga. I media di stato in Iran, parlando delle esecuzioni, non hanno fornito altre informazioni sulle vittime. I detenuti della prigione di Gohardasht e della prigione centrale di Karaj hanno inscenato una protesta domenica per salvare decine di loro compagni di cella in procinto di essere giustiziati. I detenuti hanno attaccato le guardie della prigione con sassi e vetri rotti e sono penetrati nel cortile. Domenica pomeriggio nella prigione di Karaj, sono continuati gli scontri con le guardie della prigione. I detenuti hanno gridato "Non ci lasceremo uccidere!". Intanto le famiglie riunite di fronte al tribunale di Karaj gridavano "Non ve li lasceremo giustiziare". (ascolta le grida strazianti delle famiglie dei detenuti che rischiano l'esecuzione) Domenica la Resistenza Iraniana ha chiesto un'azione immediata del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, del Governo degli Stati Uniti e dell'Unione Europea per fermare questo trend in crescita delle esecuzioni in Iran ed ha chiesto agli organismi in difesa dei diritti umani di lanciare una campagna mondiale contro le violazioni dei diritti umani in Iran. Uzbekistan: la denuncia di Amnesty "Usa ed Europa chiudono un occhio sulla tortura" Agenparl, 16 aprile 2015 Un rapporto diffuso ieri da Amnesty International ha accusato Usa, Germania e altri paesi dell'Unione europea (Ue) che continuano a ignorare la tortura dilagante in Uzbekistan, di permettere che orrendi abusi si perpetuino indisturbati. Il rapporto di Amnesty International, intitolato "Segreti e Bugie: confessioni forzate sotto tortura in Uzbekistan", rivela come la tortura e i maltrattamenti sistematici abbiano un ruolo centrale nel sistema giudiziario dell'Uzbekistan e nelle misure repressive del governo nei confronti di ogni gruppo percepito come minaccia alla sicurezza nazionale. Secondo Amnesty International, la polizia e le forze di sicurezza ricorrono con frequenza alla tortura per estorcere confessioni, intimidire intere famiglie od ottenere tangenti. "In Uzbekistan, non è un mistero che chiunque non ricada nei favori delle autorità possa essere arrestato e torturato. Nessuno si sottrae alla morsa dello stato" - ha dichiarato John Dalhuisen, direttore del programma Europa e Asia centrale di Amnesty International, lanciando il rapporto a Berlino. "È vergognoso che molti governi, incluso quello degli Usa, chiudano gli occhi di fronte al dilagare della tortura, probabilmente per paura di turbare un alleato nella ‘guerra al terrorè. Altri governi, come la Germania, sembrano essere più preoccupati di portare avanti gli interessi economici che di sollevare l'argomento". A ridosso del maggio 2015, decimo anniversario dell'uccisione di massa di centinaia di oppositori ad Andijan, il rapporto di Amnesty International evidenzia come Usa e stati membri dell'Ue, inclusa la Germania, abbiano segretamente posto la sicurezza e gli interessi politici, militari ed economici davanti a ogni significativa azione per persuadere le autorità uzbeke a rispettare a pieno i diritti umani e fermare la tortura. Le sanzioni imposte dall'Europa all'Uzbekistan dopo il massacro del 2005 ad Andijan sono state annullate nel 2008 e nel 2009, con la revoca del divieto di viaggio e la ripresa della vendita di armi, nonostante nessuno sia stato punito per quelle uccisioni. L'ultima volta che i ministri degli Affari esteri dell'Ue si sono occupati della situazione dei diritti umani in Uzbekistan risale all'ottobre 2010. La Germania in particolare ha stretti legami militari con l'Uzbekistan. Nel novembre 2014, ha ottenuto il rinnovo della concessione della base aerea di Termez per aiutare le truppe tedesche in Afghanistan. Il 2 marzo 2015, Germania e Uzbekistan hanno concordato investimenti