Giustizia: il cantiere della riforma avanza in ordine sparso di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2015 In attesa dell'intervento sul processo penale sono legge la "tenuità del fatto" e la riduzione della custodia cautelare. Il cantiere della giustizia è sempre aperto. Ma qualche edificio comincia a mostrare una fisionomia precisa. Questo scorcio di legislatura ha già visto arrivare al traguardo provvedimenti significativi, sia sul versante civile sia su quello penale, e altri dovrebbero aggiungersi a breve. Se quello della varietà e consistenza delle misure approvate o in arrivo è un modo di vedere la questione giustizia, tema più di altri oggetto di scontri nel ventennio berlusconiano, altro è però naturalmente quello del giudizio sull'efficacia dove le divisioni tornano a emergere. Intanto, procedendo con ordine, e partendo dal penale è diventata operativa da pochi giorni la nuova causa di non punibilità per tenuità del fatto (a esserne interessati tutte le contravvenzioni e i delitti che prevedono fino a cinque anni di carcere), che, temperando l'obbligatorietà dell'azione penale, riserva il giudizio ai casi realmente meritevoli di tutela. Ma già dall'autunno, nell'intenzione di ridurre il sovraffollamento carcerario e abbreviare la durata dei giudizi, è possibile la sospensione del procedimento penale con messa alla prova dell'interessato. Come pure nella direzione di ridurre un'anomalia tutta italiana, che vede in attesa di giudizio quasi un quarto dei detenuti, è stata approvata definitivamente giovedì e attende la pubblicazione in "Gazzetta" la legge di riforma della custodia cautelare, riservandola solo ai casi estremi, con vincoli più stringenti in termini di motivazione e potenziamento delle misure alternative. Entro l'estate poi il ministero della Giustizia punta a centrare altri due obiettivi a elevato tasso simbolico, oltre che pratico: l'approvazione definitiva dei disegni di legge su criminalità economica e corruzione e la riscrittura della prescrizione. Disegni di legge in parte esito di uno stralcio da più corposi interventi di riforma ancora in discussione e non approvati neppure da un ramo del Parlamento. Quello di maggiore spessore, la legge in parte di delega sul processo penale, è tuttora giacente in commissione Giustizia alla Camera. È in questo provvedimento, no n si sa se per rallentarlo o accelerarlo, che è stata inserita anche la delega al Governo sulla revisione delle intercettazioni. Sul piano del diritto penale sostanziale, il Senato ha approvato la riscrittura dei reati ambientali, tema assai caro al ministro Orlando, e anche in questo caso a doversi esprimere sarà la Camera. e da circa un anno, su impulso parlamentare, il nuovo delitto di voto di scambio poi censurato in parte dalla Cassazione. Per quanto riguarda la giustizia civile, a essere andato in porto è stato sinora un intervento, varato a fine agosto con decreto legge, che da una parte ha potenziato il ricorso agli arbitrati, dall'altra ha introdotto la negoziazione assistita (con una specifica disciplina in materia di separazioni e divorzi) e disposto misure per restituire efficacia alla fase esecutiva, tradizionale tallone d'Achille della giustizia civile. Solo promessi sinora gli incentivi per la negoziazione e ancora non approvata da Camera o Senato la legge delega sul nuovo Codice di procedura, sul quale a dire la verità sta lavorando da tempo la commissione Berruti. Dal ministero della Giustizia è stata poi confermata la tabella di marcia per il pieno regime del processo telematico. Sul versante più specifico del diritto dell'economia, non è ascrivibile al ministero della Giustizia, ma è stata introdotta nel Codice civile la possibilità del voto plurimo e maggiorato nelle società quotate e no, mentre da poche settimane è al lavoro una commissione ministeriale con il compito di mettere a punto un nuovo pacchetto di correzioni alla Legge fallimentare. Sul piano ordinamentale, l'elemento senza dubbio più significativo è costituito dalla nuova veste che ha assunto la responsabilità civile dei magistrati dove, tra le forti proteste della magistratura, è stato eliminato il filtro di ammissibilità e riviste le cause che possono dare luogo alla richiesta di risarcimento nei confronti dello Stato. Ha poi preso corpo pressoché definitivo il quadro delle disposizioni regolamentari di attuazione del nuovo ordinamento forense con un pacchetto di decreti in larga parte già definiti e ormai in dirittura, dalle specializzazioni all'esercizio continuato della professione. Langue invece in Parlamento la legge delega per la riforma della magistratura onoraria, sui cui contenuti peraltro si è esercitata da tempo la protesta di una parte almeno delle associazioni di categoria. Infine, non ha dato luogo a misure normative, ma rappresenta comunque un punto di riferimento importante il lavoro messo a punto dal Dipartimento dell'organizzazione giudiziaria e dall'Ufficio statistiche per individuare, soprattutto sul versante civile, le priorità d'intervento per intaccare l'arretrato più risalente nel tempo e abbreviare la durata delle cause. Giustizia: per la riforma il metodo dei piccoli passi dopo 20 anni di stallo di Salvatore Padula Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2015 "Credo sia arrivato il momento di mettere all'attenzione del Parlamento un pacchetto organico di revisione della giustizia che non lasci fuori niente". Obiettivo ambizioso quello annunciato nel febbraio 2014 da Matteo Renzi. Era il discorso al Senato per il voto di fiducia, il 24 febbraio dell'anno scorso, con la chiara volontà di superare 20 anni di stallo e di scontro ideologico sul tema giustizia. Vent'anni durante i quali la politica aveva trovato proprio tra gli articoli e i commi dei Codici, specie quelli penali, il suo (in)naturale terreno di battaglia. Renzi, nella stessa occasione, aveva indicato il punto di approdo di questa revisione: un sistema capace di dare certezza del diritto; di non creare inquietudine né agli investitori, italiani e stranieri, né agli operatori del diritto. A che punto siamo arrivati, 14 mesi dopo quella dichiarazione programmatica? Il "pacchetto organico di revisione della giustizia" lanciato dal premier esiste. Lo scorso 30 giugno il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha presentato i 12 punti perla riforma del sistema giudiziario. Riduzione dei tempi della giustizia civile, taglio dell'arretrato sempre nel civile, accelerazione dei tempi del processo penale, riforma delle intercettazioni e cosi via. Il cammino per l'approvazione dei 12 punti è stato avviato: molti provvedimenti hanno cominciato il loro iter parlamentare, alcuni sono già arrivati al traguardo, finale o parziale. Ma e evidente come in molti casi si tratti di un cammino ancora lungo e incerto. Quasi a voler ricordare che scrollarsi di dosso quei 20 anni di scontri ideologici sul tema giustizia non sarà cosi semplice. Eppure se si prova ad abbandonare per un attimo l'approccio del "corpo organico" di provvedimenti di riordino - dalla giustizia amministrativa all'ordinamento giudiziario - allora questi 14 mesi non sembrano proprio essere trascorsi inutilmente. I testi già approvati e quelli prossimi ad esserlo sono sotto gli occhi di tutti. Si potrà dire che questa modalità di procedere a piccoli passi rischia di compromettere l'unitarietà del progetto. Il che è vero, anche se non si può non notare che almeno in due ambiti - quello della giustizia civile e quello della politica carceraria, dove si vede chiaramente l'obiettivo di prevedere il carcere solo nei casi estremi - qualche indizio di organicità si può intravedere. Sul civile, per esempio, pur in attesa del riordino annunciato con la revisione del codice di procedura e con il faro dello slogan "Un anno per il processo in primo grado", emerge chiaramente il tentativo del ministro Orlando di dare più forza alle forme alternative per la risoluzione delle controversie: mediazione, arbitrati, negoziazione assistita. Un percorso reso possibile anche grazie al rapporto che il ministro è riuscito a ricostruire con l'avvocatura (non altrettanto è accaduto con la magistratura, dove le ferite aperte a partire dalla polemica sulle ferie dei giudici e poi dalla legge sulla responsabilità civile sono tutt'altro che rimarginate). Si potrà anche dire che, specie nel penale, le soluzioni proposte rischiano di risentire del fattore emotività e finiscono per diventare la risposta scomposta a questa o quella emergenza. Naturalmente, c'è del vero in questa affermazione, ma nessuno può negare che una riforma dei reati contro la pubblica amministrazione fosse urgente se è vero, come proprio alcuni giorni fa abbiamo segnalato sul Sole 24 Ore, in carcere per corruzione propria ci sono in tutto 226 persone. E nessuno può ignorare come in molti casi si tratti di cambiare rotta rispetto a interventi legislativi del passato, spesso maldestri, con tutto quello che ciò comporta in termini di confronto politico; spesso anche nella stessa maggioranza, dalla prescrizione dei reati al falso in bilancio: in entrambi i casi, un ramo del Parlamento ha già archiviato le "vecchie" riforme. Giustizia: tortura, lo schiaffo europeo alle nostre ipocrisie di Piero Ignazi La Repubblica, 12 aprile 2015 Dovevamo aspettare la sentenza di un tribunale internazionale perché tutti riconoscessero quanto sia stato sfregiato lo stato di diritto al G8 di Genova. Da soli non ce l'abbiamo fatta. Gli italiani coltivano da sempre l'abitudine a girare la testa dall'altra parte e a far finta che i fatti spiacevoli non esistano. La nostra coscienza civile si è scontrata molte volte con la fatica di dover ammettere che i comportamenti si discostavano dalla immagine di noi che avevamo costruito. Quanto tempo e quanto lavoro storico serio, documentato, inoppugnabile sono stati necessari affinché venisse riconosciuto che la colonizzazione italiana era stata condotta lungo la linea del razzismo e della violenza. Invano, per anni, storici attenti e caparbi come Angelo del Boca avevano cercato di convincere nostalgici alla Montanelli che le spedizioni