Giustizia: per l'Unione europea la presunzione d'innocenza è un diritto fondamentale di Damiano Aliprandi Il Garantista, 15 aprile 2015 Iniziato iter per la Direttiva. Il giustizialismo è diventato un problema europeo e la commissiono europarlamentare vuole correre ai ripari. "La presunzione d'innocenza è un diritto fondamentale e anzitutto un principio essenziale che intende garantire da abusi giudiziari e giudizi arbitrari nei procedimenti penali!", ha dichiarato la francese Nathalie Griesheck, relatore del provvedimento in Commissione Libertà civili che prevede una normativa in grado di dissuadere le autorità giudiziarie nazionali dal fare dichiarazioni sulla colpevolezza di un condannato prima del giudizio definitivo, o che violino i principi dell'onere della prova (che spetta alla pubblica accusa), quello di rimanere in silenzio durante gli interrogatori e quello di essere presenti fisicamente al proprio processo. "proposta di direttiva nasce dal fatto che notiamo un'erosione del principio di presunzione di innocenza in diversi Paesi membri", ha aggiunto sempre la Griesheck, Il provvedimento della Commissione pone anche il problema dei mezzi di informazione molto spesso legati con le autorità giudiziarie che fanno da megafono. Infatti l'emendamento richiede ai Paesi membri di vietare alle autorità giudiziarie locali di dare informazioni - incluse interviste e comunicazioni in collaborazione con i media - che potrebbero creare pregiudizio o biasimo nei confronti di indagati o accusati prima della sentenza finale in tribunale. L'europarlamento in pratica chiede di promuovere un vero e proprio codice etico e di rispettarlo. Un altro aspetto dell'emendamento è quello di non far travisare - attraverso i mezzi di informazione - la legittima facoltà di non rispondere dell'imputato come "prova" di colpevolezza. "L'esercizio di questo diritto - spiega sempre la relatrice Nathalie Griesbeck - non deve mai essere considerato come una conferma dì una tesi sui fatti occorsi". Con l'approvazione della Commissione ora inizia il negoziato con il Consiglio Uè per poi arrivare alla formale proposta di direttiva. Sempre attraverso la suddetta Commissione, in questi giorni, ci si sta occupando della situazione carceraria e il commissario Nìls Muiznieks ha espresso gratitudine per i miglioramenti apportati per rimediare al nostro sovraffollamento penitenziario, ma ha precisato che ancora non abbiamo risolto definitivamente il problema. Nel corso di un'audizione della Commissione Libertà civili, è stato ascoltato il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri e consulente del Governo Renzi sui problemi della giustizia e la lotta alle mafie, ha dichiarato di non rallegrarsi per quello che è stato detto dal Consiglio d'Europa sullo svuotamento delle carceri in Italia. Ma sempre per Gratteri la soluzione è la costruzione di nuove carceri e non subire ciò che dice l'Europa. Gratteri, ricordiamo, solo per un soffio al momento della formazione del Governo Renzi non diventò ministro della Giustizia così come era stato annunciato. Giustizia: quando i processi si preferisce farli con le rotative di Francesco Damato Italia Oggi, 15 aprile 2015 Il "1992" raccontato da Sky, comprensivo però di fatti accaduti in anni successivi, e al netto di una certa fantasia confessata dagli stessi autori della fortunata seria televisiva, ha il merito di avere stimolato, fra critiche e condivisioni, anche qualche ammissione utile a capire meglio quella stagione. Che segnò sicuramente una svolta nella storia del paese, ma non esattamente quella che alcuni protagonisti immaginavano, compreso l'allora capo della Procura della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Del quale Claudio Martelli, in quell'epoca ministro della Giustizia, è tornato in questi giorni a citare le clamorose "scuse" chieste agli italiani per "il disastro seguito a Mani pulite", come furono chiamate le indagini su finanziamento illegale dei partiti, corruzione, concussione e ricettazione. "Non valeva la pena di buttare il mondo precedente per cadere in quello attuale", ha confessato Borrelli ottenendo il compiacimento di Martelli, inciampato pure lui fra le rovine, ma procurandosene anche le critiche. Già nel suo bel libro autobiografico "Ricordati di vivere" Martelli aveva lamentato un anno e mezzo fa "lo sciatto cinismo in quel verbo buttare". "Che è significato - aveva osservato l'ex guardasigilli - buttare un mondo fatto di essere umani, persone a vario titolo e in varia misura "buttate", cioè rovinate dalle indagini della Procura di Milano, del suo capo Borrelli e dei suoi sostituti, a cominciare da Di Pietro". A dare una mano decisiva a quella rottamazione, per usare un termine caro a Matteo Renzi e ai suoi sostenitori, furono i processi mediatici, svoltisi ben prima di quelli legittimi nelle aule dei tribunali, ma questa volta con verdetti inappellabili. O con le assoluzioni giudiziarie giunte troppo tardi, e spesso ignorate dalla stampa. O, ancor peggio, contraddette, se il malcapitato avesse avuto la disavventura di rifinire sui giornali, o telegiornali, per sentirsi dare del "coinvolto", senza neppure ricordare l'esito favorevole del processo o delle indagini subite a suo tempo. Indagini spesso non sfociate neppure nel rinvio a giudizio. I processi mediatici sono stati, e sono tuttora, l'autentica vergogna del giornalismo giustizialista. Come vergognose furono le immagini degli arresti, diciamo così in diretta, segnalati in quel 1992 e anni successivi da solerti inquirenti, o dintorni, ad altrettanto solerti giornali e telegiornali, pronti a mandare fotografi e telecamere sul posto e al momento giusto. Si arrivò addirittura alla ripresa televisiva e fotografica di un imputato in barella, prelevato quasi di notte. Ai vertici di giornali concorrenti si era presa, in quella stagione, persino l'abitudine di consultarsi ogni sera sui titoli e sulle notizie da sparare sulle prime pagine. Al pool dei magistrati impegnati a Milano, e poi anche altrove, nelle indagini su tangenti e quant'altro si accompagnava il pool dei cronisti giudiziari e dei loro direttori e capiredattori. Si deve a uno di questi, Piero Sansonetti, allora all'Unità, l'onestà di averlo poi testimoniato. Altrettanto onesta è l'ammissione fatta l'8 aprile scorso sul Giornale da Vittorio Feltri. Che, scrivendo appunto del 1992 trasmesso da Sky, e da lui vissuto alla direzione dell'Indipendente, ha raccontato dei suoi rapporti con Antonio Di Pietro e del ruolo di "trombettiere" svolto anche per salvare o ritardare la fine del proprio giornale, portandolo con le cronache di Mani pulite e i relativi commenti "da 20 mila a oltre 55 mila copie". "Se guidi una testata destinata al cimitero e scopri la terapia per tenerla in vita e rilanciarla, la applichi al meglio", ha scritto Feltri. Che dopo, ma molto dopo, avrebbe scritto che Di Pietro, da lui aiutato a essere "promosso eroe della giustizia dal popolo", era un magistrato dotato di "una spavalderia al limite dell'arroganza" ed "esagerato" nel ricorso agli arresti. Ma per le manette non bastavano le richieste di un sostituto procuratore, occorrendo anche giudici disposti ad accordarle, e perfino a suggerire all'inquirente (come si è poi scoperto in un caso rimasto senza conseguenze) cambi d'imputazione per poterle disporre. Senza conseguenze, dicevo, perché quel giudice nel frattempo era stato eletto dai suoi colleghi al Consiglio Superiore della Magistratura. Anche questo, purtroppo, è stato il 1992, per non parlare dei suicidi, eccellenti e no. Almeno sotto certi aspetti giudiziari e mediatici, quella stagione è spiacevole da ricordare, diciamo pure orribile, nonostante i contorni festosi ed erotici offerti al pubblico dalla rievocazione televisiva. Non furono, con la stagione di Mani pulite, solo i pm disinvolti ma anche i giornalisti collusi. Giustizia: detenuti trasferiti a casaccio… per far sembrare le carceri meno affollate di Marta Rizzo La Repubblica, 15 aprile 2015 I trasferimenti da Rebibbia presso altri penitenziari, disposti il 10 aprile scorso, sono stati revocati. Condannati che da un luogo di Alta Sicurezza spostati in luoghi lontanissimi e che ora tornano a Rebibbia. La soppressione del trasferimento per l'intervento del Garante dei Detenuti del Lazio al Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (Dap). I viaggi paradossali dei detenuti. Antonio Frasca (primo attore della compagnia Liberi Artisti Associati), Giancarlo Polifroni (attore, responsabile dell'orto del reparto A. S. di Rebibbia), Alessandro Limaccio (laureato in Sociologia, attualmente con un assegno di dottorato dell'Università La Sapienza), Kour Knors: queste solo alcune delle 20 persone che, inopinatamente, sono state trasferite dal carcere di Roma ad altri penitenziari: Aosta, Udine, altrove. Perché questo accade, che criterio si adotta per trasferire alcuni detenuti piuttosto che altri da un penitenziario all'altro del paese? Trasferimenti a casaccio. I trasferimenti degli arrestati delle carceri italiane non hanno un criterio. O meglio, nascono per snellire il sovraffollamento, più volte denunciato anche da Ue e Onu. Ma sui nomi dei trasferiti, si va a caso. L'anno passato, per esempio, Enzo Gallo e Dario Bonetti, altri due protagonisti della Liberi Artisti Associati, senza motivo alcuno sono stati spediti uno in Sardegna l'altro in Umbria, per poi essere riportati a Rebibbia in seguito a proteste simili a quelle di questi giorni. Ma allora un criterio c'è. "I trasferimenti - spiega Angiolo Marroni, Garante dei Detenuti del Lazio - seguono un parametro casuale, ma potrebbero anche avere lo scopo di "decapitare" l'attività teatrale e studentesca del Carcere A. S. di Rebibbia". Questo istituto di pena, infatti, è un luogo simbolo di civiltà ed emancipazione culturale dei detenuti a livello internazionale (il film dei fratelli Taviani, vincitore del Festival di Berlino 2012, è solo la punta dell'iceberg di un lavoro lungo e costruttivo che il Centro Studi Enrico Maria Salerno porta avanti a Rebibbia dal 2003). Ma allora, un criterio c'è. La logica degli spostamenti. "In passato, i direttori delle carceri segnalavano i trasferimenti per lo più di persone che non avevano motivi di natura familiare, lavorativa, scolastica a rimanere nell'istituto di provenienza - spiega Luigi Pagano, vice capo vicario del Dap. Ma oggi questi provvedimenti vengono adottati sempre più raramente, grazie a una diminuzione costante dei detenuti (si è passati, in un anno circa, da 64.000 a 53.900 attuali) e alla creazione di ulteriori posti detentivi. Questa situazione ci permette di mettere mano alla stabilizzazione dei circuiti penitenziari, previsti per legge, ovvero differenziare gli istituti in base ai diversi livelli di sicurezza: istituti di media sicurezza, alta sicurezza (dove sono detenute persone imputate o condannate per reati di criminalità organizzata, per esempio) e per 41 bis, nonché alla posizione giuridica dei carcerati (imputati o condannati). Una specie di "Commedia degli equivoci". Ciò per meglio modulare le istanze trattamentali, favorire la vicinanza al nucleo familiare, ma anche l'efficacia dei sistemi di sicurezza. C'è da chiarire, poi, che i trasferimenti sono subordinati al nulla osta dell'Autorità Giudiziaria che procede. E va sottolineato quanto, in questo percorso, siano importanti gli elementi di conoscenza forniti dagli operatori d'istituto, polizia penitenziaria compresa, rispetto alle decisioni finali che il Prap (Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria) o il Dap prenderanno". Sfugge il criterio, in questo mare di acronimi, parole e formule. Una commedia degli equivoci, è il caso di dire. Beffare l'Europa: il sovraffollamento. Spostare qualche decina di detenuti da un carcere all'altro, anche soltanto per poco tempo, per la verità serve ancora a far tornare i conti: se il numero di arrestati di una Casa circondariale supera il limite consentito dai parametri europei (e l'Italia ha superato spesso e di gran lunga quei parametri), pare sia una buona idea trasferire quelli in eccesso in carceri altre, magari lontanissime, purché i conti tornino. A scapito delle persone interessate, delle loro famiglie, dei soldi dei cittadini, investiti per pagare i viaggi. Il tutto senza affrontare il nodo cruciale, e cioè che il sovraffollamento è dovuto, per lo più, all'eccessivo utilizzo della carcerazione preventiva e della carcerazione per spaccio, uso o coltivazione di stupefacenti e soprattutto alla poca lungimiranza con cui si adottano misure punitive, sì, ma alternative al carcere. In questo paese. Trasferimenti volontari. Si può dire? "Oggi la maggior parte dei trasferimenti - prosegue Pagano - avvengono o nella logica di strutturare i circuiti, o in seguito alla richiesta degli stessi detenuti, ove questa fondi su motivi degni di accoglimento. È un processo iniziato da poco, e d'altronde con 66.000 persone detenute e una situazione carceraria che aveva portato alla condanna per trattamenti contrari al senso di umanità, prima era pura utopia anche pensarci, ma, permanendo e migliorando queste condizioni, contiamo di poter arrivare a stabilizzare un sistema penitenziario che sia rispondente ai dettami della Carta Costituzionale". Pur tuttavia, sfugge ancora il criterio e, d'altra parte, sfugge l'idea che, a parte singoli casi, decine di persone chiedano volontariamente di essere trasferite da un carcere all'altro. Se non per cambiare aria. Ma la cosa non convince. Perché "studenti" e "artisti" di Rebibbia? Le Case Circondariali italiane non hanno nulla a che fare con le case. Si chiamano così, ma sono dei luoghi di sospensione esistenziale, in attesa di concludere il tempo di pena in spazi fatiscenti. E però, Rebibbia Nuovo Complesso rappresenta un caso a sé. Si è accennato ai due attori spostati l'anno scorso; quest'anno, i nomi più eclatanti del primo attore della compagnia e del suo collega, ma anche carcerati laureati e con borse di studio universitarie. E pare non sia finita qui: "Le notizie su nuovi trasferimenti previsti - rivela il garante Angiolo Marroni - riguarderebbero altri detenuti, tra i quali Giacomo Silvano, laureato in Giurisprudenza e coordinatore del gruppo dei 24 studenti universitari dell'A.S.". E allora il dubbio viene. È forse nella scelta dei nomi, un criterio dunque c'è. O forse no: "Trasferire detenuti di A.S., che rappresentano la qualità e la coerenza nella rivisitazione del proprio passato e nel reale impegno di ravvedimento e reinserimento una volta finita la pena, è un comportamento senza senso da parte del Dap - continua Marroni. Il burocratismo, l'incapacità di capire il contesto in cui si decidono senza umanità tali trasferimenti, non ha scuse. Sappiamo che sono stati richiesti altri trasferimenti anch'essi privi di razionalità e che per il momento sono stati rinviati". Trasferimenti: violenze sui detenuti. Innegabile la violenza che si commette sui detenuti trasferiti, i quali scontano già le loro condanne in luoghi in cui vigono regole di aggressività, prevaricazione, nonnismo. In questi contesti, le deliberate deportazioni sono un ulteriore motivo d'angoscia, per i carcerati stessi e per le loro famiglie. "I trasferimenti rappresentano atti di violenza se non sono richiesti, non ho remore ad affermarlo, ancor più se immotivati - confessa il vice capo del Dap. So che ci tocca impersonare la parte dei cattivi, ma, a volte, dobbiamo operare anche scelte impopolari e non sempre siamo i soli a decidere, né abbiamo tante soluzioni praticabili. Ogni scelta, però, è frutto di accurate riflessione e in più può anche capitare l'errore. L'importante, allora, è che i provvedimenti avvengano dandone chiara motivazione, in modo che chi si ritiene ingiustamente trattato, possa far valere i propri diritti". Ma corre ancora l'obbligo di sottolineare che sfugge il criterio dei trasferimenti. Forse, un criterio non c'è. La positiva attenzione sulle questioni carcerarie. "Lo dico da operatore: ben venga l'impegno mediatico, specie per il mondo carcerario spesso condannato all'oblio - conclude Pagano - Chi opera in buona fede non deve avere timori di critiche. Noi vogliamo essere un'amministrazione aperta, basterebbe valutare quante persone entrano ogni giorno come volontari in istituto, i tanti progetti in corso, gli innumerevoli servizi giornalistici autorizzati. L'opinione pubblica deve essere messa nelle condizioni di conoscere. Io sono convinto che un carcere trasparente possa maggiormente garantire i diritti e aiuta anche noi a lavorare meglio. Solo vorrei che questa attenzione fosse costante e le luci rimanessero accese anche quando non vi sono notizie clamorose per lo più da cronaca nera, ma l'alimentare un dialogo tra carcere e mondo esterno privo di pregiudizi". Conoscere per informare. Ma sfugge il criterio di scelta dei trasferimenti. Che i detenuti tornino al loro teatro. Fabio Cavalli, regista della Compagnia Teatro Libero di Rebibbia, di ritorno da Parigi, dove ha tenuto una conferenza al Centre National du Theatre su Shakespeare in Carcere, si è dichiarato convinto che l'esperienza teatrale del penitenziario romano, celebre nel mondo, proseguirà e continuerà a crescere: "Difficoltà ne abbiamo incontrate tante in 12 anni di attività, ma buon senso e impegno rigoroso hanno sempre fatto la differenza - dichiara Cavalli - Incontrerò in questi giorni i miei attori e con loro valuterò la situazione". E dire che solo qualche settimane fa, questo giornale aveva raccontato del valore distintivo e scevro di ogni retorica che la Compagnia dei Liberi Artisti Associati ha, nel mettere in scena spettacoli di ogni tempo, dalle tragedie classiche a Shakespeare, da Brecht a Gogol. Giustizia: con i cosiddetti "reati tenui" resteranno impuniti delinquenti da far paura di Domenico Cacopardo (Magistrato) Italia Oggi, 15 aprile 2015 Mi avevano insegnato che tra legalità e illegalità non è possibile compromesso e che i grandi criminali hanno sempre iniziato commettendo piccolo crimini. Era tutto sbagliato. Tra legalità e illegalità è possibile un compromesso. Si chiama tenuità e riguarda tutti i reati con pena tabellare sino a 5 anni: il giudice si occuperà di quelli "realmente meritevoli" di sanzione, secondo la propria valutazione (discrezionale). E poi, in autunno, arriveranno le sospensioni dei procedimenti con la "messa in prova" dei rei e la riforma della custodia cautelare, applicabile solo nei casi più estremi con motivazioni stringenti e precise. Qui, il legislatore è incorso in un "lapsus freudiano", ammettendo indirettamente che l'uso della custodia cautelare è piuttosto "garibaldino" e insufficientemente motivato. Vediamo qualcuno dei reati per i quali è invocabile la tenuità. Solo alcuni, per carità di patria: abbandono di persone minori o incapaci; abusivo esercizio di una professione (vedi caso Stamina/Vannoni); abuso d'ufficio; arbitraria invasione e occupazione di aziende agricole o industriali e sabotaggio; appropriazione indebita; attentato a impianti di pubblica utilità; attentato alla sicurezza dei trasporti; stalking; commercio o somministrazione di medicinali guasti e di sostanze alimentari nocive; corruzione di minorenne; crollo di costruzioni o altri disastri dolosi; corruzione semplice; danneggiamento; deviazione di acque; evasione; fabbricazione o detenzione di materie esplodenti; frode nelle pubbliche forniture; furto; indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato; interferenze illecite nella vita privata; interruzione di pubblico servizio; invasione di terreni o edifici altrui; istigazione a delinquere; lesioni personali; lesioni personali colpose; millantato credito; minaccia; percosse; procurata evasione; resistenza a P.u.; rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro; rissa; sottrazione di persone incapaci; sottrazione e trattenimento di minori all'estero; stato d'incapacità procurato mediante violenza; truffa; violazione di domicilio. Anche se ne abbiamo saltati alcuni, l'elenco è imponente e comprende reati di forte impatto civile. Di fronte a questa prospettiva c'è una specie di incosciente indifferenza che, peraltro, è stata sempre abituale e rassegnata nell'Italia del pietismo cattolico (ben lontano dalla severità protestante), dell'idea - sbagliata - che l'indulgenza nei confronti dei rei è "progressista", e della follia, annunciata come una cosa "normale", della necessità di aprire le carceri, dato il loro affollamento. In questa categoria di reati si iscrive la maggior parte degli eventi che, quotidianamente, affollano le cronache e accentuano la paura degli inermi, dagli incidenti stradali, spesso causati da di alcol, o droghe pesanti e leggere (come l'amatissima "canna" che alcuni vorrebbero liberalizzare, dimenticando che essa, accoppiata all'alcol e al tabacco, diventa micidiale), alla violazione di domicilio e ai furti, quelli in cui sono specializzate bande di minori, in genere rom e solo rom, capaci di aggredire il "soggetto adatto" in cinque o sei, confonderlo e depredarlo. Ebbene sì, l'ho scritta la parola proibita "rom" o "zingaro", quella per la quale minacciano (solo una minaccia, peraltro) di svenarsi le anime belle, compresa l'ineffabile Boldrini. Domandatelo alle monache di piazza Corvetto a Milano, che eroicamente, ogni giorno, vanno a prendere i bimbi rom nei campi in cui vivono (senza igiene, preda di pericolose pantegane), li portano nella loro sede, li lavano, li vestono, li accompagnano a scuola, li riprendono, li aiutano a fare i compiti e li riportano dalle loro famiglie. Vi diranno anche che il furto, l'appropriazione della roba altrui, è inculcato proprio dalle famiglie, sin dalla tenerissima età, essendo considerato "normale esercizio" del loro modo di vivere, nel quale lo sfruttamento dei minori ha, da sempre, una criminale "quotidianità". E va ricordato che questi campi sono inaccettabili, che a ogni sgombro segue una rioccupazione, e che uno Stato occidentale non dovrebbe permetterne l'esistenza, prospettando