per 2,8 miliardi di euro e un pacchetto di scambi commerciali. Il governo degli Usa, a sua volta, ha annullato nel gennaio 2012 le limitazioni in tema di aiuti militari all'Uzbekistan originariamente imposte nel 2004 in parte a causa della situazione dei diritti umani nel paese. Quest'anno, le relazioni militari tra i due stati si sono rafforzate in modo significativo con la messa in atto di un nuovo programma quinquennale di cooperazione. Nel dicembre 2014 il vicesegretario di stato statunitense per l'Asia centrale, Nisha Biswal, ha dichiarato che Washington usa la "pazienza strategica" nei rapporti con l'Uzbekistan. "L'atteggiamento dei partner internazionali dell'Uzbekistan verso il suo ricorso abituale alla tortura sembra essere, nel miglior dei casi, ambiguo e, nel peggiore, tollerante fino al punto da risultarne complice. Gli Stati Uniti descrivono le relazioni con l'Uzbekistan come una politica di pazienza strategica, ma sarebbe meglio chiamarla ‘indulgenza strategicà. Gli Usa, la Germania e l'Ue dovrebbero immediatamente chiedere all'Uzbekistan di far luce sulle sue azioni e fermare la tortura" - ha sottolineato John Dalhuisen. "Il divieto internazionale di tortura è assoluto e immediato. Tuttavia, mentre Germania e Stati Uniti rafforzano i legami con l'Uzbekistan, in questo paese le persone sono arrestate dalla polizia, torturate fino a rendere confessioni false e sottoposte a processi iniqui. Continuando a fare affidamento sulle confessioni forzate, l'Uzbekistan rimarrà un partner screditato" - ha commentato Dalhuisen. Il rapporto di Amnesty International, basato su più di 60 interviste condotte tra il 2013 e il 2015 e da prove raccolte in 23 anni, rivela l'esistenza di camere di tortura con pareti rivestite di gomma e isolate acusticamente a disposizione dal Servizio di sicurezza nazionale (Snb, la polizia segreta dell'Uzbekistan) e documenta il continuo uso di celle di tortura sotterranee nelle stazioni di polizia. Polizia e agenti dell'Snb impiegano tecniche brutali, tra cui soffocamento, stupro, scosse elettriche, esposizione a temperature estreme, privazione di sonno, cibo e acqua. Il rapporto descrive anche pestaggi prolungati da parte di gruppi di persone, inclusi altri detenuti. Un uomo, che non ha mai rivelato il motivo del suo arresto, ha raccontato cosa è successo dopo essere stato condotto nel sotterraneo di una stazione di polizia, nelle prime ore del mattino: "Ero in manette con le mani dietro la schiena… C'erano due agenti di polizia che mi picchiavano, mi davano calci, usando bastoni, ho perso conoscenza. Mi picchiavano ogni giorno, sulla testa, sui reni… Quando ho perso i sensi, mi hanno versato addosso dell'acqua per svegliarmi e continuare a picchiarmi". Il rapporto di Amnesty International documenta il ricorso diffuso alla tortura e altri maltrattamenti nei confronti di oppositori politici, gruppi religiosi, lavoratori migranti e imprenditori. A volte le autorità prendono di mira le famiglie delle vittime. Zuhra, un'ex detenuta, ha raccontato ad Amnesty International che gli agenti di sicurezza se la sono presa con tutti i suoi parenti, molti dei quali oggi restano ancora in prigione. Lei doveva presentarsi regolarmente al commissariato locale, dove veniva trattenuta e picchiata in quanto componente di una "famiglia estremista" e costretta a denunciare e incriminare i suoi parenti di sesso maschile: "Nella nostra casa non c'è pace. Quando ci svegliamo al mattino, se vediamo un'auto ferma davanti alla porta di casa, i nostri cuori battono più velocemente. In casa non ci sono più uomini. Nemmeno i miei nipotini". Una nuova testimonianza ricevuta da Amnesty International segnala l'impiego istituzionalizzato della tortura e dei maltrattamenti per