Chiusura Sezioni AS a Padova. Una figlia e un padre con poca speranza e tanta sofferenza Ristretti Orizzonti, 14 aprile 2015 Chiedo un po’ di rispetto per quello che è rimasto della mia famiglia di Francesca Romeo, figlia di Tommaso, che sta per essere trasferito dalla sezione Alta Sicurezza di Padova a quella di Opera. Buongiorno, mi scuso anticipatamente per il disturbo, ma chiedo un po’ di rispetto per quello che è rimasto della mia famiglia... Sono la figlia di un detenuto, che verrà trasferito, per via della chiusura della sezione di Alta Sicurezza di Padova, e purtroppo verranno a mancare tutte le attività svolte nella sezione, che nel tempo hanno aiutato tutte queste persone, soprattutto mio padre Tommaso Romeo, a migliorare anche la propria condizione intellettuale psicologica e comportamentale, tutto questo comporta tanti problemi non solo al detenuto che dovrà reinserirsi in un nuovo ambiente, ma anche a noi familiari, ad oggi i famigliari di un detenuto sono penalizzati in partenza dalla società stessa che li addita li discrimina e li isola. A pagare le conseguenze, oltre il detenuto stesso con la propria libertà sia personale che emotiva, strappato dalla propria famiglia, ed è una condanna che supera qualsiasi errore che un uomo possa fare, a pagare siamo anche noi figli che cresciamo senza un padre, senza una figura maschile che ci possa aiutare in ogni nostra difficoltà. Io personalmente ho dovuto fare a meno di questa figura importante, per la vita e la formazione di ogni bambino, da quando avevo un anno e ad ogni mio ostacolo non ho potuto avere il sostegno di un padre che mi aiutasse ad affrontare le problematiche che la vita ci riserva. Organizziamo ogni colloquio da una data all’altra con enormi sacrifici per non spezzare questo sottilissimo filo che ci unisce a loro e ci dà un minimo senso di famiglia, questo viaggio alimenta le nostre speranze, ma ci fa affrontare enormi sacrifici dovuti ai chilometri che ci separano. Questa lontananza non incide soltanto emotivamente ma anche economicamente, perché tutto questo ha un costo, fin troppo esoso... di conseguenza chiedo che sia possibile effettuare un ultimo colloquio, che dovrebbe avvenire giovedì 8 maggio presso le vostre sedi, in modo da non perdere almeno il denaro da me già speso per riabbracciare mio padre con enormi sacrifici, visto che abito a Reggio Calabria ed immagino che voi sappiate quanto sia distante, quello che invece è perso è il senso di famiglia che ormai non ho più da quando avevo un anno e ne sono trascorsi 23, rimango in attesa di vostre risposte, grazie. Maledetta telefonata di Tommaso Romeo, papà di Francesca Sabato alle ore quindici entro nella stanza dove c’è il telefono. Ero un po’ teso perché dovevo dire ai miei familiari che stavo per essere trasferito nell’istituto di Opera, Milano, mentre facevo il numero mi ripassavo nella mente tutto quello che dovevo dire, in quanto quei dieci minuti ogni volta volano come se fossero dieci secondi. "Pronto", come tutte le volte la prima a prendere il telefono è mia moglie, le dico "Ciao amore come stai? passami Francesca che devo parlarle". Non voglio dare la cattiva notizia a mia moglie, penso che mia figlia essendo giovane la prende meglio, mia figlia non mi dà il tempo di aprire bocca "Papà, ti stanno partendo". Le rispondo di sì e le domando come fa a saperlo, lei mi dice di averlo letto sul sito di Ristretti, sento che è tesa e per indorarle la pillola le dico "Sono stato fortunato, mi portano a Opera". Mia figlia ripete "Opera" sento mia moglie che le domanda "Dove lo hanno mandato", prendo fiato e dico "a Milano", e comincio a dirle "è un carcere nuovo, si sta benissimo", mia figlia mi risponde "papà, questa storia che si sta benissimo è vecchia". E mi informa che avevano già comprati i biglietti per venire a farmi il colloquio i primi di maggio a Padova, si dispera dicendomi che non le verranno nemmeno rimborsati, le suggerisco di chiamare il carcere e di spiegargli la situazione, che sicuramente troveranno un po’ di umanità e ci faranno fare il colloquio. Una voce metallica si infila in mezzo a noi avvisandoci che sta per finire la telefonata, mi dico nella mia mente "di già, impossibile!", faccio in tempo a dire "passami mamma", con voce preoccupata mia moglie mi dice "non c’è pace per noi, quando arrivi telefona…". La telefonata si interrompe, tornato nella mia cella mi dò la colpa per non essere riuscito a tranquillizzare i miei familiari, e penso a quante ne hanno dovuto passare i miei cari in questi ventitré anni di carcere e ritorna in me la rabbia di molti anni fa. Sezione di Alta sicurezza, la chiusura sarà senza "deportazioni" di Silvia Quaranta Il Mattino di Padova, 14 aprile 2015 L’amministrazione penitenziaria disponibile a riesaminare il trasferimento di detenuti impegnati in attività riabilitative. Sulla prospettiva di chiudere la sezione Alta sicurezza del carcere Due Palazzi di Padova e di trasferire in altre case di reclusione gli 85 detenuti c’è ancora parecchio da discutere. Ora più che mai, l’ipotesi di procedere a fine mese sembra azzardata: per i detenuti che rischiavano di sentirsi "deportati" in altre carceri venete a metà del loro percorso rieducativo, l’altra mattina, s’è aperto infatti uno spiraglio. Lo mette nero su bianco, a nome della "rappresentanza delle attività trattamentali in corso" (formata da scuole, università, diocesi, associazioni e cooperative impegnate in carcere) la mail inviata all’Amministrazione penitenziaria a Roma che annuncia con soddisfazione gli esiti dell’incontro di ieri al Dipartimento di Padova. Nel corso di un confronto definito "collaborativo e costruttivo", il responsabile del Dap "ha dato ampia e convinta disponibilità per un’attenta verifica" di due punti-chiave della questione relativa alla chiusura del reparto di massima sicurezza, che attualmente occupa un intero piano della struttura carceraria. Il primo e fondamentale aspetto, secondo la nota divulgata dall’Officina della cooperativa Giotto e da Ristretti Orizzonti che riassume l’esito dell’incontro di ieri, consiste nel "rivedere la modalità di declassificazione dei detenuti di As. A questo proposito, il Capo del Dap Santi Consolo ha evidenziato che, in caso di detenuti con pena definitiva, la raccolta delle informazioni dagli organi competenti non può basarsi su formule stereotipate e deve tenere presente il loro percorso rieducativo e ciò che queste persone sono oggi, non 15-20-30 anni fa". Il secondo, significativo aspetto su cui c’è stata convergenza è la necessità di "riverificare le singole posizioni di tutti i detenuti impiegati alla luce delle attività nelle quali sono stabilmente impegnati: scolastiche, lavorative, formative, occupazionali in genere, culturali, editoriali e religiose". In pratica, si tratta di riconsiderare la posizione di ognuno dei detenuti per ricollocarli nella classificazione carceraria e mantenerli all’interno del percorso di riabilitazione avviato al Due Palazzi, con la possibilità dunque di escluderli dal trasferimento. Il che sarebbe in linea con quanto ha già anticipato nei giorni scorsi il direttore del carcere padovano, Salvatore Pirruccio, definendo quello della chiusura di Alta sicurezza un "progetto non imminente, sul quale al momento non c’è alcun atto ufficiale", e sottolineando invece che "i detenuti in Alta sicurezza che hanno intrapreso un percorso riabilitativo-trattamentale (scuola, lavoro) potrebbero essere esclusi dall’eventuale trasferimento". I detenuti ringraziano, sottolineando che il patrimonio immenso rappresentato dalle attività di associazioni, volontari, cooperative, scuole e religiosi impegnati nel carcere "non può andare distrutto o disperso". Giustizia: Rita Bernardini fa il punto sulla lotta nonviolenta dei Radicali per le carceri www.radicali.it, 14 aprile 2015 "Scomunicato" della Segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini. "Sabato 11 aprile, al 38esimo giorno di sciopero della fame, ho dovuto sospendere a causa di un ascesso ad un dente che richiedeva - e richiede tuttora - l’assunzione di antibiotici". "Ringrazio Marco Beltrandi della Direzione di Radicali Italiani e Paola Di Folco (Comitato Nazionale) che hanno deciso di sostituirmi (Paola, in particolare, non assume cibo dal giorno di Pasqua). Così come ringrazio Giuseppe Candido che ogni venerdì oltre a non mangiare sospende anche la terapia insulinica e Maurizio Bolognetti che ha deciso di unirsi a me e Marco Pannella (che non beve nemmeno) per 72 ore". "Ogni giorno aumentano le ragioni a fondamento di questa iniziativa nonviolenta. Abbiamo saputo, per esempio, che la Regione Toscana ha deciso di fare un "mini Opg", smantellando l’unico carcere (a custodia attenuata) che funzioni in termini di reinserimento futuro dei detenuti: via, dunque, i 90 ospiti di Solliccianino (Firenze), questa la scelta irresponsabile della Regione per contrastare la quale sono al lavoro i compagni dell’Associazione per l’iniziativa radicale Andrea Tamburi Maurizio Buzzegoli, Massimo Lensi, Emanuele Baciocchi. Grazie, ancora una volta, all’on. Roberto Giachetti che su questa vergogna ha depositato un’interrogazione parlamentare. L’altra ragione, che chiama in causa i rappresentanti istituzionali, è lo smantellamento dell’Alta Sicurezza del carcere Due Palazzi di Padova: anche qui si distruggono tutti i percorsi di reinserimento sociale dei quali si occupa soprattutto Ristretti Orizzonti. La lotta per l’amnistia e l’indulto, per gli obiettivi del messaggio alle Camere del Presidente Giorgio Napolitano, deve proseguire. Aiutatemi, aiutate Marco Pannella, aiutate Radicali italiani, il Partito Radicale Nonviolento transpartito transnazionale, facciamo insieme questa lotta di civiltà e per lo Stato di diritto: iscriviamoci, iscrivetevi". "E grazie, per il ruolo di servizio pubblico che svolge, al Direttore di Radio Radicale Alessio Falconio e a Il Garantista. Aggiornamento: Ci sono anche Claudio Giuseppe Scaldaferri, che da lunedì 13 aprile farà alternati 1 giorno di sciopero della fame ed 1 giorno di sciopero totale della fame e della sete, Vittoria Bolettieri che fa 4 giorni di sciopero della fame, Lucio Bertè, compagno storico milanese già consigliere regionale, impegnato da sempre sulle problematiche del carcere e della nonviolenza, Domenico Letizia". Nota riguardante l’uso del termine "scomunicato stampa" Era il 1998 quando l’allora senatore del Pds Antonello Falomi (membro della commissione Parlamentare di Vigilanza) giustificò il comportamento di totale censura di Rai e Mediaset nei confronti dei radicali con la "non notiziabilità" delle iniziative portate avanti dal movimento radicale. A ripensarci oggi viene da ridere, se non ci fosse da piangere, perché la "non notiziabilità" riguardò, per esempio, lo strenuo impegno radicale per difendere i risultati del referendum vinto del 1993 contro il finanziamento pubblico dei partiti. Persino la distribuzione in piazza ai cittadini di miliardi di lire (restituzione del bottino partitocratico) rientrò nella categoria della "non notiziabilità". Giustizia: strage di Milano, Carlo Erba la vittima "dimenticata" senza esequie di Stato di Vincenzo Vitale Il Garantista, 14 aprile 2015 L’incredibile denuncia della vedova di Carlo Erba, la "terza" vittima: "nessuno mi ha avvisata...". Non parla, o meglio, non si sottopone all’interrogatorio di garanzia. Eppure Claudio Giardiello, autore della strage nel tribunale di Milano, qualcosa al gip la dice, prima di avvalersi formalmente della facoltà di non rispondere: "È troppo lunga... ma vi racconterò tutte le ingiustizie che ho subito". Non solo, perché davanti al giudice di Monza Patrizia Gallucci, l’ex immobiliarista ammette laconicamente di aver ucciso il coimputato Carlo Erba, l’avvocato Lorenzo Claris Appiani e il giudice Fernando Ciampi: "Cosa volete che vi dica, se mi hanno visto...". Sottoposto a visita psichiatrica prima dell’interrogatorio, Giardiello è risultato "totalmente in grado di partecipare alle fasi processuali". Resta la tensione sulla sicurezza nei Palazzi di Giustizia, che giovedì sarà oggetto di un vertice con il ministro Orlando e i procuratori generali, ma anche sui funerali di Stato, a cui i familiari di Carlo Erba hanno rinunciato. La vittima "di serie C" senza funerali di Stato "La carità è paziente e benigna: tutto crede, tutto spera, tutto sopporta; per essa non c’è più né giudeo né greco; né maschio né femmina; né padrone né servo": così, all’incirca (cito a memoria), San Paolo scriveva ai Corinti, per significare che davanti all’amore assoluto, ogni differenza o diseguaglianza diviene del tutto irrilevante, priva di qualunque effetto. A prescinderei dalla fede in Dio - che muoveva evidentemente la parola di San Paolo - la stessa cosa accade davanti alla morte, non a caso definita dal Principe De Curtis, il mitico Totò, "a livella", proprio per significare la totale e indefettibile parità di tutti gli esseri umani davanti alla sua tagliola. Eppure, spiace dover constatare che non sempre è così. Induce a questa amara considerazione quanto accaduto e lamentato, in modo molto composto, da Rosanna Mollicone, vedova del povero Giorgio Erba, per dir così il "terzo" delle persone trucidate nel Palazzo di Giustizia di Milano da Claudio Giardiello. E se qui si usa un aggettivo numerale cardinale, quello appunto di "terzo", per indicare Erba, non è a caso, ma appunto per prendere sul serio ciò che la Mollicone ha posto all’attenzione dell’opinione pubblica, e cioè che nessuno l’aveva avvisata del fatto che venerdì mattina in Tribunale ci sarebbe stata la commemorazione delle vittime e che, al di là