in Africa non avevano portato la civiltà, bensì massacri e deportazioni. Invece il mito dell'italiano brava gente si riproduceva inossidabile, indifferente alle evidenze contrarie, superando di slancio la collaborazione alla deportazione degli ebrei e le efferatezze dell'esercito italiano in Grecia e nella ex Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale. Mai una riflessione autocritica su massacri come quello nel paese greco di Dominikon dove vennero fucilati, per rappresaglia, 150 civili. Per fare i conti con il nostro passato violento e criminale sarebbe stato necessario, anche allora, un intervento esterno, come l'imposizione di una Norimberga. Per tante ragioni è calato un velo di ipocrisia e di rimozione, fino ad arrivare all'armadio della vergogna, archivio sui crimini di guerra nazisti e sulle corresponsabilità italiane dimenticato per quasi cinquant'anni in un sottoscala ministeriale. Se questo è il nostro passato, non può stupire che sulle violenze di stato commesse a Genova siano scesi rapidamente silenzio e oblio. Da un lato, l'egemonia, anche culturale, della destra nel primo decennio degli anni Duemila ha ristretto gli spazi di critica all'operato delle forze di polizia, dall'altro il bisogno di accreditarsi come un attore "responsabile" ha impedito alla sinistra di tradizione comunista di alzare la voce contro le deviazioni degli apparati di sicurezza (peraltro già evidenti durante il Global forum di Napoli del marzo 2001, prova generale della macelleria messicana di Genova: e anche su quell'episodio la Corte di appello, due anni fa, ha assolto tutti gli agenti incriminati). La sentenza della Corte di Strasburgo assesta uno schiaffo all'indulgenza e alla rimozione. Solo grazie a questo intervento sono tornate a galla verità scomode che impongono una riflessione sull'effettiva garanzia dei diritti fondamentali anche e soprattutto in circostanze critiche. Solo grazie all'imbrigliamento in una rete di rapporti e obblighi internazionali evitiamo ritardi normativi da paese incivile. È stato il rischio di sanzioni finanziarie dell'Unione Europea a far approvare, alla fine di un lungo tira e molla, in extremis, un provvedimento per ridurre l'affollamento delle carceri. E se non avessimo firmato il trattato di Maastricht non avremmo messo un freno alla spirale del debito pubblico. Nonostante questo, di fronte ai richiami che vengono da Bruxelles, la classe politica manifesta spesso insofferenza, alimentando in tal modo un sentimento euroscettico. Certo, è umiliante dover essere ripresi ora su norme contrarie al diritto comunitario, ora su ritardi ad adempimenti dovuti, ora su assoluzioni scandalose. Perché rivela che abbiamo bisogno di un tutore che ci sorvegli e ci ammonisca. "Il tempo può esaurirsi e il sangue non scorrere più, se però sangue c'è stato ed è scorso, la storia continua a trattenere il tempo", scrive la filosofa spagnola Maria Zambrano nella Tomba di Antigone. Dalle stragi impunite alle violenze di stato, dal G8 a Cucchi e Aldrovandi, il sangue versato non ha avuto giustizia. Lo stato di diritto ha mostrato tutta la sua fragilità. Per fortuna, talvolta, come nella sentenza sull'assalto alla Diaz, l'appartenenza ad organismi internazionali e ad un sistema condiviso di regole che comportano vincoli e obblighi, rimedia alle nostre deficienze. Giustizia: tortura, questa legge lascerebbe impuniti i "macellai" della Diaz di Giovani Flora e Francesco Lai (Componenti della Giunta dell'Ucpi) Il Garantista, 12 aprile 2015 La recente sentenza della Corte europea dei Diritti dell'uomo costituisce un severo monito, se non un vero e proprio "schiaffo" al legislatore italiano per non avere ancora provveduto a introdurre nel sistema penale il reato apposito di tortura. Cosicché, rileva la Corte, lo Stato italiano non è attualmente in grado di risarcire la vittima per la violazione dell'articolo 3 della Convenzione. La vittima avrebbe potuto essere risarcita in modo soddisfacente solo mediante la adeguata punizione dei responsabili dei fatti a suo danno commessi e che configurano "tortura" ai sensi della Convenzione. Non potendo certo costituire confacente ristoro la mera corresponsione di una somma di denaro. Questa sentenza, cui inevitabilmente seguiranno altre dello stesso tenore, in considerazione dei plurimi ricorsi pendenti presso la Corte di Strasburgo per i vergognosi fatti accaduti nella scuola Diaz prima e presso il carcere di Bolzaneto poi, è significativa sotto molteplici aspetti e costituisce, se ve ne fosse bisogno, uno stimolo in più per approvare in tempi rapidissimi come da tempo auspica l'Unione Camere penali, e con una adeguata formulazione, 1 ‘espressa incriminazione della tortura. Innanzi tutto questa sentenza, che ricostruisce minuziosamente i fatti, che senza mezzi termini qualifica come " tortura", rende evidente cosa debba intendersi per tortura ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione europea. E si tratta di aspetto tutt'altro che secondario. È ormai infatti noto che la norma interna deve allinearsi, anche per precetto costituzionale (articoli 10 e 117 della Costituzione), alle norme europee e internazionali. Pertanto il nostro legislatore non potrà che forgiare la nuova norma sulla tortura, per cosi dire, "ad immagine e somiglianza" di quella europea (articolo 3 Cedu) come interpretata dalla Corte, e di quella contenuta nella Convenzione internazionale Onu del 1984, ratificata dall'Italia nel lontano 1988. Orbene, la sentenza della Corte europea di cui parliamo fa riferimento a gravi violenze, totalmente gratuite, subite alla testa, alle braccia e alle gambe mentre la vittima si trovava contro un muro a braccia alzate, non opponendo alcuna resistenza alle forze di polizia, "condite" dalla costrizione ad assumere posizioni umilianti e dalla impossibilità di contattare un avvocato o una persona di fiducia. E ancora la Corte sottolinea la intenzionalità delle sofferenze fisiche e psicologiche inflitte, desumibile dalla strumentalità del pretesto addotto di dover perquisire la scuola che celava la reale finalità di punire i manifestanti. Dunque: violenze fisiche e/o morali particolarmente intense, intenzionalmente inflitte, sorrette dallo specifico intento, in questo caso punitivo, da parte di agenti di polizia e quindi di soggetti aventi qualifica pubblicistica. Del resto si tratta di nozione perfettamente sovrapponibile a quella contenuta nell'articolo 1 della Convenzione Onu sulla tortura del 1984 che espressamente ne indica come possibili autori "un agente della forza pubblica o altro soggetto che agisca a titolo ufficiale", "o su sua istigazione o con il suo consenso espresso o tacito". Indicandone di anche finalità ulteriori a quelle della "punizione" (quali quella di estorcere informazioni o confessioni discriminatorie, e altre ugualmente riprovevoli). La sentenza, infine richiama in modo perentorio lo Stato italiano a munirsi di strumenti idonei a sanzionare in maniera adeguata i responsabili di atti di tortura rilevanti ex articolo 3 della Cedu, tra i quali quelli resisi responsabili dei fatti oggetto dello specifico giudizio che, tra l'altro, secondo la Corte avrebbero dovuto essere sospesi dal servizio (circostanza che lo Stato italiano non è stato in grado di provare). A ben vedere, però, il testo del disegno di legge che ha appena ottenuto il si della Camera non si presterebbe a colpire gli episodi che hanno originato il ricorso (anzi, una pluralità di ricorsi) alla Corte di Strasburgo. Infatti esso limita la tutela alle persone "affidate all'agente o comunque sottoposte alla sua autorità, vigilanza o custodia", mentre i fatti della Diaz si sono svolti in assenza di tale presupposto. In conclusione, dunque, l'auspicata introduzione del reato di tortura richiede anche un ripensamento della sua struttura. Come da tempo l'Unione Camere penali va predicando, deve essere costruita la figura di un reato proprio (realizzabile cioè solo dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio), caratterizzata dal dolo specifico alternativo - da mutuare dalla Convenzione Onu - dall'inflizione intenzionale di rilevanti sofferenze fisiche e/o psichiche, e la cui condotta non necessariamente deve avere a presupposto la previa instaurazione di un rapporto tra soggetto attivo e vittima. Se proprio si vuole affiancarvi una autonoma fattispecie commissibile da qualsiasi soggetto, diverso dalle forze dell'ordine o da altro soggetto pubblico, lo si può anche fare. Purché rimanga chiaro che il "vero" reato di tortura è quello di cui si rende responsabile il soggetto pubblico. Sia chiaro che nessuno, men che mai le Camere penali, vuole fare di tutta l'erba un fascio e criminalizzare "a prescindere" le forze dell'ordine, che anzi vanno tutelate, adeguatamente retribuite, rispettate. Nell'adempimento dei loro doveri, spesso difficili, anche di ordine pubblico, non dovrebbero sentirsi meno libere per l'introduzione di una norma che vuole colpire solo le vergognose intollerabili violazioni della libertà, della incolumità e della dignità di tutte le persone, ancor più di quelle che manifestano democraticamente il proprio dissenso. Una norma che contempli il dolo intenzionale di "far male" senza ragione, il dolo specifico come disegnato dalla Convenzione Onu, unitamente alla presenza dell'ordinamento delle scriminanti dell'adempimento di un dovere, della legittima difesa (che certo vale anche per le forze dell'ordine) e dell'uso legittimo delle armi, non dovrebbe essere ritenuta un ostacolo al compimento dei doveri propri dei pubblici agenti. Non solo non dovrebbe essere da essi e dai loro rappresentanti contrastata, ma dovrebbe essere auspicata anche a garanzia della trasparenza, della legalità della loro azione e, in fin dei conti, della loro stessa credibilità e affidabilità. Giustizia: il Pg Zucca "la nuova legge sulla tortura un pasticcio, difficilmente applicabile" di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 aprile 2015 Intervista al Pg nei processi contro gli agenti della "macelleria messicana". La formulazione della legge appena licenziata dalla Camera "è ambigua