alla comunità interessata una scelta secca tra lo stabilizzarsi in abitazioni dotate di tutti i servizi igienici o il continuare il nomadismo entro strettissimi limiti stabiliti dai comuni. E ancora, va ricordato che è l'indulgenza dell'autorità giudiziaria (da cui deriva quelle delle forze dell'ordine) a determinare la mancata repressione dei fenomeni, la mancata revoca della patria potestà a coloro che sfruttano i loro minori, la mancata difesa dei valori minimi di convivenza civile e democratica. Dunque, governo e parlamento decidono di depenalizzare la maggior parte dei reati che si registrano in Italia (abbiamo visto anche la violazione di domicilio se non è seguita da una rapina o da un'aggressione), dimenticando l'art. 42 della Costituzione, 2° comma: "La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge Da qualche giorno, essa è violabile, sicché se qualcuno entra in casa vostra e, spaventato dalle vostre urla o dal vostro sistema di allarme, scappa senza toccarvi o al massimo rubandovi un pacco di merendine, la legge non allontana dalla società l'autore del gesto, ma, al massimo, gli commina un'ammenda. Anche se per caso a voi o a qualcuno dei vostri familiari capita un infarto. L'aspetto collaterale del paradosso è che a questo si arriva per l'enorme arretrato processuale, per le continue prescrizioni, per l'obbligatorietà dell'azione penale, interpretata come potestà di non perseguire ciò che dovrebbe essere perseguito. Per lo spazio, mi debbo fermare. Non prima, però, di segnalarvi che in questa discesa agli inferni, spicca l'incredibile difesa d'ufficio delle nuove norme operata dal giornale dalla Confindustria (ormai rappresentativa della piccola impresa a parte le pubbliche privative, ferrovie, poste Enel). Una difesa inaccettabile che mette in discussione le basi dell'attività imprenditoriale. Se amate il vostro Paese, l'Italia, dovete ricordarvi bene questa decisione e attribuirne la colpa a chi l'ha voluta. Una questione, questa della politica giudiziaria, che non abbandoneremo. Ve lo dobbiamo. Giustizia: sui vitalizi ai parlamentari condannati una brutta figura di noi giuristi di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 15 aprile 2015 Nessuna ragione di diritto perché siano conservati ai parlamentari condannati. Un caso da non prendere sottogamba. Le Camere si trovano a discutere se sia ragionevole che i parlamentari decaduti in conseguenza di condanna irrevocabile per reati di particolare gravità possano continuare a percepire il cosiddetto "vitalizio"; se, dunque, sia ragionevole sostenere, vita natural durante, coloro che dal Parlamento siano stati allontanati per una ragione di indegnità. "Indegnità" è parola della Costituzione, insieme a "disciplina e onore". Quando si è saputo che ciò tranquillamente accade, ai più (forse, salvo che ai diretti interessati) non è sembrato vero. Cosa da non credere. Così, si sono messe in moto iniziative interne alle Camere per rimuovere un'anomalia che sembra fatta apposta per giustificare e alimentare il già tanto diffuso pregiudizio anti-parlamentare che circola nel nostro Paese. Pareva facile. Invece no. Sono stati chiamati in causa i costituzionalisti e i loro "pareri pro veritate", e ciò che sembrava chiaro è diventato oscuro. Il senso comune pensa che, per risolvere una questione controversa ci si possa rivolgere al diritto per ricavare la risposta che mette tutti d'accordo. Qui, succede il contrario: la questione sembrava chiara e ci si è rivolti al diritto per renderla confusa. I giuristi hanno espresso le loro verità e hanno sostenuto di tutto. Un caso da non prendere sottogamba. Le Camere si trovano a discutere se sia ragionevole che i parlamentari decaduti in conseguenza di condanna irrevocabile per reati di particolare gravità possano continuare a percepire il cosiddetto "vitalizio"; se, dunque, sia ragionevole sostenere, vita natural durante, coloro che dal Parlamento siano stati allontanati per una ragione di indegnità. "Indegnità" è parola della Costituzione, insieme a "disciplina e onore". Quando si è saputo che ciò tranquillamente accade, ai più (forse, salvo che ai diretti interessati) non è sembrato vero. Cosa da non credere. Così, si sono messe in moto iniziative interne alle Camere per rimuovere un'anomalia che sembra fatta apposta per giustificare e alimentare il già tanto diffuso pregiudizio anti-parlamentare che circola nel nostro Paese. Pareva facile. Invece no. Sono stati chiamati in causa i costituzionalisti e i loro "pareri pro veritate", e ciò che sembrava chiaro è diventato oscuro. Il senso comune pensa che, per risolvere una questione controversa ci si possa rivolgere al diritto per ricavare la risposta che mette tutti d'accordo. Qui, succede il contrario: la questione sembrava chiara e ci si è rivolti al diritto per renderla confusa. I giuristi hanno espresso le loro verità e hanno sostenuto di tutto: che quei tali vitalizi sono intoccabili e vanno bene così come sono; che, devono o possono essere eliminati tout court; che li si deve sospendere solo per un certo numero d'anni; che li si può mantenere, ma se ne deve ridurre l'entità; che, infine, in ogni caso non sarebbe sufficiente una delibera parlamentare interna, occorrendo una legge. Come giuristi, non stiamo facendo una bella figura e nella brutta figura stiamo trascinando l'oggetto della nostra professione, il diritto e la Costituzione. Se tutto è giuridicamente sostenibile, allora i nostri argomenti sono perfettamente inutili. Se tutto è sostenibile, allora: liberi tutti. Non si alimenta, così, l'idea corrente che i giuristi siano essenzialmente dei consulenti, e che il diritto, alla fine, non sia che un mezzo e, spesso, un mezzuccio? Poiché chi scrive queste righe è anch'egli giurista e costituzionalista, gli sia lecito ricordare la reazione stizzita di Vittorio Emanuele III, al "parere pro veritate" di un famoso professore che aveva giustificato la legge che equiparava Mussolini al re, entrambi "Primi Marescialli dell'Impero": "I professori di diritto costituzionale […] trovano sempre argomenti per giustificare le tesi più assurde: è il loro mestiere" (R. De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario 1936-1940, Torino, Einaudi, 1981, p. 33). Questo è il rischio dei giuristi quando le loro opinioni si offrono come merci sul banco d'un mercato, a disposizione degli acquirenti. Tra i marescialli e i vitalizi c'è una certa differenza, così come tra gli interessi di un dittatore e quelli di parlamentari decaduti. Ma la fertilità dei giuristi è ugualmente all'opera. Vediamoli, alcuni di questi argomenti. Il primo: i vitalizi sarebbero pensioni; le pensioni sono "retribuzioni differite" che maturano nel corso del rapporto di lavoro e sono erogate a partire dal momento della messa a riposo; le retribuzioni non si possono toccare, in forza di diverse disposizioni costituzionali (l'art. 36, in particolare) che proteggono i diritti dei lavoratori, tra cui il diritto alla retribuzione, cioè del corrispettivo del rapporto di servizio. Il ragionamento fila, ma la premessa non regge. Per i deputati e i senatori non si può parlare di "rapporto di servizio". La loro attività come rappresentanti della Nazione non è in cambio di una "retribuzione". È prevista una "indennità", stabilita per legge (art. 69). Indennità e retribuzione sono cose diverse. Non ci si fa eleggere per guadagnarci qualcosa. È giusto, però, che chi si dedica all'attività parlamentare possa farlo senza preoccupazioni economiche. Altrimenti, avremmo un Parlamento di redditieri. Il mandato parlamentare deve essere aperto a tutti. L'indennità serve a rendere "indenni" dalle ristrettezze economiche, ma non è retribuzione. Se così fosse, dovrebbe commisurarsi alla quantità e qualità del lavoro prestato in un "rapporto di lavoro". Dunque, i principi del diritto del lavoro sono diversi da quelli del diritto parlamentare. Secondo: la revoca dei vitalizi in conseguenza di condanne sarebbe una sanzione penale e, come tale, non potrebbe avere valore retroattivo. Ma, è facile rispondere che si avrebbe retroattività se si imponesse - il che non è - la restituzione delle rate del vitalizio riscosso in passato. Ciò di cui si discute è l'eliminazione per il futuro come conseguenza di una disciplina che introduce un nuovo requisito di accesso al beneficio. Non si tratta d'una "revoca", ma d'una "cessazione" per il futuro d'un beneficio che non ha nulla in comune con una sanzione. In realtà, gli argomenti che si spendono a proposito della pretesa retroattività sono un modo mascherato per introdurre un argomento di cui si ha ritegno a parlare, in casi come questo: i "diritti quesiti". In sostanza: i parlamentari, quando hanno concorso per l'elezione, potevano fare affidamento su un particolarmente favorevole trattamento para-previdenziale. Perciò non lo potrebbe modificare in senso restrittivo. Ma, chi potrebbe sostenere, senza offendere l'onore dei nostri rappresentanti, che questa sia la ragione, o anche solo una ragione, dell'impegno politico-parlamentare? E, se anche lo fosse per qualcuno particolarmente venale, dovrebbe essere protetta dal diritto? Terzo: la disciplina della condizione giuridica dei parlamentari dovrebbe essere stabilita dalla legge, non da deliberazioni interne alle Camere. L'abitudine invalsa, quando scoppia uno scandalo (sui partiti, sugli appalti, sulla televisione, sulla prescrizione, ora sui vitalizi) è invocare "subito una legge": parole al vento. Si ricorrerà anche ora a questa formula dell'ipocrisia? Che sia necessaria una legge si potrebbe sostenere solo se la revoca del beneficio fosse - e non è - una sanzione penale. Il vitalizio è un beneficio unilateralmente deciso da ognuno dei due rami del Parlamento. Oltretutto, la loro incompetenza a togliere proverebbe troppo. Sarebbe un argomento suicida. Togliere è l'altra faccia del dare. Se le Camere non potessero togliere, non avrebbero potuto nemmeno dare, e tutto il sistema degli attuali vitalizi crollerebbe, non solo per i parlamentari condannati, ma per tutti. Riprendiamo da capo. I giuristi di mondo sanno motivare qualsiasi cosa. Ma, ci sono cose che ci si dovrebbe rifiutare di motivare. Quali? La ragionevolezza è l'àncora di salvezza del diritto, è la direttrice che serve a separare gli argomenti buoni da quelli cattivi. In assenza, il diritto perderebbe se stesso e diventerebbe fattore di disfacimento sociale. Altrimenti, dovremmo dare ragione al Bartolo delle Nozze di Figaro: "con un equivoco, con un sinonimo qualche garbuglio si troverà". Ora, è ragionevole che persone decadute per avere commesso reati e che non possono essere ricandidate per avere disonorato la carica, continuino ad appartenere alla cerchia dei protetti, alla stessa stregua di coloro che, invece, l'hanno onorata? Questa è la domanda che i cittadini comprendono, alla quale le Camere devono una risposta. Gli argomenti dei giuristi seguiranno. Giustizia: la Corte dei Diritti dell'Uomo "Contrada non doveva essere condannato" di Errico Novi Il Garantista, 15 aprile 2015 Il reato "non era chiaro". Bruno Contrada non avrebbe dovuto essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. All'epoca dei fatti che la giustizia italiana gli contestò, tra il 1979 e il 1988, l'ex numero due del Sisde "non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per gli atti compiuti". Con quest'ultima motivazione la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo ha condannato lo Stato Italiano a risarcire Contrada della somma di 10mila euro "per danni morali", più 2.500 euro per le spese processuali. La sentenza arriva in seguito a un ricorso presentato dallo stesso ex vertice del Servizi. Si tratta di un giudizio clamoroso, che di fatto riscrive la storia di un uomo perseguitato e stritolato dalla giustizia. Contrada non avrebbe dovuto nemmeno essere processato, sanciscono i giudici di Strasburgo, perché appunto "la fattispecie di reato in questione è il risultato di un iter giurisprudenziale avviato verso la fine degli anni 80 e consolidato nel 1994: Contrada, incriminato per fatti che risalgono al periodo compreso tra il 1979 e il 1988, non poteva ragionevolmente prevedere di compiere il reato". Si tratta dunque, secondo la Cedu, di una violazione dell'articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo ("Nulla poena sin lege"), quella per cui "nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che al momento in cui è stata commessa non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale". Contrada non andava condannato. Lui: la mia vita è distrutta (La Repubblica) Il reato contestato "non era sufficientemente chiaro". Stato italiano condannato a versare 10 mila euro per i danni morali. L'ex agente del Sisde: "Sentenza sconvolgente". Bruno Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non "era sufficientemente chiaro". Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani. Lo Stato italiano deve versare all'ex numero due del Sisde 10 mila euro per danni morali. Già nel 2014 la corte di Strasburgo aveva condannato l'Italia per la detenzione dell'ex funzionario del Sisde. Secondo i giudici le condizioni di salute di Contrada, tra il 2007 e il 2008, non erano compatibili con il regime carcerario. Adesso i suoi legali puntano alla revisione del processo. "Ho presentato due mesi fa la quarta domanda di revisione e la corte di appello di Caltanissetta mi ha fissato l'udienza il 18 giugno. La sentenza di Strasburgo sarà un altro elemento per ottenere la revisione della condanna", commenta l'avvocato Giuseppe Lipera legale dell'ex numero 2 del Sisde dopo al decisione della Corte europea dei diritti umani. "Ora capisco perché nonostante le sofferenze quest'uomo a 84 anni continui a vivere", conclude Lipera. "Sono frastornato, sconvolto, ansioso di sapere di più", commenta a caldo Bruno Contrada. "Lei sta parlando con un uomo la cui vita è stata devastata da 23 anni, dal 1992 ad oggi: ho subito sofferenza, dolore, umiliazione e devastazione della mia esistenza e della mia famiglia. Si può immaginare ed è intuibile qual è il mio stato d'animo in questo momento. Poco fa ho sentito il mio avvocato che mi ha comunicato la decisione della Corte europea per i diritti dell'uomo. Aspetto di leggere la sentenza -conclude l'ex numero tre del Sisde- per rendermi conto di cosa dice e per quale motivo è stato accolto il mio ricorso". Da 23 anni la sua vicenda giudiziaria tiene banco non solo nelle aule di giustizia italiane ed europee ma anche nel dibattito politico e giudiziario perché Bruno Contrada, 84 anni, napoletano ma palermitano d'adozione, quando fu arrestato era ai vertici degli apparati investigativi italiani, numero tre del Sisde, dopo aver percorso tutte le tappe dell'investigatore da dirigente di polizia ad alto funzionario dei servizi segreti nell'arco di un trentennio. Arrestato, la vigilia del Natale 1992, l'anno delle stragi palermitane, poi a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa, è stato condannato a 10 anni di carcere il 5 aprile 1996. Sentenza ribaltata in Corte d'appello il 4 maggio 2001: assolto. La Cassazione ha rinviato gli atti a Palermo. Poi la nuova condanna a 10 anni nel 2006, dopo 31 ore di Camera di consiglio della Corte d'appello palermitana, e la conferma della Cassazione l'anno successivo. Quindi il carcere, i domiciliari e poi la fine pena nell'ottobre 2012. Sono poi cominciati i tentativi di revisione del processo e gli appelli alla corte di Strasburgo per i diritti umani. Italia condannata due volte: nel febbraio 2014 perché il detenuto non doveva stare in carcere quando chiese i domiciliari per le sue condizioni di salute e oggi perché l'ex poliziotto non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non "era sufficientemente chiaro". Contrada in questi anni ha sempre combattuto per "salvaguardare - diceva - l'onore di un uomo delle istituzioni". "Voglio l'onore che mi hanno tolto, non ho perso fiducia nello Stato" ripeteva. Ha parlato dei tanti collaboratori di Giustizia che lo accusavano, con disprezzo, ricordando quando lui e i suoi uomini della questura di Palermo li arrestavano trattandoli come delinquenti e presentavano ai magistrati dossier corposi sulla mafia. E si è sfogato, in questi anni, con gli amici su quella nebbia che nel processo è sembrata calare sul suo rapporto col capo della mobile di Palermo, Boris Giuliano, assassinato nel luglio 1979 da Leoluca Bagarella mentre prendeva un caffè da solo al bar. "Eravamo due fratelli - ha detto - lavoravamo fianco a fianco. Non mi sono mai fermato nelle indagini sul suo omicidio". Sono stati scritti almeno quattro libri sulla sua vicenda giudiziaria e migliaia di articoli di giornale che hanno aperto dibattiti nel mondo politico e che hanno diviso l' opinione pubblica italiana. Giustizia: da Strasburgo un primo stop al "concorso esterno" in associazione mafiosa di Vincenzo Vitale Il Garantista, 15 aprile 2015 E così, dopo oltre vent'anni, la Corte Europea dei diritti umani ha condannato lo Stato italiano per aver processato Bruno Contrada per concorso esterno in associazione mafiosa. Stabilendo in tal modo, la Corte ha per un verso ragione, ma per altro torto e spiego subito il perché. La Corte ha affermato la responsabilità dello Stato italiano e lo ha condannato a risarcire il danno (probabilmente simbolico ) di diecimila euro, in quanto all'epoca dei fatti - cioè tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, il suddetto delitto non era stato ancora individuato dalla giurisprudenza con sufficiente univocità, come poi invece è accaduto - continua la Corte -dopo la metà degli anni e viene che all'epoca dei fatti contestati, in base al principio di legalità che esige si possa essere giudicati e condannati solo per reati previsti come tali dalla legge prima dei fatti contestati, Contrada, e nessuno con lui, poteva conoscere che certe azioni sarebbero state considerate punibili e perciò il processo a suo carico per quelle imputazioni non poteva essere celebrato. Ma siccome lo si è celebrato con durezza per molti anni, si è violato il principio di irretroattività della legge penale - secondo il quale appunto la legge penale deve prevedere i reati "prima" che i relativi comportamenti vengano posti in essere - e da qui la condanna dello Stato italiano e il risarcimento. Tutto bene allora ? Non proprio. Infatti, la Corte Europea, ragionando in tal modo, dimentica una cosa fondamentale e cioè che il principio di legalità che essa stessa invoca ed applica prevede testualmente che "nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge né con pene che non siano da essa stabilite" . La Corte dimentica insomma che a prevedere i reati e a dichiararli punibili deve essere la legge e soltanto la legge e che, per giunta, tale previsione deve esser fatta dalla legge "espressamente", cioè senza sottintesi o rimandi di alcun genere. Nel caso del concorso esterno in associazione mafiosa, invece, la previsione dei comportamenti punibili è del tutto aleatoria, in quanto effettuata per mezzo di elaborazioni giurisprudenziali, per natura oscillanti e modificabili. Per due volte perciò questo fantomatico reato viola gravemente il principio di legalità, che è il vero cardine dello Stato di diritto: per un verso, perché non è la legge a prevederlo e a punirlo, ma sono i Tribunali e le Corti; per altro verso, perché tale previsione dovrebbe essere "espressa" - vale a dire testuale - ed invece è del tutto implicita, sottintesa, adombrata da interpretazioni e valutazioni esegetiche di fatti e norme operate appunto dai giudici. Sicché, a rigore, nessuno può sapere con certezza quali siano considerati comportamenti punibili a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa, neppure oggi, cioè neppure in epoca successiva alla metà degli anni novanta alla quale si riferisce la Corte Europea, proprio perché la giurisprudenza - dal momento che non si identifica con la legge - si evolve, cambia, torna sui suoi passi, come è normale che sia: non è né può essere sclerotizzata per decenni. A ciò si aggiunga - altro aspetto sfuggito all'attenzione della Corte Europea - che se il diritto esige che a stabilire i reati sia la legge, e non altra cosa, c'è una ragione precisa e indefettibile: e cioè che la legge - e soltanto la legge - è di sicuro conoscibile da parte di tutti i cittadini. Ciò è tanto vero che la Corte Costituzionale italiana con una celebre sentenza del 1988 ha stabilito che nel caso in cui il testo della legge sia oscuro e non comprensibile da una persona dotata di normale capacità di intendere, allora essa non obbligherà tale persona, perché costui non era stato messo in grado di comprenderne l'effettiva portata. Ne deriva che se la Corte Europea avesse ragione anche in questo, tutti dovremmo farci assistere senza soluzione di continuità da avvocati ed esperti di diritto in ogni atto della vita quotidiana: perché solo costoro sarebbero in grado (ammesso che siano abbastanza bravi e preparati) di cogliere la reale portata della evoluzione giurisprudenziale in tema di concorso esterno: il che, pur se garberebbe agli avvocati che potrebbero vedere lievitare i loro guadagni, rimane del tutto assurdo. Lo Stato di diritto e la Costituzione italiana esigono insomma la conoscenza della legge, non della giurisprudenza: nemmeno la Corte Europea è legittimata a sovvertire questo principio irrefutabile del vivere secondo diritto. Invece, ormai da anni, la giurisprudenza italiana, svincolata da ogni limite di carattere testuale e legale, fa in proposito il bello e il cattivo tempo. Oggi è arrivato un primo stop, ma non basta: siamo appena all'inizio. Giustizia: il "concorso esterno" tra condanne e polemiche, storia del reato che non c'è di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2015 A rivendicarne la paternità anni fa arrivò il magistrato Giuseppe Ayala, pubblica accusa al Maxi processo: "Su certi imputati - ricordava il magistrato in un'intervista a Radio Radicale - non avevo assolutamente elementi per dimostrare che