dì annunci giornalistici, nessuno l’ha realmente invitata a far partecipare la salma del marito ai funerali di Stato del magistrato e dell’avvocato che saranno celebrati presso il Duomo di Milano. Ecco allora che il funerale di Erba si terrà mercoledì prossimo presso il Duomo di Monza, dove la salma sarà circondata dagli amici di una vita, quelli del volo a vela, sport di cui Erba era appassionato: il funerale, appunto, del "terzo". Pare insomma che non ci siano solo due categorie di morti o, peggio, di vittime: quelle di serie "A", alle quali è ascrivibile il giudice Ciampi e quelle di serie B, cui apparterrebbe l’avvocato Appiani. Ce ne sarebbe addirittura una terza: quella delle vittime di serie C, di cui farebbe parte Erba. A quando, allora, e per chi la serie D? Sia chiaro. Qui, i morti o le famiglie dei morti non c’entrano nulla, in quanto nessuno di loro ha certamente ipotizzato l’esistenza di queste aberranti categorie: il dolore le eguaglia tutte nella medesima sofferenza, nella identica, lacerante, afflizione. C’entrano invece coloro che son chiamati ad organizzare queste cose: non so di chi si tratti in particolare, ma certo di coloro che sono incaricati di gestire il protocollo dei funerali di Stato in occasioni del genere. Ad oggi, ascoltando il compostissimo lamento affidato dalla vedova Mollicone a La Stampa, sembra davvero che il marito sia stato dimenticato o comunque relegato ad una categoria inferiore di morti ammazzati. E vien da chiedersi perché. Forse perché non appartenente ad alcuna categoria professionale particolarmente significativa dal punto di vista sociale ed economico? Forse perché Erba era coimputato di Giardiello nel medesimo procedimento penale per bancarotta fraudolenta? O per altre motivazioni? Per una semplice dimenticanza? Eppure, sono certo che i familiari di Ciampi e di Appiani, proprio perché forgiati dalla fiamma di un dolore estremo, sarebbero i primi desiderare che - allo stesso modo di come le vittime sono state abbattute insieme dalla stessa mano omicida, nello stesso luogo e per gli stessi motivi - insieme dovrebbero essere ricordate ed accompagnate all’eterno riposo. Nonostante ciò, nonostante cioè la sicura consistenza morale dei familiari dei tre poveri trucidati, le cose, ad oggi, non stanno così: la vedova Mollicone lo ha detto con chiarezza nel corso di un’intervista e nessuno ha osato contraddirla. Ma le sue parole risuonano non come un lamento per sé o per il marito ucciso, acquistando invece un’eco diversa ed amarissima, l’eco di una personale ma severa denuncia: una denuncia che grida a gran voce il tragico impasto di indifferenza umana, di irrilevanza morale, di pregiudizi sociali di cui siamo tutti corresponsabili e che tutti ci interpella, per nessuno risultando estranea. Se non siamo capaci, nel sistema sociale che tutti abbiamo contribuito a creare e che ogni giorno perpetuiamo, di riconoscere e dichiarare la suprema sovranità della morte, che tutti senza distinzione ci eguaglia, come potremo credibilmente far fronte alle pressanti domande della vita alle quali siamo chiamati a rispondere? Ecco il vero ed inquietante interrogativo che questi fatti sollecitano a porsi. Per questo, c’è da ringraziare Rosanna Erba Mollicone - come oggi è giusto chiamarla - per aver saputo ricordare a tutti il pericolo di una coscienza morale intorpidita, incapace di comprendere che siamo tutti fatti della stessa pasta, appartenendo tutti e ciascuno alla medesima categoria: quella degli esseri umani. Giustizia: strage di Milano; "distinguere" nella tragedia, ecco l’errore fatale delle toghe di Astolfo Di Amato Il Garantista, 14 aprile 2015 Giornali, Anm e persino il Capo dello Stato non hanno saputo scorgere nei fatti di Milano il segno di una giustizia in crisi profonda. Alla fine è stato inevitabile. Ha prevalso la strumentalizzazione. Favorita, bisogna riconoscere, dalla mielosa acquiescenza della maggioranza dei commentatori dei grandi giornali. E così, paginate sulla solitudine del magistrato, sul discredito di cui è vittima l’intera categoria, sulla campagna di odio verso i giudici, che ha armato la mano dell’omicida. E stato cucinato un polpettone nel quale sono finiti e sono stati legittimati tutti i motivi di risentimento della categoria: limitazione delle ferie, responsabilità civile, riduzione dei casi di carcerazione preventiva, etc. Vi sono stati alcuni commenti a dir poco imbarazzanti: tutti centrati sulla solitudine del magistrato, dedicano una riga agli altri due uccisi al palese scopo di poter dire che sono stati equilibrati e completi e che hanno parlato di tutti. Del resto, lo stesso Ufficio Comunicazione della Presidenza della Repubblica ha tenuto, anche su questo giornale, a precisare che Mattarella, nel suo intervento al Consiglio superiore della magistratura, aveva citato anche gli altri morti. Trascurando la circostanza che il Presidente ha fatto un preciso riferimento alla campagna dì discredito dei magistrati, così implicitamente indicando la causa della tragedia e relegando gli altri morti al ruolo di vittime occasionali e marginali. Anche dal punto di osservazione più elevato, quello destinato a garantire l’unità del Paese, è venuto un messaggio profondamente divisivo. E non è certo di ulteriori divisioni che ha bisogno l’Italia. La tragedia di Milano avrebbe potuto unire. E invece ha diviso. E la ragione della divisione sta proprio in quel fasullo richiamo alla solitudine come causa di beatificazione. Della solitudine del magistrato ha parlato, in uno splendido libretto, Piero Calamandrei (Elogio dei Giudici scritto da un Avvocato). E si è riferito al peso che il Giudice, ogni Giudice, si porta dentro quando deve decidere, potendo contare solo sulle sue conoscenze tecniche e, innanzitutto, sulla sua coscienza e sulla lealtà verso se stesso. O al peso della responsabilità della decisione e dei dubbi che essa genera anche successivamente. Né tutto questo è alleviato dalla Camera di Consiglio, che, quando è vera e cioè quando si articola in un’autentica dialettica, può fare addirittura aumentare il tormento interiore. Ma può parlarsi di solitudine rispetto a coloro che passano le veline alla stampa? Che cercano spasmodicamente la prima pagina dei giornali? Che trattano la libertà altrui senza alcuna attenzione e rispetto? Essi sono certamente una minoranza tra i magistrati. Ma che è stata capace di scavare un solco profondo tra l’intera magistratura ed il Paese. Il magistrato ucciso a Milano apparteneva a quella maggioranza silenziosa che fa il proprio dovere giorno dopo giorno, vivendo fino in fondo la solitudine di cui parlava Calamandrei. E allora, ci si sarebbe potuti aspettare una presa di posizione della magistratura capace di guardare alla crisi della giustizia senza prospettive corporative, capace di comprendere che le altre morti non sono state né occasionali, né marginali, capace di sentirsi parte del Paese e non la parte migliore. Questo avrebbe unito. Un discorso forte sulla crisi della giustizia, sulle ragioni della sfiducia dei cittadini, sulla necessità di un riequilibrio dei poteri, avrebbe unito. Così come avrebbe unito una pari attenzione agli altri morti, ciascuno, a suo modo, emblema anch’esso di questo momento difficile del Paese. L’imprenditore che affronta la crisi della sua azienda e l’erosione del rapporto con i soci. L’avvocato, il quale vive anch’esso la sua solitudine nell’essere cuscinetto tra le pulsioni della vita e la compostezza del Tribunale. Tutto questo non è stato. La parte migliore della magistratura non ha avuto, ancora una volta, la capacità critica e l’autonomia morale per non farsi trascinare in una autocelebrazione che ha solo scavato ancora di più i fossati. Giustizia: strage di Milano; "fu un caos", il Tribunale smentisce il pg Bruti Liberati di Davide Milosa Il Fatto Quotidiano, 14 aprile 2015 Coni d’ombra, spiegazioni che non coincidono, rabbia da un lato, dall’altro la legittima necessità di normalizzare. A cinque giorni dalla strage, al tribunale di Milano la tensione non accenna a diminuire. Come è stata gestita l’emergenza nei minuti successivi alla sparatoria? E così mentre ieri mattina Claudio Giardiello, il 57enne autore del massacro, accusato di omicidio plurimo aggravato dalla premeditazione, tentato omicidio e porto abusivo d’armi, nel carcere di Monza si avvaleva della facoltà di non rispondere, all’interno del Palazzo di Giustizia si è tenuta un’animata assemblea dei lavoratori del tribunale alla quale, come riporta il sito giustiziami.it, hanno partecipato il capo della procura Bruti Liberati e il presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio. Visioni a confronto, dunque. Per capire, al di là dei movimenti del killer, come è stata gestita l’emergenza. Per Bruti Liberati durante gli attimi successivi agli spari "non si è vissuta nessuna scena di caos e panico". Si associa lo stesso Canzio, confermando la versione ufficiale diffusa già dal pomeriggio del 9 aprile. Ieri, però, hanno parlato i lavoratori, quelli che il palazzo lo frequentano ogni giorno. E qui la storia cambia e non poco. "Io - ha iniziato un esponente del sindacato della pubblica amministrazione - ho visto tutto un altro film. Ero al piano terra dove c’era il caos totale". Quindi ha aggiunto: "Girava gente armata senza pettorina né distintivo. Solo il buon senso ci ha suggerito di stare negli uffici". Una lavoratrice, invece, ha spiegato come da tempo chieda un piano di evacuazione: "Lo dissi in occasione dell’ultimo terremoto. Sono passati due anni e non c’è ancora nulla". Sempre secondo questa lavoratrice è necessaria "l’introduzione di altoparlanti nelle aule, visto che il giorno della sparatoria avvenuta poco prima delle 11 l’email dall’ufficio del personale è arrivata alle 11.28 e non tutti hanno potuto leggerla". Oggi, poi, a detta dei lavoratori "il personale non è formato al piano di evacuazione ciascuno di noi, in casi come questo, dovrebbe sapere dove andare, per esempio si dovrebbe sapere come portare fuori un collega che ha delle disabilità. I corsi sull’evacuazione li fanno ai bambini di prima elementare". L’assemblea si è chiusa con la richiesta dei lavoratori di un incontro urgente con il Prefetto e con il presidente del Tribunale. Sul tavolo diverse proposte. La prima: l’installazione di tornelli e di budget elettronici. La sicurezza, insomma, resta il tema. Oggi più di ieri. Visto che, spiega un magistrato, "già qualche anno fa un gruppo di noi chiese che al settimo piano fossero messe delle vetrate. Ci fu risposto di no, perché il palazzo di giustizia deve essere aperto a tutti". Un sentimento che oggi, dopo la strage, sembra traballare. A Milano come in tutta Italia dove ieri agli ingressi dei vari tribunali si sono registrate code lunghissime. Controlli aumentati, dunque. E molti oggetti sequestrati. Ad Imperia, un avvocato di Torino, come da abitudine, si è presentato all’ingresso con la sua pistola. Questa volta però non ha potuto depositarla al corpo di guardia, ma il procuratore vicario ha disposto che la portasse direttamente al carcere. Molte udienze, poi, sono iniziate in grave ritardo proprio per le perquisizioni a cui sono stati sottoposti anche gli avvocati. A Napoli, ad esempio, la giunta della Camera Penale, riunitasi d’urgenza, ha chiesto al procuratore generale in Corte d’Appello "di revocare ad horas il provvedimento in oggetto oppure di voler adottare le misure che riterrà opportune per garantire un normale svolgimento delle attività giudiziarie". Intanto Milano si prepara per i funerali di Stato. Saranno celebrati domani in Duomo, ma solo per due delle tre vittime. Giustizia: troppe armi nelle case, fermiamo il nostro Far West di Carlo Bonini La Repubblica, 14 aprile 2015 Per una volta almeno, in un Paese che dimentica sempre e troppo presto, le parole della signora Alberta Brambilla Pisani, madre dell’avvocato Lorenzo Claris Appiani, vittima della strage nel tribunale di Milano di giovedì scorso, andrebbero mandate a memoria. Soprattutto, di qui ai prossimi mesi, dovrebbero diventare l’indice, e magari l’hashtag virale, con cui misurare la credibilità degli impegni di Parlamento e governo. E, con loro, la volatilità dello schizofrenico rapporto con il "senso di insicurezza nazionale". Cavalcato a giorni alterni dall’agenda politica e statisticamente riassunto da due dati documentati da questo giornale sabato scorso. Quattro milioni di famiglie italiane hanno nel salotto di casa una pistola o un fucile. In soli sette anni, il numero di licenze di porto d’armi "per uso sportivo" è raddoppiato (187 mila nel 2007, 397.384 nel 2014). Salvo scoprire, in una mattina di primavera, che una calibro 7,65 è stata rivolta non contro un piattello in volo, ma contro degli esseri umani innocenti. Che quella classificazione - "per uso sportivo" - è dunque solo la spia di una deregulation non dichiarata. Dice la signora Pisani a Repubblica: "Questa tragedia deve servire a qualche cosa, può servire a dire basta a queste armi nelle case e in giro con questa estrema facilità. Magari la morte di mio figlio, e degli altri, del giudice Ciampi, può servire a salvare anche solo un’altra vita umana. Magari le armi possono essere conservate nel poligono che i tiratori frequentano e basta. Ma quello che è accaduto a Milano non può passare come acqua sulla pietra". Le parole di questa donna, oltre alla dignità del dolore, denunciano che nei mille causidici distinguo della nostra legislazione, e a valle di ben due riforme (nel 2010 e nel 2013) dell’articolo 35 del Testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza (la norma che fissa i requisiti necessari al rilascio della licenza), l’unico principio di buon senso che non ha sin qui trovato diritto di cittadinanza è proprio quello indicato dalla signora. Che una 7,65 non è una canna da pesca, né una tavola da surf o un paio di sci. Dunque, che chi fa sport con una pistola, non per questo debba possederla, essendo sufficiente impugnarla solo e soltanto nel poligono che dovrebbe custodirla. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano promette ora una "riflessione" e una "decisione". Il che, oltre a impegnarlo insieme al governo, segnala anche un’ammissione. Anche questa, a suo modo, indicativa. Nel Paese che, non più tardi di due mesi fa, ha messo mano per decreto al codice penale e a quello di procedura penale per rendere più stringenti gli strumenti della magistratura e della polizia giudiziaria nella prevenzione della minaccia islamista, non è dato sapere quante armi legalmente registrate circolino. Soltanto il 4 maggio prossimo, infatti, scadrà il generoso termine con cui, nel 2013 (2 anni fa), è stato imposto l’obbligo per chiunque si sia ritrovato un’arma in casa - perché ereditata o perché detenuta in forza di un porto d’armi scaduto e non rinnovato - di presentarsi in una questura per denunciarla ovvero per riconsegnarla. È evidente che la vicenda di Claudio Giardiello non può diventare un paradigma sociale o l’epifania di un incipiente Far West. Ed è altrettanto evidente che un’indagine accerterà in quale delle mille pieghe delle nostre burocrazie della sicurezza si sia prodotta la falla che gli ha consentito di scegliere tempi, luoghi e bersagli della sua psicosi. Ma c’è una verità elementare che non può sfuggire al ministro dell’Interno e al presidente del Consiglio. La comparsa di una pistola, non solo in un film o in un libro, ma anche e soprattutto nella vita reale anticipa solo il momento in cui quella pistola farà fuoco. Almeno una volta. E dunque, la difesa della nostra sicurezza non passa soltanto nel controllo di chi quella pistola ha diritto di impugnarla (non fosse altro per la oggettiva difficoltà di un’indagine psicologica accurata), ma nella restrizione severa dei luoghi in cui può essere custodita, trasportata e utilizzata. Per questo, le parole di quella madre non meritano solo ascolto o riflessione. Meritano una decisione. Rapida. E per una volta semplice. Giustizia: io, vedova per colpa di un uomo armato, dico "basta pistole" di Piero Colaprico La Repubblica, 14 aprile 2015 Parla Katia Roberta Mantovani, l’anno scorso suo marito fu ucciso a Correggio. "Bisogna far cambiare la legge sul porto d’armi, questa tragedia di Milano me l’ha fatto pensare ancora una volta. E per questo ho chiamato subito la famiglia dell’avvocato Lorenzo Claris Appiani, per dire che condivido la loro richiesta parola per parola". Signora Katia Roberta Mantovani, un anno fa, d’estate, suo marito Amos Bartolino, primario di oculistica a Correggio, è stato ucciso da un uomo apparentemente sano di mente, che però girava armato, e poi s’è ammazzato anche lui... "Io sono una casalinga, in cucina uso i coltelli, ma non riesco nemmeno a immaginarmi mentre esco di casa con una lama. Sia da quanto è accaduto a noi, sia da quanto accaduto a Milano, mi sono fatta l’idea che la concessione del porto d’armi sia molto subdola". Subdola perché? "Perché ad alcuni viene l’impressione che questa concessione si trasformi nel diritto di girare armato. Senza alcuna remora". Alcune psicologie difficili si tengono però ben nascoste... "Se lei conosce il caso dell’uomo che ha ucciso mio marito, sa che si trattava di uno grande e grosso, calvo. In quelle ore, quando mi sentivo dentro l’uragano, sono andata a vedere il profilo Facebook e sono rimasta senza fiato. C’erano le sue foto. Era con i capelli e il pizzetto, era magrissimo. Aveva accanto foto di donne bellissime, di "pupe", quando lui nella quotidianità non aveva nessuno, era divorziato e aveva finito male un’altra relazione. Cioè, si era inventato dal nulla un’altra esistenza parallela. Era rintanato nel mondo virtuale fasullo. Secondo me per rilasciare questi permessi ci vuole uno psicologo, e questo psicologo deve fare un esame vero, tenendo conto anche dei social network e della vita sociale di chi chiede di poter avere un’arma". Per altro, l’assassino di suo marito era stato guardia giurata, ma faceva l’elettricista e l’istruttore in palestra con i bambini... "Noi che abbiamo a fianco le vittime, e che forse possiamo parlare a loro nome, questo chiediamo a gran voce. Ma c’è davvero necessità per una persona di girare con un’arma? Che mestiere fai? Chi sei? Qual è la tua necessità pratica ad avere una pistola. Ma, ammesso che ci sia, sei in grado di gestire una situazione in cui si può fare uso delle armi o no? Questa libertà sul tema delle armi da fuoco mi preoccupa moltissimo, e temo che non dipenda nemmeno da una scelta, ma da un pressappochismo che sin qui ha dilagato. Non ho la pretesa di salvare il mondo, ma come hanno detto i familiari dell’avvocato ucciso a Milano, basterebbe salvare qualche vita, quando si può". Anche lo sparatore a Milano si era allenato al poligono... "Anche in questo esiste un aspetto subdolo. Se uno si abitua a sparare, se non è perfettamente a posto, può piano pensare che sparare sia una risposta, se non l’unica risposta". Alcuni di questi killer, una volta scoperti, sembrano far parte della stessa "famiglia", se così si può dire. Persone che danno in escandescenze, petulanti, asfissianti, molesti, successo così anche suo marito, vero? "Purtroppo è con il senno di poi che si percepiscono alcuni segnali. L’uomo che ha ucciso mio marito non rispettava le scadenze dei lavori, si presentava a ogni ora, era prepotentemente presente. Ma al momento sembrava solo un rompiscatole. Invece aveva una pistola". Giustizia: dopo la sentenza di Strasburgo subito Commissione d’inchiesta sul G8 Genova di Giuseppe Di Lello Il Manifesto, 14 aprile 2015 La recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul massacro della scuola Diaz nella notte tra il 21 e 22 luglio 2001 pone temi nuovi che si sommano ai tanti sollevati dai fatti tragici accaduti nel corso del G8 di Genova. Su questi ultimi non si volle indagare con una commissione parlamentare d’inchiesta, proposta bocciata da tutto il centrodestra con il determinante appoggio del moralizzatore Di Pietro. Ne seguì una insignificante commissione parlamentare senza i poteri dell’autorità giudiziaria, all’interno della quale le voci preminenti dell’allora sinistra moderata (Ds-L’Ulivo e Margherita-L’Ulivo) si affettarono a correre in soccorso del partito della polizia e, con innocue domande al limite del ridicolo, aggiunsero al danno la beffa. Con i processi sui fatti della scuola Diaz ultimati, la Corte di Strasburgo ha avuto il quadro completo di ciò che è accaduto quella notte e ha sentenziato che si era trattato di atti tortura, di trattamenti inumani e degradanti perpetrati da un corpo di polizia che, però, non hanno ricevuto che lievi sanzioni o proscioglimenti per prescrizione, per mancanza di una normativa adeguata. Gli autori materiali delle violenze, inoltre, non sono stati mai identificati e ciò, si rammarica la Corte, perché "la polizia ha potuto impunemente rifiutare di fornire alle autorità competenti la cooperazione necessaria all’identificazione degli agenti suscettibili di essere implicati negli atti di tortura". Di ciò, sempre secondo la Corte, non ne ha la responsabilità la magistratura che, anzi, data la assoluta mancanza di collaborazione degli apparati dello stato, ha fatto tutto ciò che poteva. Il giudizio è arrivato su ricorso di Arnaldo Cestaro che all’epoca dei fatti aveva 62 anni e che, venuto da Roma a dimostrare pacificamente, era poi andato a dormire alla Diaz, dove era stato pestato a sangue riportando fratture e lesioni permanenti. Tra qualche tempo arriverà anche il responso della Corte sui fatti di Bolzaneto, dove le torture furono più "scientifiche" perché lontane da occhi indiscreti e su soggetti che, formalmente, erano affidati alla custodia degli agenti di polizia penitenziaria. Non credo però che si debba aspettare anche questa seconda sentenza perché quello che è rimasto della sinistra debba riproporre una commissione parlamentare d’inchiesta su quei fatti. Non vi sono pericoli di interferenze con l’attività della magistratura dato che, come detto, i processi sono stati definiti, i poliziotti violenti l’hanno fatta franca e molti funzionari coinvolti hanno pure fatto carriera. Non è di ostacolo l’assoluzione di De Gennaro perché riguarda un caso del tutto scollegato con i fatti oggetto del giudizio di Strasburgo. Non vi sono problemi di reperimento dei "testimoni" dato che la classe politica del tempo è viva e vegeta, anche se un po’ invecchiata. E poi, oltre a tentare di far luce sulla catena di comando che portò da Piazza Alimonda, alla Diaz e alla Bolzaneto, c’è da rispondere anche alle nuove "domande" poste dalla Corte di Strasburgo e a una in particolare che dovrebbe intrigare anche il ministro della Giustizia interessato alla riforma del processo penale: come diamine è possibile consentire che, nel corso di una inchiesta penale, un corpo dello Stato (la polizia nel nostro caso) possa rifiutarsi di collaborare con l’autorità giudiziaria e di fornire i nomi di possibili autori di reati. Bella domanda che si pongono ancora gli onesti magistrati di Genova che indagarono sul G8: quelli sì, lasciati assolutamente soli. C’è poi l’adeguatezza della legislazione che ora è stata integrata da una legge sulla tortura da troppi ritenuta…inadeguata: così come è, si applicherebbe ai fatti di Bolzaneto ma, magari con l’ausilio di buoni avvocati, non a quelli della Diaz. Altre risposte attendono anche le "frecciate" lanciate dal magistrato Sabella, delegato del Dap per Bolzaneto, secondo cui c’era anche chi il morto lo voleva, ma tra le forze dell’ordine per giustificare una stretta repressiva: vista l’autorevolezza della fonte, non è questione da far cadere nel dimenticatoio. Sabella poi su Bolzaneto dice che "in quei momenti non c’ero" ma, allora, dove era mentre in quella caserma ne succedevano di tutti i colori (e non per dei momenti ma per ore ed ore) e agli agenti violenti si univano anche alcuni appartenenti al personale sanitario. Ora la vogliamo questa commissione parlamentare d’inchiesta, anche per i tanti Cestaro che andarono a Genova per dimostrare pacificamente e vennero segnati a vita dalle violenze di poliziotti "anonimi". In Parlamento Di Pietro non c’è più, la destra è sfarinata e Alfano rappresenta uno stentato 4% di elettori. Poi c’è il Pd che dice di voler cambiare verso, i 5stelle e Sel che non dovrebbero tirarsi indietro. Cercare di riscrivere quella storia servirebbe anche a capire se c’è interesse in questo Paese per i diritti umani o se lo rispolveriamo solo quando quei diritti sono violati fuori dai nostri confini. Giustizia: assolti 194 dei 202 cittadini arrestati e sbattuti in cella… se questo è un genio di Piero Sansonetti Il Garantista, 14 aprile 2015 Assolti 194 dei 202 cittadini arrestati e sbattuti in cella dal campione dei pm anti-ndrangheta. Si è concluso la settimana scorsa, con una valanga di assoluzioni, il processo contro 202 abitanti di Platì (Locride, provincia di Reggio Calabria), 202 arrestati su 4.000 abitanti, circa uno ogni cinque famiglie. Erano stati tutti catturati, in una notte del novembre di 12 anni fa, sotto l’accusa di essere mafiosi. L’operazione, ordinata dal dottor Nicola Gratteri, era stata eseguita da oltre mille carabinieri in assetto di guerra, che avevano circondato il paese e lo avevano messo a soqquadro, avevano trascinato via in manette uomini, donne, persone anziane, qualche ragazzo (anche un ragazzo handicappato) e avevano persino cercato di arrestare un assessore che era morto da un anno e mezzo. Piatì, da quel giorno, in tutto il mondo è diventata famosa come la capitale della mafia. Beh, era una bufala. I lettori calabresi del Garantista conoscono bene questa vicenda della quale ci siamo molto occupati. 