e tende a limitare l'applicazione della norma". "Purtroppo c'è un partito della polizia che condiziona il dibattito". Le dimissioni di De Gennaro? "Un atto di sensibilità istituzionale che non attiene al giudizio sulla persona". Se il reato di tortura, nella configurazione approvata giovedì scorso dalla Camera, fosse stato già disponibile nel codice penale italiano all'epoca del massacro compiuto dalle forze dell'ordine dentro la scuola Diaz durante il G8 di Genova, ottenere verità e giustizia sarebbe stato più facile? Una domanda a cui è difficile rispondere. Ma se c'è qualcuno che può tentare di mettere in campo questa ipotesi e provare a capire se in quel caso gli agenti accusati e poi condannati per la "macelleria messicana" avrebbero potuto essere incriminati di tortura, questo qualcuno è il magistrato Enrico Zucca, il sostituto procuratore generale a Genova che ha condotto l'inchiesta e i processi per la Diaz. In particolare, ci spieghi se è lecito ritenere - obiezione sollevata da Sel e dal M5S durante il dibattito alla Camera - che la norma sarebbe stata di difficile applicazione perché restringe il campo delle potenziali vittime a coloro che sono "affidati, o comunque sottoposti all'autorità, vigilanza o custodia" delle forze dell'ordine. È vero che la formulazione delle legge è ambigua e lascia molti margini di interpretabilità. Però nel caso della Diaz, secondo un'interpretazione estensiva, potrebbe ancora essere applicabile. Perché ci sono delle sentenze della Corte europea che ampliano il concetto del controllo e della custodia da parte delle forze di polizia. La Cedu ha ritenuto per esempio che la valutazione dell'uso sproporzionato della forza - che può dar luogo alla violazione degli articolo 2 o 3 della Convenzione dei diritti umani - si applica anche quando un individuo è già sotto il "full control of the police". Quando cioè la polizia ha nelle mani una persona, anche se tecnicamente non è sottoposta a fermo o arresto, ha l'obbligo di proteggerla. E non può usare una forza superiore a quella necessaria per ridurla all'impotenza. Questa è un'interpretazione della Cedu, però per il giudice italiano è vincolante, come ha chiarito la Corte costituzionale. Perché la Consulta dice che la Convenzione europea dei diritti umani, che nella nostra scala di valori viene appena sotto la Costituzione, non è quella del testo del Trattato ma quella interpretata dalla giurisprudenza della Corte. E dalle sentenze di Strasburgo si ottiene un'interpretazione estensiva che potrebbe essere applicata alla Diaz: se la polizia irrompe in un edificio e ne prende possesso, le persone in quel momento presenti sono sotto il controllo della polizia. È chiaro però che per evitare dubbi sull'interpretazione la norma dovrebbe essere scritta in modo più chiaro. Ci sono altri punti critici nel testo di legge? "La scelta di tecnica legislativa adottata, di configurare la fattispecie non come un "reato di evento" ma come "reato a condotta vincolata" rende ovviamente più ristretto l'ambito di applicazione. Per capirci, ad esempio l'omicidio è un reato a forma libera, di evento, in cui ciò che conta è il risultato dell'azione indipendentemente dalle modalità con cui viene compiuta. Non a caso, la Convenzione Onu non specifica particolari modalità della tortura - "violenza o minaccia", secondo il testo italiano - ma si limita a dire "con qualsiasi atto". Perché più si entra nel dettaglio, più qualche modalità rischia di sfuggire alla previsione. Pensiamo ad Abu Ghraib: costringere le persone a mantenere certe posizioni, come è successo anche a Bolzaneto, tecnicamente non è configurabile come "violenza o minaccia" ma solo come comportamento vessatorio e umiliante. C'è poi un'altra limitazione dell'applicazione della norma che riguarda le vittime della tortura e il loro rapporto con il carnefice, e che non è presente nella Convenzione Onu. La vittima deve essere infatti secondo la legge italiana "affidata, o comunque sottoposta all'autorità, vigilanza o custodia" del suo carnefice. In questo modo tra l'altro si crea anche un rischio di sovrapposizione e una possibile interferenza tra il reato e il maltrattamento in famiglia (articolo 572 c.p.). Anche qui non si fa altro che aumentare la confusione". Alla base c'è il problema più generale della configurazione come reato comune e non tipico di pubblico ufficiale. Lei cosa ne pensa? "Per quanto autorevoli giuristi alla fine abbiano ritenuto questa scelta positiva perché in questo caso ne amplia il campo di applicazione, io credo al contrario che cosi facendo si perda l'occasione di cogliere la vera natura del reato di tortura, discostandosi dalla tradizione storica, che è quella di essere la violenza del potere e dello Stato dal quale il cittadino si aspetta protezione e per questo lo colpisce nella sua massima condizione di vulnerabilità. Per lo meno, accanto a un reato comune si sarebbe potuto meglio configurare una fattispecie completamente autonoma per il pubblico ufficiale, una tecnica che il legislatore ha sempre adottato nel nostro codice penale. Sarebbe bastato rifarsi un pò di più alla Convenzione che dobbiamo applicare da trent'anni". Dei 400 poliziotti che entrarono alla Diaz solo 25 vennero condannati. Lei parlò di atteggiamento omertoso delle forze dell'ordine. "Certo, e questo lo confermano le sentenze dei giudici italiani di tutti i gradi di giudizi e con maggior forza la Cedu. Il problema è che qualsiasi proposta con finalità di controllo viene vissuta come ingiustamente criminalizzante nei confronti della polizia. Anche la proposta banalissima di introdurre i codici identificativi, non a caso menzionata dalla Cedu, solo in Italia è rifiutata dalla polizia. Che sembra avere il diritto di veto. Purtroppo da noi c'è un partito della polizia che condiziona il dibattito e richiama ad uno sterile schieramento. Una debolezza di fondo che poi si riflette sulle leggi. Dico di più: in realtà, e non sembri un'esagerazione, questa legge deve essere "punitiva" nei confronti delle forze dell'ordine, ma proprio per seguire le finalità della Convenzione. Tutta la giurisprudenza della Cedu pone l'enfasi sull'efficacia deterrente del meccanismo repressivo degli abusi. Ma non mi sembra sia stata molto considerata nei lavori parlamentari". Lei crede che l'allora capo della polizia De Gennaro dovrebbe dimettersi dal suo attuale ruolo a capo di Finmeccanica? "Non sono certo titolato io a dirlo. Rilevo solo che le dimissioni, o il famoso passo indietro, sono un atto di responsabilità, di sensibilità istituzionale, che non attengono necessariamente al giudizio sulle qualità professionali o personali. Durante tutto il processo per i fatti della Diaz abbiamo ascoltato l'esaltazione delle qualità eccellenti di coloro che poi vennero condannati. Come se avere qualità eccellenti, che non si negano, garantisse l'immunità o l'esenzione da critica per gli errori. La recente sentenza della Cedu, spiace dirlo e spiace constatare che altri non l'abbiano detto, individua specifiche violazioni della Convenzione addebitandole a precise istituzioni dello Stato italiano. Quindi fa i nomi e i cognomi dei responsabili". Giustizia: le violenze al G8 Genova ferita ancora aperta, ora una Commissione d'inchiesta di Loredana De Petris (Senatrice di Sel) Il Garantista, 12 aprile 2015 La settimana prossima, a] Senato, presenteremo, come Sei, il ddl per istituire una commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti di Genova del 2001. Dovrà essere una commissione d'inchiesta a tutti gli effetti e nel pieno dei suoi poteri, di fatto con le stesse prerogative della magistratura inquirente. Questo si sarebbe dovuto fare nel 2001. Questo si sarebbe fatto in qualsiasi Paese civile, a proposito di una vicenda che Amnesty ha definito "la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la II guerra mondiale". Questo non fu possibile farlo perché un accordo tra il centrodestra e gli allora Ds impose invece una semplice "indagine parlamentare conoscitiva", che sottraeva al Parlamento i poteri di indagare sul serio. Fu un tipico compromesso al ribasso, grazie al quale la politica si salvava la faccia fingendo di cercare la verità e allo stesso tempo privandosi degli strumenti indispensabili per scoprirla. Nel corso di questi 14 anni la ferita di Genova non si è mai rimarginata: è rimasta un'ipoteca pesante sulla sostanza della nostra democrazia. È letteralmente impensabile che un'operazione di quelle dimensioni e a quel livello di illegalità sia stata decisa tenendone all'oscuro la politica. Non è in alcuna misura credibile che un'operazione di quella violenza, svoltasi a manifestazioni concluse, quando in termini di ordine pubblico non c'era più nulla da temere, non mirasse a raggiungere obiettivi che a tutt'oggi rimangono oscuri e sconosciuti. Quale fu la catena di comando, quale il coinvolgimento della politica, quali le motivazioni dell'aggressione alla Diaz e delle torture di Bolzaneto. A queste domande, tutte inevase, solo una commissione parlamentare d'inchiesta con reali poteri d'indagine può rispondere. Nell'ultima settimana si sono verificati due fatti nuovi che dovrebbero imporre a qualsiasi coscienza sinceramente democratica, indipendentemente dall'appartenenza politica, di reclamare la verità. Ora che l'Europa stessa attesta che in Italia, in un Paese democratico, ci furono torture, ogni alibi dovrebbe cadere. Le dichiarazioni di Alfonso Sabella, arrivate subito dopo, dovrebbero spingere tutti a chiedere con forza spiegazioni su quelle disposizioni che lo stesso Sabella definisce "folli e incostituzionali" e ancor più sui sospetti gravissimi che Sabella, cioè uno dei dirigenti delle operazioni di ordine pubblico di quei giorni, adombra: che a Genova si mirasse freddamente alla tragedia, che si sia trattato di una provocazione cinicamente messa in opera. Contestualmente alla presentazione del ddl istitutivo della commissione parlamentare d'inchiesta inizieremo la raccolta di firme necessarie per la procedura d'urgenza. L'esperienza insegna che troppo spesso, di fronte a questioni spinose e imbarazzanti, la tattica