fossero organicamente interni all'associazione mafiosa, tuttavia il semplice reato di favoreggiamento era insufficiente: così mi inventai il concorso e ne parlai con Falcone". La prima sentenza in cui viene citato è quella contro Pino Cillari, considerato un faccendiere della camorra: è il 14 luglio del 1987 e il concorso esterno in associazione mafiosa fa il suo debutto nelle carte della corte di Cassazione. Un esordio plumbeo dato che in quella sentenza la Suprema corte smentisce l'esistenza di quel reato, nato praticamente nell'ordinanza sentenza del primo Maxi processo contro Cosa Nostra, istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Una fattispecie nata sommando gli articoli 110 e 416 bis del codice penale, ideata per perseguire i cosiddetti "colletti bianchi", soggetti che non sono organici all'organizzazione criminale, ma che contribuiscono attivamente alle attività. A rivendicarne la paternità anni fa arrivò il magistrato Giuseppe Ayala, pubblica accusa al Maxi processo: "Su certi imputati - ricordava il magistrato in un'intervista a Radio Radicale - non avevo assolutamente elementi per dimostrare che fossero organicamente interni all'associazione mafiosa, tuttavia il semplice reato di favoreggiamento era insufficiente: così mi inventai il concorso e ne parlai con Falcone". Poi la marcia indietro: "Guardando tutto quello che è successo dopo,- continuava Ayala - tutte le polemiche che sono nate, tutte le incertezze, oggi rivedrei quella scelta". E in effetti il concorso esterno in associazione mafiosa da intuizione giuridica si è trasformato subito in una vera e propria guerra di pensiero tra magistrati, giuristi e avvocati. Diverse le assoluzioni nel corso degli anni, ma anche parecchie condanne. È stato assolto dall'accusa di concorso esterno a Cosa Nostra l'ex ministro Saverio Romano, scagionato in appello fu invece l'ex deputato di Forza Italia Gaspare Giudice. Ha fatto scuola poi la sentenza degli ermellini sull'ex ministro democristiano Calogero Mannino (assolto in appello dopo un rinvio), con una motivazione che restringe i casi di applicazione del reato, ma è importante anche quella di Corrado Carnevale (appello annullato senza rinvio). Motivando l'annullamento della condanna d'appello del giudice soprannominato "Ammazzasentenze", la suprema corte scrive che "la fattispecie concorsuale sussiste anche prescindendo dal verificarsi di una situazione di anormalità nella vita dell'associazione": come dire che il concorso esterno esiste anche in condizioni di non emergenza, come invece stabilito nella sentenza Demitry nel 1994. Lo stesso anno che fa da spartiacque, secondo l'ultima decisione della corte Europea dei diritti dell'uomo sul caso di Bruno Contrada: prima di quella data, per i giudici di Strasburgo, non esiste il concorso esterno, e quindi non può essere considerato un'imputazione valida. È per questo che Marcello Dell'Utri, condannato a sette anni in via definitiva, spera in una sentenza favorevole da parte di Strasburgo, dato che la sua situazione è simile a quella di Contrada. L'ex senatore e l'ex numero tre del Sisde hanno un curriculum giudiziario paragonabile a quello di Ignazio D'Antone, l'ex questore che ha finito di scontare otto anni di carcere. Liberi sono anche gli ex Dc Enzo Inzerillo e Franz Gorgone, unici politici insieme a Dell'Utri ad essere condannati per concorso esterno. È nel 1991 che il reato tanto criticato diventa oggetto scatenante di una furiosissima guerra: in quell'anno viene introdotto infatti il favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. È a causa di quell'accusa che si aprono le porte del carcere per Salvatore Cuffaro, non prima che la procura di Palermo si spacchi in due: il pm Gaetano Paci entra in polemica con i colleghi, che si rifiutano di contestare all'ex presidente il concorso esterno. Il quesito che divide la procura all'epoca guidata da Pietro Grasso è semplice: se a Mimmo Miceli, l'uomo che riferiva le confidenze di Cuffaro al boss Giuseppe Guttadauro, viene contestato il concorso, perché Cuffaro, che è l'origine di quelle "soffiate", deve essere accusato di un reato minore? Una domanda alla quale i giudici non sono riusciti a rispondere, dato che dopo aver acquisito nuove prove, la procura provò a processare per concorso esterno Cuffaro, già detenuto per favoreggiamento aggravato. "Ne bis in idem" rispose il gip, come se il favoreggiamento aggravato e il concorso esterno fossero la stessa cosa. Contribuendo quindi ad alimentare confusione e polemica, intorno ad un reato che da anni divide giuristi, magistrati e avvocati. Giustizia: caso Contrada; chi ha fatto carriera alle sue spalle, oggi come si sente? di Tiziana Maiolo Il Garantista, 15 aprile 2015 Come si sente oggi, dottor Ingroia? E lei, dottor De Gennaro sulla sua poltrona sicura, come si sente? Benissimo, immaginiamo, nelle vostre incrollabili certezze. Anche nel giorno della piccola riabilitazione, che arriva da Strasburgo, nei confronti di un uomo che era stato distrutto, ma non si chiamava Antonio, né Gianni. Si chiama Bruno, ma per voi è irrilevante. Era stato buttato giù a morire, mentre voi facevate carriera. Avete niente da dire su quest'uomo distrutto che non si doveva condannare né arrestare? Bruno Contrada ha avuto una piccola tardiva soddisfazione, dopo ventitré anni di torture, non da un tribunale italiano, ma dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. In Italia è stato messo ai ceppi la vigilia di Natale del 1992, anno in cui è successo tutto. Poi i diversi gradi di giudizio se lo sono rimpallato, condannato assolto condannato, mentre i "pentiti" assassini, proprio come quelli di Enzo Tortora, si riunivano, sghignazzavano e ingrassavano. E concordavano le versioni dei fatti, dopo aver avuto le opportune imbeccate da chi aveva il potere di compensarli con il denaro e la libertà. Spesso la libertà di tornare a uccidere. E intanto veniva assassinata la dignità, insieme alla libertà di Bruno Contrada, il più brillante poliziotto di Palermo, uno che lavorava con i confidenti e non stava, come tanti suoi colleghi, in poltrona ad ascoltare le intercettazioni e le soffiate dei "pentiti". Lui le faceva davvero le indagini. Lo hanno eliminato mentre stava per arrestare Bernardo Provenzano, e la storia sarebbe stata diversa se lo avessero lasciato lavorare. Ma era un ostacolo ad alcune brillanti carriere. Oggi la Corte di Strasburgo dice che quel famoso reato di "concorso esterno in associazione mafiosa", che non esiste nel codice e che i magistrati usano quando decidono di colpire in chiave politica il famoso terzo livello nel quale Falcone non credeva, a Contrada non era applicabile. Perché negli anni cui si riferiscono i presunti reati commessi dall'ex capo del Sisde la fisionomia del reato non era chiara. Si è chiarita in seguito, con la giurisprudenza delle sentenze, dice la Corte. Un modo educato per dire che la giustizia italiana è un pò strana, infatti nel nostro ordinamento la giurisprudenza, al contrario del sistema anglosassone del common law, non fa testo, non ha il vigore della legge. Pure questo inesistente reato viene contestato a piene mani da una magistratura politicizzata e incapace. O forse politicizzata proprio perché incapace di fare le inchieste. Il "caso Contrada" è da manuale, con i "pentiti" gestiti nel modo che conosciamo: mai notizie da fonti dirette, sempre versioni "de relato", preferibilmente dichiarazioni attribuite ai morti, incontri collettivi e versioni concordate. In questo caso ci sono stati anche racconti esilaranti, pur nella tragedia, con la descrizione della saletta riservata di un ristorante che non esiste, un'anfora mai trovata, un'amante mai esistita, una chiromante che sogna Falcone che accusa Contrada e così via. Accertamenti? Mai svolti. Il Pm Ingroia svolgeva una requisitoria lunga 22 udienze e intanto De Gennaro faceva carriera, nelle storie parallele in cui uno nasceva mentre l'altro moriva. Quanti Caino si sono avventati sul corpo di Bruno Contrada? Antonio Ingroia, dopo una non brillante carriera come Pm e una ancor più (se possibile) disastrosa come politico, non demorde. Contrada resta colpevole, dice, quanto meno di favoreggiamento. Patetico, perché l'ex magistrato sa bene che, se nel 1992 a Contrada fosse stato contestato il solo favoreggiamento, prima di tutto sarebbe stato più complicato arrestarlo per un reato meno grave e comunque gli inquirenti sarebbero stati costretti a svolgere quelle indagini che nel caso del "concorso esterno" sono pressoché impossibili, un pò come processare 1'"odore di mafia" o l'aria che tira. Non è una sentenza qualunque, quella di oggi a Strasburgo. Per Bruno Contrada è solo un primo passo, fino a che non ci sarà la revisione del processo. Ma è molto per cominciare a ristabilire la civiltà giuridica di un paese, l'Italia, che ne ha tanto bisogno e che ha perso da tempo di vista lo Stato di diritto. Giustizia: a Napoli rivolta degli avvocati per i troppi con trolli all'ingresso del tribunale di Fulvio Bufi Corriere della Sera, 15 aprile 2015 I blocchi stradali, le proteste esasperate che sfiorano, e anche travalicano, i limiti della violenza, a Napoli sono all'ordine del giorno. Appartengono ai disoccupati, ai lavoratori senza stipendio, a chi rivendica un alloggio popolare, a volte ai ragazzi dei centri sociali. Ma una azione di forza in giacca, cravatta e borsa di cuoio ancora non si era vista. Fino a ieri mattina, quando davanti a uno degli ingressi del Palazzo di Giustizia si è arrivati se non proprio allo scontro frontale, sicuramente al confronto fin troppo ravvicinato tra gli agenti della polizia penitenziaria addetti al controllo del varco e gli avvocati che tentavano di sfondare per accedere alle aule. Bilancio: cinque agenti e due avvocati lievemente feriti dal vetro di una grande finestra andato in frantumi e due avvocati identificati dalla polizia. Ovvio che una cosa così non si era mai vista. Però non si era mai visto nemmeno che per entrare in tribunale dall'ingresso riservato esclusivamente a loro e ai magistrati, gli avvocati dovessero sottoporsi a una attesa di ore e a una fila lunga anche un centinaio di metri. Conseguenze della sparatoria della scorsa settimana al tribunale di Milano? Sì e no. Perché è vero che dopo la tragedia di giovedì scorso il livello di attenzione e di controllo si è alzato in tutti gli uffici giudiziari italiani e quindi anche a Napoli, ma venerdì il palazzo di giustizia al Centro direzionale non era blindato. E gli avvocati entravano esibendo soltanto il tesserino (i più conosciuti nemmeno quello). Ma sabato il Mattino riferisce in prima pagina come un cronista sia entrato e uscito per quattro volte senza che nessuno gli chiedesse niente, e il sito web del quotidiano napoletano arricchisce il racconto con un video. E lunedì in tribunale la scena cambia radicalmente. Controlli approfonditi per tutti, dispone il procuratore generale facente funzioni Mastrominico. Le file agli ingressi riservati al pubblico si gonfiano immediatamente, ma anche gli avvocati scoprono che non basta più qualificarsi: bisogna passare per il metal detector. Rigidità estrema perfino in procura, dove all'ingresso vengono controllate anche le borse dei magistrati. Ma il peggio arriva ieri, perché il martedì è giorno di udienze civili, oltre che penali, e quindi le presenze in tribunale si triplicano. Anche quelle degli avvocati, ovviamente, che dopo due ore di attesa decidono di rompere la fila. Prima bloccano per qualche minuto la strada, poi puntano direttamente al varco di ingresso, dove c'è un solo metal detector (che fino a venerdì era spento). Ed è il caos. Alla fine la procura generale sospende il provvedimento relativo agli avvocati e decide che potranno ricominciare a entrare mostrando solo il tesserino, ma a loro non basta, vogliono che la disposizione sia revocata. E intanto proclamano tre giorni di astensione dalle udienze. Giustizia: l'ira e la denuncia dei legali di Napoli "trattati come deportati e umiliati" di Anna Laura De Rosa La Repubblica, 15 aprile 2015 Caos e controlli al tribunale di Napoli, il lungo racconto degli avvocati. E la polizia penitenziaria: "Ci hanno travolto come una mandria, mai viste cose simili". Per oggi proclamata l'astensione dalle udienze. L'ira e la denuncia dei legali: "Noi, trattati come deportati e umiliati". "Siamo stati umiliati da un provvedimento che non era applicabile perché mancano uomini e mezzi". Il penalista Enrico Frojo è reduce dai tumulti esplosi ieri mattina all'ingresso di via Grimaldi. Alle 9.45, una calca inferocita di duemila persone ha bloccato la strada e forzato i varchi di controllo per raggiungere le aule, dopo un'attesa snervante di oltre un'ora. "La fila era diventata ingestibile - prosegue Frojo. Un controllo di sicurezza si è trasformato in una tortura, mentre i magistrati hanno potuto aggirare i varchi attraverso escamotage di cui siamo stati tutti testimoni. Ci siamo sentiti presi in giro". Un doppio binario, secondo i legali, che ha aumentato la loro rabbia e le loro recriminazioni per un trattamento differente. Da una parte la pressione della folla che all'urlo di "vergogna" ha sfondato un vetro ed è entrata coi tesserini alzati. Dall'altra le forze dell'ordine che hanno tentato di chiudere le porte. "Ero davanti alla fila ricostruisce la legale Imma Marino - Una folla imbestialita ha cominciato a spingere da dietro per arrivare alle udienze. Le forze dell'ordine hanno fatto entrare gli avvocati a scaglioni finché è esploso il caos. Non abbiamo capito più niente, sono andata in panico. Urla, grida. Una persona anziana è scivolata mentre io mi sono ritrovata sul metal detector con gente che mi chiedeva di cancellare foto e video. La categoria è fortemente indignata. Qui veniamo a lavorare, devono garantirci un ingresso tranquillo". "È successo l'inevitabile - racconta Gaetano Inserra, uno degli avvocati identificati - La fila non si sbloccava e c'è stata una sollevazione popolare, abbiamo insistito per accelerare i controlli. La gente ha bloccato il traffico e ha cominciato a spingere, la polizia si è irrigidita e ha fermato gli ingressi. I giudici sono entrati dai varchi carrabili, la situazione è degenerata perché è arrivata notizia dell'inizio delle udienze, Siamo andati in fibrillazione". L'avvocato Tommaso Laudando è inciampato e si è ritrovato a terra. "Sono stato spinto da una parte e dall'altra - dice - Sono brutte esperienze visto che andavamo a lavorare e non allo stadio. Finché non cambierà il provvedimento andremo in Tribunale solo se strettamente necessario". "In 25 anni di lavoro in Tribunale non ho mai visto niente del genere - si sfoga un agente in servizio al momento della rivolta - Ci siamo visti piombare addosso una mandria inferocita". "Questa procedura va rivista - dichiara Ciro Auricchio, rappresentante regionale sindacale Ugl della polizia penitenziaria. Chiederemo all'amministrazione di mandare ai varchi altri agenti". Nel mirino anche alcuni consiglieri dell'Ordine forense che hanno cercato di calmare la folla. "Siamo stati bistrattati come deportati - racconta l'avvocato Angela Masecchia. È stata mortificata la dignità umana e professionale. Ho avuto uno scatto d'ira verso un consigliere, ma loro giustamente al momento non hanno molti strumenti se non chiedere la sospensione del provvedimento al procuratore. Io stessa ho chiesto l'intervento immediato del presidente della Camera penale". Il caos "è esploso al momento del blocco stradale" dice l'avvocato Emma De Cicco. E quando la coda è saltata "ho sentito un vetro andare in frantumi - ricorda Gianluca Tuberosa - Poi siamo entrati in blocco". Tra la folla, anche l'avvocato Rosario Rusciano. "Dopo le tensioni ci hanno fatto entrare mostrando solo il tesserino, era la cosa più logica - spiega. Si sono un po' arresi a questa follia. Avvengono aggressioni quotidiane anche negli ospedali, non per questo si adottano misure così rigide. Una risposta intelligente andava organizzata diversamente. Tra l'altro, da quanto ne so, solo a Napoli si è verificato un tale caos". Anche ieri si sono registrate file chilometriche davanti agli ingressi di piazza Porzio e piazza Cenni. "Siamo una categoria vessata - dice Antonio Carannante - anche i professionisti possono arrivare all'esasperazione. I provvedimenti vanno programmati". "Ho assistito a scene vergognose- dichiara il legale Gabriele Roberto Cerbo, entrato da via Grimaldi - Io avevo un'udienza in Corte d'appello, l'imputato è riuscito ad entrare prima di me". Cerbo, del foro di Santa Maria Capua Vetere, prosegue il suo racconto: "Gli avvocati sono stati costretti a occupare la strada per forzare questo blocco indegno che si era creato. Spero che il consiglio degli Ordini della Campania intervenga in maniera decisa contro chi ha preso questo provvedimento davvero assurdo e sconcertante". "Una rivolta annunciata commenta l'avvocato penalista Vanni Cerino. Era normale una reazione degli avvocati a un provvedimento così incauto. Le file esasperano tutti e lo stress che generano si ripercuote sull'attività che gli avvocati devono svolgere all'interno del Tribunale. A questo punto non resta altro da fare che modificare questo provvedimento". Chiude il penalista Bruno Von Arx: "Spero solo che tutto ciò non avvenga mai più, tutto questo svilisce la professione". Giustizia: G8; il poliziotto della Diaz su Facebook "ci rientrerei mille e mille volte…" di Marco Imarisio Corriere della Sera, 15 aprile 2015 La notte della Diaz non finisce mai. "Lo rifarei subito, ci rientrerei mille e mille volte". È tutto fuori luogo e fuori tempo massimo. Non solo le parole, anche l'indignazione che segue. Il pestaggio dei no global ospiti della scuola genovese è uno degli episodi decisivi della nostra storia recente, inciso sulla pelle della generazione che partecipò al G8 del 2001. Ma per molto, troppo tempo, l'imperativo di chi non ha visto e di chi non c'era è stato quello di dimenticare, troncare, sopire. Forse per questa cattiva coscienza ogni parola sul tema produce effetti a scoppio ritardato, a distanza di 14 anni. Quelle dell'agente del VII reparto mobile di Roma Fabio Tortosa sono così brutte e fuori luogo da renderlo un perfetto capro espiatorio, quello che pagherà per tutti quelli che non hanno pagato a suo tempo. Lo scorso 9 aprile, sul suo profilo Facebook, due giorni dopo che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha definito vera e propria tortura quel che è accaduto all'interno della Diaz, il poliziotto Tortosa ha sentito il bisogno di rivendicare la bontà dell'operato suo e dei suoi colleghi, che all'epoca facevano parte di un nucleo sperimentale anti-sommossa guidato dal comandante Vincenzo Canterini e dal vicequestore Michelangelo Fournier, quello della "macelleria messicana", addestrato e istruito in vista del G8 con metodi e mentalità molto estremi, diciamo così. Poche parole: io c'ero, sono uno degli 80 del VII nucleo, lo rifarei ancora. E tanto basta a scatenare un vespaio, con Matteo Renzi che chiede di fare chiarezza assicurando il suo impegno personale per l'introduzione del reato di tortura, e il ministro dell'Interno Angelino Alfano che non esclude "massima severità" nel giudizio sul comportamento del poliziotto, che sarà valutato "con la celerità necessarie e il dovuto rigore". Sui commenti esaltati al suo post, molti firmati da suoi colleghi, meglio andare oltre, il Viminale ha promesso indagine e provvedimenti anche a questo proposito. Adesso non resta che dare la parola al diretto interessato, sindacalista del Consap nonché membro della consulta nazionale dedicata alle problematiche e alle tecniche operative dei reparti mobili. Secondo il Dipartimento di sicurezza nell'ultimo anno non ha effettuato servizi esterni. "La mia frase è stata manipolata. È una dichiarazione di pancia, fatta per ribadire che l'operato del nostro nucleo fu perfetto. Ma non è apologia di reato. Io volevo solo dire che se davvero quei manifestanti sono stati picchiati, non siamo stati noi. Sono anni che chiediamo alla magistratura di ascoltarci". Sembra di ritornare all'estate del 2001. Allo scontro tra le due Polizie, con i cattivi del Reparto mobile a rivendicare la loro probità indicando come responsabili della mattanza gli agenti in borghese, muniti solo di pettorina bianca, che si erano aggregati alla spedizione. C'erano gli uni, forse c'erano anche gli altri, e tutti fecero un disastro. Gli autori materiali l'hanno fatta franca, contando sul silenzio e sull'omertà dei colleghi. Non fu possibile identificare le singole responsabilità, ma tutti gli agenti del Reparto mobile vennero indagati anche per fare in modo che raccontassero quel che avevano visto, oltre a quel che avevano fatto. Non si presentò nessuno. Tra quelli che mai risposero all'invito a comparire c'era anche Tortosa, sotto inchiesta "per aver cagionato lesioni personali gravi con sfollagente in dotazione o con altri atti di violenza, direttamente o comunque agevolando o non impedendo ad altri tale condotta". C'era un posto migliore della bacheca di un social network per raccontare la propria, presunta, verità. Era l'ufficio dei pubblici ministeri di Genova. "Ma io non ho mai saputo di convocazioni ufficiali, e quindi non ho potuto parlare". Quando gli si fa notare che in ogni caso poteva presentarsi di sua volontà, Tortosa, glissa. Sul suo profilo Facebook c'è un'altra "dichiarazione di pancia", risalente al 10 aprile, che proprio non fa onore all'orgoglioso agente Tortosa. Questa: "Quelli come me pensano che Carlo Giuliani sia morto perché è una m... Mi auguro che sottoterra faccia schifo anche ai vermi". Anche qui, secondo Tortosa è tutta una questione di contesto. "La frase è sbagliata, è l'unica cosa di cui mi devo scusare. Ma lei si metta nei panni di un poliziotto ingiustamente additato come torturatore, che da quel giorno assiste alla glorificazione di quel ragazzo". Nella loro requisitoria, i pubblici ministeri titolari dell'inchiesta sulla Diaz parlarono di una