1 cittadini del resto d’Italia la ignorano, perché nessun giornale e nessuna Tv ne hanno parlato. È curioso che nessuno parli di un fiasco giudiziario di queste proporzioni - forse senza precedenti nella storia giudiziaria della Repubblica italiana - che oltretutto ha coinvolto uno dei tre quattro nomi più noti tra i Pm dell’intera penisola, l’uomo che dirige una commissione incaricata di preparare una riforma della giustizia, il candidato a fare il ministro del governo Renzi (bloccato solo dall’intervento, provvidenziale, di quel sant’uomo di Napolitano...), l’autore di tanti libri, di tante interviste televisive (l’ultima l’altra sera alla Rai da Fabio Fazio). Eppure è così. È così per due ragioni: prima ragione, la stampa italiana è restia ad occuparsi di cose calabresi, non considera la Calabria territorio nazionale e ritiene comunque di poterla menzionare solo quando si tratta di raccontare che i calabresi sono ‘ndranghetisti. Una notizia di segno opposto non è notizia. Seconda ragione, la stampa nazionale è restia a fare le bucce ai magistrati. Se un politico fa una sciocchezza, o ha un insuccesso, è giusto crocifiggerlo e sommergerlo col fango; se un magistrato ha un infortunio (diciamo così) è meglio tacere. Da questo punto di vista l’intervista condotta l’altra da Fabio Fazio è un esempio clamoroso di giornalismo subalterno. Possibile che devi intervistare un Pm che quarantotto ore prima ha subito lo smacco clamoroso di una inchiesta famosissima, finita in una bolla dì sapone, e non gli fai neppure una domanda su quell’inchiesta e quella sconfitta? Niente, silenzio, velo complice? Sono rimasto senza parole vedendo quell’intervista. Ero convinto che prima o poi almeno un accenno di domandina, Fazio, gliela avrebbe fatta. Macché! Andrebbe proiettata nelle scuole di giornalismo questa puntata di Che Tempo che fa sotto il titolo: "come non si fa un’intervista". Chissà se stavolta interverrà il consiglio di amministrazione della Rai, o la commissione di vigilanza. Dal punto di vista professionale l’infortunio di Fazio è spettacolare. Ma torniamo a Gratteri. Tenendo conto del fatto che l’operazione Piatì, nel 2003, ebbe un’eco gigantesco sulla stampa nazionale e internazionale. È stata un delle poche volte nelle quali i media si sono occupati di Calabria, e lo hanno fatto per spiegare come un intero paese dell’Aspromonte fosse abitato da mafiosi, e poi per lodare il Pm sceriffo, Gratteri, appunto, che era stato capace di sgominare le cosche e far vincere lo Stato. Ora si scopre che i casi sono due. O davvero Piatì è tutta mafiosa, e allora Gratteri è stato un incapace a condurre un’inchiesta che ha portato all’assoluzione di tutti. Oppure (come è largamente probabile) non è vero che Piatì è tutta mafiosa, e allora Gratteri ha fatto sbattere in galera duecento anime innocenti. Naturalmente in questa "Capo-retto" di Gratteri non esiste alcun "profilo penale", come si dice sempre quando ì giornali prendono di punta un politico. Per esempio l’ex ministro Lupi. Poi i giornali dicono: però c’è un profilo di opportunità, e Lupi deve dimettersi. E si è dimesso. Perché suo figlio ingegnere aveva avuto un posto di lavoro da ingegnere precario a 1.200 euro al mese. Ora io dico: ma non c’è un motivo di opportunità grande come una casa perché Gratteri, quanto meno, la smetta di presiedere commissioni che dovrebbero stabilire come riformare la giustizia? Un insuccesso professionale di queste proporzioni, che in qualunque altra professione porterebbe ad una vera e propria rovina nella propria carriera, per un Pm non ha alcuna conseguenza? Va bene, prendiamo atto che i Pm sono al di sopra di ogni sospetto. Prendiamo atto che la stampa è pronta a perdonare loro ogni cosa. Però almeno che si sappia che le cose sono andare così, e si sappia che, insomma, forse, Gratteri, che è stato dipinto a tutti come un genio, come il numero uno, come il più bravo di tutti, insomma... diciamo la verità... No? P.S. Nell’intervista a Fazio, Gratteri si è mostrato nella vesti del magistrato inflessibile, reazionario, nostalgico dei regimi forti. Un uomo di estrema destra, ordine, disciplina, pene esemplari. E questo è del tutto legittimo. Sono assolutamente convinto che Gratteri sia un magistrato in buonafede al 100 per cento. Il problema è che lui è convinto di essere stato investito da Dio di una missione epocale: quella di ripulire il paese dai corrotti, dai sospettabili di corruzione, dai cattivi, dai disonesti, dagli anarchici, e naturalmente dai garantisti. Ecco, bisognerebbe spiegargli che non è così. Lui deve occuparsi di fare le inchieste giudiziarie, di cercare i delitti, i colpevoli e le prove. Deve applicarsi di più a queste cose, in modo da evitare bufale come quelle di Piatì, fare meno interviste, pontificare di meno, e soprattutto rinunciare all’idea che tocchi a lui riformare la giustizia, perché penso che a nessuno possa venire in mente di affidare la riforma della giustizia al Pm che ha preso la toppa di Platì. Giustizia: mille carabinieri in piena notte circondarono il paese di Platì di Ilario Ammendolia Il Garantista, 14 aprile 2015 Fu un’operazione di guerra, si inventarono anche una città sotterranea, ma era un errore di stampa. Mamme strappate al bambini, un ragazzo handicappato trascinato via. Le sentenze di assoluzione pronunciate dalla Corte di appello di Reggio Calabria l’altro ieri fanno definitivamente scoppiare come una bolla di sapone la "brillante" operazione "Marine". Una Caporetto per il pm Nicola Gratteri. Ricordiamo i fatti: era l’alba del 12 novembre del 2003, quando scatta l’operazione "Marine" dedicata ai morti di Nassirya. Le truppe si muovono circondando un piccolo paese della Calabria: Platì! Sono un vero esercito. Si parla di mille uomini che avanzano protetti dalle tenebre verso l’Aspromonte. All’alba, l’assalto. Abitazioni forzate, pianto di bimbi, urla di donne. Sembra un territorio controllato dall’Isis ma l’operazione si svolge in Calabria, nel cuore della notte. Quando il sole sorge, i notiziari nazionali riportano come prima notizia i risultati della operazione di polizia: circa 150 gli arrestati. Più di duecento le persone denunciate. Un numero enorme per un paese così piccolo. E come se a Roma, in una sola notte, ci fossero centomila arresti! Si sarebbe gridato al colpo di Stato, ma qui siamo in Calabria ed è tutta un’altra storia. Poi i cellulari carichi di prigionieri scendono verso valle e man mano che si allontanano da paese, il cuore della gente di Piatì diventa sempre più piccolo. Non possono far altro che suonare le campane e rifugiarsi in Chiesa. Si rivolgono alla Giustizia di Dio, avendo constatato la fallacia di quella umana. Quei corpi in catene rappresentano la mortificazione estrema della persona umana. Sono l’altra faccia dei morti ammazzati sulle nostre strade. Quanti sono gli innocenti? Secondo i giudici quasi tutti. Per giorni l’operazione Marine tiene le prime pagine dei giornali, perfino i titoli principali del NY Times e della Bbc. Nel frattempo l’operazione fornirà altri mattoni per costruire l’immagine della "Calabria criminale" su cui scrivere libri seriali, produrre fiction e film che rasentano il razzismo e la diffamazione sistematica verso i calabresi. Già nelle prime ore dell’operazione, l’opinione pubblica verrà messa a conoscenza della protervia dei pubblici amministratori di Platì, così spavaldi da realizzare una città sotterranea chiamandola "zona latitanti". Una colossale e cinica bugia. Infatti, una correzione automatica del computer trasforma la parola "latistanti" (distanza da due lati) in latitanti. Però l’inesistente città sotterranea entra nella leggenda. Per anni all’opinione pubblica viene raccontata un’altra storia. Si continua a parlare di una "brillante operazione" e nessun rappresentante delle istituzioni, in questi lunghi anni, troverà il coraggio di dire che s’è scritta una pessima pagina di (ingiustizia sommaria che dissanguerà le casse dello Stato e rafforzerà enormemente la ndrangheta, saldando in un fronte unico ‘ndranghetisti e cittadini perbene. Si eviterà di dire che in quella operazione è stato arrestato anche un povero portatore di handicap che non sapeva pronunciare il proprio nome e che per farlo salire sul cellulare i suoi compaesani gli hanno raccontato la pietosa bugia che lo avrebbero portato a Lourdes. Ho riproposto questa storia solo perché l’Italia sappia che alle varie operazioni "Marine" abbiamo il dovere di contrapporre "l’operazione verità". Verità sulla Calabria! Dobbiamo raccontare a noi stessi, all’Italia e al mondo una verità cinicamente oscurata, ferita, stravolta dall’informazione di regime e dai poteri forti. Rifletta la "commissione" presieduta dal dottor Gratteri, insediata al ministero della Giustizia, su quanto è successo a Piatì. Prenda atto che "Marine" non è stata una operazione contro la ‘ndrangheta ma contro la Calabria, un oggettivo favoreggiamento alle organizzazioni criminali. Si acquisisca la consapevolezza che la ‘ndrangheta s’è legittimata grazie ad operazioni insensate come quella di Platì. L’attuale classe dirigente che sa di pecorume continuerà a nascondere la testa nell’erba, parlando d’altro! Ciò ha reso possibile che in nome della falsa legalità venisse imposto un pesante basto e una stringente bardatura al popolo calabrese ed italiano. In nome della legalità si stanno colpendo al cuore i diritti dei cittadini soprattutto dei più deboli. Noi ci collochiamo in un altro emisfero e non abbasseremo la testa. Alla legalità formale contrapponiamo l’antindrangheta dei diritti. Diritto di fare impresa, diritto al lavoro, diritto alla vita ed alla sicurezza. Diritto di dormire tranquilli quando non si commettono reati né prepotenze di sorta, senza la paura che qualcuno ti metta una bomba estorsiva o, peggio ancora, che, nell’ombra qualcuno trami "legalmente" contro la tua libertà solo perché non intendi chinare la testa, né trovarti un "protettore". Giustizia: l’escalation penale sugli eco-reati produce malagiustizia… parola di pm Il Foglio, 14 aprile 2015 Gli imprenditori, attraverso Confindustria, da tempo denunciano che il disegno di legge sui reati ambientali, in discussione alla Camera per la lettura definitiva - salvo modifiche impalatabili per le associazioni ambientaliste - introdurrebbe la fattispecie del disastro ambientale nel codice penale con effetti nefasti per l’economia. "Non distingue tra dolo e colpa, tra chi ha un incidente e si attiva per riparare e chi inquina per scelta criminale", dice Confindustria. E l’imprenditore, già soggetto a una regolamentazione rigida, oltre ad assumersi il rischio aziendale (calcolato) si troverebbe ad affrontare anche quello (imponderabile) di subire indagini e sequestri. Preoccupazioni che trovano fondamento nella relazione del sostituto procuratore di Udine, Viviana Del Tedesco, contenuta nel Rapporto 2015 dell’associazione Italia Decide. "Semplificare è possibile: come le pubbliche amministrazioni potrebbero fare pace con le imprese" - presentato ieri alla Camera. Del Tedesco è il pm che ha perseguito le società che avevano inventato un’emergenza ambientale inesistente al fine di ottenere sovvenzioni pubbliche per bonificare la laguna di Grado e Marano, in Friuli. Del Tedesco scrive che in fatto di norme ambientali sono gli imprenditori onesti a pagare lo scotto più alto a causa di una "produzione normativa ipertrofica". "La confusione regna sovrana e il rinvio ad allegati dove si fa riferimento a soglie di contaminazione astrattamente considerati costringe ad avviare attività costose (es. analisi del rischio sui prodotti agricoli, ndr) per ottenere risultati privi di utilità, se non dannosi, sotto il profilo della tutela sostanziale dell’ambiente e scientificamente errati". La difficoltà ad adempiere a tutti gli obblighi è amplificata dalla produzione normativa che aumenta la possibilità di sbagliare col rischio di essere responsabili non per colpa specifica (con intenzione) ma anche per colpa generica (per non avere fatto qualcosa): "Si riduce sempre più la possibilità concreta di evitare il rischio di essere perseguiti a titolo di colpa e l’esercizio di qualsivoglia attività umana comporta assunzioni di responsabilità non controllabili con la conseguente mortificazione dell’iniziativa di ciascun soggetto (imprenditore), aumento dei costi di gestione e riduzione delle volontà virtuose. Più che fare le cose bene e in modo che funzionino in concreto, la preoccupazione principale di ciascuno è quella di ‘essere a normà. Ma è in colpa colui che non sa nemmeno bene cosa deve fare per essere a norma? - si chiede Del Tedesco. La moltiplicazione delle norme tecniche mortifica il principio di certezza del diritto e il concetto di colpa viene dunque stravolto". Se nessuno sa esattamente cosa deve fare, chi vuole operare correttamente avrà difficoltà crescenti a farlo mentre chi si comporta in modo superficiale per trarne vantaggio è giustificato dal caos normativo. Le conseguenze per l’esercizio della giustizia sono altrettanto perverse. Del Tedesco aggiunge un concetto tipicamente rimosso dalla magistratura d’assalto: "L’ipertrofia delle norme penali previste nelle materie tecniche che sfuggono alle conoscenze del magistrato e affidate inevitabilmente ai consulenti, non esalta ma svilisce la magistratura che a sua volta, non potendo avere il controllo delle innumerevoli indagini nei più disparati settori, si burocratizza e non garantisce qualità. Devolvere alla magistratura la valutazione di questioni tecniche significa aumentare i tempi delle indagini. Se invece di avere tante norme confuse ve ne fossero poche con obiettivi precisi, le indagini della magistratura sarebbero meno numerose, più mirate, meno costose e si risolverebbero in tempi ragionevoli garantendo alla collettività un servizio sostanziale". Giustizia: contro la corruzione meno leggi e regolamenti e costi delle procedure più bassi di Umberto Fantigrossi (Presidente Unione Nazionale Avvocati Amministrativisti) Milano Finanza, 14 aprile 2015 Come spesso accade, all’individuazione di un obiettivo di interesse pubblico lo Stato fa seguire la creazione di un nuovo apparato. È accaduto così anche nel caso della lotta alla corruzione, con la creazione di un’apposita Autorità nazionale an ti corruzione, cui spetta, secondo l’art. 1 della legge istitutiva (la 190 del 2012), di assicurare azione coordinata, attività di controllo, prevenzione e contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione. Per quanto in questo primo periodo di funzionamento l’Autorità abbia sicuramente fatto sentire la sua voce e svolto con incisività il suo ruolo, per esempio nel caso dell’Expo di Milano, vedo difficile che questo approccio, per così dire dall’alto, abbia l’effettiva possibilità di combattere il fenomeno in tutte le sue dimensioni. Anzi, rischia di diventare l’ennesimo soggetto produttore di regolamenti e indirizzi, quando è proprio l’eccesso dì leggi e di norme secondarie che fa crescere il pericolo dell’abuso nell’applicazione del precetto e pone il cittadino in una condizione di sudditanza, predisponendolo alla corruzione. Bisogna quindi pensare a un approccio diverso, che parta dal basso e precisamente da coinvolgimento