adottata dal potere è quella dell'insabbiamento, del rinvio sine die della discussione. Se al Senato raccoglieremo le firme di un decimo dell'assemblea, la commissione dovrà esaminare il ddl entro cinque giorni e l'aula discuterlo subito dopo. Io mi aspetto e mi auguro che ogni singolo senatore, in questa occasione, risponda alla propria coscienza e alla propria concezione della democrazia invece che agli ordini di scuderia e ai calcoli meschini dell'opportunismo politico. Genova è stata una vergogna, forse la più grave nella storia dello Stato repubblicano. Insistere nel non voler sapere la verità sarebbe una nuova vergogna. Meno sanguinosa, non meno grave. La sentenza europea ci impone però anche altre urgenze. Il varo definitivo della legge sulla tortura, invocata tanto dall'Europa quanto dalla Corte di Cassazione italiana, è stato troppo a lungo rimandato. Ora bisogna fare in modo che quella legge non rimanga lettera morta, come troppo spesso accade. Ma la legge sulla tortura non basta. E essenziale che venga discussa e approvata in tempi brevi anche la legge sul numero identificativo sui caschi della polizia nei servizi di ordini pubblico, anche quella una legge raccomandata dall'Europa. La trasparenza è forse il singolo elemento più eminente per definire il tasso di democrazia sostanziale di un Paese. Genova è stato l'opposto della trasparenza. Per questo reclamare la verità, anche a 14 anni di distanza, non significa occuparsi del passato ma del presente e del futuro. Giustizia: Gratteri; nei tribunali metal detector a tutti e sorveglianza Polizia penitenziaria Ansa, 12 aprile 2015 Metal detector per tutti. E guardie penitenziarie. È questa la ricetta di Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria per rendere più sicuri i palazzi di giustizia. Polizia penitenziaria "come i Marshall americani, cioè coloro che si occupano della sicurezza dei magistrati ma si occupano anche della sicurezza dei palazzi di giustizia", e controlli al metal detector per tutti, anche a "presidente di tribunale e capo della polizia": nessun "lei non sa chi sono io". La polizia penitenziaria, ha proposto il procuratore attraverso la sua Commissione per la revisione delle normative antimafia, diventerebbe Corpo di polizia di giustizia. Il magistrato ha auspicato un sistema in cui "non esiste una differenza sostanziale tra chi è magistrato e chi è poliziotto o chi è avvocato, indagato o imputato. Tutti passano sotto al metal detector. Dove nessuno può dire lei non sa chi sono io, dove anche il presidente del tribunale, anche il capo della polizia è sottoposto a passare al controllo del metal detector". Giustizia: produrre biscotti, caffè e t-shirt, quando il carcere fa la cosa giusta Ansa, 12 aprile 2015 Si chiamano Banda Biscotti, ma poi ci sono anche le Dolci Evasioni, le Lazzarelle, Sprigioniamo i sapori. Se il carcere non è solo il luogo di espiazione della pena ma anche il luogo dove si riacquista dignità, se la giustizia è anche questo, allora passa per il lavoro. Si chiamano Banda Biscotti, ma poi ci sono anche le Dolci Evasioni, le Lazzarelle, Sprigioniamo i sapori, Made in jail e molti altri. L'ironia non guasta a queste, ed altre, associazioni e cooperative sociali diventate in alcuni casi anche piccole imprese che sviluppano buone pratiche di economia carceraria. Se il carcere non è solo il luogo di espiazione della pena ma anche il luogo dove si riacquista dignità, se la giustizia è anche questo, allora passa per il lavoro. È una seconda chance, quella che tutti dovrebbero avere nella vita, un nuovo progetto per il futuro, con nuove competenze. Questo, i dati ne sono la riprova, fa si che un detenuto che lavora uscendo più difficilmente tornerà a delinquere. In Italia ci sono più di 60 mila detenuti e solo 2000 di essi lavorano, una percentuale decisamente bassa. Non serve un carcere che umili ma un carcere che aiuti a non ripetere gli stessi errori. I detenuti fanno biscotti, magliette, caffè, borse, stampe, oggetti di design, puntando alla qualità più che al profitto. Lavorazioni artigianali e creatività per dare un senso al tempo speso dietro le sbarre e per costruirsi un nuovo futuro. Ogni accessorio finisce per trasferire a chi lo acquista un messaggio che parla di diritti umani, giustizia, condivisione, legalità. Chi compra questi prodotti sa che aiuterà queste persone a fare un lavoro dignitoso, capace di alleviare uno stato di disagio, ridando fiducia e speranza nel futuro. In una parola, a riscattarsi. Giustizia: 3.231 assistiti da "Avvocato di strada" nel 2014, lavoro gratis per 2,2 milioni € Ansa, 12 aprile 2015 Sono state 3.231 le persone assistite gratis in tutta Italia nel 2014 (512 in più del 2013), oltre 700 i legali impegnati in 39 città italiane, più di 2,2 milioni il valore del lavoro messi a disposizione degli indigenti. Sono i numeri dell'associazione Avvocato di strada Onlus, che ha presentato il proprio bilancio sociale. I legali si sono occupati di ricorsi contro i fogli di via, problematiche familiari, sfratti, lavoro, sanzioni contro la povertà: rispetto al 2013 si è verificata una crescita delle attività in tre aree: le pratiche di diritto civile sono passate da 1.263 a 1.502, quelle sui migranti da 829 a 1.100, il diritto penale da 296 a 421; in calo il diritto amministrativo. Il 59% degli assistiti è stato di provenienza extra UE, il 29% italiani, il 12% cittadini Ue. Gli uomini sono stati 2.392, le donne 839. Nell'ultimo anno, ha sottolineato il presidente Antonio Mumolo, "si è registrato un grande aumento delle pratiche relative ai permessi di soggiorno, passate dalle 313 del 2013 alle ben 591 del 2014". Come negli anni passati, ha aggiunto "le problematiche penali trattate dai legali di Avvocato di strada sono un numero inferiore a quello delle pratiche di diritto civile o del diritto dei migranti: un dato che desta sempre sorpresa e che smentisce il pregiudizio secondo il quale chi vive in strada sarebbe spesso autore di reati". Al contrario, "chi vive in strada è spesso vittima di aggressioni perché è debole e indifeso e anche perché considerato colpevole di essere povero. Ben 99 persone nel 2014 hanno avuto bisogno di una tutela legale perché aggredite, minacciate e derubate mentre dormivano in strada". In aumento anche i "reati per fame", come i piccoli furti al supermercato: 35 nel 2013, 64 nel 2014. Giustizia: furto in casa, il reato più impunito di Giovanni Tizian L'Espresso, 12 aprile 2015 Lo scorso anno 251mila abitazioni sono state depredate. Ma in cella per questo reato ci sono solo 3.600 persone. Perché le indagini non si fanno quasi mai. E cosi il senso di insicurezza dei cittadini continua a crescere. Ogni casa un furto, inesorabilmente. A Lesignana, una piccola frazione alle porte di Modena, si sentono prigionieri di un incubo, come se quell'angolo di pianura padana fosse Far West: rubano in ogni abitazione, in ogni negozio. Ma la stessa esasperazione riguarda la maggioranza degli italiani, nel centro di Roma, di Bologna o di Milano come nel più remoto dei paesini: le mura domestiche non sono più sinonimo di sicurezza, anzi. Le razzie negli appartamenti e nelle ville stanno diventando la regola. E quello che rende ancora più inaccettabile la situazione è la sfiducia nelle istituzioni: c'è la consapevolezza che la denuncia fa soltanto perdere tempo per riempire moduli. Perché nessuno si impegnerà per catturare i ladri e non ci saranno provvedimenti per sconfiggere l'assalto. Non è un sentimento irrazionale, non è una proiezione delle paure: oggi il 99 per cento dei furti in casa restano di fatto impuniti. È un dato choc, che "l'Espresso" ricava dal confronto tra i detenuti per questo tipo di reato e il totale di razzie domestiche messe a segno nel 2014: in carcere sono finite 3600 persone mentre i colpi sono stati 251.558. Due numeri che fotografano l'angoscia. E che trovano riscontro nell'ultima statistica ufficiale, elaborata dall'Istat sulla base delle informazioni del ministero dell'Interno: nel 2013 solo il 2,9 per cento dei responsabili dei furti in abitazione commessi nel corso dell'anno è stato individuato, anche se una fetta consistente di loro se l'è cavata con una denuncia a piede libero. Ci vuole un pò, dopo un furto in casa, per sentirsi di nuovo a casa. Intuisci ?che ciò che davvero t'inquieta in quei momenti non è la scoperta progressiva degli oggetti più o meno preziosi che mancano, ma il senso di una privazione più profonda, di una violazione dei tuoi spazi più intimi che, cosi com'è avvenuta, potrebbe anche ripetersi. Una pacchia per i delinquenti. Scassinare porte e finestre gli permette di fare rapidamente incetta di gioielli, orologi, computer, telefonini e contanti. Un bottino facile, praticamente senza rischi. Mentre per chi viene derubato c'è una ferita profonda. Li chiamano topi d'appartamento, li paragonano al galante Arsenio Lupin ma la realtà è sempre traumatica. Spesso all'irruzione si accompagna lo sfregio, la devastazione gratuita di mobili e oggetti. E in tutti i casi siamo di fronte a un reato traumatico, che lascia un danno psicologico pesante nelle vittime. Anche quando la perdita economica è limitata, si ferisce il senso più profondo della sicurezza. "Colpire l'abitazione assume un valore simbolico e culturale molto forte. Violare il luogo dell'intimità domestica può avere un forte impatto sul vissuto delle persone, generando anche traumi profondi", sottolinea a "l'Espresso" Marco Dugato, ricercatore di Transcrime e tra gli autori dello studio su questo fenomeno, realizzato in collaborazione con il Viminale, che verrà presentato a fine aprile. Svaligiare case è il crimine che sta dilagando. Anche a Pasqua, decine di colpi. A Pisa hanno derubato i genitori di un consigliere comunale del Pd; a Legnano sono penetrati nella canonica durante la veglia notturna, portando via telefonino e pc del parroco. E non si può definirla un'emergenza, perché da dieci anni l'assalto cresce senza sosta: dal 2003 le denunce sono raddoppiate. Il picco più alto è stato raggiunto nel 2014, arrivando a 251 mila assalti alle mura domestiche. A parte i danneggiamenti, che