malattia all'interno della Polizia italiana, l'esistenza di una sottocultura da "Dio è con noi", un malinteso spirito di corpo che quella notte fece sì che "i comportamenti devianti dei singoli venissero commessi all'interno di un gruppo che considera la legge come un intralcio al suo operare". Chissà se l'agente Tortosa si rende conto di essere un sintomo. Giustizia: anche i dirigenti cliccano "mi piace", scia di odio che imbarazza il Viminale di Carlo Bonini La Repubblica, 15 aprile 2015 Quattordici anni dopo i fatti e a una settimana dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, l'infezione che non si è voluta curare è andata in cancrena. E in un lunedì nero per la Polizia di Stato, i fantasmi della Diaz tornano a ballare spaventosi sul Viminale e sul piano nobile del Dipartimento di Pubblica Sicurezza. In un rigurgito di odio, rancore, disprezzo per i morti, che dice molto non di "una mela marcia" o di "un cestino di mele marce", ma di un sentimento profondo, da tempo fuori controllo, che attraversa un pezzo importante della Polizia di Stato e dei suoi reparti celere. Che sorprende il capo della Polizia Alessandro Pansa nella notte di Singapore dove è in missione e dove una telefonata lo butta giù dal letto per avvisarlo che "Ci risiamo". E che, per quattro lunghissime ore, tramortisce l'intera catena gerarchica dell'apparato. Perché - come è immediatamente evidente dai "mi piace" (saranno alla fine 200), i commenti e le condivisioni che ha ricevuto - il thread scatenato dal post datato 9 aprile di Fabio Tortosa, agente del Reparto Mobile di Roma addetto ai servizi di fureria e già componente del VII Nucleo Mobile che fece irruzione nella Diaz, è un'onda di piena. È una "colonna infame" contagiosa ("Ti stimo e se fosse per me verrei pure io"; "Ti ho invidiato! Grande!"; "La prossima volta chiama... Sarò al tuo fianco"). Accredita "un'altra verità su Genova", diversa da quella del "pm Zucca e dalle sue zecche". E non racconta soltanto della deriva notturna e solipsistica di un "reduce" e di chi gli rende "onore". Ma di un modo d'essere, di un comune sentire cui partecipano almeno altri tre poliziotti in servizio - Pierluigi Fragomeni, che di sé scrive "Ministero dell'Interno, precedentemente polizia di Stato e Ministero della Difesa", Andrea Cecchini, anche lui di un Reparto Mobile, e Alessandro Ciotoli alias "Bonzo" "Ministero dell'Interno", come annota sul suo profilo - e, significativamente, il comandante del Reparto Mobile di Cagliari Antonio Adornato. Il suo "like" al post iniziale di Tortosa ("Io sono uno degli 80 del VII nucleo. Io ero quella notte alla Diaz. Io ci rientrerei mille e mille volte") è un colpo che stordisce il Dipartimento. Che dà la dimensione di cosa stia accadendo e di quale peso abbia la faccenda. Perché se è vero che Adornato non partecipa alla discussione, non si associa all'infamia dell'offesa alla morte di Carlo Giuliani ("Spero faccia schifo ai vermi", scrive Tortosa), alla rivendicazione di essere stati "torturatori con le palle", è altrettanto vero che quel "mi piace" al primo post di Tortosa (di cui è amico da lunga data e che è stato per anni il suo autista al Reparto Mobile di Roma) è il capovolgimento pubblico dell'immagine che su di lui il Dipartimento ha costruito per accreditare "il nuovo volto dei Reparti Celere". Prima di arrivare a Cagliari ha infatti comandato il Reparto di Senigallia, è stato portato in palmo di mano come "esempio di un nuovo modo di fare ordine pubblico". E nei giorni del G8 di Genova fu tra i poliziotti che, la sera della Diaz (nel cui processo avrebbe testimoniato, accreditando come quella sera ci fosse qualcosa di "strano" nell'aria che lo aveva convinto a sfilarsi), volontariamente chiesero di essere esonerati dall'irruzione non prendendovi parte. Con lui, il Dipartimento è furibondo. E la sua presenza nel thread insieme a quella di altri poliziotti convincono a dare un'altra velocità e un altro tono a un primo abbozzo di reazione che, alle 18, fa dettare alle agenzie un comunicato con cui si informa di "accertamenti in corso per verificare l'effettiva rispondenza del profilo Facebook a un appartenente alle forze di polizia in Servizio, all'esito dei quali si darà corso a provvedimenti disciplinari nel rispetto delle prerogative dell'autorità giudiziaria per quanto concerne i profili di eventuale rilevanza penale". Da accertare, infatti, non c'è proprio un bel niente, perché negli stessi minuti in cui il primo comunicato del Dipartimento viene battuto dalle agenzie, è lo stesso Tortosa a confermare in un'intervista a Radio Capital che quel post è farina del suo sacco. Che non ha nulla da ritrattare. Anzi, che è sorpreso per la buriana che si è scatenata. Nella notte insonne di Singapore, Pansa comprende dunque che non c'è più nulla da attendere o smussare e sollecitato dallo stesso Alfano, da Palazzo Chigi, da un comunicato durissimo di Emanuele Fiano, responsabile del Pd per le questioni della sicurezza, con cui si chiedono provvedimenti disciplinari immediati, dà dunque mandato al suo vice Marangoni di avviare l'azione disciplinare. Di cui, poco prima delle 21, dà conto un secondo comunicato in cui si "precisa che, oltre a Tortosa, sono già stati avviati accertamenti anche sull'identità delle persone che hanno commentato ed interagito con le dichiarazioni dello stesso". E che questo "consentirà di adeguare nella severità l'azione disciplinare alla gravità di quanto emerso sia nei confronti dell'autore del post che nei confronti di tutti coloro che, poliziotti, hanno effettuato commenti censurabili". Un'inchiesta - promette il Dipartimento - "dai tempi brevi". In fondo alla quale - aggiungono - "è possibile la destituzione". Giustizia: la Sorveglianza dichiara estinta la pena, ma per Berlusconi libertà senza gioia di Andrea Colombo Il Manifesto, 15 aprile 2015 Il tribunale di sorveglianza dichiara estinta la pena del Cavaliere conseguente alla condanna per frode fiscale nel caso Mediaset. Ma per Forza Italia il caos nelle regioni si moltiplica. Si può escludere che Richard Wagner abbia mai immaginato un crepuscolo degli dei tanto tapino, così lontano dalle tonalità eroiche che si presume accompagnino sempre l'epica della decadenza. Il sito di Forza Silvio è improvvisamente scomparso dal web: fatture non pagate. Più Alberto Sordi che I Nibelunghi. Battaglie per carità ce ne sono. In Puglia, e adesso anche in Liguria. Ma somigliano a randagi che si azzannano per l'ultimo osso più che a Sigfrido o Hagen. E pensare che doveva essere un giorno di festa ad Arcore. Pena estinta, passaporto restituito: Berlusconi è un uomo libero. C'è ancora, è vero, l'ombra della legge Severino, che gli impedisce di candidarsi fino al 2019. Ma persino sul quel delicato fronte un segnale di pur timido ottimismo sarebbe arrivato, con la sentenza Contrada. In ogni caso il campionissimo del centrodestra può finalmente tornare a fare a tempo pieno quel che gli riesce meglio: il piazzista politico più brillante che abbia calcato le scene del teatrino della politica. E almeno lui è, o era fino a poco tempo fa, convinto di poter ancora fare la differenza. Invece no. Nessuna festa. La libertà ritrovata arriva proprio nel mezzo dello sfaldamento totale non solo del partito di Arcore ma di tutta l'area politica che Berlusconi aveva compattato e che ha fatto il bello e il cattivo tempo per vent'anni in Italia, ma che, si scopre davvero solo adesso, non ha mai avuto altra ragion d'essere se non l'occupazione del potere. Era già evidente che il caso pugliese non fosse un'eccezione. Ora la giostra impazzita ligure conferma. Due giorni fa, all'improvviso, è comparsa una lista di destra, Liguria Libera, che non intende appoggiare il candidato di Fi e Lega, Giovanni Toti, e schiera il suo campione, Enrico Musso. La nota dolente è che la formazione di Giorgia Meloni e La Russa, FdI, pare decisa, pur se non ancora ufficialmente, ad appoggiare Musso e non Toti. L'azione di disturbo di Liguria Libera non è affatto trascurabile. Ieri giravano addirittura voci, quasi certamente infondate ma eloquenti, su una possibile rinuncia di Toti. Nemmeno l'altro spezzone impazzito dell'ex centrodestra, l'Ncd di Alfano, appoggerà Toti, il megafono di re Silvio. I "centristi" sono ancora indecisi se schierarsi con Musso o con la candidata Pd Paita, ma è un dubbio più di facciata che di sostanza. Alla fine saranno con il Pd. In Puglia il dramma si è in realtà già tutto consumato. Oggi scadeva l'"ultimatum" posto da FdI: o tutta Fi, Fitto incluso, si schiera dietro Adriana Poli Bortone, oppure noi ci coalizziamo per Schittulli e chi se ne frega se l'ex sindaca di Lecce è iscritta proprio a FdI. Le conseguenze della lacerazione non tarderanno ad arrivare. Donna Adriana straccerà la tessera, e poco male. Ma stando alle minacce di Toti anche quella di Fitto verrà stracciata. Non da lui ma dal gran capo in persona: "Ovvio che se appoggia un candidato diverso da quello del partito, si mette fuori da Fi". Ovvio fino a un certo punto, essendo vacante quel collegio dei probiviri delegato alle espulsioni. Il tutto, c'è da scommettere, finirà in tribunale. C'è una logica dietro le deliranti manovre in corso, anzi ce ne sono due. La prima è quella di chi mira ad allearsi ovunque possibile con Berlusconi, non perché lo consideri ancora vegeto, ma al contrario perché, dandolo già per trapassato, ritiene che sia questa la maniera migliore per trasferire i suoi residui voti nei propri forzieri. È la strategia di Salvini, e spiega le numerose alleanze con Fi, inclusa quella in Puglia. La seconda logica appartiene a tutti quelli che, invece, l'ex onnipotente vogliono toglierselo dai piedi il prima possibile, convinti che sia lui il principale ostacolo al loro decollo. Sono legione: Fitto, Alfano, Meloni, ma anche, acquattato, Corrado Passera. Sono logiche miopi. Porteranno pure, ad alcuni tra i contendenti, qualche voto in più. In compenso faranno della destra italiana una fortezza spianata, pronta a essere saccheggiata dal primo Renzi che passa. Lettere: il clima infame di Elide Rossi e Alfredo Mosca L'Opinione, 15 aprile 2015 L'indimenticabile Bettino Craxi dopo il drammatico suicidio dell'onorevole Sergio Moroni, nel periodo di Tangentopoli, disse: "Hanno creato un clima infame". Come in tante altre occasioni, il grande statista aveva ragione. Ovviamente Craxi allora si riferiva all'atmosfera di assurda caccia alle streghe, dove guarda caso queste erano, per così dire, tutte e solamente annidiate da una "parte" ideologica e politica. "L'altra parte", a loro dire, vantava solo superiorità morale, onestà, integrità e rispetto della cosa pubblica, naturalmente parliamo dell'area riconducibile alla sinistra comunista e più o meno cattocomunista. Fatto è che quando Craxi, in un suo significativo intervento in Parlamento, invitò chiunque fosse seduto in quell'aula ad alzarsi se certo di non avere nemmeno per sbaglio, mai nella vita, compiuto qualcosa di illecito. Tutti restarono seduti in un agghiacciante silenzio. Non solo, ma Craxi aggiunse che la storia si sarebbe incaricata di fare luce ed accertare la verità sullo stato delle cose. Ancora una volta Craxi aveva ragione, e oggi, più di vent'anni dopo, sappiamo molto meglio, ma ancora non tutto, della famosa superiorità morale dei postcomunisti e del mondo che gli gira attorno. Quanto diversa, infatti, sarebbe ora l'Italia se quella di Tangentopoli fosse davvero stata una operazione chiara, libera, imparziale. Al contrario, ancora oggi restano non solo dubbi profondi, ma nonostante le tante evidenze finalmente emerse, anche coni d'ombra inquietanti. Certo è che molti personaggi importanti di allora lo sono ancora oggi, chi contava a quei tempi, conta anche nei nostri tempi e molti cenacoli del potere di quegli anni sono rimasti in auge fino ai giorni nostri. Sia come sia, non vi è dubbio che negli ultimi anni l'Italia è progressivamente precipitata in un burrone economico, politico, sociale e materiale, che mai si sarebbe potuto immaginare in un Paese che nella seconda metà degli anni Ottanta era praticamente la quarta potenza del mondo intero. Inoltre, come se non bastasse, non pochi di quei signori di allora decisero di portare l'Italia nell'euro nel peggiore dei modi, ci infilarono senza ascoltarci in un tunnel di obblighi, vincoli e patti, incuranti delle difficoltà, degli squilibri e dei problemi che nel nostro sistema Paese si andavano evidenziando. Bene, il precipitato dei due fatti storici è l'Italia che vediamo e che purtroppo viviamo, con la certezza che in vent'anni alcuni hanno purtroppo fatto straordinarie carriere, altri soldi a palate, altri ancora affari enormi; in buona sostanza, immensi successi di una potente micro-minoranza, mentre sacrifici, dolori, esasperazioni ed impoverimento esiziale sono spettati alla totalità degli altri. Insomma, un'Italia smarrita, indebitata fino al collo, esasperata dalla mancanza di lavoro, perseguitata dall'ossessione fiscale, indebolita istituzionalmente e democraticamente, invasa e pervasa da un'immigrazione incontrollata e mal gestita, impaurita da un livello di sicurezza sociale e personale sceso a livelli pericolosissimi. A peggiorare le cose poi, da Monti a Renzi negli ultimi anni, è iniziata un'operazione di terrorismo fiscale e di tartassamento impositivo e burocratico da regime poliziesco. A partire dalla casa, tutto è stato oppresso da patrimoniali e addizionali fino all'inverosimile. Si sono lasciate libere le banche (dopo averle salvate e foraggiate) di chiudere selvaggiamente ogni rubinetto alle famiglie ed all'economia reale, si è permesso agli istituti di credito di operare con i derivati senza limiti legali, gli si è consentito di chiudere il credito alle persone come mai nella storia. Non solo, ma negli ultimi tre governi si è stravolta ogni garanzia sociale, dalla legge Fornero agli esodati, all'esclusione degli 80 euro per i pensionati minimi, si è azzoppata la democrazia, riducendo la Repubblica ad una monocrazia spavalda ed irritante. Si sono rimessi in libertà, con la scusa dello svuota carceri, fior di delinquenti e svuotate le strade dai controlli delle forze dell'ordine. Si è continuato a spremere su tutto gli italiani, mentre non passa giorno che scandali, ruberie, disonestà e vergogna non sommergano politici e classe dirigente. Tornando a Craxi, si è creato un "clima infame" su tutto e per tutti gli italiani. La prova è data dal fatto che, mai come in questi anni, c'è stata nella società, un'esponenziale amplificazione di gesti drammatici. Suicidi, omicidi, per cartelle e liti fiscali, per folle reazione a contenziosi bancari, per lavoro perso, per dispute economiche e di affari, per criminose vendette verso abusi e soprusi vissuti come tali, per liti di denaro nelle famiglie o, più semplicemente, perché si è persa la testa per un licenziamento. Un bollettino enorme, drammatico, un vero ed immenso allarme sociale di una miccia che può esplodere ogni giorno e dappertutto. Più volte ed accoratamente, noi come tanti altri, abbiamo urlato la necessità di una pacificazione sociale, fiscale, amministrativa, il bisogno urgente di risanare la rabbia fra i cittadini e burocrazia, fra Stato e contribuenti, fra politica ed elettori, l'indispensabilità di trovare il modo di consentire una sanatoria pacificatrice su tutte le dispute possibili, le liti ed i contenziosi giudiziari. Insistere sulla strada della spavalderia, delle illusioni, delle bugie elettorali, delle sparate, è pericoloso e demenziale; è una forma di ottusità morale, politica ed ideale. Qui non si tratta di stare con o contro la magistratura e le forze dell'ordine, si tratta invece di capire lo stato di salute dell'Italia. Non percepire quanto la gente sia sfinita, stanca ed esasperata di combattere ogni giorno contro le ingiustizie, le disfunzioni del nostro apparato amministrativo e burocratico, che costringe il cittadino a difendersi dai continui "attacchi" dello Stato a danno della sua serenità e del suo equilibrio mentale e fisico, sarebbe un immenso errore. Disservizi, scandali, diritti calpestati, umiliati, mortificati, sono l'esasperazione della gente che vorrebbe solo essere lasciata vivere e lavorare in pace e sicurezza, rispettando le regole e partecipando al sostegno della buona spesa pubblica per portare il Paese all'avanguardia come accade nelle democrazie avanzate. Il clima è infame, pesante come mai lo è stata in Italia, le stupide promesse non servono, come non servono i buonismi ed i relativismi che annientano e distruggono, occorre mettersi in testa che senza la pace sociale, il lavoro e la sicurezza non c'è strada che possa portare alla crescita, allo sviluppo, alla fiducia ed al rispetto fra gente ed istituzioni. Lettere: la fattispecie di un uomo innocente di Giuliano Ferrara Il Foglio, 15 aprile 2015 Bruno Contrada non doveva essere condannato per un reato che non c'è, il concorso esterno in mafia. Strasburgo dixit. A smentita di tutti i pm che trattando "le ombre come cosa salda" hanno tradito la giustizia e lo Stato. Strasburgo dixit. Per la Corte europea dei diritti umani Bruno Contrada "non doveva essere condannato" e lo stato deve rifondergli i danni, con una grottesca provvisionale di diecimila euro. Bruno Contrada è l'italiano più simile a Joseph K., disperato eroe di Franz Kafka, quello che "doveva aver fatto qualcosa perché una mattina fu tratto in arresto". Alla vigilia di Natale del 1992, anno delle infami stragi palermitane, fu catturato, rinchiuso come alto funzionario dei servizi di sicurezza in un carcere speciale, seppellito da accuse tragicamente false e intrinsecamente ambigue, che la giustizia alternatamente confermò, smentì e confermò in via definitiva attraverso la Cassazione. Molti anni di carcere, una vita e una salute distrutte, un senso dell'onore personale avvilito e dissolto nella fornace della gogna di stato, della calunnia e del pettegolezzo maligno, in spregio al "ragionevole dubbio" (e più che questo) generato da un'assoluzione in giudizio e da altre circostanze. La fattispecie del reato imputatogli era la famigerata ipotesi di "concorso esterno in associazione di stampo mafioso". Non associazione mafiosa, non ce n'erano i minimi presupposti, ma "concorso esterno" (lo stesso odioso capo di reato che è costato la libertà personale a Marcello Dell'Utri, collaboratore di Silvio Berlusconi, rinchiuso da un anno nel carcere di Parma). L'avvocato Giuseppe Lipera, mentre l'ultraottantenne condannato grida con la sua voce rauca lo scandalo che lo ha distrutto, ha nel frattempo ottenuto l'avvio, che è per il prossimo mese di giugno a Caltanissetta, della revisione del processo. Vedremo, ma già la notizia della ripartenza è un botto. Intanto sta risultando chiaro, sul piano di un giudizio etico europeo che è superiore per tempra e senso argomentativo alla giurisprudenza che ha dannato il "mostro", che negli anni in cui Contrada avrebbe compromesso collusivamente lo stato, di cui era funzionario di altissimo rango nella repressione del crimine organizzato, non esisteva alcuna chiara definizione del reato per cui Contrada è stato condannato, appunto il "concorso". Un uomo è stato arrestato, avvilito dall'infamia, carcerato e distrutto nel suo onore per qualcosa che all'epoca dei fatti addebitatigli non era reato. È noto che la vecchia polizia, ai tempi in cui non tutto era definito abusivamente con la tecnica mal governata del pentitismo o delle intercettazioni a strascico, aveva i suoi confidenti, metteva con coraggio le mani in pasta per catturare e portare a esiti di giustizia i boss mafiosi, attuando una strategia fatta di razionali distinzioni e strumentali abboccamenti. E i boss braccati dai superpoliziotti come Contrada trovarono il modo, in un'epoca di barbarie giuridica, di rivalersi. Il solito Antonio Ingroia, oggi avvocato Ingroia dopo essere stato candidato Ingroia, nella sua veste di allora di pm aveva imbastito l'accusa che trasformava la pratica di polizia in vigore per una intera epoca storica in una collusione, anzi in un "concorso" collusivo che solo una sentenza della Cassazione, due anni dopo l'arresto di Contrada (1994), definì, quasi la Cassazione avesse il potere di fare una legge, come reato associativo (da quasi tutti considerato flebile nelle premesse logiche e giurisdizionali). Quando si dice la giustizia. Da anni, in processi a politici locali, uomini di stato (Andreotti) e uomini dello stato, trattiamo "le ombre come cosa salda". E facciamo di un simil-reato la sostanza fin troppo realista della persecuzione ingiusta degli innocenti fino a prova contraria. Gli azzeccagarbugli leggeranno con spirito variabilmente manettaro la sentenza di Strasburgo, ma la sentenza questo dice. Lettere: antimafia, il "risarcimento" della Cedu a Contrada e altri nodi di Danilo Paolini Avvenire, 15 aprile 2015 In tutti questi anni è invecchiato e s'è ammalato, Bruno Contrada, lo sguardo spavaldo del super-poliziotto è ormai solo un ricordo in bianco e nero. Ma è riuscito ad arrivare vivo al giorno in cui forse aveva smesso di sperare: ieri una Corte ha stabilito che la sua condanna per concorso esterno in associazione mafiosa non doveva essere pronunciata. Non è una sentenza della giustizia italiana, che nel frattempo ha fatto il suo corso rendendo definitivo il verdetto di colpevolezza e negando per tre volte la revisione del processo, tanto che la pena a 10 anni è stata scontata per intero. La notizia arriva, invece, dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu), la stessa che una settimana fa ha condannato l'Italia per i pestaggi nella caserma Diaz durante il G8 del 2001 a Genova, qualificandoli come torture. Molto clamore, e giustamente, hanno sollevato quei fatti. Molto, si spera, farà discutere la sentenza di ieri. Non perché il caso Contrada ne sia uscito ribaltato nel merito. Noi non sappiamo ancora (e non lo sapremo mai, probabilmente) se in questi quasi 23 anni l'ex-capo della Squadra Mobile di Palermo ha detto la verità, descrivendosi