diretto del cittadino, come parte attiva di un processo di lotta alla corruzione. Qualche autorevole esponente del governo ha recentemente affermato che la corruzione si avvantaggia perché quello italiano è uno Stato debole, troppo spesso facile preda delle organizzazioni che fanno corruzione. Ma questa vale per la grande corruzione, mentre esiste ed è altrettanto pericolosa quella diffusa. A volte il cittadino o l’imprenditore paga anche per avere ciò che gli spetta secondo norma: la piccola concessione edilizia o la piccola autorizzazione commerciale e questo perché non si fida degli strumenti di cui potrebbe disporre per ottenere legalmente quello che gli spetta in tempi rapidi. E allora urge una strategia che punti a dare più poteri al cittadino e possa incidere sui fattori che producono o quanto meno favoriscono la corruzione. Il primo fattore sul quale intervenire è proprio quello della patologia di una normativa così vasta da impedire di sapere con certezza quale sia la disciplina di una certa fattispecie: la recente edizione della Gazzetta Ufficiale con la legge di Stabilità contiene più di 700 commi distribuiti su più di 500 pagine. È in arrivo la nuova legge di riforma della pubblica amministrazione e si preannuncia che conterrà i principi direttivi da attuare con circa 10 decreti legislativi di attuazione. Questo fenomeno non è un fattore legato alla corruzione? Il secondo fattore riguarda una manutenzione straordinaria di leggi fondamentali per il rapporto tra cittadini, imprese e pubbliche autorità, come, in primo luogo, la cosiddetta legge sulla Trasparenza (n. 241/90), che in 25 anni ha subito un eccesso di interventi di modifica estemporanei e una incessante azione di erosione del suo ambito di efficacia, per l’azione di discipline speciali e derogatorie. Occorre tornare alla sua logica originaria di norma generale del procedimento amministrativo: il cittadino va messo nelle condizioni di colloquiare in modo paritario e su basi di correttezza e trasparenza il proprio interlocutore istituzionale. Il terzo fronte di intervento dal basso è quello della giustizia amministrativa. Il ricorso al Tar è infatti uno degli strumenti più forti di cui cittadini e imprese dispongono per combattere la corruzione. Quindi la giustizia amministrativa va potenziata anche come strumento di prevenzione della corruzione, rendendola più accessibile dal punto di vista della presenza sul territorio e dei costi di accesso. Su questo aspetto, non si può tacere che l’attuale livello delle tasse sui ricorsi al giudice amministrativo rischia di garantire l’impunità per le violazioni nelle gare fino a 2-300 mila euro, soglia sotto la quale il costo degli atti supera il margine di guadagno dell’impresa. A livello aggregato, vuol dire circa 100 milioni di euro di spesa pubblica su cui non c’è controllo. Lettere: un ufficio stampa ai detenuti, solo così avremo parità nei processi di Loris Cereda Il Garantista, 14 aprile 2015 Una delle prime cose che saltano all’occhio come prova dell’assoluta disparità di diritti tra accusa e difesa nel processo penale italiano è la capacità di orientare l’opinione pubblica, per lo meno nei processi che non hanno una forza mediatica sufficiente ad entrare nei programmi televisivi. Alcune Procure adoperano in modo sistematico ormai una precisa strategia: fanno pervenire le veline ai giornalisti, i quali, ossequiosi al comandamento secondo cui il mostro va sempre sbattuto in prima pagina, sfruttano le "verità" scritte negli "atti" per confezionare l’immagine del presunto colpevole. Tale rappresentazione pubblica, oltre a non aver niente a che fare con la Verità, spesso non ha nemmeno niente a che fare con quella verità che la Procura sta cercando di dimostrare. Se esistesse un ufficio stampa a disposizione degli arrestati che, con la stessa forza delle Procure, fosse in grado di ristabilire un principio di equità, anche l’opinione pubblica sarebbe in grado di farsi un giudizio equo su ciò che ad un uomo sta succedendo. E, magari, anche i procuratori della Repubblica userebbero maggior buon senso nel svolgere le loro mansioni. Fatta questa premessa, vorrei portare a conoscenza del maggior numero di persone possibili il caso che mi è stato esposto da un semplice detenuto. "Egregio Signor Loris", mi scrive, "mi chiamo Pietro Noci, sono detenuto nel carcere di Opera. L’11 giugno del 2009 venivo arrestato per una serie di rapine nel Nord Italia, in seguito a un’indagine condotta dai carabinieri di Genova; il pubblico ministero di Genova trasmetteva gli atti alle varie Procure competenti. Nel procedimento penale svolto nel capoluogo ligure venivo condannato sulla base di deduzioni investigative; dopo di che ben altri 6 Tribunali in sede dibattimentale mi hanno assolto dallo stesso faldone d’indagine. La conclusione del Ris è stata la seguente: ‘Non compatibilità tra il volto del rapinatore con quello di Noci Pietrò. Ora il mio avvocato presenterà istanza di revisione del primo processo". Ho sintetizzato la lunga lettera; nei fatti un uomo è in carcere per una vicenda finita in due processi diversi, che lo vedono innocente e colpevole. Sua moglie è costretta a sobbarcarsi un carico esistenziale ed economico tremendo, i magistrati che si sono interessati al caso magari fanno carriera. E noi, facciamo qualcosa? Siamo in grado di assicurare all’incredibile storia di quest’uomo la stessa indignazione suscitata in genere dal fatto di cronaca nera amplificato dai media? O la sventura di un innocente merita di essere oscurata? Lettere: il significato di "tortura", evoluzione di una parola di Sergio Romano Il Corriere della Sera, 14 aprile 2015 E così la Corte europea dei Diritti umani ha sentenziato contro l’Italia etichettando ciò che avvenne nell’irruzione alla scuola Diaz di Genova del 21 luglio 2001 come tortura. Deplorando poi il fatto che il nostro Paese non ne contempli il reato. Ma perché chiamare tortura quella che è stata una palese rappresaglia? Perché è di questo che si dovrebbe parlare e condannare. Lo Stato non si doveva abbassare ad un atto del genere sebbene in un contesto di un giorno di follia collettiva. Ma la tortura non è un’altra cosa? Mario Taliani Caro Taliani, Salvo errore, una delle prime apparizioni della parola "tortura" nella legislazione internazionale del secondo dopoguerra appartiene alla Convenzione internazionale sui Diritti umani e civili promossa dall’Onu e aperta alla firma degli Stati nel 1966. Secondo l’art. 7, "Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti. In particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico". Il testo è apparentemente chiaro, ma non contiene una definizione della tortura. Da allora, mi sembra capire, il compito di definire la tortura con maggiore precisione è stato lasciato ai tribunali internazionali e in particolare, tra gli altri, a quello del Consiglio d’Europa che si è recentemente pronunciato sulle vicende della Scuola Diaz. Ma non è escluso che altri tribunali giungano a conclusioni diverse e possano dare della tortura altre definizioni. Credo che il problema sia politico e sociale piuttosto che giuridico. Gli orrori e i genocidi della Seconda guerra mondiale hanno avuto l’effetto di creare un maggiore sensibilità per i diritti umani e la speranza che un sistema giuridico internazionale, sotto il cappello delle Nazioni Unite, avrebbe costretto gli Stati a comportamenti civili. Quando hanno cominciato a scrivere i testi di quello che sarebbe potuto diventare un codice penale mondiale, i governi, i diplomatici e gli esperti giuridici hanno fatto ciò che accade spesso in molti parlamenti nazionali. Hanno deciso che i vecchi reati, con le loro denominazioni tradizionali, non bastavano a definire i nuovi orrori e hanno deciso di alzare il volume sonoro della indignazione usando parole, come tortura o genocidio, che, in passato, erano state usate in modo più preciso e circoscritto. Usata nel caso della scuola Diaz, la parola "tortura" corre il rischio di perdere il suo significato originale e di banalizzarsi. Alcuni lettori, caro Taliani, mi hanno chiesto di aiutarli a distinguere le competenze del Corte europea dei Diritti umani di Strasburgo da quelle della Corte europea del Lussemburgo. La prima è stata creata dal Consiglio d’Europa nel 1959 e si pronuncia su cause promosse sia dai governi, sia dai singoli cittadini (come nel caso di Genova). Può ordinare ai governi di correggere la propria legislazione e può fissare l’indennizzo che dovrà essere corrisposto al cittadino che è stato privato dei suoi diritti. La Corte di Giustizia europea, invece, è l’organo che vigila sull’osservanza degli impegni e degli obblighi comunitari assunti dai membri dell’Unione europea e dalle loro aziende. È stata creata nel 1957, l’anno in cui furono firmati in Campidoglio i trattati per la creazione del Mercato comune. Toscana: Bernardini (Ri); scelta irresponsabile spostare internati Montelupo al Gozzini www.gonews.it, 14 aprile 2015 La Regione Toscana ha presentato un programma di superamento dell’Opg di Montelupo Fiorentino che prevede, tra le altre cose, il trasferimento degli internati psichiatrici al carcere a custodia attenuata "Gozzini" di Firenze, più conosciuto come "Solliccianino". Il trasferimento è previsto non prima di un anno, non prima cioè dei lavori di adeguamento strutturale del carcere fiorentino, l’indizione della relativa gara di appalto, e l’assunzione di personale specializzato. Da qui la decisione di spostare i detenuti del Gozzini e chiudere di conseguenza la positiva esperienza dell’istituto a custodia attenuata che ha funzionato bene nel suo difficile compito di reinserimento sociale e riabilitazione del detenuto. Senza contare che la decisione presa dalla Regione Toscana è avvenuta, consapevolmente, in piena violazione della Legge 81/2014 che ha sancito la chiusura degli Opg il 31 marzo, senza nessuna proroga. Nell’interrogazione, presentata dal vicepresidente della Camera Roberto Giachetti (PD), si chiede proprio perché, con questi presupposti di merito, la Regione Toscana non sia stata ancora commissariata da parte del Governo. Dichiarazione di Rita Bernardini, segretaria di Radicali Italiani: "Ogni giorno aumentano le ragioni a fondamento dell’iniziativa nonviolenta che ho intrapreso con Marco Pannella e tanti altri compagni sui temi della giustizia e contro la continua macelleria di diritto che avviene nel nostro Paese. Abbiamo saputo, per esempio, che la Regione Toscana ha deciso di fare un "mini Opg", smantellando l’unico carcere (a custodia attenuata) che funzioni in termini di reinserimento futuro dei detenuti: via, dunque, i detenuti di Solliccianino (Firenze), questa la scelta irresponsabile della Regione per contrastare la quale sono al lavoro i compagni dell’Associazione per l’iniziativa radicale Andrea Tamburi di Firenze. Grazie, ancora una volta, al vicepresidente della Camera, Roberto Giachetti (Pd), che su questa vergogna ha depositato un’interrogazione parlamentare". Testo dell’interrogazione di Roberto Giachetti (Pd) Al Ministro della Giustizia, al Ministro della Salute, per sapere, premesso che il sito internet fionline.it, riporta la notizia della delibera approvata dalla giunta regionale in data 30 marzo 2015 in merito alla chiusura dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino, fissata al 31 marzo 2015 dalla legge 81/2014 per tutti e sei gli Opg esistenti in Italia; fra le soluzioni - tutte provvisorie in dispregio di quanto richiesto dalla legge 81/2014 - la delibera individua quella dell’Istituto penitenziario Mario Gozzini - Località Sollicciano Firenze, che fino ad oggi ha ospitato una trentina di "semiliberi" e circa sessanta detenuti a custodia attenuata con problemi di tossicodipendenza; Il quotidiano La Repubblica, nella sua edizione fiorentina di martedì 31 marzo 2015, a pagina VIII pubblica un articolo dal titolo "Ventidue ricoverati all’Opg di Montelupo verso Solliccianino" con sottotitolo "Tramonta l’ipotesi Rems nella casa di cura Villanova, la giunta regionale punta sulla struttura carceraria"; nel sopracitato articolo di Repubblica-Firenze si legge: "Si parla di "superamento dell’Opg", l’ospedale psichiatrico giudiziario. Ma di fatto almeno 22 degli attuali ricoverati a Montelupo andranno a finire a Solliccianino, la struttura a custodia attenuata vicino al carcere vero e proprio che accrescerà la sua popolazione. Sparisce dall’orizzonte delle possibilità il ricorso all’ex casa di cura Villanova, a cui in un primo tempo la Regione aveva pensato per accogliere una parte dei pazienti dell’Opg. Ieri pomeriggio la giunta ha approvato altre cinque destinazioni, oltre a Solliccianino. I luoghi individuati per essere trasformati in Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) sono la struttura psichiatrica residenziale "Le Querce" di Firenze, la comunità terapeutica "Tiziano" di Aulla, in provincia di Massa, la struttura residenziale "Morel" dell’ospedale di Volterra, "I Parti" di Abbadia San Salvatore nel senese, la residenza terapeutico riabilitativa di Arezzo. Il trasferimento verrà effettuato nei prossimi mesi e sarà una soluzione definitiva. Per Solliccianino la delibera stabilisce di far eseguire opere di adeguamento per realizzare un’area ad hoc e di attivare un tavolo tra tutte le autorità coinvolte nel processo di superamento dell’Opg, coordinato dalla direzione generale Diritti di cittadinanza e coesione sociale, con la partecipazione del Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Toscana, del presidente del tribunale di Sorveglianza, del direttore generale dell’azienda sanitaria 10. Saranno poi organizzati