spesso sono funzionali all'irruzione negli appartamenti, si tratta del reato più numeroso in assoluto. Ogni giorno 689 incursioni, in pratica 29 ogni ora: ogni due minuti un ladro penetra in un'abitazione. Basta poco. Ci sono le "chiavi bulgare", che riescono ad avere ragione di ogni serratura. E per i predoni meno raffinati si usano piedi di porco o cric, devastando porte blindate o serramenti antiscasso. Non esistono difese inespugnabili. La politica si è accorta dell'emergenza. Ma l'unica risposta all'angoscia dei cittadini è una proposta del ministero della Giustizia: aumentare le pene. Dovrebbero diventare da un minimo di due al massimo di otto anni di carcere, rispetto al tetto di sei previsti oggi. Misura che renderebbe più difficile evitare il carcere sfruttando la condizionale. E vanificherebbe la prescrizione. Ma il problema non è questo. I razziatori di case che ne beneficiano sono pochi: secondo il ministero, solo tra il 4 e il 5 per cento sfugge alle condanne grazie alla prescrizione. No, qui c'è un guasto più drammatico: i ladri non vengono individuati quasi mai, restano una moltitudine di soliti ignoti. A Firenze tra il 2013 e il 2015 la procura ha aperto più di 11 mila procedimenti per furti in casa, ma quelli con un presunto colpevole sono appena 206. A Milano le cose vanno meglio: i fascicoli contro ignoti sono più di 9 mila su un totale di 12 mila. Resta però un colossale buco nero, comune a tutte le città e tutte le procure. Una rassegnazione delle istituzioni che si scontra con il bollettino di guerra dei colpi, che nell'ultimo decennio sono aumentati a Milano del 229 per cento, a Firenze del 177 per cento, a Torino del 172 per cento, a Padova e Palermo del 128 per cento, a Roma e Venezia del 120 per cento, a Bologna e Verona quasi del 104. E le forze dell'ordine cosa fanno? L'ultimo bilancio completo riguarda il 2013, quando ci sono stati 251.422 furti in casa. In meno della metà dei casi è stato aperto un fascicolo. Poi, secondo il Viminale, le indagini hanno portato alla denuncia a piede libero di 15.263 persone, ma quasi un decimo sono minorenni. Gli arrestati invece sono meno della metà: 6.628, di cui 486 minori. Ma in cella restano pochissimo. Tanto che oggi i detenuti sono 3600, di cui 2075 italiani, mentre il numero dei reati è aumentato. Perché l'impunità arriva a livelli cosi alti? La prima risposta degli investigatori è chiara: le indagini non sono semplici. Spesso sono gang in trasferta che non lasciano traccia: prendono di mira una zona, poi cambiano territorio di caccia. E solo in pochi casi le impronte digitali lasciate sulla scena del crimine riconducono a un profilo già schedato. Anche se una lamentela delle vittime è che raramente agenti e militari cercano le impronte. La scienza in questo campo appare come un'eccezione, ci si abitua a vedere in tv le mirabolanti imprese di Ris e Csi, ma le tute bianche non intervengono quasi mai dopo i furti. A Napoli alcuni anni fa i carabinieri repertarono il dna di una banda che per spregio defecava negli alloggi svaligiati, riuscendo cosi a incastrarla. Una vera rarità. L'altra giustificazione invocata dagli operatori è la carenza di risorse, la stessa che affligge tutto il settore della sicurezza. Il sindacalista Daniele Tissone, che rappresenta il Silp, ossia la Cgil della polizia, spiega: "Le pattuglie sono diminuite, manca il personale e i mezzi scarseggiano. Un esempio? In molte occasioni gli agenti attendono in ufficio la macchina del turno precedente". C'è anche però un altro difetto, più tecnico: "Per indagini che puntano a bande organizzate l'attività di intelligence è quanto mai complessa e ha senso solo nel caso si dimostri una associazione a delinquere, condizione che permette la richiesta di arresti", prosegue Tissone. Qualche operazione brillante viene messa a segno. La scorsa settimana dodici persone sono state arrestate dalla polizia di Firenze. Professionisti originari dell'Est, che sfruttavano due badanti per recuperare notizie preziose sugli appartamenti da ripulire. Le badanti-spie fornivano orari, abitudini e segnalavano la refurtiva "interessante". Cosi invece di prendersi cura dell'anziano lo vendevano alla gang, composta da criminali di peso: uno di loro, hanno sottolineato gli inquirenti, è collegato alla mafia russofona. Paradossalmente però è più facile contrastare una banda di maghi del settore. In questi casi infatti le indagini vengono gestite dagli uffici specializzati. E basta un indizio perché l'istruttoria si arricchisca di particolari, di nomi e cognomi. La gang toscana per esempio è finita nel mirino per aver utilizzato un "compro oro" sospetto per ricettare la merce: una pista decisiva per smascherarli. È molto più complicato catturare i cani sciolti: colpiscono senza una logica, selezionano a caso gli obiettivi e possono aspettare molto tempo tra un colpo e un altro. Il compito ricade spesso su commissariati e stazioni di quartiere, ingolfati da una pletora di attività d'ogni genere, che non riescono a trovare tempo e uomini per intervenire. Tutte motivazioni fondate, ma non bastano a soddisfare le vittime, alle prese da un decennio con l'inarrestabile escalation dei predoni. Tanto che in tutta Italia i residenti dei quartieri più bersagliati scelgono la difesa fai da te: presidiano il territorio, si uniscono in comitati e sfruttano le nuove tecnologie per controllare i quartieri. Si ingegnano perché spesso non percepiscono l'impegno delle forze dell'ordine su questo fronte. E lo stesso fanno diverse amministrazioni comunali che firmano accordi con società di vigilantes offrendo ai residenti servizi low cost di sorveglianza. Questa débâcle dell'ordine pubblico apre la strada a una giustizia privata che finisce anche per rivolgersi alle mafie. Offrendo una ricompensa per ottenere la restituzione del bottino. Si va dal "referente" di zona per cercare di recuperare gioielli, auto o scooter. Per ritrovare la collezione di orologi trafugata nella sua villa Gigi D'Alessio - come ha rivelato "l'Espresso" - ha chiesto persino l'intervento dei servizi segreti mentre le intercettazioni di "Mafia capitale" hanno documentato l'intervento degli uomini di Massimo Carminati per risolvere la questione. L'assalto alle case è un fenomeno trasversale. Ci sono i due anziani della provincia emiliana che hanno perso tutto nell'ora in cui si erano allontanati per andare alla via crucis del paese, la giovane coppia che trova l'appartamento svaligiato dopo una giornata di lavoro, l'attico ai Parioli dell'attrice Vittoria Belvedere violato nonostante l'allarme fino alla moglie di Antonio Catricalà, l'ex sottosegretario e viceministro, che rientrando in anticipo ha sorpreso in malviventi. I ladri non guardano in faccia nessuno. "La famiglia ha subito un cambiamento epocale. Le case sono sempre meno vissute, sempre più vuote per molte ore al giorno", spiega il sociologo Marzio Barbagli, tra i massimi esperti nei temi della sicurezza urbana. "E questo incide sulla scelta dell'obiettivo da parte dei malviventi, che prendono di mira le abitazioni dove il rischio di trovare qualcuno all'interno è basso". Nell'Italia che ancora soffre la crisi, le case svaligiate non fanno che acuire insicurezza e rabbia. "È un fenomeno che influisce in maniera rilevante sulla percezione di sicurezza", riconosce Marco Dugato, ricercatore di Transcrime. Anche se il rischio poi cambia da territorio a territorio: "Noi sappiamo che la probabilità di subire un furto varia in maniera molto rilevante a seconda del luogo e del momento". Per prevenire è fondamentale studiare il profilo del bandito: "Si va dal ladro non specializzato che coglie l'occasione del momento, come una finestra lasciata aperta, a veri professionisti fino ad arrivare alle bande organizzate che pianificano i colpi con largo anticipo". Se per scoraggiare gli inesperti basta un semplice adesivo che segnala la presenza di telecamere, la videosorveglianza serve a ben poco quando in ballo ci sono i gran maestri scassinatori. "In generale si può dire che gli effetti della videosorveglianza sul numero di reati sono controversi, mentre sicuramente rassicura i residenti", conclude il ricercatore. C'è anche un altro elemento che rende gli occhi elettronici pressoché inutili: i sistemi collegati alle sale operative di polizia e carabinieri non garantiscono l'intervento, salvo che una pattuglia non si trovi a passare in zona. Molto più utili sono i software che inviano all'istante sul cellulare le immagini registrate nell'abitazione. Il proprietario ha cosi la possibilità di verificare in diretta eventuali ombre anomale e segnalarle immediatamente al 112 o al 113. Sperando che ci sia una volante in grado di intervenire. Ma la sensazione di insicurezza aumenta con il crescere degli assalti impuniti. E apre la strada ai peggiori scenari, con il rischio di giustizieri improvvisati. A Treviso negli ultimi mesi c'è stato il boom di iscrizioni al poligono di tiro. Con casalinghe e anziani in prima fila per esercitarsi a sparare. Tutti dicono di sentirsi soli e insicuri. E - spiegano - per proteggersi, in fondo, un arma costa meno di un impianto d'allarme. Giustizia: un detenuto che assisto ha detto la verità su Ilaria Alpi, ma gli tappano la bocca di Fausto Cerulli (Avvocato) Il Garantista, 12 aprile 2015 Aveva scoperto un traffico d'armi degli stati uniti in Somalia. Ogni tanto - ogni poco - si torna a parlare del caso Alpi, del caso, cioè, di una giornalista coraggiosa uccisa in circostanze misteriose: misteriose solo per chi non vuole vedere. A Ilaria è stato dedicato un premio giornalistico, della sua morto si è occupata anche una Commissione d'inchiesta. Parlo de relato, sulla base di confidenze fattemi da un mio assistito, attualmente detenuto, di cui in parziale omaggio al segreto professionale indicherò soltanto le iniziali del nome: L.P. Il mio assistito sostiene di aver conosciuto Ilaria Alpi, e di aver saputo direttamente da lei di cosa si stava occupando in quelli che dovevano essere gli ultimi momenti della sua vita. Si potrebbe pensare che il mio assistito sia un venditore di fumo, ma non si capisce a