come la vittima di un complotto ordito dai mafiosi ai quali un tempo diede la caccia. Non sappiamo se dicevano la verità i "pentiti" che lo accusavano di connivenze con "Cosa nostra", accuse alle quali si dice dessero credito due eroi civili come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sappiamo che i giudici italiani, al termine di cinque processi, hanno ritenuto Contrada colpevole. Ma da ieri sappiamo anche che non avrebbero potuto farlo perché il reato di cui era accusato, di fatto, non esisteva nel nostro ordinamento nel momento in cui lo avrebbe commesso. E qui scatta, al di là di una vicenda personale comunque dolorosa, un allarme per chiunque crede che la certezza del diritto sia una garanzia intoccabile per tutti. È vero, infatti, che dal 1994 in poi la giurisprudenza ha cercato di inquadrare e consolidare il "concorso esterno in associazione mafiosa". Ma resta il fatto che quel delitto nel codice non c'è, perché scaturisce dal combinato disposto degli articoli 416-bis (associazione mafiosa) e 110 (concorso in reato), e i suoi contorni appaiono tuttora - anche a giudizio di molti magistrati antimafia - non delineati con nettezza. Il legislatore dovrebbe intervenire per eliminare ogni margine di discrezionalità in una materia che non ne dovrebbe consentire. Perché un'ultima cosa la sappiamo e questa senza dubbio alcuno: che la mafia è un'idra che avvelena la società, soffoca la democrazia, inquina l'economia. Per tagliare tutte le sue teste servono armi di precisione, quindi norme affilate e sentenze solide. Lettere: nuova legge sul carcere preventivo… fanno di tutto per non arrestarli di Bruno Tinti (ex magistrato) Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2015 La nuova legge sul carcere preventivo ha del ridicolo: si manda dentro qualcuno se il pericolo è "attuale". Se pensa di fuggire tra 2 mesi non lo si può fermare. Come si potrebbe scrivere un "normale" codice di procedura in materia di carcerazione preventiva? Non è difficile: "Quando vi è l'esigenza di evitare il pericolo che le prove siano inquinate, che l'imputato fugga e che commetta altri reati può farsi ricorso alla carcerazione preventiva". Le parole chiave sono: "Esigenza e pericolo". Siccome "ogni provvedimento giurisdizionale deve essere motivato" (art. 111 Cost.) e l'assenza o l'insufficienza di motivazione rendono nullo il provvedimento, ogni giudice dovrà spiegare in cosa consistono le esigenze e il pericolo (di inquinamento, fuga etc). Tutto ciò sarebbe sufficiente se in carcere ci finissero solo i delinquenti comuni; ma siccome noi abbiamo una classe politica inquinata dal malaffare, succede sempre più spesso che in carcere ci finisca il delinquente eccellente. Poi non gli succederà niente o quasi: il processo penale è costruito per garantire l'impunità. Ma intanto finisce in prigione e a questo bisogna porre rimedio. Ecco perché le norme in materia di custodia cautelare sembrano scritte da un ansioso compulsivo paranoico. E perché, ogni tanto, quando si rivelano nonostante tutto inefficienti, vanno aggiornate. L'ultima versione ha avuto il via libera dal Senato pochi giorni fa. Le esigenze che consigliano la carcerazione preventiva (esigenza = bisogno, necessità) sono rimaste "specifiche e inderogabili". Che differenza c'è tra esigenza ed esigenza specifica e (non o, proprio e) inderogabile non si capisce. Il pericolo, che già era previsto dovesse essere "concreto", adesso è necessario che sia anche "attuale". Attuale = che esiste oggi, al tempo presente. Sicché se l'inquinamento probatorio o la fuga o la commissione di altri reati sono concretamente probabili ma non oggi, forse solo tra 3 giorni, una settimana o un mese, non si può incarcerare nessuno. Aspettare si deve e acchiapparlo un attimo prima che inquini o scappi o delinqua ancora. E se ha cambiato idea e lo fa un giorno prima? Pazienza, la carcerazione preventiva è una barbarie, occorrono paletti precisi. Dove si arriva a vette di vera e propria idiozia è quando si impone al giudice che accoglie la richiesta di carcerazione preventiva del pm di motivare con "autonoma valutazione"; se non lo fa, il provvedimento è nullo, la nuova legge ci tiene a chiarirlo. Siccome i pm motivano meglio che possono (c'è il rischio che il giudice non si convinca) questi, se si convince, motiva la sua decisione scrivendo che quello che ha detto il pm è proprio giusto; qualche volta aggiunge qualcosa. Fino a ora. Adesso l'idea è che il giudice non può dire: "Ho letto tutto quello che ha detto il pm, ho letto gli atti, ho controllato tutto per bene, è tutto giusto, sono convinto; quindi dispongo che il delinquente vada in carcere". No, deve riscrivere tutto con parole sue. Se non fa così, tutto nullo. Il progetto "politico" non è stupido. Non è difficile sostenere che sussiste concreto pericolo di inquinamento probatorio; che questo sta per succedere ora, subito e non in un imprecisato prossimo futuro è difficile. Si può spiegare perché sussiste concreto pericolo di fuga per un evasore fiscale seriale che si è costruito con il bottino villa e relazioni sociali in qualche Paese lontano che non concede estradizione; più difficile è dare ragione del fatto che questo succederà oggi, al massimo domani; se progettasse di scappare appena le cose si mettessero male per lui, magari fra un mese, questo non è rilevante. Di uno che ha scambiato promesse elettorali con voti nelle ultime due elezioni può dirsi che sussiste il concreto pericolo che faccia altrettanto per le prossime, previste tra un anno: lo si desume da intercettazioni. Ma, appunto, il pericolo non è attuale, potrebbe pentirsi. Comunque, siccome il diavolo fa le pentole etc., il nostro moderno legislatore si è dimenticato di una vecchia tecnica, gli "stamponi". Per esempio, secondo la nuova legge, il giudice deve indicare "le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all'articolo 275-bis, comma 1" (il braccialetto elettronico). Basterà un timbro che dica "il braccialetto elettronico non è disponibile"; in effetti ce ne sono pochissimi. Se invece per caso uno è disponibile, si adopererà un altro timbro: "Il braccialetto elettronico non impedisce di comunicare con Internet, cellulari e piccioni viaggiatori; sicché l'inquina - mento probatorio non potrebbe essere evitato". Anche per l'"autonoma valutazione" il timbro sarà utilissimo: "Questo giudice ha letto le argomentazioni del pm, le condivide interamente, non sa esporle meglio e quindi le copia integralmente facendole proprie". È una pena. Ci avviamo a essere lo Stato più corrotto del mondo, la Giustizia è una tragica farsa, detenuti per corruzione, evasione fiscale, reati societari e finanziari in pratica non ce n'è, gli investitori stranieri fuggono; e i nostri illuminati legislatori si fanno la punta al cervello per rendere ancora più inefficiente il processo penale. Toscana: Giachetti (Pd) su chiusura Opg riforma tardiva, la Regione va commissariata La Repubblica, 15 aprile 2015 "Perché la Toscana non è stata commissariata per i ritardi della riforma degli Opg"? È un esponente del Partito Democratico vicino al premier Matteo Renzi a lanciare l'attacco alla Regione Toscana. Il deputato Roberto Giachetti ha presentato un'interrogazione in commissione giustizia ai ministri Andrea Orlando e Beatrice Lorenzin. Evidentemente la soluzione adottata dalla giunta non piace a Roma, nemmeno allo stesso partito del governatore. Giachetti chiede "quali siano le ragioni per le quali la regione Toscana, pur non avendo previsto entro il 31 marzo alcuna residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza con le caratteristiche previste dalla legge, non sia stata commissariata". Poi ricorda come ci potrebbe essere un'incongruenza fra gli atti adottati dalla giunta regionale e quanto previsto dalla normativa nazionale. "Fra le soluzioni - scrive- tutte provvisorie in dispregio di quanto richiesto dalla legge 81 del 2014, la delibera individua quella dell'istituto penitenziario Mario Gozzini, che fino ad oggi ha ospitato una trentina di semiliberi e circa sessanta detenuti a custodia attenuata con problemi di tossicodipendenza". Poi Giachetti chiede dove siano stati sistemati i vari ospiti dell'Opg che a questo punto dovevano essere dimessi nelle varie strutture alternative, come i Rems. Sono simili le critiche avanzate dalla Cisl toscana. "Mettere la Rems in un carcere è l'esatto contrario di quanto detto dalla legge - dicono dal sindacato. Al Gozzini sono addirittura stati fatti sopralluoghi tecnici, che hanno evidenziato la necessità di lavori di adeguamento, forse più costosi di quelli per Montelupo da 8 milioni di euro, e senza un'idea precisa di cosa fare. Intanto siamo sconcertati dal ministero della Giustizia e dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, che paiono inermi di fronte a queste ripetute fantasiose ipotesi della regione Toscana". Dal sindacato si sottolinea che nessuno ha preso in considerazione il personale e le loro famiglie, che si dovranno spostare. Veneto: in attesa della Rems, internati dimessi dagli Opg accolti in tre Centri "protetti" di Filippo Tosatto La Tribuna di Treviso, 15 aprile 2015 In attesa dell'allestimento di un istituto regionale, da Mogliano Bassano e Verona arriva la disponibilità a ricoverare i 45 malati giunti dagli ospedali giudiziari chiusi. Sono 45 i malati di mente veneti in via di dimissione dagli ospedali psichiatrici giudiziari di Reggio Emilia (maschile) e Castiglione delle Stiviere (riservato alle donne) chiusi per legge il 31 marzo scorso. Alcuni, autori di gravi atti criminali, sono stati dichiarati socialmente pericolosi; altri, psicolabili propensi a gesti inconsulti ed autolesionisti, richiedono protezione e cure. Dove collocarli? Per loro la riforma prevede l'accoglienza nelle Rems (le neonate residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria), alternative - sulla carta almeno - al precedente ricovero manicomiale. La Regione Veneto (incalzata dal ministero della Salute che ha minacciato il commissariamento in caso di ritardi) ha scelto di realizzare la Rems a Nogara, nel Veronese, e il direttore generale della sanità regionale, Domenico Mantoan, ha dichiarato stazione appaltante dei lavori la competente Ulss 21: il progetto esiste già, così come i finanziamenti - 14 milioni di euro stanziati dallo Stato - ma per portarlo a termine occorreranno circa tre anni. Nel frattempo dove andranno i malati? La linea è quella di prevedere tre "residenze intermedie e provvisorie", allestite in luoghi di cura già attivi e dotati dei necessari requisiti terapeutici e di sicurezza; oppure in strutture dismesse ma in buone condizioni, facilmente attrezzabili allo scopo. A tal fine, Mantoan si è rivolto ad un gran numero di aziende sanitarie, ospedali e cliniche, sia pubblici che privati-accreditati e qualche riscontro positivo è già arrivato, a cominciare dall'istituto "Costante Gris" di Mogliano Veneto - complesso specializzato nella cura dei malati di mente, si occupa anche di profughi e di donne e minori abbandonati - che si è dichiarato pronto ad allestire una rems provvisoria capace di accogliere una quindicina di pazienti; analoga disponibilità è stata manifestata dall'Ulss di Verona (che offre i locali e propone di affidare la gestione dell'accoglienza ad una cooperativa) e da quella di Bassano, che dispone dei padiglioni ospedalieri inutilizzati a Mezzaselva. La questione, così, sembra avviarsi a soluzione dopo il battibecco a distanza tra l'assessore alla sanità Luca Coletto ("Non vogliamo più lager") e il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo ("Il Veneto è inadempiente"). A sollevarla, con un'interrogazione al governatore Zaia precedente il fatidico 31 marzo, aveva provveduto il consigliere regionale Claudio Sinigaglia, l'esperto di welfare del Pd, lesto a segnalare la delicatezza e l'urgenza del caso. Molise: l'allarme del Sappe "situazione grave nelle tre carceri della Regione" www.ilgiornaledelmolise.it, 15 aprile 2015 L'incremento di poliziotti penitenziari per sanare le carenze degli organici dei Reparti operativi in Molise, lo stanziamento di fondi per favorire la formazione e l'aggiornamento professionale dei Baschi Azzurri ed il lavoro dei detenuti in carcere nonché la garanzia che il carcere di Isernia resti a pieno titolo funzionante, viste talune incontrollate voci che lo vorrebbero chiuso a breve. Sono le richieste presentate, al Vice Presidente del Senato della Repubblica, Maurizio Gasparri, che ha incontrato a Roma i rappresentanti molisani del Sappe. nel corso di una visita della Segreteria Generale del sindacato con il parlamentare nel carcere di Regina Coeli. Luigi Frangione, coordinatore regionale per il Molise del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, ha ricordato la situazione delle carceri molisane. "Oggi in Molise sono detenute 301 persone: 72 a Campobasso 41 a Isernia e 118 a Larino. Ed altre 131 scontano una pena sul territorio molisano, nel carcere invisibile delle misure alternative alla detenzione - ha dichiarato. La situazione penitenziaria, in Molise, resta grave e questo determina per i poliziotti penitenziari pericolose condizioni di lavoro e un elevato indice di stress. Pensare che in alcune sede, come Larino e Isernia, sono state spese decine di migliaia di euro per installare telecamere di controllo che rendono superfluo la presenza dell'Agente, che invece continuano a stare lì. I numeri degli eventi critici accaduti nelle carceri molisane nell'anno 2014 lo dicono chiaramente. A Campobasso - ha aggiunto - 4 detenuti hanno tentato il suicidio, salvati in tempo dai nostri eroici poliziotti, ed uno ha provato ad uccidersi anche a Isernia. Gli atti di autolesionismo, poi, con detenuti che si sono deturpati il proprio corpo sono stati 18 a Larino e 10 a Campobasso. Anche le aggressioni sono state molte, con 20 ferimenti a Larino e 4 a Campobasso, che ha pure contato 5 colluttazioni. L'incontro di oggi a Roma con il Vice Presidente del Senato della Repubblica Gasparri ci fa sperare che le cose possano cambiare, in meglio, per dare maggiore sicurezza alla Polizia Penitenziaria delle carceri del Molise e a tutti i molisani", ha concluso Frangione. Reggio Calabria: il carcere di Palmi come un gulag, qui la Costituzione è calpestata di Giuseppe Candido (Radicali) e Francesco Molinari (Senatore Sel) Il Garantista, 15 aprile 2015 I proclami del governo qui sono carta straccia: restano sovraffollamento, mancanza di personale, carenza di attività educative. Nonostante i proclami del governo, e anche se la situazione di sovraffollamento è un pò migliorata rispetto a quella del recente passato, abbiamo comunque constatato che nel carcere di Palmi non solo resta ampiamente superata la capienza regolamentare di 152 posti (erano infatti presenti 168 detenuti, con un sovraffollamento pari al 110%), ma che le condizioni di detenzione, sia dal punto di vista igienico sanitarie, sia per la finalità rieducativa, restano assai lontane dal dettato costituzionale e dal diritto europeo. La nota assai dolente dell'istituto è la carenza cronica di agenti di polizia penitenziaria poiché a fronte di 135-140 agenti assegnati e di una pianta organica di 122 agenti, effettivamente in servizio ce ne erano solo 95. E, diciotto di questi risultano impegnati nel nucleo traduzioni. Una carenza di organico che, nel carcere di Palmi, si somma alle problematiche legate a una struttura fatiscente, che sconta l'età di costruzione (fine anni 70) e che è ancora caratterizzata da celle (camerotti e cubicoli) fredde, umide, senza né doccia (ci sono solo quelle comuni) né acqua calda, con grate alle finestre che fanno passare a stento la luce naturale, e con pareti dei bagni in cella e nelle docce dove l'intonaco si distingueva a stento tra la muffa. In tutto ciò, solo i 52 detenuti della media sicurezza passano otto ore al giorno fuori dalla cella, tra passeggi e socialità, mentre, per le carenze di organico, i detenuti dell'alta sicurezza permangono nelle celle "pollaio" per 20 ore al giorno e ne fanno solo due d'aria e due di socialità. Solo trenta i detenuti che lavorano alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria (il 20%), tutti gli altri girano i pollici. Nessun detenuto lavora fuori dal carcere o con cooperative sociali all'interno, ma il direttore del carcere, dott. Pani che ci ha guidato durante tutta la visita, ce la mette tutta per tentare di migliorare le condizioni di vita dei detenuti: c'è un laboratorio teatrale e un'area teatro dove vengono svolte rappresentazioni in occasioni delle feste, l'ultima a Pasqua. C'è un campo sportivo e, in economia, è stata ristrutturata un'area adibita a "palestra" dove i detenuti, durante le ore d'ara o di socialità, possono optare per fare un po' di sport. Ma anche dal punto di vista igienico-sanitario le cose non vanno meglio. Con sette detenuti tossico dipendenti, 3 casi psichiatrici in trattamento e cinque casi con malattie infettive, i medici in pianta organica sono 9, oltre alla psicologa, ma un solo medico (e senza infermiere) presta servizio H24. C'è l'area radiologia, ma non è a norma, è chiusa dal 2009 per un corto circuito e anche perché non c'è il tecnico radiologo. Come pure manca l'otorino laringoiatra benché ci sia il relativo ambulatorio. Per non parlare della "cartella clinica digitale", che manca in tutta la Calabria. Ma quel che in tutto ciò è ancora più grave è che, dei 168 "ospiti" presenti, soltanto una piccola minoranza (26 detenuti, il 15%) è lì con una condanna definitiva. Settantacinque detenuti, il 44,6 per cento, è solo imputato ed è lì, quindi, per una misura cautelare; 38 detenuti hanno solo una sentenza di primo grado ma hanno prodotto ricorso in appello, 18 i ricorrenti in cassazione. Tutto ciò è aggravato dalla irragionevole durata dei processi, che l'Europa continua a condannare, e dal fatto che, anche per i detenuti del carcere di Palmi, sono già molti i ricorsi per detenzione in condizioni inumane e degradanti che sono già stati rigettati dal magistrato di sorveglianza e che dimostrano l'inadeguatezza dei "rimedi risarcito" posti in essere per ottemperare alla sentenza Torreggiani. Frosinone: Vincenzo Longobardi "mi riempiono di tavor ma io sto male e voglio morire" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 15 aprile 2015 Un detenuto ha tentato il suicidio e soffre di gravi patologie curate solamente con gli antidolorifici e gli psicofarmaci. Si tratta di Vincenzo Longobardi, detenuto al carcere di Frosinone. Un mese fa pubblicammo una sua lettera segnalata dal blog "Urla dal silenzio" che da anni propone regolarmente le lettere dei detenuti e a distanza di tempo la situazione è peggiorata. Vincenzo Longobardi soffre di varie problematiche di salute. Ovvero apnea notturna, problemi d'udito, patologia che non gli consente di vedere con l'occhio sinistro, e che richiederebbe un intervento visto che tale malattia gli sta danneggiando anche l'occhio destro, grossi problemi con la colonna vertebrale. Da anni sa che dovrebbe essere operato, ma nessuno muove un dito; se non si interviene per tempo su certe problematiche, si rischia la paralisi e altri esiti devastanti. Nonostante la segnalazione agli addetti ai lavori tra i quali il direttore del carcere stesso, nulla è cambiato. Lo veniamo a sapere tramite l'ennesima lettera indirizzata al blog "Urla dal silenzio" che noi pubblichiamo per intero. "Caro Alfredo (il titolare del blog, ndr), sono il tuo amico Vincenzo, che ti scrivo per farti sapere che le cose qui non stanno bene, anzi malissimo, perché nessuno, dico nessuno , mi ha chiamato e come tu mi fai sapere - tramite l'ultima lettera che ho ricevuto- nessuno si preoccupa di me. Adesso ho altre cose nuove da dirti. Mio fratello mi ha mandato un foglio per fare i colloqui visivi con lui, visto che tempo fa è uscita una circolare che è legge fare i colloqui con i propri famigliari. E passato quasi un mese e fino adesso non so quasi niente, Quanto tempo ancora devo aspettare per fare questi famosi colloqui? Poi, dopo il mio primo tentativo di suicidio mi levarono il piantone che serviva a controllarmi e quindi dissi alle guardie: "Lasciatemi la cella aperta perché le voci che io sento mi dicono di fare la stessa cosa, cioè impiccarmi di nuovo e se il mio amico di cella non c'è, chi mi salva?". Ho parlato proprio poco fa con lo psichiatra e gli ho detto che avevo ancora le voci e lui mi ha aumentato le gocce che sono allucinogene e che mi fanno stare malissimo: figurati che sono andato a colloquio che non capivo niente e mia moglie si è preoccupata. Anche i miei figli mi hanno detto: "Babbo, cos'è che non va?". Ed io gli ho detto che mi ero svegliato in quel momento, perciò immagina come ti butta giù questa terapia. Al di fuori della terapia... tavor, tranquillanti, antidepressivi... e di altre terapie che non ricordo come si chiamano... perciò immagina come io, a 46 anni, mi devo sentire. E meglio stare al manicomio che in questo carcere che ti porta allo sfinimento. Poi ho fatto due domandine, una dietro l'altra, per parlare con il giudice di sorveglianza, sperando che mi avrebbe chiamato. Poi ho fatto più di due domandine per parlare con il direttore Francesco Cocco e fino ad adesso nessuna risposta". Se tutto quello che dice Vincenzo corrispondesse a realtà - scrive la redazione del blog "Urla dal silenzio" - si potrebbe sintetizzare la questione in sei questioni fondamentali. La prima e che c'è una persona (Vincenzo Longobardi) affetta da gravi patologie, in merito alle quali (dice Vincenzo) non vi è nessuna azione per permetterle di affrontarle da un punto di vista terapeutico. L'unica "azione" è imbottirlo di psicofarmaci; giunto all'esasperazione, Vincenzo tenta il suicidio, Si salva per miracolo grazie all'intervento di una guardia e di un detenuto che, accorgendosi che Vincenzo penzolava, intervengono appena in tempo per salvargli la vita; Vincenzo, dopo aver scritto una prima volta per raccontare la sua drammatica situazione, scrive