estorcere confessioni e prove incriminanti su altri sospettati. Gli imputati sono spesso processati sulla base di prove estorte con la tortura. I giudici chiedono tangenti in cambio di sentenze clementi e la polizia e gli agenti dell'Snb minacciano o usano la tortura per ottenere elevate tangenti dalle persone arrestate o condannate. L'imprenditore turco Vahit Gunes è stato accusato di reati economici, tra cui l'evasione fiscale, e di essere in rapporti con un movimento islamico fuorilegge, accuse che egli ha respinto. È rimasto 10 mesi in un centro di detenzione dell'Snb, dove ha detto di essere stato torturato fino a firmare una confessione falsa. È stato di nuovo torturato quando la polizia segreta ha cercato di estorcere diversi milioni di dollari statunitensi alla sua famiglia in cambio del suo rilascio. La risposta ricevuta dopo aver chiesto di avere un avvocato illustra l'ingiusta e arbitraria natura del sistema penale uzbeko: "Uno dei procuratori mi ha detto: "Vahit Gunes, nell'intera storia dell'Snb nessuno è mai stato portato qui, dichiarato innocente e rilasciato. Tutti quelli che vengono portati qui sono colpevoli. Devono dichiararsi colpevoli". Vahit Gunes ha descritto le condizioni inumane, le intimidazioni psicologiche, i pestaggi e l'umiliazione sessuale subiti durante il periodo di detenzione: "Lì non sei più un essere umano. Ti danno un numero. Il tuo nome non è più valido. Ad esempio, il mio numero era 79. Non ero più Vahit Gunes, ero il 79. Non sei un essere umano. Sei diventato un numero". Messa fuorilegge nel 1992, la tortura in Uzbekistan è raramente punita. Persino i dati del governo mostrano gli alti livelli di impunità, con soli 11 agenti di polizia incriminati dal 2010 al 2013. Durante questo periodo, sono state registrate ufficialmente 336 denunce di tortura, delle quali solo 23 sono state indagate e sei portate a processo. Come se non bastasse, i casi sono spesso affidati alle stesse autorità accusate di tortura e le probabilità che le vittime ricevano giustizia e risarcimenti sono estremamente basse. Amnesty International chiede al presidente Islam Karimov di condannare pubblicamente il ricorso alla tortura. Le autorità dovrebbero inoltre istituire un sistema indipendente di ispezioni nei centri di detenzione e assicurare che confessioni e ulteriori prove ottenute con la tortura non siano mai usate in giudizio. Dopo quelli su Messico, Nigeria e Filippine, questo è il quarto di una serie di rapporti realizzati nell'ambito della campagna globale di Amnesty International "Stop alla tortura", lanciata nel maggio 2014. Solo negli ultimi cinque anni, Amnesty International ha documentato tortura e altri maltrattamenti in 141 paesi. Muhammad Bekzhanov è il redattore capo del quotidiano Erk, rivista di un partito di opposizione politica messo fuorilegge. Bekzhanov è anche uno tra i giornalisti ad aver trascorso più tempo in carcere al mondo, ben 16 anni. Nell'agosto 1999 un tribunale di Tashkent lo ha condannato a 15 anni dopo un processo iniquo, sulla base di una confessione estortagli sotto tortura. Poco prima della scadenza della pena, ha ricevuto una nuova condanna a quattro anni e otto mesi di carcere per una presunta violazione delle regole carcerarie. Bekzhanov è stato picchiato, soffocato e sottoposto a scariche elettriche ma non è mai stata aperta alcuna indagine sulle sue denunce di tortura. Israele: Human Rights Watch denuncia "i coloni sfruttano i bambini palestinesi" di Roberto Prinzi Il Manifesto, 16 aprile 2015 Uno degli aspetti meno dibattuti dell'occupazione israeliana della Cisgiordania è lo sfruttamento della manodopera palestinese, soprattutto minorile. Un rapporto intitolato "Maturi per l'abuso: il lavoro minorile palestinese negli