cosa gli servirebbe vendere questo fumo, visto che la sua attualo detenzione non ha nulla a che vedere con storie di spionaggio e/o di servizi deviati. Va premesso che il mio assistito conosce bene la Somalia, per avervi a lungo soggiornato, conoscendo di conseguenza molte persone del posto, ed avendo anche sposato una somala, figlia di un notabile somalo. L.P, è persona nota, se non altro per aver portato a termine il più lungo dirottamento aereo che si ricordi. E sul fatto che conoscesse Ilaria Alpi ho avuto conferma da persone che lo videro insieme a lei in Italia, e nei luoghi che il mio assistito mi aveva indicato nelle sue confidenze. L.P, viene da molti considerato un mitomane, ma non - tanto por fare un esempio - da un giornalista del Time che venne appositamente ad Orvieto per chiedermi alcune notizie su di lui, a completamento di notizie circostanziate già in suo possesso. Comunque il mio assistito mi ha sempre scritto di sapore come e perché Ilaria Alpi aveva fatto la fine che sappiamo. Ilaria aveva scoperto, forse per caso, nel corso di suoi numerosi viaggi in Somalia, che era in corso un traffico di armi tra una potenza occidentale e la Somalia. Traffico clandestino in quanto all'epoca esisteva un ferreo embargo sulla fornitura di armi alla Somalia, La Potenza occidentale andava identificata negli Usa e il traffico di armi era coperto e favorito, quasi ovviamente, dalla Cia. Ilaria era venuta a conoscenza del traffico illecito, e forse ne aveva incautamente parlato con qualcuno, oltre che con il mio assistito, e questo le era costato la vita. La sua scoperta aveva toccato nervi sensibili, e una sua divulgazione avrebbe messo nei guai persone ed istituzioni importanti. Di qui la decisione di chiuderle in anticipo la bocca. Il mio assistito è stato sempre tentennante sulla natura del traffico scoperto da Ilaria Alpi, Qualche volta mi parlava di un traffico di rifiuti, altre volte di un traffico di armi. Poteva trattarsi di entrambi i traffici, a cui comunque non erano estranei anche ambienti riservati del nostro Paese. Certo è che il mio assistito fu prelevato dal carcere e condotto dinanzi alla Commissione che si occupava, per modo di dire, del caso Alpi. Questa circostanza mi ha confermato la mia convinzione che L.P, non raccontava balle che oltretutto non gli sarebbero servite a nulla. Una ulteriore conferma del fatto che il mio assistito fosse ben informato sulle vicende di Ilaria può trovarsi negli atti, pubblici, della Commissione. Atti da cui si evince che sul caso Alpi furono interrogate molte persone, le cui deposizioni sono tutto consultabili, Tutto, meno quella del mio assistito che venne secretata per motivi di sicurezza dello Stato. Non occorre essere maghi per capire che quella secretazione serviva a coprire verità scottanti. Segno che il mio assistito aveva fornito notizie importanti e credibili, e proprio per questo destinate a non essere rese pubbliche. Aggiungo che in un primo tempo il mio assistito si rifiutò di rispondere alla Commissione perché era presieduta dall'avvocato deputato Carlo Taormina, di cui il mio assistito, chissà mai perché, non si fidava. E ai commissari, consapevoli della rilevanza di quello che il mio assistito avrebbe potuto dire, non restò altra scelta che cambiare Presidente pur di ascoltare quello che L.P. avrebbe potuto dire. Ma il silenzio del segreto di Stato è piombato sulle rivelazioni del mio assistito, che dovevano essere veramente scomode. Ilaria è morta, e morta ammazzata, perché aveva scoperto qualcosa che non doveva essere scoperto, e sulla deposizione del mio assistito è calata la secretazione perché aveva detto cose che non si possono dire. A corollario del tutto posso soltanto aggiungere che il mio assistito riteneva di sapere che anche Simonetta Cesaroni era stata uccisa perché aveva scoperto qualcosa di scottante su traffici illeciti. Quando fu processato, per la morte di Simonetta, il suo fidanzato, consigliai ai difensori dello stesso di citare come teste il mio assistito. Ma uno dei due avvocati difensori ritenne di non ascoltare il mio consiglio, mentre l'altro era di diverso avviso. Poi l'imputato fu assolto. E ancora non sappiamo chi abbia ammazzato Simonetta e per quale motivo. Forse non sarebbe male seguire la pista indicata dal mio assistito. Chissà che non intervenga di nuovo il segreto, implacabile, di Stato. Lettere: le formiche e l'elefante dai detenuti del carcere "Mario Gozzini" (Solliccianino) Ristretti Orizzonti, 12 aprile 2015 Dopo anni dal rilevamento della Commissione Marino dell'orrore Opg, dopo anni di proroghe successive, salutiamo con piacere la decisione di chiuderli o superarli come si usa dire. E dopo il torto, la beffa. Infatti, apprendiamo dai giornali la decisione di chiudere l'Opg di Montelupo Fiorentino, dopo aver speso sette milioni di euro per la sua ristrutturazione. Sette milioni di denari pubblici per restituire decoro e abitabilità alla struttura mentre nelle carceri toscane ha la carta igienica solo chi può comprarsela! Ma non basta. Apprendiamo, infatti, che gli internati di Montelupo Fiorentino, i non dimissibili, saranno trasferiti nella Casa Circondariale "Mario Gozzini", meglio nota come Solliccianino. Non si capisce dunque perché il Ministero della Giustizia abbia dissipato sette milioni di euro per ristrutturare Montelupo e subito dopo chiuderlo. Qualche sospetto ci sorge, ma lo teniamo per noi. Naturalmente, Solliccianino è nato come carcere e per trasformarlo in struttura sanitaria richiederà, di nuovo, copiosi finanziamenti spremuti dalle tasche dei cittadini contribuenti. E di nuovo ci sorge qualche sospetto. Quella delle ristrutturazioni delle opere pubbliche o delle costruzioni ex novo delle grandi opere, è storia nota e anche attuale per attardarci a qualche commento… Ma quello che più c'indigna è che viene cancellata la storia di un quarto di secolo di un istituto penitenziario, forse l'unico in tutta la Toscana, che ha dimostrato e tutt'ora dimostra la sua funzionalità normativa secondo il dettato costituzionale prima e quello legale poi (leggi Ordinamento Penitenziario L. 354 del 1975). In questi ultimi anni di ristrettezze economiche, noi e tutto il personale istituzionale, le Associazioni di volontariato e il mondo della cooperazione territoriali, abbiamo fatto le formiche, con grande spirito collaborativo, nel tentativo di far funzionare un termosifone per riscaldarci d'inverno (spesso non riuscendoci compiutamente). Sono state mantenute con grandi sforzi da parte di tutti, e tutt'ora lo sono, le attività formative e lavorative; programmi e progetti realizzati, altri in corso d'opera ed altri ancora in elaborazione. Ciascuna persona reclusa in questo istituto dispone di un programma di trattamento individualizzato volto al graduale reinserimento socio-lavorativo, cosi come la Costituzione e la legge vogliono. Niente di rivoluzionario, bensì conformità legale nell'esecuzione penale. Come cioè dovrebbe essere ogni istituto penitenziario e come nessun altro istituto toscano riesce a fare. In breve, un carcere che funziona benino, che non sbocca nell'inumanità e nel degrado comune alla stragrande maggioranza degli istituti penitenziari locali e nazionali, come il Tribunale per i Diritti Umani dell'Unione Europea ha rilevato e il Governo italiano ha certificato con un recente decreto legge d'urgenza volto al risarcimento per la tortura subita. Ecco, un carcere che funziona va chiuso! Naturalmente chi ha deciso la chiusura mai ha mosso un passo dentro Solliccianino, mai ha visto. Burocrati che se ne infischiano dello stato dell'arte, della conoscenza e persino della sicurezza, della difesa degli interessi dei cittadini. Infatti, benché sia noto il fatto che un'uscita dal carcere graduale riduce notevolmente la recidiva, a differenza di quelli che escono dal carcere a fine pena; nonostante questa consapevolezza che vede nel "Gozzini" un'opportunità per fare davvero gli interessi dei cittadini contribuenti; malgrado questo, l'elefante (o il carrarmato?) burocrate non batte ciglio: si chiude un carcere che funziona e si ripristina un carcere per i malati. Due operazioni biasimevoli (quantomeno), altamente dissipatori di denari pubblici, di umanità (quella dei reclusi e quella degli internati), di legalità, di cultura del bene comune. L'arroganza prepotente di queste due operazioni, ancorché dissipatoria, è offensiva anche al più elementare buonsenso! Che ne sarà di noi, sudditi dei sudditi, dei nostri programmi di trattamento, dei nostri progetti individuali e collettivi, dei nostri sforzi quotidiani e collaborativi, della nostra possibilità futura, non è difficile immaginarlo: tutto al macero, tutti alla fornace manicomiale di quel pachiderma ingovernabile in pieno degrado strutturale e funzionale che è Sollicciano, che rinchiude un quarto della popolazione detenuta dell'intera Regione, in quali condizioni l'elefante burocrate non sa. E dopo le critiche, una proposta: non sarebbe più economico, più dignitoso, meno distruttivo e politicamente più vantaggioso, restituire Montelupo Fiorentino completamente al ministero della sanità, dopo aver speso milioni per ristrutturarlo, e lasciar funzionare Solliccianino come sta funzionando? Basterebbe che il ministero della giustizia abbandonasse completamente, restituendolo ai sanitari, Montelupo Fiorentino e magari trasferisse il suo personale a Solliccianino per farlo funzionare ancora meglio. Basilicata: è sempre emergenza carceri, sono 468 i detenuti nelle strutture lucane di Clemente Carlucci Nuova del Sud, 12 aprile 2015 Il dato, di per se stesso molto chiaro e allo stesso tempo preoccupante, è emerso nel corso del più recente Consiglio nazionale del sindacato autonomo più forte della Polizia penitenziaria. Sono in consistente aumento i detenuti nelle carceri della Basilicata, già di per se stesse non al top degli spazi disponibili. E da tanto tempo. E cosi a tutto lo scorso 31 marzo i detenuti erano 468, di cui ben 219 nella sola casa circondariale di via Lecce a Melfi, ritenuta anche di massima sicurezza. Dunque, è di nuovo emergenza carceri. In aumento la