una seconda volta per raccontare il suo tentativo di suicidio e chiedere aiuto; vengono avvisati della vicenda il direttore del carcere di Frosinone, Francesco Cocco, e il magistrato di Sorveglianza di Frosinone. Tramite Cocco la situazione viene ulteriormente segnalata all'Asl di Frosinone e al magistrato di Sorveglianza e al provveditorato regionale del Lazio. Nonostante la denuncia del blog, Vincenzo scrive ancora una volta, raccontando che nessuno è ancora concretamente intervenuto. Alfredo Cosco - il titolare del seguitissimo blog - racconta che mai come in questo caso, ci sono stati continui appelli e mai, sempre come in questo caso, un domani, di fronte a una ipotetico malaugurato epilogo negativo di questa storia, non si potrà dire che non si sapeva nulla. Potenza: detenuto di 24 anni tenta di impiccarsi, un suicidio sventato dagli agenti www.basilicata24.it, 15 aprile 2015 Un detenuto di nazionalità albanese, di 24 anni, ha tentato di uccidersi nella sua cella del carcere di Potenza, impiccandosi. Il giovane che finirà di scontare la sua pena nel 2018 era stato condannato per i reati di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. "L'insano gesto - posto in essere mediante impiccamento - non è stato consumato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari, ma l'ennesimo evento critico accaduto in un carcere italiano è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Il Sappe, il sindaco dei Baschi Azzurri, attraverso il segretario regionale lucano Saverio Brienza sottolinea che "alla data del 31 marzo scorso erano detenute a Potenza 166 persone, delle quali 14 sono donne. Nel penitenziario, negli ultimi dodici mesi del 2014, 2 tentati suicidi sventati in tempo dai dagli agenti della Polizia penitenziaria, 23 episodi di autolesionismo, 4 ferimenti e 16 colluttazioni". "Per fortuna delle Istituzioni - conclude il segretario generale Capece- "gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - a Potenza e nelle altre sedi lucane di Melfi e Matera - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri lucanee del Paese tutto". Reggio Calabria: sono finiti i braccialetti e Hugo Balestrieri, 71 anni, deve marcire dentro di Damiano Aliprandi Il Garantista, 15 aprile 2015 Giorgio Hugo Balestrieri, 71 anni, ex capitano della Marina Militare, ex ufficiale Nato, ex tessera 2191 nella P2 di Licio Gelli, per 24 anni presidente della potentissima sede del Rotary di New York, sospettato da alcuni magistrati di essere stato un agente dei servizi segreti americani in Calabria, è recluso nel carcere di Reggio Calabria a causa dei braccialetti elettronici esauriti e quindi non più disponibili. Nei confronti di Balestrieri - cittadino statunitense dal 1981 -pende l'accusa della Dda di Reggio Calabria (indagine Maestro del 22 dicembre 2009) di concorso esterno in associazione mafiosa per aver favorito, pur senza farne organicamente parte, la ‘ndrina Molè di Gioia Tauro (Reggio Calabria). La difesa di Balestrieri (l'avvocato Francesco Ciabattoni del Foro di Ascoli Piceno) aveva fatto istanza di liberazione ma il Gip del Tribunale di Reggio Calabria, pochi giorni fa, nel respingerla, ha optato per gli arresti domiciliari con obbligo di indossare il braccialetto elettronico. La Toscana era pronta ad accogliere (in una residenza di famiglia) il cittadino italo americano ma la locale stazione dei Carabinieri (delegata) è sprovvista del marchingegno. L'attesa sarà lunga visto che - come noi de Il Garantista anticipammo l'anno scorso - i braccialetti sono esauriti. L'intesa tra la Telecom e il ministero della Giustizia - che a questo punto potrebbe richiedere una revisione -prevedeva la fornitura contemporanea di un massimo di 2mila braccialetti e in questo momento risulta siano tutti già assegnati. La quantificazione dei braccialetti che Telecom Italia si è impegnata a fornire al ministero della Giustizia risale all'accordo siglato con l'allora ministro Angelino Alfano, dopo uno studio ad hoc commissionato sull'applicabilità della misura. Il dispositivo viene gestito dalla centrale operativa grazie a un'infrastruttura di telecomunicazioni a larga banda messa a disposizione da Telecom. Il sistema fornito dall'operatore provvede anche all'assistenza 24 ore su 24, 365 giorni all'anno (dal momento che potrebbero rendersi necessarie installazioni o controlli anche nei giorni festivi o di notte, a seconda delle necessità dell'autorità giudiziaria), e l'aggiornamento dei software agli standard più avanzati. Il braccialetto elettronico, che si applica alla caviglia, è composto anche da una centralina, che ha la forma di una radiosveglia, che va installata nell'abitazione in cui deve essere scontata la condanna. Un devi ce che riceve il segnale dal braccialetto e lancia l'allarme per eventuali tentativi di manomissione e in caso di allontanamento del detenuto. Il business dei braccialetti elettronici nasce nel 2001 da un accordo di due illustri membri dell'allora governo Amato: l'ex ministro dell'Interno, Enzo Bianco, e l'ex Guardasigilli, Piero Fassino, oggi sindaco di Torino. Ma dei ben 400 dispositivi elettronici che il Viminale ha noleggiato dalla Telecom, solo 11 erano stati utilizzati: in poche parole, per una decina di braccialetti utilizzati, si impose una spesa pubblica di circa 11 milioni di euro all'anno per un affare complessivo da 110 milioni di euro. Uno spreco abnorme. Un gap risolto dalla ex ministra Cancellieri tramite un decreto del 2013, il quale obbliga l'utilizzo dei braccialetti per chi sia agli arresti domiciliari. Ma risolto un problema, se ne è creato un altro: i dispostivi sono pochi e quindi esauriti. Roma: il Vicepresidente del Senato Gasparri visita il penitenziario di Regina Coeli www.ogginotizie.it, 15 aprile 2015 "Un incremento di poliziotti penitenziari per sanare le carenze degli organici del Reparto di Regina Coeli, lo stanziamento di fondi per favorire la formazione e l'aggiornamento professionale dei Baschi Azzurri ed il lavoro dei detenuti in carcere. È quello che abbiamo chiesto al Vice Presidente del Senato della Repubblica, Maurizio Gasparri, che abbiamo incontrato a Roma nel corso di una visita della Segreteria Generale del Sappe con il parlamentare nel carcere di Regina Coeli". Ne da notizia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che ha incontrato a Roma il parlamentare di Forza Italia insieme al segretario regionale Sappe del Lazio Maurizio Somma e ai sindacalisti regionali. Gasparri ha visitato il Centro clinico del penitenziario e le sezioni detentive, accompagnato anche dal segretario provinciale Sappe di Roma Giovanni Passaro, dal direttore del carcere e dal Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria. "Oggi a Roma Regina Coeli sono detenute 918 persone: 784 sono gli imputati e 133 i condannati. La situazione penitenziaria, a Regina Coeli e nel Lazio, resta grave e questo determina per i poliziotti penitenziari pericolose condizioni di lavoro e un elevato indice di stress. I numeri degli eventi critici accaduti nei dodici mesi del 2014 a Roma Regina Coeli sono allarmanti: si sono infatti registrati 8 tentati suicidi di detenuti, sventati in tempo dai poliziotti penitenziari, 70 episodi di autolesionismo, 41 colluttazioni e 7 ferimenti. L'incontro di oggi a Roma con il Vice Presidente del Senato della Repubblica Gasparri ci fa sperare che le cose possano cambiare, in meglio, per dare maggiore sicurezza alla Polizia Penitenziaria che lavora a Regina Coeli e nelle altre carceri laziali". Il Sappe ha anche chiesto al Vice Presidente del Senato della Repubblica la riapertura delle trattative per il rinnovo del contratto di lavoro e per la riorganizzazione e l'omogeneizzazione delle carriere delle Forze di Polizia. Firenze: i detenuti diventano chef con gli "aperitivi galeotti" a Sollicciano Redattore Sociale, 15 aprile 2015 Giovedì 23 aprile i reclusi dell'istituto penitenziario fiorentino cucineranno insieme a chef qualificati per un aperitivo aperto al pubblico. Le cene galeotte arrivano al carcere di Sollicciano, dopo la felice esperienza al carcere di Volterra. Giovedì 23 aprile primo appuntamento con l'aperitivo galeotto. I detenuti parte del progetto (per ora 10, 5 uomini e 5 donne) saranno impegnati nella realizzazione di un aperitivo aperto al pubblico su prenotazione, supportati per questa prima serata - quattro gli appuntamenti in calendario - da Simone Cipriani del ristorante Il Santo Graal, chef giovanissimo ma già da tempo agli onori della cronaca quale firma fra le più interessanti del panorama cittadino grazie alla sua una cucina che unisce ricerca, qualità delle materie prime e grande creatività. Un impegno quello dello chef che, giusto sottolinearlo, avviene in maniera assolutamente gratuita. Ma i veri protagonisti saranno ovviamente loro, i detenuti, che dopo essersi cimentati ai fornelli nella realizzazione di gustosi finger food da aperitivo saranno presenti in sala - lo splendido "Giardino degli Incontri" firmato dall'architetto Giovanni Michelucci, con spazi interni ed esterni ispirati alle suggestive opere dello spagnolo Antoni Gaudì - per occuparsi del servizio a buffet. E anche di quello dei vini, offerti dalla Fattoria Montellori di Fucecchio. Ma non di solo cibo beneficeranno coloro che, per la cifra di venti euro (l'intero ricavato contribuirà al restauro del Battistero di Firenze) parteciperanno agli aperitivi di Sollicciano. Fra un piatto e l'altro si potrà ascoltare buona musica dal vivo, eseguita da ragazzi ospiti del carcere e iscritti al laboratorio musicale, alternata a letture da parte dei partecipanti al laboratorio di teatro: giovedì 23 aprile in particolare saranno protagonisti i brani dello scrittore fiorentino Marco Vichi, presente alla serata. Voluti da Unicoop Firenze, che oltre a fornire le materie prime necessarie assume i detenuti retribuendoli regolarmente, e dalla Direttrice della struttura penitenziaria Maria Grazia Giampiccolo, gli Aperitivi Galeotti sono possibili grazie all'imprescindibile apporto di Pantagruel - Associazione per i diritti dei detenuti Onlus (www.asspantagruel.org), la collaborazione del Ministero della Giustizia e della direzione della Casa Circondariale N.C.P Sollicciano, il supporto della delegazione fiorentina della Fisar e la supervisione artistica del giornalista Leonardo Romanelli. Firenze: Opg, passeremo da una struttura organizzata a tante piccole e disorganizzate? da Linea Civica Montelupo www.gonews.it, 15 aprile 2015 "Il 31 marzo ormai è passato, apparentemente senza colpo ferire, e niente pare essere davvero cambiato. Dopo anni avuti a disposizione e trascorsi inutilmente, la Giunta della Regione, con grande ritardo e appena il giorno prima della chiusura degli Opg ha adottato una delibera in cui individua i luoghi dove dovranno sorgere le rems. Rems che, ancora non nate, già destano preoccupazioni e perplessità di non poco conto. Nonostante qualcuno voglia farci credere che decidere il giorno prima per il giorno dopo il destino di internati e lavoratori non sia sintomo di indeterminatezza, noi continuiamo convintamente a dire per amore di correttezza e verità che, ad oggi, niente si sa di più rispetto a un mese fa se non qualche nome di località in cui dovrebbero sorgere le nuove strutture per accogliere quei detenuti in carico all'Opg ritenuti ancora socialmente pericolosi e quindi sottoposti a misura di sicurezza. Siamo entrati in una fase di transizione in cui l'Opg non fa più l'Opg, e degenti, lavoratori e struttura navigano ancora a vista. E proprio da questi ultimi dobbiamo partire. Le Rems formato Toscana, infatti, rischiano di tradire totalmente lo spirito della legge che le ha create. I detenuti, infatti, sarebbero dovuti passare da una situazione carcerario-sanitaria come l'Opg a una realtà più sanitaria che detentiva, la Rems appunto, basata sui principi di territorialità e specialità di cura: ogni Regione avrebbe dovuto prendere in carico i suoi degenti, e ogni struttura non avrebbe dovuto ospitare più di 20 degenti. Ad oggi, invece, sappiamo che la Toscana ha già stipulato convenzioni con Liguria e Umbria per tenersi in carico i degenti di competenza di queste due Regioni (facendo saltare quindi la territorialità). Fra le strutture individuate, inoltre, c'è il cosiddetto Solliccianino, che conterrà ventidue posti - che sembrano pochi, ma in questa materia i numeri sono fondamentali - ma potenzialmente può contenerne molti di più. C'è insomma, il rischio concreto che si passi da un unico Opg organizzato a tanti mini Opg disorganizzati, in totale tradimento della riforma voluta negli anni 70 da Basaglia e portata a termine il 31 marzo con la chiusura degli Opg. Senza contare inoltre che, come segnalato dalle associazioni dei penalisti e anche da parte della magistratura, la chiusura degli Opg è avvenuta a codice penale invariato; codice penale che, appunto, contiene ancora l'indicazione della misura di sicurezza di contenimento in Opg. E i magistrati, che peraltro fino a pochi giorni prima della chiusura hanno continuato a internare in Opg detenuti, adesso dovrebbero trovarsi a firmare decreti di scarcerazione, o peggio, a condannare al carcere chi dovrebbe essere condannato invece alla misura di sicurezza in Opg perché non capace di intendere e di volere, facendo saltare il doppio binario pena-misura di sicurezza che contraddistingue il nostro sistema penalistico? E per quanto riguarda la sicurezza all'interno delle Rems stesse, ancora si brancola nel buio: queste non prevedono il presidio di sicurezza della polizia penitenziaria. Si ricorrerà quindi ad appalti esterni? Con quali risultati? Ulteriori costi, che andranno a sommarsi ai presunti 11 milioni necessari per adattare le strutture individuate per ospitare le Rems e trasferirvi gli internati attualmente ospitati nell'Opg. In tutto ciò, il personale sanitario subirà la perdita di posti di lavoro già annunciata, e la polizia penitenziaria ancora non conosce il suo futuro. La struttura stessa del complesso mediceo ancora non conosce il suo destino, unico caso fra le altre strutture italiane che ospitavano gli Opg. Mancano, insomma, in questo processo di superamento, affrontato con incomprensibile fretta, demagogia e pressappochismo, una visione di insieme delle criticità da affrontare e una reale trasparenza sulle scelte da compiere. Per parte nostra, promuoveremo certamente un processo di cittadinanza attiva, già a partire dal Consiglio comunale aperto convocato il 22 aprile, sul destino del complesso dell'Ambrogiana, rifuggendo tavoli tecnici e task force proposte, che chiudono e non assicurano il reale coinvolgimento della comunità nel superamento dell'Opg e nella scelta del futuro del complesso che resta, a nostro avviso, compatibile sia con la riapertura della parte nobile della Villa alla cittadinanza, sia con la permanenza nelle scuderie di un piccolo carcere a tenue criminalità". Livorno: il Garante regionale Corleone "trasformare il carcere di Gorgona in modello" di Benedetta Bernocchi www.parlamento.toscana.it, 15 aprile 2015 Il garante dei detenuti della Toscana ha visitato la struttura: sperimentare il diritto all'affettività, richiamo per corsi professionali ed a luglio riunione dei garanti. O diventa un carcere esemplare o così non ha più senso di esistere. Dopo aver visitato l'istituto penitenziario dell'isola di Gorgona, dove sono recluse 58 persone, il garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone, ha parlato della mancanza dell'idea del significato della pena e del modello. Si tratta di capire - questo il pensiero del garante, che nella visita è stato accompagnato dal garante dei detenuti di Livorno, Marco Solimano - perché tenere un carcere su un'isola. Mentre in passato si trattava di istituti speciali o per confinati, oggi ha senso se diventa qualcosa di alternativo con un progetto ben definito. Sugli interventi da compiere, Corleone ha specificato che andrebbe ampliata la vocazione dell'isola, un modello dal punto di vista ambientale, sociale e culturale, immaginando anche un intervento pubblico. L'isola - è la proposta di Corleone - potrebbe essere un richiamo per i corsi professionali: si potrebbero organizzare iniziative per alcune categorie di professionisti e far gestire ai detenuti l'accoglienza, lavorerebbero così per un progetto di sociabilità. Corleone ha definito Gorgona un "paradiso" dove i detenuti vivono in celle singole, spaziose, ben ammobiliate e con bagni decenti. Sarebbe - ha detto - il luogo ideale per sperimentare il diritto all'affettività in carcere. Il garante ha, però, ricordato anche i numerosi problemi di questa realtà a partire dalla mancanza di trasporti ai costi eccessivi per il mantenimento della struttura alla carenza di lavoro per i detenuti. Non c'è più il collegamento della Toremar, ha rilevato il garante regionale, e per arrivare sull'isola ci vuole la pilotina della polizia penitenziaria. Quanto all'energia, è stato fatto un impianto con 11 generatori a gasolio, costato 2 milioni di euro e ogni giorno per farlo funzionare occorrono 400 litri di gasolio, nessuno ha pensato ai pannelli solari o all'eolico. Manca, infine, il lavoro per i detenuti, e quello che c'è non ha riconoscimenti professionali. I detenuti sono occupati solo tre ore al giorno nella manutenzione dei fabbricati o nel forno e non più cinque ore come in passato. Sono diminuite le attività, ha aggiunto Corleone, non ci sono più né l'allevamento delle orate né la coltivazione delle piante officinali, né la produzione di olio e il caseificio è stato chiuso. Il garante ha ricordato che sull'isola ci sono circa 500 capi di bestiame tra bovini, suini e ovini e le difficoltà, in mancanza di pascoli, del loro allevamento. L'unica cosa che funziona, questo la sua valutazione, è la tenuta Frescobaldi per la produzione di vino, ma sono impiegati pochi detenuti. Corleone ha infine proposto, tra le ipotesi per il rilancio di Gorgona, una riunione di tutti i garanti dei detenuti da tenersi a luglio. La prossima settimana il garante regionale terminerà il giro di visite alle carceri toscane: lunedì 20 sarà alla casa circondariale femminile di Empoli e martedì 21 all'Opg di Montelupo. Livorno: più visite delle famiglie, sarà Gorgona il primo carcere dell'affettività Il Tirreno, 15 aprile 2015 La visita del garante: "Ci sono spazi e ambienti per favorire le visite delle famiglie". L'istituto penitenziario dell'isola di Gorgona "sarebbe il luogo ideale per sperimentare il diritto all'affettività in carcere". Lo ha detto il garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone dopo aver visitato il carcere dove sono recluse 58 persone. "Si tratta di capire - ha detto Corleone, accompagnato dal garante dei detenuti di Livorno, Marco Solimano - perché tenere un carcere su un'isola. Mentre in passato si trattava di istituti speciali o per confinati, oggi ha senso se diventa qualcosa di alternativo con un progetto ben definito". Sugli interventi da compiere, Corleone ha specificato che andrebbe ampliata la vocazione dell'isola, un modello dal punto di vista ambientale, sociale e culturale, immaginando anche un intervento pubblico. "L'isola - ha proposto - potrebbe essere un richiamo per i corsi professionali: si potrebbero organizzare iniziative per alcune categorie di professionisti e far gestire ai detenuti l'accoglienza, lavorerebbero così per un progetto di sociabilità". Corleone ha definito Gorgona un "paradiso" dove i detenuti vivono in celle singole, spaziose, ben ammobiliate e con bagni decenti ma, ha ricordato, dove ci sono anche numerosi problemi a partire dalla mancanza di trasporti ai costi eccessivi per il mantenimento della struttura fino alla carenza di lavoro per i detenuti. "Non c'è più il collegamento della Toremar - ha rilevato il garante regionale - e per arrivare sull'isola ci vuole la pilotina della polizia penitenziaria. Quanto all'energia, è stato fatto un impianto con 11 generatori a gasolio, costato 2 milioni di euro e ogni giorno per farlo funzionare occorrono 400 litri di gasolio, nessuno ha pensato ai pannelli solari o all'eolico. Manca, infine, il lavoro per i detenuti, e quello che c' non ha riconoscimenti professionali". Avellino: carcere di Ariano Irpino, detenuto extracomunitario ingoia una lametta www.irpinianews.it, 15 aprile 2015 L'Osapp, l'Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria, in una nota segnala al prefetto di Avellino Carlo Sessa la situazione nel carcere di Ariano Irpino relativa "all'invio da parte del Sanitario della struttura Penitenziaria Arianese di detenuti che sono in grave ed imminente pericolo di vita al locale Ospedale Civile". "Nell'ultimo periodo c'è stata una escalation di tali episodi, specialmente nelle ore serali e notturne - si legge - cioè quando il Personale di Polizia Penitenziaria presente in servizio è ridotto ai minimi termini. L'ultimo episodio risale al pomeriggio di ieri, quando un detenuto extra comunitario, riferisce di avere ingoiato delle lamette da barba e pertanto il Sanitario ne disponeva l'invio presso il Pronto Soccorso dell'Ospedale Civile per gli esami del caso. La cosa che ci preoccupa, sono le modalità di esecuzione, in quando il detenuto è stato trasferito dal Penitenziario all'Ospedale, mediante automontata del Corpo (Fiat Stilo), mezzo adibito per il trasporto di Personale di Polizia Penitenziaria e non certamente di detenuti e soprattutto in precarie condizioni di salute". "Tanto è vero che la traduzione del detenuto si è svolta con il solo Personale di Polizia Penitenziaria, senza alcun ausilio Sanitario, ed inoltre il detenuto allocato nella parte posteriore dell'autovettura e seduto al centro in mezzo a due agenti armati con la pistola d'ordinanza, ciò significa che tale situazione è davvero al limite della sicurezza ed inoltre gli Agenti, non erano sicuramente in condizioni operative idonee in caso di qualsiasi evento che potesse accadere lungo l'itinere". "Pertanto questa O.S. sollecita e sensibilizza chi di competenza a porre gli opportuni