corsi di formazione per gli operatori che dovranno seguire i "nuovi" percorsi terapeutici. Una riforma del settore che nei piani della Regione dovrebbe accompagnare le vite di persone che finora erano relegate fuori dal mondo e che hanno storie difficilissime alle spalle. I dipartimenti di salute mentale devono attrezzarsi ad accoglierli. Dal 2011 ad oggi sono stati promossi e sostenuti a livello regionale 65 programmi di dimissione dall’Opg, per favorire il rientro degli internati toscani nel territorio di provenienza. I 65 percorsi di dimissioni sono stati diretti per il 73% in comunità terapeutiche psichiatriche, per il 9% in comunità terapeutiche per doppia diagnosi, il 14% in residenze sociali e il 4% al domicilio proprio o dei familiari. Adesso all’Opg di Montelupo sono presenti 115 internati, di cui 49 toscani, mentre il resto viene da altre regioni. Da fuori torneranno 3 pazienti, uno da Reggio Emilia e due da Castiglione delle Stiviere. Questa la distribuzione prevista. Per 14 pazienti ci sono percorsi di dimissione in corso, 12 andranno nel padiglione Morel appositamente realizzati a Volterra, 10 ad Aulla, 8 a "Le Querce" ad Ugnano. A Siena e ad Arezzo 4 pazienti in Rems che entreranno in funzione a Ottobre. E per 22 si apriranno le porte di Solliccianino"; la Segretaria di Radicali italiani ha ricevuto la tormentata lettera dei detenuti di Solliccianino che scrivono tra l’altro "abbiamo appreso dai giornali e dalle TV che questa struttura verrà convertita ad uso sanitario per la detenzione di soggetti con patologie psichiatriche (anche gravi) dell’Opg di Montelupo Fiorentino. Siamo sinceramente preoccupati dal momento che questo istituto è nato 25 anni fa come primo carcere a custodia attenuta in Italia allo scopo di seguire e sostenere i progetti delle persone detenute. Si sottolinea poi che il Mario Gozzini (meglio conosciuto in città come Solliccianino) ospita anche un reparto dove confluiscono detenuti per concludere la pena in semilibertà. La nostra preoccupazione riguarda l’eventuale cambio di destinazione dell’attuale struttura ad uso totalmente psichiatrico e quindi la domanda che ci poniamo è: come finirà il nostro percorso di riabilitazione nella società se verremo abbandonati e trasferiti in altre carceri? Qualcuno tra noi mentre si trovava in altri penitenziari, era diventato depresso e non vedeva più il futuro, mentre qui ha ricominciato a sperare". se siano a conoscenza di quanto descritto in premessa; se corrisponde al vero quanto affermato dal quotidiano La Repubblica - edizione di Firenze in merito alla destinazione dei pazienti toscani dell’Opg di Montelupo Fiorentino; se 14 pazienti siano stati effettivamente dimessi; se i 12 pazienti destinati nel padiglione Morel siano stati effettivamente allocati nella struttura di Volterra e, in caso contrario, dove siano stati attualmente sistemati; se i 10 pazienti destinati ad Aulla e gli 8 destinati a "Le Querce" ad Ugnano siano stati effettivamente allocati e, in caso contrario, dove siano stati attualmente sistemati; dove si trovano attualmente i 4 pazienti destinati a Siena e ad Arezzo; dove si trovano attualmente i 22 pazienti destinati alla Rems che dovrà essere predisposta presso l’Istituto Mario Gozzini di Firenze; se ritengano conciliabile la coesistenza della Rems a Solliccianino con l’istituto a custodia attenuata in funzione da 20 anni con risultati d’eccellenza per quel che riguarda il percorso riabilitativo dei detenuti; quali risposte intenda dare il ministro della Giustizia alle preoccupazioni manifestate dai detenuti dell’Istituto Mario Gozzini; quali sono le ragioni per le quali la Regione Toscana, pur non avendo previsto entro il 31 marzo alcuna Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza con le caratteristiche previste dalla legge, non sia stata commissariata". Ascoli: morte in cella di Achille Mestichelli, l’indagato rifiuta l’interrogatorio Corriere Adriatico, 14 aprile 2015 Ieri mattina il giudice per le indagini preliminari, Giuliana Filippello ed il pubblico ministero Umberto Monti si sono recati nel carcere di Marino del Tronto per l’interrogatorio di garanzia di Mohamed Ben Alì, il tunisino che deve rispondere del presunto reato di omicidio preterintenzionale per la morte di Achille Mestichelli. Nonostante i tentativi da parte del suo legale di fiducia, Umberto Gramenzi, l’extracomunitario si è rifiutato di comparire davanti al magistrato per fornire la sua versione dei fatti, inscenando una reazione nervosa nella sua cella. Avendo rinunciato ad un suo diritto, ora tutto viene rinviato al giorno in cui sarà fissata la data della prima udienza del processo dove potrebbe anche non presentarsi Una vicenda che ancora presenta dei punti da chiarire. Da quanto è emerso dalla prima testimonianza resa da Mohamed Ben Alì, tunisino di 25 anni, che si trovava in carcere per un reato di droga, all’interno della cella nella quale si trovava recluso unitamente ad Achille Mestichelli ed altri quattro detenuti, due extracomunitari e due italiani, fra i due scoppiò una violenta discussione. Secondo l’accusa Ben Alì dette una spinta a Mestichelli che perse l’equilibrio andando a battere violentemente il capo sul pavimento finendo in coma. Dopo tre giorni di agonia all’ospedale Torrette di Ancona il cinquantatreenne cessò di vivere. Vennero interrogati anche i quattro compagni di cella in modo da poter ricostruire fedelmente l’accaduto. Nessuno però fornì elementi utili. Secondo un’indiscrezione dall’esame dell’autopsia sarebbe emersa l’incompatibilità fra le ferite riportate da Achille Mestichelli rispetto a quelle che avrebbe potuto provocare battendo il capo, seppur con una certa violenza, sul pavimento. Livorno: Corleone "Porto Azzurro non è più un modello, carcere in stato di abbandono" Il Tirreno, 14 aprile 2015 Il Garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone, ha visitato l’istituto penitenziario assieme al garante di Livorno, Marco Solimano. L’istituto penitenziario di Porto Azzurro, all’isola d’Elba, era un carcere modello. Negli anni della riforma penitenziaria, e fino a una decina di anni fa, a Porto Azzurro veniva pubblicato un giornale, la Grande Promessa, che era una voce di dibattito e di libera espressione anche per i detenuti. Su quel giornale, ad esempio, si è discusso dell’opportunità di superare l’ergastolo in Italia. Ed altri progetti, collegati ad attività produttive, facevano del supercarcere dell’Elba un luogo di sperimentazione ponendolo all’avanguardia nel panorama nazionale. Da tempo, invece, Porto Azzurro non ha più niente di sperimentale e l’istituto non è più un carcere modello. La denuncia è del garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone, che oggi ha visitato l’istituto di Porto Azzurro assieme al garante dei detenuti di Livorno, Marco Solimano, che a sua volta ha evidenziato l’insostenibile situazione di degrado di un carcere in cui vi sono anche dei reparti, come il terzo, dove i servizi igienici sono addirittura all’aperto. A Porto Azzurro sono attualmente recluse 220 persone di cui 37 ergastolani. Altri 28 detenuti sono invece impiegati in uno speciale programma di recupero sull’isola di Pianosa. In ogni caso, secondo Corleone, ormai da troppo tempo il carcere di Longone, come veniva chiamata una volta Porto Azzurro, è senza un direttore ed anche se la delegazione ha avuto un’accoglienza di piena disponibilità, ha aggiunto il garante regionale, questa mancanza è la fotografia dello stato di abbandono in cui versa il carcere. Vi è la necessità di rivedere il numero dei reclusi ed apportare tante migliorie, ha concluso Corleone, che ha anche ricordato che il giro di visite alle carceri toscane, ormai avviato alla conclusione, domani porterà la delegazione all’istituto dell’isola di Gorgona. Frosinone: in arrivo 60 detenuti di alta sicurezza, ma nessun poliziotto penitenziario in più www.poliziapenitenziaria.it, 14 aprile 2015 Dal prossimo 20 aprile arriveranno, nel carcere di Frosinone, 60 nuovi detenuti "Alta Sicurezza", il primo gruppo di una serie di ristretti che andranno ad affollare il penitenziario della città ciociara nella quale oggi sono presenti 500 detenuti. Una decisione assurda, alla quale non segue parallelamente un adeguato incremento dell’organico di Polizia Penitenziaria, tanto che già sappiamo che saranno revocate ferie e periodi di congedo ai poliziotti in servizio per assicurare l’apertura della nuova Sezione detentiva nel carcere di Frosinone. Per questo non staremo con le mani in mano e organizzeremo a breve una eclatante protesta davanti al carcere. Lo dichiara il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe Donato Capece commentando l’imminente assegnazione nel nuovo Padiglione detentivo del carcere di Frosinone di 60 detenuti. "Com’è possibile pensare di assegnare 60 ulteriori detenuti, ad alto regime di vigilanza e sicurezza, senza avere gli Agenti di Polizia Penitenziaria in grado di fare fronte alle inevitabili ricadute sull’organizzazione del lavoro dei poliziotti? Frosinone non è un carcere semplice, operativamente parlando: stiamo parlando di una realtà con una presenza media di 500 detenuti, che diventeranno poco meno di mille in pochi mesi, con le sue criticità e problematiche. Basta leggere gli eventi critici accaduti nei dodici mesi del 2014: 10 tentati suicidi di detenuti sventati per fortuna in tempo dalla Polizia Penitenziaria, 82 episodi di autolesionismo, 28 colluttazioni e 10 ferimenti". "È evidente", denunciano Franco D’Ascenzi, segretario locale Sappe, e Pietro Pennacchia, delegato provinciale Sappe di Frosinone "che la ciclica riproposizione di eventi critici nel carcere di Frosinone è il sintomo di una disorganizzazione generale, in primis dell’organizzazione del lavoro e della quotidianità penitenziaria". Per queste ragioni il Sappe ha già chiesto di "incontrare il Provveditore penitenziario regionale del Lazio, Maria Claudio Di Paolo, ed il vice Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, Luigi Pagano". Ma sull’assegnazione dei primi ulteriori 60 detenuti il Sappe si attende risposte urgenti: "proclamiamo da subito lo stato di agitazione della categoria e daremo vita ad un presidio permanente di protesta. Non si possono prendere decisioni così importanti anche per il territorio frusinate senza informare coloro che rappresentano i poliziotti penitenziari". Lamezia Terme: Comitato "riapriamo il carcere" chiede un intervento all’On. Lo Moro www.lametino.it, 14 aprile 2015 Il Comitato riapriamo il carcere a Lamezia chiede all’onorevole Lo Moro un intervento urgente contro la chiusura del carcere. "La possibile apertura del carcere lametino, misteriosamente chiuso da oltre un anno, entra nella sua fase decisiva dopo le recenti riuscite manifestazioni a difesa della struttura. Dopo un consiglio comunale aperto dove è stato deliberato all’unanimità la riapertura della Casa Circondariale lametina, dopo aver presentata una mozione dal Consigliere regionale Bova (Pd), una delibera regionale, l’intervento del presidente del Consiglio regionale Tonino Scalzo (Pd), dopo che una delegazione di dipendenti ha avuto un incontro con il segretario particolare del Ministro rassicurando e garantendo la riapertura della struttura, ancora i lametini disconoscono il destino della Casa Circondariale di Lamezia Terme, ne la riapertura del carcere, ne la trasformazione e trasferimento degli Ufficio Regionali del Provveditorato, dove questo Governo continua a pagare una cifra esorbitante che si aggira a 200 mila euro di fitto all’anno. Ricordiamo che la scelta di chiudere la struttura, con l’obbiettivo di ridurre le spese, si è già tradotta in un moltiplicarsi di costi, disagi e tempo, a spese dei cittadini e della locale Procura, così facendo l’auspicato risparmio economico al quale debbono adeguarsi tutte le Amministrazione dello Stato non solo non è stato raggiunto ma, anzi, ha subito un enorme aggravio! Basta considerare il notevole flusso di arresti in un territorio come il nostro dove gravitano attività di cosche mafiose, si vedono costretti magistrati, personale della cancelleria, automezzi, con relativi autisti a fare la spola tra Lamezia Terme e Catanzaro, anche per una semplice notifica o convalida ad un detenuto appena arrestato. Non ha senso mantenere 10 unita di personale che a turno vigilano le strumentazioni, attrezzature informatiche ed apparati presenti all’interno della struttura o i muri, non è umano mantenere una dipendente "non vedente" in una struttura fredda, deserta, e priva di servizi igienici, cosi come il personale che presta servizio, quando invece, potrebbero dare manforte all’Istituto di Catanzaro, praticamente o si riapre o si trasforma o si chiude. Ancora l’Amministrazione sperpera denaro pubblico, il contentino che il Provveditore ha dato al personale di Lamezia Terme, pur di aprire il nuovo padiglione a Catanzaro, quello del pagamento della missione oraria da e per Catanzaro, straordinari, uso dei mezzi dell’Amministrazione per raggiungere la struttura di Catanzaro, tre turni tre volte al giorno e dove le Amministrazioni preposte al controllo della gestione dei fondi pubblici continua a far finta di niente. È innegabile che una "fetta" della buona riuscita della vicenda è strettamente legata all’interesse della classe politica lametina, che in parte ha dimostrato con concretezza la volontà di non "cancellare" una struttura simbolo dello Stato e utile strumento economico per il quartiere di Nicastro. È chiaro che il destino della Casa Circondariale di Lamezia, recentemente è stato investito del denaro per la struttura, dipende da un partito, che è