presenza dei detenuti nel loro interno un pò in tutta la nostra regione, dopo il trend degli ultimi mesi che aveva riportato i penitenziari lucani a condizioni oggettive di sia pur labile e provvisoria normalità, è dato della vera e propria emergenza carceraria è emerso, come già si anticipava in apertura, nel corso del Consiglio nazionale del sindacato Sappe che si è tenuto a Rimini. I delegati lucani presenti all'assist sindacale nazionale si sono fatti sentire e come. Nel momento di denunciare situazioni di autentico degrado in Basilicata. Troppi, tanti detenuti in celle limitate nel numero e negli spazi. Con sempre maggiore frequenza, anche se tutti i casi finora registratisi, non sono e non sono stati portati alla luce, ci sono situazioni di vivo allarme e di giustificata preoccupazione, se non proprio di pericolosità, non solo per i detenuti, ma anche per gli agenti di custodia. Certo è che in Basilicata vivere la difficile condizione di recluso non è assolutamente possibile. Per tantissimi ragioni. E quella del sovrappopolamento è senz'altro uno dei più clamorosi e rilevanti. A proposito della particolare, grave situazione lucana. Si dovrebbero prendere iniziative concrete sul versante risolutivo dei problemi sul tappeto. Anche la Regione Basilicata e le maggiori istituzioni pubbliche lucane a tutti i livelli potrebbero fare la loro parte. Anche se la materia esula dai loro diretti compiti. Potrebbero rendersi parte diligente per arrivare alla promozione di un vertice operativo con l'amministrazione centrale penitenziaria. Sembra che soluzioni migliorative, non definitive, ma possibili ce ne siano a portata di mano. Basterebbe ricercarle, volerle fino in fondo, responsabilmente, e portarle sul piano dell'attuazione. L'essenziale è che non si perda altro tempo prezioso. Ne va di mezzo non solo la credibilità delle istituzioni, ma anche la sicurezza di quanti nelle carceri vivono. Siano loro detenuti o invece "secondini". Anche dai livelli di vita dentro i luoghi di detenzione si misura lo stato di civiltà di una nazione, di una regione e di un contesto sociale. Ancona: appalti sospetti per i nuovi lavori, due sezioni di Montacuto sono sotto sequestro di Pierfrancesco Curzi Il Resto del Carlino, 12 aprile 2015 Due sezioni di Montacuto bloccate perché nel mirino della Procura. Inchiesta nazionale blocca il collaudo e la consegna dei lavori di un'ala del carcere di Montacuto, conseguenze durissime per l'intero sistema penitenziario regionale. La ditta che ha effettuato i lavori, di ristrutturazione di due sezioni del penitenziario dorico sarebbe finita dentro un'indagine coordinata dalla magistratura romana. L'inchiesta non riguarderebbe direttamente l'appalto per le opere del carcere di Ancona, ma essendo finita nel mirino per alcune accuse piuttosto pesanti, pure il cantiere nelle Marche ne ha risentito. Morale della favola, le due sezioni interessate dai lavori sono pronte per essere con segnate, dopo un ottimo intervento di restauro, ma l'iter è fermo e bloccato da più di sei mesi. Mancano le ultime rifiniture e il certificato di consegna dei lavori che darebbe accesso al collaudo finale e, di conseguenza, all'inaugurazione dei nuovi spazi. Insomma, un'intera ala del carcere di Montacuto, seppure ristrutturata e in piena efficienza, è ancora sotto sequestro per decisione della magistratura in merito a irregolarità negli appalti. Intanto altre due sezioni del penitenziario, messe a rischio dalle infiltrazioni d'acqua dal vano docce, sono state chiuse. In definitiva, su sei sezioni, quattro sono al momento inagibili. Tradotto, significa che circa 200 detenuti sono stati spostati altrove, in altri istituti regionali e fuori regione, provocando una sorta di pericoloso effetto domino: "I detenuti soffrono questa situazione - attacca duramente il garante per i detenuti, Italo Tanoni - sballottati a destra e sinistra, così i rapporti familiari sono più complessi. Ma, soprattutto, ci sono delie carceri che stanno esplodendo a causa di Montacuto. Pesaro e Fossombrone, ad esempio, rischiano il collasso. Per non parlare di Camerino, dove in una cella per sei vivono ii doppio dei detenuti, e Fermo. Sullo stop dei lavori a Montacuto ho reso edotto della vicenda lo stesso ministro Orlando e il 15 aprile sarò a Roma per incontrare i vertici dell'amministrazione penitenziaria.. Si parlerà di edilizia carceraria e il caso Montacuto sarà in cima alla lista. L'inchiesta della procura, blocca lo svolgimento dell'appalto e quei locali, nuovi di zecca, moderni, accoglienti, stanno marcendo". Promette battaglia anche il segretario nazionale del Sindacato degli agenti penitenziari Sappe, Donato Capece: "A metà maggio sarò a Montacuto per controllare lo stato dei lavori e la. situazione generale - dice Capece - Tuttavia, lunedì chiederò lumi su cosa sta accadendo ad Ancona, sui ritardi e sui futuro dell'istituto. Di questo caso dovranno occuparsene un pò tutti". Scarso ottimismo sul futuro del carcere dorico arriva dalla responsabile regionale dell'amministrazione carceraria Emanuela Ceresani. "Sulla parte di competenza del Provveditorato alle Opere Pubbliche - spiega riferendosi alla competenza dei cantieri che rientravano nel Piano Carceri - non so dirle, posso però affermare die per i lavori che riguardano la nostra competenza, i tempi si preannunciano lunghi. Siamo ancora all'affidamento dei lavori con gara d'appalto. Le procedure sono complesse purtroppo. Una parte del carcere è stata svuotata a causa delle infiltrazioni d'acqua nelle celle. Cercheremo di limitare i disagi, ma non dipende da noi". Intanto l'effetto domino sta interessando pure il carcere di Battaglione. Abituato ad ospitare 30-50 detenuti al massimo, oggi 10 aprile ce ne sono 109: "L'amministrazione sta puntando a portare fino a 130 detenuti - precisa Meandro Silvestri del Sappe Marche - ma come si fa senza guardie? Il personale è già carente cosi". Modena: internati della Casa Lavoro di Castelfranco appiccano incendio in sala ricreativa Ansa, 12 aprile 2015 La saletta ricreativa della casa di lavoro di Castelfranco Emilia è stata incendiata da alcuni internati. Lo riferiscono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) e Francesco Campobasso, segretario regionale. "Solo grazie al pronto intervento della polizia penitenziaria - affermano - è stato evitato il peggio, anche se due agenti sono rimasti intossicati ed hanno dovuto fare ricorso alle cure mediche in ospedale. "La situazione all'interno della struttura - aggiungono i sindacalisti del Sappe - è piuttosto tesa, a causa della promiscuità derivante dall'eccessivo sovraffollamento. Infatti, sono presenti più di 100 internati e non essendoci spazi a sufficienza non è possibile separare i tossicodipendenti, in regime di custodia attenuata, dagli altri internati, i quali, spesso, mettono in atto iniziative di protesta che sfociano in gesti di autolesionismo e di aggressioni al personale. Infatti, un altro grave episodio, verificatosi sempre nei giorni scorsi, ha visto come protagonista un internato extracomunitario che con in mano una lametta ha tentato di aggredire un agente della polizia penitenziaria. A questi episodi si aggiungono difficoltà operative, soprattutto per la gestione delle visite mediche e dei ricoveri e piantonamenti in ospedale, da quando l'amministrazione regionale ha deciso di demandare tale gestione al personale di Castelfranco, per alleggerire il lavoro del nucleo traduzioni di Modena. Il personale di Castelfranco, però, non ha gli uomini ed i mezzi necessari per gestire tali incombenze". Verona: al carcere di Montorio fuoco ai materassi, la protesta disperata dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Garantista, 12 aprile 2015 Sotto accusa il sovraffollamento, ma per la direttrice non c'è nessun problema. Polemica sulle "celle aperte". È di tredici persone intossicate il bilancio di un incendio sviluppatosi in una cella della casa circondariale di Montorio, a Verona. Gli intossicati sono undici agenti di Polizia penitenziaria in servizio nel carcere e due detenuti. Le fiamme hanno distrutto un materasso e si sono poi estese a un armadietto. L'incendio è stato domato grazie all'intervento dei vigili del fuoco. Non è stato un fulmine a ciel sereno la rivolta. Nel carcere si sono susseguiti oltre una trentina di tentativi di suicidio sventati dagli agenti, 181 risse, 44 ferimenti. L'episodio della cella data alle fiamme da due detenuti nordafricani, che ha provocato l'intossicazione di una decina di uomini della polizia penitenziaria, sarebbe solo l'ultimo di una serie di episodi accaduti all'interno del carcere di Montorio. Una situazione esplosiva denunciata con un bilancio relativo al 2014 dal Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che dopo l'ultima rivolta ha chiesto la rimozione del provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria e della direttrice del carcere di Verona. A telecamere spente, in un incontro informale con la stampa di rientro da un periodo di ferie, la direttrice del carcere Maria Grazia Bregoli ha però respinto ogni ipotesi di rivolta o di "caso Montorio". In sostanza ha ricordando che i detenuti del carcere "non hanno studiato ad Oxford" e che episodi di intolleranza al rispetto del regole penitenziaria esistono a Verona come in qualsiasi altra struttura. È polemica anche sul sovraffollamento del carcere, capiente il giusto secondo la direzione, sovraffollato secondo il sindacato, dato che il numero di detenuti è calato ma solo perché due sezioni sono al momento chiuse. Il Sindacato della polizia però coglie nuovamente la palla al balzo per criticare - in chiave nazionale - il provvedimento delle celle aperte. In particolare è il Sappe a chiedere di sospendere l'apertura giornaliera delle celle nelle carceri italiane. "Ci sono aggressioni agli agenti ogni giorno, in un anno di sperimentazione sono aumentate del 100%", aveva afferma il segretario generale del sindacato, Donato Capece. "Sono aumentati i soprusi tra detenuti, aumentano le risse e i casi di violenze, sequestriamo ogni giorno materiale che arriva in carcere. La situazione è