correttivi a tale incresciosa modalità operativa che non risponde agli standard di sicurezza e a quanto previsto dal Modello Operativo delle traduzioni e dei Piantonamenti, che prevede che l'autovettura del Corpo venga impiegata in attività di supporto alle traduzioni effettuate mediante ambulanza civile e non di proprietà dell'Amministrazione Penitenziaria". "Inoltre, appare davvero incomprensibile, che il detenuto, successivamente dopo qualche ora viene trasferito per ulteriori accertamenti presso la città Ospedaliera G. Moscati di Avellino che dista oltre 60 Km dall'Ospedale Civile O. Frangipane di Ariano Irpino, effettuando la traduzione con la sola ambulanza impiegata per il trasferimento da parte dell'Azienda Ospedaliera, senza alcuna autovettura di supporto del Corpo". "Tale modalità è davvero nuova ed insolita, pertanto si chiede di voler valutare l'opportunità di realizzare un Nucleo Locale T.P. al fine di gestire tali eventi critici e di assegnare Risorse Umane e automezzi per effettuare tali tipologie di servizi". Torino: firmato Protocollo d'Intesa, detenuti potranno completare studi universitari Adnkronos, 15 aprile 2015 Fare in modo che dopo il carcere ci sia l'occasione di riscattarsi è possibile: bisogna però preparare il terreno quando ancora si è in cella. A questo bisogni risponde il protocollo d'intesa, arrivato alla sua terza edizione, siglato oggi da Città di Torino, Regione Piemonte, Casa Circondariale, Università, Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo e Fondo Musy e che dal 2008 ad oggi ha già coinvolto 11 detenuti. Tra gli obiettivi dichiarati c'è quello di far completare ai detenuti gli studi universitari seguendo tirocini formativi negli enti locali, per costruire il proprio futuro e trasformare il momento della pena in un'occasione di vero reinserimento sociale. Cinque i tirocini attivi al momento che coinvolgono 2 italiani e 3 extracomunitari fra i 30 e i 50 anni. Tre le parole chiave del progetto per il presidente dell'Ufficio Pio, Nanni Tosco: "studio, lavoro, reinserimento che hanno dato finora risultati positivi per tutti i casi tranne uno. Un protocollo di grande qualità - aggiunge - per dare un'opportunità concreta ai detenuti". Opportunità di studio e di lavoro per la loro vita fuori dal carcere, come dimostrano i risultati raggiunti dalle persone che hanno completato il loro percorso e che hanno poi trovato un impiego in vari settori, anche in quello legale. "Ho conosciuto alcuni di loro - dice il vicesindaco Elide Tisi -: è attraverso percorsi di questo tipo che si ha il vero reinserimento". "La logica di un progetto come questo - aggiunge l'assessore regionale Monica Cerutti - non è assistenziale, ma vuole favorire gli studenti per creare un futuro e fare del carcere non solo un luogo di pena". Per il rinnovo del protocollo il Fondo Musy ha stanziato 44 mila euro che la Compagnia di San Paolo ha deciso di raddoppiare. Nuoro "Emergenza carceri", al via un progetto che coinvolge i ragazzi delle scuole www.ilmarghine.net, 15 aprile 2015 "Emergenza carceri": è il titolo di un progetto che vedrà protagonisti gli studenti di diverse scuole superiori della città e della provincia. Una iniziativa voluta e promossa dall'Associazione culturale Àndel@s, con il prezioso e fondamentale contributo della Fondazione Banco di Sardegna. Un progetto nato dall'esigenza di approfondire, a partire dai giovani, le tematiche legate al sistema penitenziario italiano. Se è vero, infatti, che "il grado di civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri", altrettanto vero è che il mondo carcerario italiano è in continua emergenza tanto da meritare i richiami continui della Corte europea dei diritti dell'Uomo. Intervenire a livello legislativo è perciò fondamentale. Ancor più fondamentale, tuttavia, ai fini della democrazia e del processo di crescita culturale dell'intero Paese, è la presa di coscienza del problema, così da far "emergere" il tema carcere. È su questi temi, tanto delicati quanto fondamentali, che gli studenti barbaricini apriranno il dibattito (anche attraverso un blog collettivo costruito appositamente, www.emergenzacarceri.it). I primi ad essere coinvolti e ad inaugurare la serie degli incontri sono gli allievi delle terze classi dell'Istituto di istruzione superiore "Alessandro Volta" di Nuoro. L'appuntamento è fissato per venerdì 17 aprile 2015, dalle ore 11 nell'aula magna della scuola diretta da Innocenza Giannasi. A parlare con i ragazzi e le ragazze del "Volta", ci saranno la direttrice della Casa circondariale di Badu e Carros Carla Ciavarella e il giornalista Luciano Piras, autore del libro "I terroristi sono miei fratelli. Don Bussu, il cappellano che piegò lo Stato" (àndel@sedizioni. Nuoro 2013), un saggio che le scuole coinvolte nel progetto hanno avuto in omaggio. Un libro che ripercorre un periodo ben preciso che da Nuoro e dalla "lontana" provincia nuorese ha segnato profondamente la storia d'Italia: i "fatti" di Badu e Carros del 1983, quando don Bussu si schierò apertamente con i padri delle Br allora detenuti a Nuoro. È a partire da questo libro-biografia che gli studenti sono invitati alla riflessione sui temi del carcere, nel tentativo di fornire gli strumenti socio-culturali utili e necessari per una sana e costruttiva critica della realtà. Un impegno civile che dopo gli studenti dell'Istituto Volta vedrà protagonisti gli allievi del Liceo scientifico "Pira" di Dorgali, quelli dell'Istituto superiore "Ciusa" di Nuoro, del Liceo ginnasio "Aproni" di Nuoro e del Liceo scientifico "Fermi", sempre di Nuoro. Taranto: Fns-Cisl, sporcizia in mensa agenti, il caso nel carcere di Largo Magli www.tarantosera.it, 15 aprile 2015 La Fns-Cisl ha riscontrato emergenze igieniche, negli ultimi giorni, presso il locale mensa della Casa Circondariale di Taranto, in concomitanza con l'avvio del servizio affidato ad una Azienda vincitrice di nuova gara di appalto. È quanto si legge in una nota. "Il personale lamenta una serie di disservizi nella somministrazione dei pasti" dichiara Erasmo Stasolla, Segretario generale aggiunto della Fns Cisl Taranto Brindisi "e pare che il cuoco oltre alle sue mansioni, svolge anche quelle di somministratore dei pasti, forse anche di pulizia dei locali della mensa oltre che nelle cucine, dal momento che solo per due ore al giorno egli viene supportato da un altro dipendente che lo aiuta nel lavoro". Ieri mattina una delegazione formata dalla direzione e dalla commissione mensa agenti ha ispezionato detti locali. "Abbiamo riscontrato sporcizia e fatiscenza" rincara Stasolla "in più il pentolame era sporco dal giorno prima ed abbiamo visto piantine di prezzemolo e basilico in vasi di terra, nella cucina piene di formiche. Tutti, insomma ci siamo resi conto di una situazione sgradevole ed insostenibile". La direttrice della Casa Circondariale ha ritenuto opportuno, di conseguenza, sospendere l'erogazione dei pasti per il personale erogando un buono pasto. "Chiediamo interventi urgenti da parte degli organi competenti ed annunciamo una serie di manifestazioni come quelle dell' astensione volontaria dalla mensa e dello stato di agitazione del personale, qualora nei prossimi giorni l'emergenza non rientrasse nella normalità" ha anticipato Stasolla che, conclusivamente, spiega "abbiamo moltissimi Poliziotti penitenziari che hanno la necessità di consumare un pasto caldo e decente, dopo otto ore di duro lavoro in una situazione generale dello stesso Carcere che non è certamente delle migliori". Milano: Cisproject; al giornale "In corso d'Opera" il Premio Vergani 2015 Ristretti Orizzonti, 15 aprile 2015 Nella motivazione è stata evidenziata l'importanza di uno strumento d'informazione scritto dalle persone detenute come opportunità di crescita e riflessione. Il prestigioso Premio Vergani è stato assegnato al giornale In corso d'Opera, realizzato dalla persone detenute grazie all'iniziativa di Cisproject-Leggere Libera-Mente - associazione culturale che si propone di favorire il reinserimento nella cosiddetta società civile - e della casa di reclusione di Milano Opera. Il premio, organizzato dal Gruppo Cronisti Lombardi, è stato consegnato sabato 11 aprile nell'ambito di una cerimonia che si è svolta all'Istituto dei Ciechi di Milano e ha voluto essere un pubblico apprezzamento del particolare valore sociale del progetto. Nella motivazione si è sottolineato come l'informazione debba essere senza barriere per permettere di sentirsi liberi. Con queste premesse un giornale scritto dalle persone detenute diventa uno strumento importante in un percorso di studio e un'occasione per riflettere sulla realtà carceraria, ma anche sugli avvenimenti che avvengono fuori. "È stato un momento di grande emozione - ha detto Carlo, uno dei redattori diversamente liberi, attualmente detenuto, a margine della premiazione - pari a quella che avevo provato nel 1990 in sala parto quando è nato il mio ultimo figlio". "Questo premio è per noi molto importante perché è un riconoscimento del lavoro svolto insieme alle persone detenute, iniziato con la lettura e proseguito con la scrittura, fino ad arrivare all'informazione - ha dichiarato Barbara Rossi di Cisproject- Leggere-Libera-Mente - In particolare, crediamo che scrivere, come leggere, sia una grande opportunità di crescita personale caratterizzata da un profondo spirito di riscatto e uno strumento utile nella prevenzione, affinché nessuno rimanga solo". Nei giorni successivi, il premio è stato riconsegnato al giornale In corso d'Opera - che è diretto da Renzo Magosso ed è curato graficamente da Carlo Ubezio - anche da parte del sottosegretario alla Giustizia. Ulteriori informazioni sono disponibili all'indirizzo www.leggereliberamente.it. Contatti: Ufficio Stampa Cisproject-Leggere-Libera-Mente, e-mail davgrassi@libero.it, cell. 339.4307749. Pordenone: Piccinato (Ln); colloqui tra detenuti e passanti sotto le finestre del carcere www.ilfriuli.it, 15 aprile 2015 Il consigliere della Lega Nord, Riccardo Piccinato, attacca: "Come è possibile avvenga una cosa simile? E la sicurezza?". Colloqui tra detenuti e passanti. Accade anche questo lungo le vie del centro di Pordenone, nei pressi del castello che ospita il penitenziario cittadino. A segnalare la questione, con un certo sgomento, è il consigliere comunale della Lega Nord, Riccardo Piccinato. "Evidentemente - dice il rappresentante del Carroccio - non è bastata l'evasione di un detenuto, che ha poi stuprato, sequestrato, e così rovinato la vita ad una ragazza. Il minimo, nel carcere di Pordenone, ancora evidentemente non viene fatto. Sono ormai molte le segnalazioni che provengono dai cittadini, preoccupati ed esterrefatti, in merito a veri e propri colloqui che avvengono tra i carcerati e i passanti, spesso e volentieri in lingue, casualmente, straniere. Ma com'è possibile che i carcerati riescano a dialogare con chiunque si trovi al di fuori delle strutture? Questo è un problema gravissimo per la sicurezza e per l'incolumità della cittadinanza. Mi chiedo come possa essere o tollerato, o sconosciuto, questo problema visto che, ovviamente, i dialoghi non avvengono a bassa voce. Dov'è la sicurezza? La questione merita un'interrogazione all'Amministrazione per chiedere spiegazioni soprattutto in un momento come questo dove il tema della sicurezza, a causa delle numerose mancanze proprio dell'Amministrazione, diventa sempre più urgente". Milano: detenuto a Bollate sfascia una cella e aggredisce alcuni agenti di Roberta Rampini Il Giorno, 15 aprile 2015 L'uomo è stato subito trasferito al carcere di Monza. Grave episodio di violenza, ieri mattina, nel carcere di Bollate. Un detenuto italiano di 30 anni, in cella per reati di droga e con fine pena per il 2016, ha aggredito un sovrintendente e due agenti scelti della Polizia penitenziaria che lo stavano trasferendo nella casa circondariale di Monza. Quando il detenuto ha appreso la notizia del trasferimento è andato in escandescenza mettendo a soqquadro la cella. Riportato alla calma, accompagnato nell'ufficio matricola per le procedure di rito, ha aggredito il personale deputato alla scorta. La notizia è stata resa nota dal segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece. "Il sovrintendente e due agenti scelti della polizia penitenziaria, sono dovuti ricorrere alle cure dei sanitari al pronto soccorso. Il detenuto, comunque, è stato tradotto presso la casa circondariale di Monza", aggiunge il segretario regionale Sappe della Lombardia, Alfonso Greco. Una nuova ombra si allunga sul carcere di Bollate all'avanguardia per il trattamento dei detenuti e indicato da tutti come "carcere modello" per i molteplici progetti di reinserimento sociale e lavorativo. Lo scorso anno c'erano stati alcuni episodi spiacevoli, come la fuga di tre detenuti mai rientrati in cella dopo un permesso premio e un permesso per lavoro. Da anni critico nei confronti del sistema di sorveglianza dinamica con celle aperte otto ore al giorno, dopo questo episodio il sindacato rincara la dose e aggiunge, "nella casa di reclusione di Milano Bollate la tensione è costante. Nei dodici mesi del 2014 ci sono stati due tentativi di suicidio, sventati in tempo dai poliziotti penitenziari, 24 episodi di autolesionismo, 33 colluttazioni e quattro ferimenti - dichiara Capece - non a caso, il nostro sindacato reitera da tempo la richiesta di interventi sotto il profilo dell'incremento dell'organico della Polizia Penitenziaria e di una nuova organizzazione del lavoro all'interno del carcere". Il direttore del carcere Massimo Parisi, difende la validità del modello Bollate e precisa, "stiamo parlando di un detenuto con evidenti problemi psichiatrici, infatti è stato trasferito a Monza proprio per un periodo di osservazione. Si è trattato di un episodio isolato, che per fortuna non ha avuto gravi conseguenze per gli agenti. La quotidianità dei rapporti tra detenuti e personale di polizia penitenziaria è ben diversa". Droghe: "Renzi abbandoni Serpelloni", lettera aperta alla presidenza del consiglio di Stefano Anastasia Il Manifesto, 15 aprile 2015 Se ce lo consentissero le migliaia di persone perseguitate ingiustamente (incarcerate o anche solamente limitate nei loro diritti civili a forza di sanzioni amministrative), potremmo dire che il peggio che ci resta della peggiore stagione proibizionista è in quella protervia tecnocratica con cui per sei anni è stato gestito e affondato il Dipartimento delle Politiche Anti-droga presso la Presidenza del Consiglio dei ministri: le relazioni al Parlamento svuotate di contenuti, le conferenze nazionali ridotte a misere farse, le Regioni esautorate, i finanziamenti ai servizi accentrati e occultati. Di tutto questo è stato responsabile, politicamente, il sedicente "tecnico" Giovanni Serpelloni, al vertice del Dpa dal 2008 al 2014 per volontà di Carlo Giovanardi. Cancellata la legge dalla Consulta, congedato Serpelloni, pensavamo che si potesse aprire una nuova pagina nella politica sulle droghe, ma ecco che da un recesso della storia una mano si allunga nel presente e cerca in sede giudiziaria una improbabile rivincita. Decideranno i giudici, chiamati maldestramente in causa. A noi il dovere di denunciare l'ennesima prova di arroganza, al Governo in carica la responsabilità di distinguersene. Al Presidente del Consiglio, Matteo Renzi Al Capo Dipartimento delle Politiche Anti-droga, Dott.ssa Patrizia De Rose Mercoledì 22 aprile presso la prima sezione civile del Tribunale di Roma inizierà il processo contro Franco Corleone per una accusa di diffamazione intentata dall'ex Capo del Dipartimento delle politiche antidroga Giovanni Serpelloni, in relazione a una intervista data ai giornali locali del Gruppo Espresso nell'ambito di un'inchiesta sulle spese del Dipartimento politiche antidroga. Franco Corleone, attualmente Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, è stato a lungo parlamentare e per cinque anni sottosegretario alla Giustizia, impegnato con passione e determinazione sui temi del diritto e del carcere. Da trent'anni si occupa della politica delle droghe e per noi è sempre stato un punto di riferimento. L'enormità del risarcimento richiesto, trecentomila euro, dà la misura del carattere intimidatorio della citazione in giudizio, fatta quando - ricordiamo - il dr. Serpelloni aveva ancora responsabilità di vertice nell'amministrazione pubblica e si faceva assistere dall'avvocatura dello Stato. Si tratta di una grave azione che colpisce il diritto di critica, nel caso di specie una legittima contestazione dei criteri di conduzione delle politiche antidroga da parte del dr. Serpelloni, che allora come oggi Franco Corleone e i promotori di questo appello considerano autoreferenziale e senza controllo. Ma dal 17 luglio 2013, giorno in cui è iniziata la causa, tutto è cambiato. La legge Fini-Giovanardi, la cui applicazione era all'origine della polemica politica, è stata cancellata in seguito a una sentenza di incostituzionalità da parte della Consulta. Il dr. Serpelloni è stato allontanato dalla responsabilità del Dipartimento Anti-droga ed è tornato nella sua sede di lavoro, la Asl 20 di Verona (che poi ne sia stato licenziato per giusta causa qui non ci interessa). Quel che è in gioco non è l'esito del processo, siamo infatti convinti che non potrà che essere affermata l'innocenza di Corleone e la legittimità del suo comportamento, ma la libertà di critica e la condivisione di una cultura del confronto da parte delle istituzioni pubbliche. Il Presidente del Consiglio e la nuova responsabile del dipartimento antidroga sono certamente a conoscenza della questione e non possiamo credere che condividano questa azione legale carica di intransigenza ideologica e di intimidazione. Il codice di procedura civile indica loro la strada per chiudere una vicenda assai imbarazzante. Chiediamo a Matteo Renzi e a Patrizia De Rose di compiere un atto di discontinuità attraverso una indicazione chiara all'Avvocatura dello Stato di non interesse al proseguimento della causa e la conseguente rinuncia agli atti in giudizio. Serpelloni sia lasciato solo in questa pretestuosa, temeraria e intollerante iniziativa giudiziaria. Sottoscrivono: Stefano Anastasia; Stefano Cecconi; Riccardo De Facci; Patrizio Gonnella; Leopoldo Grosso; Luigi Manconi; Ivan Novelli; Massimo Oldrini; Marco Perduca; Andrea Pugiotto; Maria Stagnitta. Droghe: nella determinazione della pena giudice "libero" in appello di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2015 Mano libera del giudice di appello nella determinazione della pena, dopo la sentenza della Consulta su traffico e consumo di stupefacenti. Anche nello stabilire una sanzione assai più vicina all'attuale massimo rispetto a quella inflitta in primo grado che era invece vicina al minimo. Basta che sia rispettato il divieto di peggioramento del trattamento se il ricorso è presentato dall'imputato. La precisazione arriva dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 15247 della Terza sezione penale depositata ieri. La Corte ha così respinto il ricorso presentato dalle difese di due imputati sanzionati per la detenzione di un quintale di hashish e lo spaccio di parte della sostanza. Le difese avevano sostenuto l'omessa motivazione della Corte d'appello su un passaggio cruciale: le ragioni per cui si era mossa partendo da una pena base prossima al massimo edittale quando in precedenza la pena era prossima al minimo. La Cassazione ha invece messo in evidenza come i giudici di appello abbiano correttamente ritenuto di dovere adeguare d'ufficio la sanzione inflitta alla disciplina venutasi a creare dopo la sentenza della Corte costituzionale, senza che vi fosse peraltro stata sul punto una richiesta da parte degli imputati. Così, "al Collegio pare evidente allora che il giudice del merito, chiamato ad applicare, come nel caso che ci occupa, direttamente ovvero in sede di rinvio, una nuova pena a fronte di una precedente dichiarata incostituzionale, abbia una piena cognitio per quanto riguarda la quantificazione della pena". Con un doppio limite peraltro: da una parte il rispetto dell'obbligo di applicare la normativa che rivive per droghe leggere dopo la pronuncia n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, e, dall'altra, il divieto di disporre misure peggiorative, se il pubblico ministero non ha presentato impugnazione che va inteso nel senso di non potere infliggere una pena superiore a quella definita in primo grado. Inoltre, la Cassazione osserva che è assolutamente normale che, di fronte a una sanzione unica e particolarmente grave, come quella prevista dalla disciplina anteriore al giudizio della Consulta (da 6 a 20 anni di reclusione e da 26.000 a 260.000 euro di multa), come era quella prevista indifferentemente per le droghe pesanti e quelle leggere, il giudice di primo grado, chiamato a quantificare la pena, abbia, in primo luogo valutato la qualità e la quantità della sostanza detenuta. E che sia quindi partito, trattandosi di hashish, da una pena base vicina a quello che, all'epoca, era il minimo previsto. A sua volta, altrettanto correttamente ha proceduto la Corte d'appello, quando, chiamata ad applicare una pena che, nella ridotta forbice tra minimo e massimo previsto, prevedeva già la distinzione tra droghe pesanti e leggere e la necessità di riferirsi solo a queste ultime nel caso esaminato. Pertanto, è una scelta condivisibile e legittima, nella valutazione della Cassazione, quella di procedere all'individuazione di una pena vicina al nuovo massimo edittale, che poi corrisponde al vecchio minimo, dichiarato incostituzionale per le sostanze in questione. In caso contrario, sottolinea la Cassazione, si dovrebbe invece arrivare alla conclusione per cui il giudice di appello dovrebbe essere vincolato alla valutazione operata dal giudice di primo grado pur avendo di fronte un dati normativo del tutto diverso. A corroborare questa linea interpretativa, la Corte chiama in causa ora una pronuncia delle Sezioni unite, recentissima