maggioranza da Lamezia a Roma. Quindi, direttamente ci rivolgiamo all’Onorevole Doris Lo Moro in quanto ex sindaco, lametina, unico politico a creare opportunità e anche autorevole esponente del Pd, per chiedere un suo intervento in sede istituzionale e non solo a difesa del carcere di Lamezia. Siamo certi che l’On. Lo Moro non tradirà le aspettative dei lametini, che hanno dimostrato chiaro attaccamento alla vicenda anche perché in caso di esito negativo si complica non poco l’operato delle forze dell’ordine, quotidianamente impegnate nella lotta contro la criminalità ma anche la fiducia concessa. Abbiamo deciso di rivolgerci all’On. Lo Moro, anche per la sensibilità mostrata a difesa della legalità e restiamo in attesa, con fiducia, di un riscontro positivo". Padova: il presidente della cooperativa Giotto "le sim in carcere? erano tutte disattive" Il Gazzettino, 14 aprile 2015 Il Presidente della Cooperativa Giotto difende il giovane fornitore denunciato. Un fornitore della Giotto trovato a portare 5 sim in carcere. Nicola Boscoletto, presidente della cooperativa Giotto, si sente in qualche maniera danneggiato dall’accaduto? "La cooperativa Giotto opera ininterrottamente nella Casa di Reclusione due Palazzi dal 1991. Tutto quello che abbiamo fatto in questi 25 anni è sempre stato non solo sotto gli occhi di tutti ma anche sempre sotto la lente d’ingrandimento. Dico subito che stavolta non si tratta di un fornitore Giotto, ma di un dipendente di una delle cooperative del Consorzio sociale Giotto. Si tratta di un dipendente che da poco meno di un anno lavora in carcere entrando regolarmente tutti i giorni, stra-conosciuto, con tutte le regolari autorizzazioni. Come pure autorizzato era il computer che regolarmente da poco meno di un anno ogni giorno, dentro una borsa, portava in carcere per svolgere la sua attività". E le sim? "Dentro la borsa del computer in uno scompartimento c’erano queste 5 sim. Due estere, relative alle sue stesse esperienze lavorative, una in Etiopia ed una a Gibuti, risalenti ad oltre un anno e mezzo fa ed inattive. Tre italiane, due Wind ed una Vodafone, ricaricabili o per uso dati, usate in Italia ed anche queste da circa un anno inattive". Quindi, sarebbero state solo di suo uso personale? "Guardi, io so che più o meno tutti nel cassetto a casa, in ufficio, in un astuccio, in una borsa hanno schede dismesse. E i giovani oggi con molta facilità cambiano gestore". Insomma, si tratterebbe di una bufala, di un’operazione frettolosa? "Io non ci vedo niente di strano. Credo che chi ha fatto il rilievo e la denuncia abbia fatto comunque un atto dovuto: se non ci fosse stata la denuncia, sarebbe stata omissione di atti. Certo è, però, che è da un anno tutti i giorni l’operatore entrava ed usciva dal carcere con quella borsa e con quelle 5 sim. Una leggerezza, certamente, ma niente di male o niente di più". Adesso, insomma, come vi regolerete? "Il dipendente si è sentito con l’avvocato Fabio Pinelli, al quale ha dato l’incarico per procedere, anche in contraddittorio con la Procura della Repubblica, all’esame delle schede telefoniche affidato ad un consulente tecnico, in modo tale che possa essere accertato, nel più breve tempo possibile, che si tratta di schede disattive o comunque della natura ed uso descritto". In ogni caso, l’episodio non ha agevolato la Giotto. "L’unico mio dispiacere è che simili pseudo-scandali non nuocciono solo a chi si vuole denigrare, ma a tutto il sistema, in questo caso a tutto il carcere. Peccato". Imperia: avvocato si presenta con la pistola in aula, allontanato dal processo di Paolo Isaia La Stampa, 14 aprile 2015 Il procuratore di Imperia: gesto improvvido. Il legale aveva regolare porto d’armi. Ha aspettato di arrivare davanti al metal detector. Poi, alla poliziotta che assieme a una guardia giurata stava controllando le persone all’ingresso del tribunale di Imperia, ha detto di avere con sé una pistola. Per il proprietario dell’arma, l’avvocato torinese Carlo Mussa, un "normale" quanto doveroso annuncio, soprattutto dopo quanto accaduto giovedì scorso all’interno del palazzo di giustizia di Milano. Ma, di "normale", il voler introdurre una pistola in tribunale, per il procuratore capo di Imperia Giuseppa Geremia non c’era molto: "Un gesto improvvido", il commento del magistrato dopo avere disposto che il professionista venisse accompagnato fuori dall’edificio - e ancora prima dall’aula in cui si stava celebrando il dibattimento in cui è legale di parte civile - e con lui la sua arma. La pistola consegnata L’avvocato Mussa, al tribunale di Imperia, era andato per la prima udienza del processo contro il costruttore romano Francesco Bellavista Caltagirone, accusato di truffa assieme ad altre due persone per una compravendita di posti barca al porto turistico della città. Processo che, tra l’altro, proseguirà a Torino, come a Torino si era svolto quello più ampio per la presunta truffa allo Stato legata alla realizzazione dello scalo portuale che si era concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati, Caltagirone compreso. Perché Musso avesse una pistola con sé non si sa, l’unica cosa certa è che era autorizzato a portarla. Ma non, appunto, dentro un tribunale, dove gli unici a poter girare armati sono membri delle forze dell’ordine, guardie giurate, ma solo se addetti al servizio di vigilanza, e magistrati. Non avvocati. Così, quando il legale torinese ha detto di avere una pistola, dopo qualche attimo di sconcerto la poliziotta all’ingresso gli ha ordinato di consegnargliela e di esibire l’autorizzazione a portarla con sé. La pistola, una semi-automatica, è stata subito chiusa a chiave in un cassetto del bancone del posto di guardia e da quel momento "sorvegliata" a vista, mentre un addetto alla vigilanza è salito in Procura, all’ultimo piano, a chiedere lumi. L’avvocato Musso intanto ha raggiunto l’aula dove si teneva il processo. Non c’è rimasto molto. La disposizione arrivata dal procuratore capo Giuseppa Geremia è stata perentoria. "Non si poteva assumere la custodia dell’arma - ha poi spiegato - non è un compito che debba essere svolto dalla polizia giudiziaria, o da qualcun altro all’interno del tribunale. Diciamo che sarebbe stato meglio se questa persona non se la fosse portata dietro...". Diplomazia a parte, l’avvocato Musso è stato raggiunto in aula dal responsabile della polizia giudiziaria della Procura, l’ispettore Marco Frumento, al quale era stata temporaneamente affidata la pistola, e scortato fuori dal palazzo di giustizia. Non senza qualche protesta per l’impossibilità di proseguire l’udienza. Alla fine, ha dovuto nominare un sostituto. Solo una volta fuori dall’edificio, l’ispettore ha restituito al legale torinese la sua arma, non prima di avergli fatto firmare un verbale di consegna. All’avvocato non è rimasto altro da fare che attendere la fine dell’udienza per sapere com’era andata. Roma: firmato il protocollo di intesa per garantire i servizi anagrafici ai detenuti www.newmediamagazine.it, 14 aprile 2015 "Con la firma di questo Protocollo d’Intesa il Municipio IV prende un impegno chiaro e preciso - dice Emiliano Sciascia, Presidente del Municipio IV. Non possiamo assolutamente permettere che i detenuti del Carcere di Rebibbia restino esclusi da quelli che sono i servizi essenziali per la dignità di ogni persona e di questi fanno parte sicuramente i servizi anagrafici che ci impegniamo a garantire". "Per esempio gestire la propria condizione di genitore ed essere detenuto non è di certo facile - dice ancora il Presidente - ed il protocollo di oggi si applica proprio in questa direzione ed in quella di evitare il grave disagio che si può provare nel trovarsi sprovvisti di documenti al momento dell’uscita dal carcere." "Garanzia di fruizione dei servizi essenziali e soprattutto, la possibilità di sentirsi parte integrante del tessuto sociale". Così il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale Avv. Filippo Pegorari, intende la firma del Protocollo con il Municipio IV e l’Amministrazione Penitenziaria. "Un progetto semplice ma ambizioso. Per la prima volta grazie a questo Protocollo d’Intesa - spiega il Garante - vengono assicurati in via diretta, all’interno della città penitenziaria di Rebibbia i servizi che normalmente il Municipio fornisce a tutti i cittadini del suo territorio. Questo consentirà ai detenuti non soltanto la fruizione di diritti essenziali ma la possibilità di non sentirsi tagliati fuori dal mondo. Sarà per loro l’occasione di essere concretamente parte del tessuto sociale". "Rimuovere ostacoli, rendere la vita più facile per favorire recupero e integrazione fa parte di una idea di società inclusiva e generosa - dice Maria Muto Assessore ai Servizi Sociali del Municipio IV. Questo si prefigge il protocollo firmato oggi che a costo zero aiuterà gli ospiti della Casa Circondariale nel percorso di riabilitazione e di recupero e soprattutto a trovare anche le ragioni per una vita diversa fuori dal carcere". Reggio Calabria: aperto il cantiere di "ReActionCity Women" nel carcere di Arghillà di Francesco Guarnaccia www.ntacalabria.it, 14 aprile 2015 Il cantiere di "ReActionCity Women" ha preso il via nella sua seconda fase con l’arrivo dei detenuti della casa circondariale di Arghillà. Essi interverranno come operai per la ristrutturazione del bene sequestrato al civico 53 di via Possidonea che diventerà il laboratorio sartoriale delle donne della coop "Sole Insieme". Per questa impresa collettiva si respira grande entusiasmo sia dentro che davanti il locale che ospiterà questa coraggiosa iniziativa al femminile e che vede protagonisti tanti soggetti socio-istituzionali, la consigliera di parità della Provincia Daniela De Blasio e la professoressa Consuelo Nava, che coordinano l’intero progetto, i giovani di Pensando Meridiano, che cureranno l’iniziativa "Cantiere evento & Recycle", il Tribunale, che ha reso disponibile il bene sequestrato, la Provincia, il Comune, l’Agape, Confcommercio e Confindustria, quest’ultima dando un supporto in termini di logistica, materiali, attrezzature, e la Casa circondariale con la direttrice Longo ed il Tribunale di sorveglianza che hanno concesso ai detenuti di essere presenti in un percorso di riscatto ed inclusione sociale. C’era tanta attesa e finalmente ad aprire i primi sacchi di cemento e le pile di mattoni per iniziare a costruire sono stati proprio i detenuti. Il cantiere sarà coordinato dall’ufficio tecnico della provincia nella persona del geometra Santambrogio e i giovani di Pensando Meridiano ne seguiranno i lavori per interromperli con vere e proprie visite-evento in cui il cantiere si aprirà con messaggi collettivi alla cittadinanza e per cui attiveranno un laboratorio con social makers ed urban makers. Presente al cantiere la consigliera De Blasio, che ha sottolineato: "Ci sono aspetti molteplici in questo progetto unico in Italia che racchiude elementi come legalità e lavoro. Quello più importante è il contributo nel dare un futuro a donne in difficoltà che altrimenti sarebbero tagliate fuori da mercato del lavoro. Ma lo è anche il resto, come il fare rete o il coinvolgere i detenuti. Abbiamo presentato "ReActionCity Women" in Europa per un riconoscimento di buona prassi, una certificazione che possa permettere repliche. Stiamo dimostrando che con poco e con buona volontà delle istituzioni si può fare tantissimo. Oggi lo stiamo facendo con le donne in difficoltà, domani con altre fasce deboli". "La tanto attesa apertura del cantiere è arrivata. Mentre si lavora tra cemento e mattoni, noi stiamo continuando la formazione che ci servirà per il nostro laboratorio sartoriale e non vediamo l’ora di iniziare. Siamo contente di far parte di questa sperimentazione dalla grande valenza sociale" e "le donne in difficoltà sono risorse. Sono persone che hanno voglia di spendersi e di valorizzare propri talenti e che chiedono autonomia e non assistenzialismo" hanno rispettivamente detto la presidente di "Sole Insieme" Giusy Nuri e il presidente dell’Agape Mario Nasone. Per la direttrice della Casa circondariale Maria Carmela Longo "attraverso il loro lavoro gratuito, i detenuti cercano di riparare il danno creato dal loro reato e di risarcire la società, così come di recuperare e riscattarsi socialmente. Loro lavorano già in carcere, in questo caso il valore è maggiore viste le finalità sociali del progetto. Il lavoro è fondamentale nella rieducazione perché non c’è dignità senza lavoro", mentre per il presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea "c’è soddisfazione per il nostro ruolo in questa azione dall’altissima valenza sociale e per la sinergia che stiamo avendo con altri soggetti". "Sin dall’inizio abbiamo creduto fortemente nel progetto, tanto da averlo sostenuto anche finanziariamente. Speriamo di poterlo applicare analogamente per altre realtà" sono le parole del presidente della Provincia Giuseppe Raffa, a cui si sono aggiunte quelle dell’assessore Marino: "Esprimo soddisfazione a nome dell’amministrazione per l’avvio dei lavori. L’esperienza sperimentale di inclusione sociale, che registra tra l’altro il coinvolgimento dei giovani motivati e qualificati di "Pensando Meridiano", è pienamente sostenuta dall’assessorato, che apprezza il virtuoso protagonismo di attori sociali, quali i detenuti e le donne, la sinergia con il Terzo settore ed il partenariato istituzionale". A chiudere sul cantiere è stata l’ideatrice di "ReActionCity", cioè la professoressa Nava: "Credo che oggi, la nostra impresa collettiva acquisti un significato ancora più di valore. Un triplice riscatto, per le donne in difficoltà, per