insediamenti agricoli israeliani in Cisgiordania", pubblicato dalla ong Human Rights Watch (Hrw), rivela che le colonie, principalmente quelle della Valle del Giordano, impiegano bambini palestinesi anche di 11 anni (violendo la legge internazionale che stabilisce come età minima 15 anni) pagandoli poco e in condizioni di lavoro definite "pericolose". Negli insediamenti israeliani i bambini palestinesi lavorerebbero a temperature altissime trasportando carichi pesanti e sarebbero esposti agli effetti dannosi dei pesticidi. Secondo il rapporto, i bambini lasciano la scuola per raccogliere, pulire e confezionare gli asparagi, i pomodori, le melanzane, i peperoncini dolci, le cipolle e i datteri. In alcuni casi, sono i bambini stessi a provvedere alle spese mediche causate dalle condizioni di lavoro dure e pericolose a cui sono soggetti. L'area della Valle del Giordano è la zona in cui si trovano i maggiori insediamenti agricoli israeliani e corrisponde a circa il 30% della Cisgiordania. I 38 bambini intervistati sostengono di percepire 10 shekel all'ora (2.70 dollari) o 70 shekel (19 dollari) al giorno. In Israele e nelle colonie la paga media nel 2012 (l'ultimo dato al momento disponibile) era di 407 shekel (110 dollari) al giorno. Usa parole dure Sarah Leah Whitson, direttrice per il Medio Oriente e il Nord Africa di Hrw. "Le colonie israeliane fanno profitto abusando dei diritti dei bambini palestinesi i quali, provenendo da comunità impoverite dalla discriminazione di Israele e dalle politiche in vigore nelle colonie, abbandonano la scuola e iniziano lavori pericolosi perché pensano di non avere alternative. Di fronte a tutto questo, Israele chiude gli occhi". Ad essere colpevoli dello sfruttamento dei giovanissimi, sottolinea l'ong, sono però anche gli intermediari palestinesi (wasiit in arabo) il cui compito è quello di trovare manodopera a basso prezzo per i padroni israeliani. David Elhayani, a capo del Consiglio regionale della Valle del Giordano, ha definito "disonesti" i dati forniti da Hrw. Secondo Elhayani, il Consiglio impiega 6.000 palestinesi ogni giorno, ma non minori. "È una bugia orribile - ha dichiarato - non c'è alcuna giustificazione né morale, né legale e né finanziaria per impiegare dei bambini". Ma se sono difficili le condizioni di vita in Cisgiordania, restano drammatiche quelle nella Striscia di Gaza. Sei mesi dopo che i paesi donatori avevano promesso di destinare 5,4 miliardi di dollari per il piccolo lembo di terra palestinese devastato la scorsa estate dai 50 giorni dell' operazione militare israeliana "Margine protettivo", la ricostruzione continua a procedere molto lentamente e il denaro resta bloccato. Lo hanno denunciato ieri 45 associazioni e ong dell'Aida (Association of International Development Agencies). "Se non cambiamo corso ora e affrontiamo le questioni chiave, la situazione a Gaza continuerà a peggiorare. Senza una stabilità economica, sociale e politica, un ritorno ad un conflitto sarà inevitabile" ha detto la coalizione tra cui spiccano i nomi di Care International, Oxfam, Save the Children. "Solo il 26,8% del denaro è stato rilasciato, la ricostruzione è a mala pena cominciata e le persone a Gaza continuano a vivere in pessime condizioni" ha aggiunto Aida. Secondo il suo rapporto, la guerra ha distrutto 12.400 case e ne ha danneggiato 160.000 lasciando senza un tetto 100.000 palestinesi. Il documento critica entrambe le parti del conflitto ritenendole legalmente responsabili per la situazione che si è venuta a creare. "La comunità internazionale - si legge nel testo - deve chiedere una fine delle violazioni della legge internazionale e considerare responsabili tutte le parti. Deve, inoltre, fare in modo che ciò non si ripeta più".