e di cui ancora non sono note le motivazioni ma solo l'informazione provvisoria (il deposito è dello scorso 26 febbraio). Le Sezioni unite, affrontando e risolvendo una serie di questioni relative alle conseguenze del verdetto della Consulta, hanno tra l'altro dato risposta positiva alla domanda se in sede di esecuzione dovesse essere rideterminata la pena patteggiata definitivamente prima della Corte costituzionale. Norvegia: Bastøy, il carcere senza sbarre dove i detenuti sognano di entrare di Alessandra Borella e Cecilia Andrea Bacci Corriere della Sera, 15 aprile 2015 Quella che porta all'isola di Bastøy è una barca piccola, bianca. Tra l'interno e l'esterno si danno il cambio tre o quattro uomini con addosso delle giacche gialle. Sorridono mentre intorno non c'è che vento freddo e silenzio. Dopo pochi minuti, forse un quarto d'ora, la barca attracca. Alcuni uomini del personale staccano, il loro turno è finito. È arrivato il momento di tornare a casa. Solo che non stiamo parlando di marinai, ma di detenuti, e la loro non è una semplice casa ma una delle 88 abitazioni, rigorosamente in legno, che costituiscono questo singolare carcere norvegese, a 75 chilometri da Oslo. A Bastøy non si arriva per caso. E questo non ha niente a che vedere col fatto che si tratta di un'isola di appena due chilometri quadrati, persa in un fiordo norvegese. Per arrivare qui, sulla solita barca che porta i visitatori, c'è la lista d'attesa. Tom Eberhardt, direttore del carcere, riceve circa 30 richieste al mese. "Non possiamo accettarli tutti" spiega. Questa non è soltanto una decisione dello staff. Per arrivare qui bisogna avere dei requisiti particolari. Innanzitutto, aver già scontato la maggior parte della pena perché sull'isola di Bastøy, come spiega Tom, si possono passare al massimo cinque anni, ma soprattutto devono avere un forte desiderio di migliorarsi e la volontà di lavorare su se stessi. I 115 detenuti che sono qui hanno scritto una lettera motivazionale. Non importa quale reato abbiano commesso e quanto grave sia stato. Da quando mettono piede sopra questa isola, per loro e per chi li segue e li sorveglia, il passato non conta più. Esistono solo presente e futuro. "Io non posso fare nulla per quello che sono stati e per ciò che hanno commesso - dice Tom. Posso però fare qualcosa per quello che sono e che saranno domani". Tom, capelli biondi e occhi di ghiaccio, come quello che ricopre le strade dell'isola, lavora qui da due anni, dopo una ventina trascorsi come direttore in un carcere "chiuso". Ci mostra l'ufficio e ci offre una tazza di caffè. La prima di molte che berremo, durante la giornata. "Alcuni media hanno mostrato le immagini dei detenuti al sole, d'estate, a nuotare nel lago - continua Tom. Hanno parlato di hotel di lusso, di prigione a cinque stelle. Ma nessun giornalista è mai venuto d'inverno, a vedere che cos'è quest'isola per gli altri sei mesi dell'anno". È bianca di neve, desolata, fredda. In cambio del cellulare, requisito all'ingresso, solo un badge di riconoscimento e alcune informazioni sul carcere, nero su bianco, scritte da un detenuto, di sua iniziativa, nell'aprile 2013. "Dico no alla maggior parte delle richieste che ricevo per venire qui - dice Tom -. Non voglio far diventare questo posto un circo mediatico. I ragazzi hanno diritto alla loro privacy. Mi rendo conto che sia una realtà particolare da raccontare, ma scelgo io di volta in volta da chi". Forse coglie le nostre espressioni tronfie, perché aggiunge: "Ero davanti al pc quando mi avete inviato la mail. Un caso". Sorride. E anche noi. Contrappasso A Bastøy ci sono 115 fortunati dei 3.872 detenuti norvegesi. Non uno di più, non uno di meno. Il numero è mantenuto costante e la struttura costa allo Stato circa 8 milioni di euro l'anno, su un investimento totale nelle carceri di circa due miliardi. L'Italia ne spende tre, ma di detenuti ne ha 53mila. Tom cammina rapido e scattante in mezzo ai campi silenziosi, come un padrone di casa che ne custodisce ogni segreto. Ogni tanto qualche detenuto ci passa accanto, in sella a una bicicletta. "Se le sono comprate da soli, coi soldi guadagnati grazie al loro lavoro" spiega Tom. La neve continua ostinatamente a macchiare alcune parti del grande prato. Guardando in giro si possono distinguere la chiesa, il fienile, l'edificio dello staff. E tutt'intorno le casette gialle, rosse, pallide, con all'esterno due o tre bici. Conosciuta come "isola del diavolo", Bastøy è stato un riformatorio per ragazzi dal 1900 al 1970: buona parte della "cattiva gioventù" norvegese veniva rinchiusa qui in attesa della maggiore età o dello sconto della pena. Era un posto famoso per le modalità di detenzione piuttosto brutali. Oggi lo è esattamente per il motivo opposto: dal 1988 è una prigione di "minima sicurezza", come viene definita. E dal 2006 è quella che conosciamo oggi. I detenuti vivono sull'isola una vita normale. O meglio, l'apparente surrogato di un'esistenza comune. Sono liberi, ma devono restare dentro casa dalle 23 alle 7. Coi soldi guadagnati, molti detenuti decidono di comprarsi una bici per spostarsi meglio tra le casette e i luoghi di lavoro. Autonoma, ecologica, economica. Umana Bussiamo a una porta bianca. Ci apre un uomo massiccio, lunghi capelli biondi e un sorriso rassicurante. Il suo nome è Rune, ha 39 anni ed è arrivato qui da poco, dopo aver passato cinque anni in un carcere di massima sicurezza. Non ha nessun problema a spiegare perché si trovi lì: "Sono entrato in una banca e ho fatto una rapina a mano armata". Nel soggiorno, la stufa è alimentata dal legno dell'isola raccolto dai detenuti. "Qui tutto è fatto di legno, del nostro legno" sottolinea Tom Eberhardt. Un fatto importante dato che, grazie al consumo dei prodotti dell'isola - dalle verdure alle pelli di mucca - , quella di Bastøy è una prigione ecologica: la terra viene lavorata con i cavalli e i rifiuti sono riutilizzati come concime o per soddisfare parte del fabbisogno energetico. Fatta eccezione per il pulmino dei visitatori e alcuni trattori, di auto qui non se ne vedono. Le bici, invece, ovunque. Rune lavora sulla barca ma oggi non è di turno. In un'ora di chiacchierata ci racconta le sue passioni, tipo quella per le moto, ma anche le sue idee sul carcere e sulla giustizia. La nostra conversazione viene scandita dal rumore delle tazze che si poggiano sul tavolo. Imbracciava fucili con disinvoltura per rapinare le banche. Ora armeggia con le stoviglie. "I norvegesi sono dei gran bevitori di caffè, senza questo liquido scuro non andremmo da nessuna parte" dice Rune, sorridendo. Da quando è a Bastøy, per lui è iniziata una nuova vita: "Mi è venuta la voglia di studiare e adesso mi mancano due anni per diventare meccanico, il mio sogno". Però, ci racconta mentre i suoi occhi si abbassano, lui è uno che ha già pagato per le sue scelte. Soprattutto con gli affetti: "Come fai a dire alla tua ragazza che passerai anni e anni in prigione? Non puoi". Se l'avesse ancora, potrebbe venire a trovarlo qui una volta alla settimana e potrebbero restare soli, senza sorveglianza. "I familiari possono fermarsi anche di notte? - chiediamo a Tom che non si scandalizza. Ci stiamo pensando, dobbiamo solo attrezzarci". Non tutti hanno voglia di parlare né tanto meno di raccontarci cosa hanno fatto per finire in prigione. Per alcuni, poi, "gli animali sono meglio degli umani". E quest'isola è il posto ideale per prendersi cura del bestiame tra mucche, cavalli, pecore e agnelli. Entrando nella stalla, ci imbattiamo in un ragazzo di poco più di vent'anni. È di poche parole, preferisce accarezzare quelle che sente come le "sue" mucche. Le conosci una per una, chiediamo. Sì, ci risponde in modo quasi imbarazzato. "Alcune le ho viste nascere, per me sono come una famiglia e sarà difficile lasciarle" aggiunge. In quel momento scopriamo che, per questo ragazzo, è arrivato l'ultimo giorno in questo carcere di "minima" sicurezza. Minima perché di sbarre non ce n'è nemmeno l'ombra. Quindici minuti dopo la fine del coprifuoco, inizia la giornata di questi detenuti-lavoratori che, divisi tra barca, cucine, negozio, cura degli animali ed equipe tecnica, guadagnano circa 8 euro per turno. La prigione assicura inoltre 24 euro extra ogni settimana da spendere per colazione, pranzo e magari una scheda telefonica da usare nelle cabine che hanno a disposizione a orari predefiniti. Sull'isola lavorano 69 persone tra guardie e personale. Solo cinque di loro si fermano la notte e non sono armati. In fondo, perché scappare da qui? D'estate capita di scorgere i detenuti in acqua. "Uno di loro faceva il giro completo dell'isola a nuoto - ci racconta Tom -, nuotava e basta". In fondo, da qui chi vorrebbe fuggire? A Bastøy si può e si deve lavorare e studiare. Essere liberi non significa poltrire. I prigionieri possono dare il loro contributo, retribuito, in cucina, nella serra, con gli animali, nella falegnameria. Possono svolgere attività come giardinieri, meccanici o addetti alle pulizie. O ancora, diventano uomini di mare al timone del traghetto. La scuola, invece, è un dipartimento distaccato di quella cittadina di Horten. I detenuti che non hanno completato il primo grado di istruzione devono obbligatoriamente farlo, se invece non hanno finito l'ultimo grado scolastico (dai 16 ai 18 anni in Norvegia) possono portarlo a termine scegliendo diverse discipline tra cui informatica, lingue straniere, agraria, sociologia, matematica e musica. Eppure, anche se il tempo scorre calmo, sull'isola di Bastøy non tutto è rosa e fiori. Come in ogni carcere, anche qui ci sono dei detenuti che non vengono ben visti. In particolare chi ha fatto del male a donne e bambini. Bastoy è un carcere diverso anche per questo: perché accoltellare il "nemico" se ci si può limitare a ignorarsi l'un l'altro? "Non posso costringermi a stare con chi non mi piace" dice Karl, 26 anni, condannato per una aggressione, che proprio non accetta di dover scontare gli stessi anni di uno stupratore o di un pedofilo. "Non esattamente gli stessi - si riprende - ma poco ci manca". Riabilitare, non castigare Su quest'isola sembra quasi di respirare la calma e la gentilezza dei popoli scandinavi. Eppure la maggior parte dei suoi abitanti ha infranto, almeno una volta nella vita, la legge. A Bastøy non mancano né gli assassini né - come ci ha ricordato Karl - gli stupratori o i pedofili. Eppure non è il passato ma il futuro a rendere questi detenuti speciali: numeri alla mano, l'84% di chi passa per Bastøy non infrangerà mai più la legge. Infatti il tasso di recidiva, secondo un istituto norvegese di ricerca in criminologia (il Krus), è di appena il 16%. Un niente se confrontato alla percentuale europea (70/75%) e quella americana, che arriva addirittura a sfiorare l'80%. Se negli Stati Uniti esistono prigioni come il Tent Camp, dove i detenuti vivono in delle tende e vengono esposti alle più varie intemperie, a Bastoy accade tutto il contrario. Come spiega Tom Eberhardt, "noi siamo qui per formare dei cittadini, dei vicini di casa. Un giorno queste persone usciranno di prigione e saranno libere. Tu chi vorresti come ipotetico vicino di casa, nel tuo futuro, per te e la tua famiglia? Un uomo ristabilito e reintegrato nella società oppure un uomo ancora malato, arrabbiato, che è stato rinchiuso per anni in condizioni incivili?". L'argomentazione del direttore è convincente. E i numeri gli danno ragione. Una sfida per il futuro Per Marianne Vollan, direttrice del servizio correzionale norvegese, la domanda è questa: come far scontare ad un detenuto la pena in modo che si riduca al minimo la probabilità che torni a delinquere? Con l'attenzione alla sua riabilitazione sociale e al principio della "normalità": la vita in prigione deve essere il più simile possibile a quella fuori, con tutti i suoi diritti inviolabili. La privazione della libertà è già di per sé la punizione. Non importa se non ci sono le sbarre: i detenuti non si dimenticano mai di essere in carcere. Per capire il sistema norvegese, però, bisogna prima di tutto aver presente che qui l'ergastolo non è previsto. Al massimo si può venire condannati a 21 anni di reclusione. Questo perché in quello che definiamo "criminale" viene prima di tutto vista una persona che prima o poi tornerà a fare parte della società norvegese. Per cui, un cittadino. Per questo pare strano, seduti intorno al fuoco con in mano un panino, trovarci a parlare di Anders Breivik, responsabile della strage di Utøya che, nel 2011, costò la vita a 77 persone. Per lui no, non basteranno quei 21 anni. Il giudice può comminare 5 anni aggiuntivi se il detenuto è ritenuto ancora socialmente pericoloso. Tom ci dice che a Breivik verranno comminati di sicuro. Di cinque anni in cinque anni finirà per scontare il primo ergastolo della storia norvegese. In questa isoletta spersa a 75 km a sud di Oslo, a bordo di quella famosa barca bianca, si arriva per (re)imparare il rispetto dell'altro, degli animali e della natura. Al timone ci sono dei moderni Caronte che, al contrario della creatura dantesca, traghettano verso una nuova vita. Alle spalle ci si lascia l'inferno, i guai, le sbarre e le scelte sbagliate. Lo sguardo è rivolto avanti, verso quell'isola che profuma di fiducia e di libertà. Non è un paradiso a cinque stelle, ma una porta per il futuro. Colma di speranza, per quelli che ci entrano. Stati Uniti: a Rikers Island 400 detenuti di troppo, proposta svuota carceri di De Blasio di Riccardo Chioni www.americaoggi.info, 15 aprile 2015 Nelle celle di Rikers Island si contano 400 detenuti che attendono il processo da oltre un anno ed altri sono dietro le sbarre da oltre sei anni, perché la macchina della legge si è arenata nelle aule dei tribunali che non riescono a smaltire l'immensa mole di procedimenti giudiziari. Ieri il sindaco Bill de Blasio e il giudice capo della Corte d'Appello Jonathan Lippman hanno illustrato un piano per ridurre la popolazione carceraria di Rikers Island eliminando i ritardi accumulati negli anni dai tribunali statali che contribuiscono a mantenere gente in carcere per centinaia di giorni. "Troppe persone si trovano detenute a Rikers, alle volte per anni, mentre sono in attesa del processo. Per la prima volta - ha annunciato il sindaco - la nostra città lavorerà con i tribunali, le forze dell'ordine, i procuratori distrettuali e gli avvocati della difesa per iniziare da subito ad abbattere i ritardi onde ridurre significativamente la popolazione di Rikers Island". La proposta ha già trovato consensi tra i gruppi a sostegno dei detenuti e tra le stesse guardie carcerarie che recentemente hanno visto aumentare lo scrutinio esterno su ciò che succede dietro le sbarre, mentre il sindaco ha già disposto l'assegnazione di decine di milioni di dollari per eliminare la violenza nelle carceri e l'uso delle celle di isolamento per punire minori, creando piuttosto programmi terapeutici per tutti i detenuti. L'idea del sindaco è di guardare oltre le mura del carcere per individuare soluzioni idonee a ridurre la popolazione, provvedendo ad apportare cambiamenti al sistema della giustizia criminale, cercando altresì di abbattere quella che è oramai diventata la cultura della carcerazione. Secondo la proposta di sindaco e giudice la popolazione nei penitenziari della City dovrebbe diminuire del 25 per cento nel giro dei prossimi dieci anni. Da almeno venti anni il numero dei detenuti a Rikers è rimasto stabile sui 20 mila in media ogni giorno, ma recentemente è stato dimezzato anche grazie alla diminuzione della criminalità e quindi degli arresti, ma anche perché quelli con problemi mentali vengono affidati ad altri programmi riabilitativi. Elizabeth Glazer coordinatrice della giustizia criminale dell'ufficio di de Blasio è convinta che si può e si debba diminuire la popolazione carceraria per abbattere quella che ha definito la "cultura dei ritardi" nei tribunali che significano tempi troppo lunghi per i processi e tempi troppo lunghi per chi è in attesa dietro le sbarre. Il problema dei tribunali cittadini si manifesta con la carenza di giudici e agenti nelle aule, ma anche per carenza di locali per interrogazioni e incontri con i legali degli arrestati, anche se in molti casi a provocare i ritardi sono gli stessi avvocati per perseguire loro strategie. Stando alla proposta di sindaco e giudice, tutti i casi di detenuti che hanno trascorso un anno dietro le sbarre si contano nell'ordine di 1.500 e dovranno veder celebrato il proprio processo entro 45 giorni.Questo potrebbe procurare un declino del 50 per cento attraverso casi risolti, accordi extragiudiziari o addirittura perché il caso non costituisce reato. Il giudice Lippman ha insistito sul fatto che intende rendere operativa la proposta per raggiungere il fine desiderato ed ha portato l'esempio del tribunale penale del Bronx che sta lavorando per riuscire a smistare i casi accumulati negli anni, mentre circa 200 detenuti si trovano in carcere in attesa di giudizio da oltre due anni, facendo del Bronx il quartiere con la più alta percentuale di ritardi rispetto al resto dei quartieri, anche se è percepibile lo sfrorzo per diminuire le attese. Argentina: "Cielo libero, immaginare la libertà", poesie dalle carceri del regime Ansa, 15 aprile 2015 Un libro scritto durante la dittatura nelle carceri argentine dai prigionieri, diventati poeti anonimi: "Cielo libero, immaginare la libertà", in edicola in spagnolo e in italiano, è stato presentato a Buenos Aires, alla presenza dell'ambasciatore italiano, Teresa Castaldo. La prima volta il libro venne pubblicato in Argentina nel 1981, al potere c'erano ancora i militari. Ora, in occasione della terza edizione dopo una seconda a Milano, il volume è stato presentato in un luogo tristemente emblematico del periodo del regime, l'Esma, noto ex centro di detenzione clandestina dei militari, oggi sede dello ‘Spazio per la memorià. Il nuovo libro - in versione online e cartacea, con illustrazioni di Christian Mirra, edito in Italia da Mario Pirolli - è riuscito a vedere la luce grazie agli sforzi dei familiari dei detenuti. A presentare il volume sono stati lo scrittore Osvaldo Bayer e Lita Boitano, origini venete e madre di due figli italo-argentini desaparecidos. "Questi sono versi anonimi scritti da chi ha patito la tortura e le sofferenze, ma che riescono a parlare di dignità e speranza. Il libro - ha sottolineato Lita Boitano - è quindi un omaggio a chi scriveva poesie forse brutte ma che è riuscito a essere un poeta, a chi ha scritto e disegnato cercando di evitare la pazzia, a chi è sopravvissuto ed è riuscito a denunciare". Stati Uniti: i gatti di un rifugio accuditi dai detenuti di una prigione a Pendelton www.greenstyle.it, 15 aprile 2015 Può sembrare un controsenso, ma 12 gatti strappati alla vita randagia hanno trovato felicità e libertà all'interno di una prigione a Pendelton, negli Stati Uniti. Gli esemplari vivono all'interno della struttura, curati e amati dai detenuti stessi. I locali a loro destinati contemplano la presenza di cucce, cuscini, cestini, tira graffi e passerelle per raggiungere comodamente il soffitto. Gli ospiti della prigione hanno il compito di occuparsi dei felini, di curarli e nutrirli in attesa che trovino una casa e una famiglia definitiva. Un progetto davvero utile e importante, che supporta emotivamente e fisicamente sia i detenuti che i felini stessi. È quasi ironico che alcuni gatti abbiano ritrovato libertà e amore rinchiusi in una prigione, ma i detenuti si prendono cura di loro con molta passione, trascorrendo del tempo socialmente utile spazzolandoli, nutrendoli e facendoli giocare. Le fusa che elargiscono copiosamente confermano la piacevolezza della situazione, il benessere che riescono a vivere sulla loro pelle in prima persona. Secondo Michelle Rains, portavoce del carcere, il progetto ha dato ottimi risultati favorendo un'interazione positiva tra animali e esseri umani. I gatti, liberi dalla costrizione delle gabbie del rifugio, trovano ironicamente all'interno della prigione lo spazio e la possibilità per la rinascita. Appaiono più tranquilli e a loro agio. Al contempo, i carcerati hanno la possibilità di sviluppare maggiore sicurezza e calma, oltre alle responsabilità nei confronti di una vita. Elementi molto utili per quando lasceranno il carcere. Il personale, già operativo con un progetto simile con l'ausilio dei cani, spera anche in un aumento delle adozioni dei gatti presenti nella struttura, così da permettere un ricambio e nuove possibilità per altri trovatelli. Come sostiene Charles Baker, un detenuto, l'attività legata alla cura dei felini ha un impatto positivo su tutti i carcerati. Egitto: Paese vietato per i gay stranieri, la polizia potrà espellerli Corriere della Sera, 15 aprile 2015 La polizia egiziana ha il diritto di espellere stranieri omosessuali e di impedire loro l'ingresso in Egitto. Lo ha concluso - come spiega il quotidiano locale Al Ahram - un tribunale civile del Cairo, che ha respinto un ricorso presentato contro la decisione del ministero degli Interni di espellere un cittadino libico accusato dalla polizia di essere omosessuale. L'obiettivo è quello di tutelare l'interesse pubblico, i valori religiosi e sociali e di prevenire la diffusione del vizio e dell'immoralità nella società. L'omosessualità, in Egitto, è perseguita ma non in quanto tale: le persone vengono spesso incriminate in base alle leggi che puniscono dissolutezza o corruzione della morale pubblica. Lo scorso dicembre al Cairo 26 uomini sono stati arrestati durante una retata in un bagno turco dopo che la giornalista Mona Iraqi, nel suo programma televisivo "Al Mostakhbal" sulla rete Alqahira wal Nas, dichiarò che si trattava di un luogo di incontri gay: su Facebook li accusò "di diffondere l'Aids in Egitto". Il mese precedente un tribunale del Cairo aveva condannato a 3 anni alcuni giovani che erano stati arrestati su una barca sul Nilo mentre era in corso quello che è stato definito un matrimonio omosessuale.