l’impegno dei detenuti e per l’azione su un bene sequestrato. La città vive il senso della "giustizia sociale" in pieno, ma "reagendo". Se a questo ci aggiungiamo l’impegno di istituzioni, associazioni e giovani, mi pare che "ReActionCity" continui a fare "umanesimo" ed "urbanesimo" per una città veramente differente e collettiva. Apriremo il cantiere evento alla cittadinanza e poi ci potremo dire pienamente felici quando la coop "Sole Insieme" confezionerà il primo lavoro di sartoria". Forlì: una giornata dedicata a diritti, legalità e carceri www.4live.it, 14 aprile 2015 Arriva anche a Forlì il film documentario "Meno male è lunedì" del regista Filippo Vendemmiati, vincitore del David di Donatello per "È stato morto un ragazzo". Il film sarà proiettato questa sera (martedì 14 aprile) alle 20.30 al Cinema Saffi. L’evento è organizzato da Amnesty International, Con…tatto, Associazione Sovraesposti e Sunset e realizzata con il supporto di Documentaristi Emilia Romagna D-ER e Forlì #Social Hub e fa parte della manifestazione "Coltiviamo la legalità" promossa dal Comune di Forlì in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna, il Campus Universitario di Forlì, l’Osservatorio sulla Legalità, le Istituzioni Scolastiche del territorio e numerose Associazioni culturali, ricreative e sociali. Il film "Meno male è lunedì" è il trait d’union della giornata, interamente dedicata a diritti, legalità e carceri. Si parte la mattina con una proiezione dedicata alle scuole, per poi continuare dalle 17,00 alle 19,00 alla Fabbrica delle Candele, dove lo stesso regista curerà un workshop aperto a tutti (su iscrizione sovraesposti@gmail.com) e dedicato a come si scriva e si sviluppi un documentario sociale. Alle 20.30 ci si sposta invece al Cinema Saffi per la proiezione del film e per il dibattito con il regista. Il documentario narra la storia di un gruppo di operai in pensione che riprende il lavoro per insegnare il mestiere a 13 detenuti nell’officina-azienda sorta in un carcere. La trasmissione del sapere ribalta, fino a confonderlo, il rapporto servo-padrone, libertà-prigionia. Imparare ad usare la giusta vite diventa metafora della ricostruzione di vite alla deriva. Chi impara di più alla fine e che cosa? Chi esce dal carcere? L’ex operaio, il detenuto o il manufatto? L’officina dei detenuti è spazio di libertà. Se l’operaio torna metalmeccanico in prigione, il detenuto con quello stesso ruolo rientra nel gioco della vita. Il film non insiste sul passato dei protagonisti, il tono è leggero, quasi da commedia. Nel "lavoro fuori" il lunedì è il giorno peggiore, nel "lavoro dentro" è il migliore. Il sabato e la domenica per il detenuto-operaio rappresentano la noia in attesa del ritorno in fabbrica di chi delle ferie non sa che farsene. Vendemmiati è giornalista e regista. Come giornalista si è occupato di stragi, omicidi di stato e terrorismo. Come regista ha firmato "La Grande Sorella", reportage sul dramma della lebbra in India, "Premio Enzo Baldoni" nel 2006. Nel 2010 a Venezia 67 (Giornate degli Autori) ha presentato "È stato morto un ragazzo", documentario che ha poi ottenuto il David di Donatello e il premio Vittorio De Seta al Bari Bifest e che conta oltre 100 mila visioni sulla rete. Nel 2012, a Venezia 69 (Giornate degli autori) ha portato il film "Non mi avete convinto", dedicato a Pietro Ingrao: non la biografia del politico, ma la "dichiarazione d’amore ad un uomo che con la politica sognava di cambiare il mondo". Il film è uscito in dvd vendendo quasi 20 mila copie ed è stato ospitato in numerosi festival. Tutti gli appuntamenti sono ad ingresso gratuito. Milano: FuoriSalone, il design diventa etico con disegni detenuti Ansa, 14 aprile 2015 Diavoli, bare e cuori dietro le sbarre: sono alcune delle grafiche ispirate ai tatuaggi ideate da un gruppo di detenuti del carcere di Bollate che sono stati coinvolti in Part.Art, un progetto pilota di design etico e sostenibile che viene presentato in anteprima, oggi a Milano, nell’ambito del FuoriSalone. Il progetto del marchio di creatività etica e solidale Braghette Rosse, portato avanti in collaborazione con Art therapy italiana e la cooperativa Articolo 3, è iniziato lo scorso settembre. Il carcere di Bollate ha ospitato un ciclo di 14 incontri aperti a un gruppo di detenuti e condotti da formatori e tirocinanti di Ati e successivamente da designers di Braghetterosse con l’obiettivo - viene spiegato dagli ideatori - di stimolare la creatività individuale, costruire uno spirito di gruppo e arrivare a produrre materiale creativo e grafico, sul tema del tatuaggio. I disegni sono stati poi elaborati e proposti ad aziende esterne come valore aggiunto nella realizzazione di accessori di moda, home furnishing o cartotecnica. Il risultato - agende e borsette, calzature e tazzine - è esposto alla galleria Spazioostrakon di Milano. Stati Uniti: caso Forti; comitato "Una chance per Chico", confida in fra Renzi e Obama Ansa, 14 aprile 2015 Il comitato "Una chance per Chico", che sostiene la campagna per la revisione del processo a Enrico ‘Chicò Forti, l’ex imprenditore trentino detenuto negli Stati Uniti per omicidio, si aspetta molto dall’incontro di venerdì tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il presidente Usa Barack Obama. "Si attende un cenno del premier italiano alla grande aspettativa per una riapertura del caso giudiziario legato all’assassinio di Dale Pyke, nel 1998 in Florida", ha detto il presidente del comitato Lorenzo Moggio incontrando oggi il presidente del Consiglio provinciale di Trento, Bruno Dorigatti. "Se il passaggio politico dovesse maturare in modo positivo, potrà seguire (l’avvocato Joe Tacopina è quasi pronto) l’istanza ufficiale di revisione del processo, suffragata da alcune nuove prove potenzialmente decisive", ha aggiunto Moggio che ha donato a Dorigatti una t-shirt disegnata da Enrico Forti, e realizzata dal comitato, con la scritta "Chico free". Dorigatti si è detto fiducioso che "qualcosa possa finalmente accadere, soprattutto dopo il recente, rumoroso caso negli Usa di un condannato a morte rivelatosi innocente dopo 28 anni di carcerazione". "In realtà - ha detto - sono 152 i casi di clamorosi errori giudiziari emersi negli Stati Uniti dopo decenni di carcere ingiusto. Si vuole fortemente che venga riconosciuto il 153esimo" Medio Oriente: per l’Olp sono circa 6.500 i palestinesi detenuti nelle carceri di Israele Aki, 14 aprile 2015 Sono circa 6.500 i detenuti palestinesi attualmente detenuti nelle carceri israeliane. Lo denuncia l’Autorità per gli affari dei prigionieri (Apa) legata all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Dal 1967 all’aprile del 2015, Israele ha tenuto in carcere per periodi vari circa 850mila cittadini, tra cui circa 15mila donne e decine di migliaia di bambini, ha ricordato l’Apa in un rapporto diffuso alla vigilia della Giornata del prigioniero palestinese che ricorre il 17 aprile. "Dall’inizio della prima Intifada il 28 settembre del 2000 a oggi, più di 85mila palestinesi sono finiti in carcere, tra cui oltre 10mila minori di 18 anni, 1.200 donne e oltre 65 ex deputati e ministri", prosegue. Negli ultimi quattro anni, riferisce l’Apa, sono finiti dietro le sbarre 3.755 bambini, 1.266 dei quali solo nel 2014. "Israele continua a detenere 30 prigionieri da prima degli Accordi di Oslo (del 1993, ndr), che sono in carcere da oltre 20 anni, oltre ai 16 detenuti che languono nelle carceri israeliane da oltre 25 anni", si legge nel rapporto. Israele ha anche nuovamente arrestato 85 palestinesi che eranno stati rilasciati in seguito allo scambio di prigionieri del 2011 nell’ambito della liberazione del caporale israeliano Gilad Shalit da parte di Hamas. La ricorrenza del 17 aprile ricorda che in quel giorno, nel 1974, è stato rilasciato il primo detenuto palestinese nell’ambito di uno scambio di prigionieri con Israele. Perù: tanti bambini crescono nelle carceri con le loro mamme recluse Agenzia Fides, 14 aprile 2015 Quasi 200 bambini dell’età di 3 anni vivono con le rispettive madri detenute nei 31 istituti penitenziari del Perù. La nota, diffusa dall’Istituto Nazionale Penitenziario (Inpe) e pervenuta all’Agenzia Fides, assicura che i piccoli, maschi e femmine, vivono in un contesto di reclusione, anche se ben attrezzato perché possano crescere serenamente senza subire maltrattamenti o aggressioni. Le carceri con il maggior numero di bambini sono quelle femminili di Chorrillos (43) e Anexo de Chorrillos (17), entrambe a Lima; e nelle regioni di Arequipa (15), Ica (14), Ayacucho (13), Cuzco (11) e Puno (10). Sempre secondo l’Inpe un gruppo di professionisti mantiene un dialogo costante con le mamme detenute e incinte, per dare loro orientamenti e indicazioni sull’importanza del legame madre-figlio. Molte di loro provengono da famiglie problematiche e ripetono quei modelli negativi subiti e vissuti nella loro infanzia. Negli istituti penitenziari sono a disposizione dei piccoli servizi sanitari e alimentari particolari. Anche rappresentanti di istituti religiosi e civili contribuiscono alla loro assistenza, mentre le autorità penitenziarie donano pannolini, giocattoli, vestiti e medicine. Stati Uniti: progetto The Last Mile, gli ex detenuti che lavorano nella Silicon Valley di Andrea Indiano Il Giornale, 14 aprile 2015 Un nuovo programma di recupero del governo americano insegna ai carcerati i lavori più tecnologici con il computer. Il problema del sovraffollamento delle carceri e della recidività dei criminali è una questione molto grave in Italia come nel resto del mondo. Diversi programmi e progetti hanno provato a porre rimedio a questi casi, ma la soluzione sembra lontana. Dagli Stati Uniti arriva ora un nuovo modello di recupero dei detenuti che unisce le necessità del mondo del lavoro di oggi alla voglia di riscattarsi di chi è in carcere. Si chiama The Last Mile ed è già stato provato con successo nella prigione di San Quintino, vicino San Francisco in California. Proprio la vicinanza della città più tecnologica al mondo è stato lo spunto del fondatore Chris Redlitz. In un periodo storico dove tutto sta diventando digitale, nel quale gli uomini più potenti sono i creatori di Facebook e Google e dove ogni cosa passa attraverso uno schermo del computer, è scontato che la richiesta di manodopera per questo settore lavorativo sia in costante crescita. Dimostrazione ne è proprio il picco economico di San Francisco e dintorni, dove la nella famosa Silicon Valley hanno sede le più grandi aziende del web. "Ero venuto una volta a parlare con i detenuti solo per curiosità - ha detto il fondatore di The Last Mile - ma da subito ho trovato un gruppo di persone pronte ad ascoltare e imparare come non avevo mai visto nelle scuole". Redlitz lavorava come investitore in varie aziende della Silicon Valley ed aveva già aiutato varie start up come Whis, Level Up e Bottlenose ad avere successo. "La richiesta di programmatori e sviluppatori è in aumento nella zona e per questo le aziende cercano sempre persone fidate e competenti cui affidare i lavori più semplici in questo settore, come l’inserimento dati e la creazioni di programmi di base in Javascript e Html". Questo genere di lavori è spesso evitato da parte dei neolaureati. Anche nel relativamente giovane mondo del lavoro digitale si sono già create classi sociali ben distinte fra i (presunti) inventori di app e start-up e coloro che fanno il "lavoro sporco" sulla tastiera. Ma naturalmente anche in questo campo c’è bisogno di vera manodopera e personale dedito. The Last Mile ha trovato una risposta nelle carceri. "Spesso chi è in prigione da tempo non sa nemmeno cos’è internet o come accendere un computer. Però qui le persone hanno molto tempo a disposizione e soprattutto tanta voglia di imparare. In passato questo tipo di programmi insegnava mestieri come il falegname e altri impieghi di fatica, ma è palese che ora il mondo ha bisogno di altro". Anche per questo, pur se avevano imparato un lavoro in carcere, molti ex detenuti tornavano a commettere reati, perché trovare un impiego era molto difficile. Problema che non si pone se diventano dei programmatori. E molti non si fermano neanche qui. Un ex detenuto di San Quintino che aveva partecipato alle lezioni di The Last Mile è stato assunto dal colosso digitale Rocket Space, mentre altri stanno già lavorando su idee per lanciare una propria start-up. In questo modo è una doppia vittoria: per i carcerati, che imparano un impiego utile e al passo coi tempi, e per le aziende, che trovano facilmente persone volenterose. Un’idea, quella di The Last Mile, che sarebbe da importare in Italia per facilitare la situazioni delle carceri e incrementare la crescita digitale, finora solo millantata, del paese. Turchia: assolta giornalista olandese accusata di propaganda a favore del Pkk Aki, 14 aprile 2015 È stata assolta la giornalista olandese Frederike Geerdink sotto processo in Turchia con l’accusa di propaganda del "terrorismo" per il presunto sostegno al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk). La Geerdink, come riporta l’agenzia di stampa Dpa, è stata assolta oggi da un tribunale di Diyarbakir, nella Turchia sudorientale, dove la scorsa settimana si era aperto il processo. Su Twitter la giornalista freelance, esperta della questione curda, ha annunciato la sentenza con un tweet in inglese e turco. La Geerdink, che ha sempre respinto ogni accusa, rischia fino a cinque anni di carcere. La cronista lavora come corrispondente da Diyarbakir ed era finita nel mirino per aver condiviso su Facebook la bandiera del Pkk e informazioni sulle attività del gruppo.