ingestibile: è arrivato il momento di dire basta", aveva dichiarato sempre Capece. Il progetto che prevede questo nuovo modello di carcere si chiama "vigilanza dinamica": prevede la libera circolazione nelle sezioni e l'apertura delle celle per otto ore al giorno, con gli agenti che non devono più restare di guardia ad ogni singola cella ma a zone di passaggio dei detenuti. Questo modello è già prassi nelle carceri europee: "Sono assolutamente contrario a che si torni indietro alla marcatura a uomo del detenuto: è deresponsabilizzante - ha commentato il presidente dell'associazione Antigone Patrizio Gonnella. Non è un progetto che l'Italia s'inventa perché è un Paese particolarmente avanzato. Anzi, ci stiamo adeguando alle regole europee perché il nostro modello è retrogrado". Su un punto Sappe e Antigone hanno però avuto delle convergenze: l'apertura delle celle, di per sé, non basta. "Se i detenuti stanno a oziare, il progetto è fallimentare", ha affermato Capece. "Bisogna riempire la vita dei detenuti di attività che siano utili per la loro formazione. Solo in questo modo si rende il carcere un luogo che assomiglia alla vita normale", ha aggiunto Gonnella. Uno dei problemi è legato ai fondi: la Commissione Smuraglia, che finanzia i progetti in carcere, il 30 dicembre 2014 ha subito un taglio del 34%. "Più in generale è necessario che sul tema del lavoro e delle attività in carcere ci sia una forte regia del ministero della Giustizia", continua però a sostenere Gonnella. Sul modo di condurle, le posizioni però sono tornate a divergere. Per Capece "devono essere chiuse le sezioni, le attività devono essere svolte all'esterno" e ci devono essere "meccanismi di premialità" che regolino la possibilità per i detenuti di uscire dalla cella. "Premialità che significa?", si è chiesto Gonnella. "Se un detenuto ha maggiore libertà e aggredisce qualcuno avrà sicuramente sanzioni, in ogni caso". Secondo Gonnella "non può essere trasformato in beneficio da meritare, ciò che è un diritto", come la possibilità di stare fuori dalla cella. In più, per Gonnella, sul medio lungo periodo "la vigilanza dinamica darà anche più soddisfazioni agli agenti di Polizia penitenziaria che non vedranno il loro lavoro ridursi ad aprire e chiudere le celle". Le esperienze di carceri come Bollate, dove le celle restano aperte già da anni, insegnano poi che il tasso delle aggressioni si riduce con il tempo. Ma basta una rivolta scatenata per motivi legati alla situazione di degrado nelle carceri, per dire che la colpa è delle celle aperte. Arezzo: il direttore del carcere "lavori da ultimare, la struttura ancora in abbandono" di Claudia Failli www.arezzonotizie.it, 12 aprile 2015 Il direttore del carcere San Benedetto di Arezzo, Paolo Basco non ha dubbi circa la necessità di un intervento sostanziale all’edificio che attualmente ospita la casa circondariale. Ciclicamente, e anche gli ultimi mesi non fanno eccezioni, parlamentari, amministratori e consiglieri regionali hanno fatto visita alla struttura penitenziaria aretina. Tutti hanno sempre sottolineato la necessità di trovare delle soluzioni efficaci per riqualificare l’edificio. Ma al momento, ben poco è cambiato. “Attualmente ospitiamo circa 600 detenuti - spiega il direttore Basco - la maggior parte sono solo di passaggio e non restano molto tempo ad Arezzo. Una trentina circa invece devono scontare pene più lunghe e con loro abbiamo intrapreso un percorso ormai consolidato di recupero pedagogico e sociale. Resta però evidente il problema delle strutture che attualmente non sono in grado di garantire un servizio funzionale. Sarebbe auspicabile che le visite che riceviamo in carcere possano trovare anche risvolti pratici. Riuscire a sbloccare questa situazione permetterebbe alle forze di polizia, alla magistratura e quindi anche alla collettività, di poter contare su un servizio funzionante al cento per cento”. Lo scorso febbraio, la casa circondariale è stata visitata anche dal garante dei detenuti della Regione Toscana, Franco Corleone. Anche in quella occasione venne evidenziato il problema dell’abbandono dei lavori. “Rivolgo un appello al prossimo sindaco di Arezzo, alle amministrazioni e a tutti i politici - conclude il direttore Basco - affinché ognuno si occupi di questa situazione e possano insieme trovare delle soluzioni efficaci”. Sassari: aggressione in carcere, agente penitenziario colpito a un occhio L'Unione Sarda, 12 aprile 2015 Una contusione all'occhio e il trasporto al pronto soccorso. È il bilancio di un'aggressione subita da un agente della Polizia penitenziaria, in servizio nel carcere di Bancali, da parte di un detenuto marocchino. A dare la notizia i sindacati di Polizia Osapp e Sappe. "Continuando di questo passo - afferma il segretario generale aggiunto dell'Osapp Domenico Nicotra - lo stato di diritto verrà garantito solo a malviventi, clandestini e pregiudicati mentre per i tutori dell'ordine si potrà parlare solo di stato di dovere. È necessario che tutti gli organi politici, di maggioranza e non, si fermino un attimo per ritrovare il bandolo della matassa perché diversamente senza ordine e sicurezza pubblica e penitenziaria non si potrà assicurare l'incolumità di ogni singolo cittadino". Dello stesso avviso il segretario generale del Sappe Donato Capece. "Ai colleghi feriti va la nostra vicinanza e solidarietà, ma servono ora risposte certe: il Parlamento si appresta a varare il reato di tortura nel nostro Paese, però dimentica che sono centinaia e centinaia le aggressioni a poliziotti penitenziari che si registrano ogni anno nelle carceri italiane". Sanremo: Sappe; detenuto demolisce una stanza ospedaliera, tragico episodio Ansa, 12 aprile 2015 Il Sappe comunica l'ennesimo evento drammatico avvenuto, questa volta, nell'ospedale di Imperia dove era stato ricoverato un detenuto italiano, ristretto presso la C.C. di Sanremo, con palesi problemi psichiatrici. La segreteria regionale del Sappe riferisce che il detenuto era collocato nella stanza riservata al ricovero detenuti. Improvvisamente il detenuto è andato in escandescenza iniziando a demolire tutto ciò che aveva a portata di mano. Vani i tentativi dei due agenti per ricondurlo alla ragione. Ma il fatto grave, al quale il Sappe ligure evidenzia particolare senso di protesta in quanto il detenuto, noto proprio per sua particolare aggressività non è stato trattato con la dovuta cautela dai vertici dell'istituto di Sanremo, è che il detenuto avrebbe potuto darsi alla fuga perché si era procurato una rudimentale arma ricavata dai cocci di vetro della finestra minacciando i 2 poliziotti penitenziari, il tutto tra il panico dei pazienti e parenti del Reparto che si sono chiusi nelle stanze. I poliziotti di turno hanno richiesto unità di rinforzo dall'istituto di Imperia e, insieme all'ausilio del personale ospedaliero, sono riusciti a sedarlo e, successivamente, contenzionarlo in un'altra stanza dell'ospedale, purtroppo in comune con altri pazienti. La segreteria regionale del Sappe, reputa assurdo che un soggetto particolarmente pericoloso già noto perché protagonista di analoghi episodi anche in altri istituti, la direzione ed il comandante della sicurezza lo abbiano trattato come un detenuto comune, quindi il personale di scorta non aveva a disposizione nessuna dotazione di sicurezza. Secondo il Sappe, è una gravissima disattenzione. Questo episodio ha avuto un elevato indice di pericolosità in quanto avvenuto in un ambiente pubblico. L'epilogo negativo è stato evitato solo grazie alla ormai acclamata professionalità e tenacia del personale. Per questo è necessario se non indispensabile che i vertici dell'istituto siano avvicendati perché non più nelle condizioni di gestirlo ma - continua il Sappe - ci meraviglia il silenzio del Ministero e del Provveditorato ligure che, per motivi di efficienza e di attenzione alle note problematiche di Imperia e Sanremo, sarebbe già dovuto intervenire. Alghero: detenuti, studenti e disabili… coltiviamo l'integrazione rispettando l'ambiente www.sardegnalive.net, 12 aprile 2015 Studenti della scuola media, diversamente abili e detenuti sperimenteranno per 2 mesi la vita nell'orto. L'Associazione Regionale Florovivaisti "Corallo Verde" dà il via ad "Alghero Verde Sociale: Coltiviamo l'integrazione rispettando l'ambiente". A seguito del successo di "Alghero Verde Scuola", laboratorio didattico rivolto ai ragazzi delle scuole medie, Corallo Verde ha ampliato il suo progetto allargandone anche la "mission". È nata cosi un'importante partnership con la Casa di Reclusione Giuseppe Tomasiello guidata dalla direttrice Elisa Milanesi, l'Aps Gruppo Format e l'Istituto Comprensivo n°1, che durante quest'anno ha portato alla nascita di Alghero Verde Sociale. Una scommessa che coniuga l'amore per il territorio a quello per il prossimo. Studenti della scuola media, utenti diversamente abili e detenuti collaboreranno nell'orto didattico, sito a La Purissima, per due mesi, sperimentando successi e difficoltà del ciclo produttivo di frutta e ortaggi. Dalla semina al raccolto, ma anche mercato e filiera, i giovani agricoltori saranno guidati in un percorso formativo all'aria aperta. "Attraverso le lezioni didattiche negli ampi spazi de La Purissima e la vita nell'orto - spiega Giovanni Roma, presidente Corallo Verde - i gruppi contribuiranno a un obiettivo comune diventando un unica realtà. Cosi coltiveremo l'integrazione, recuperando contemporaneamente quel legame con la terra e con le tradizioni che si è sfilacciato negli ultimi decenni portando ad un abbandono della realtà agricola isolana - spiega Giovanni Roma. Il rapporto con la terra sta alla base di un rispetto delle diversità, la terra non guarda da chi viene coltivata, accetta e accoglie, ecco perché in Alghero Verde Sociale ci saranno i giovani della scuola primaria superiore ma anche i detenuti e i diversamente abili, uomini e donne, grandi e piccoli per un obiettivo comune". Tutti gli attori del progetto saranno guidati da professionisti. L'educatrice Isabella Nieddu e la pedagogista Anna Rita Manunta cureranno i rapporti con i detenuti per i quali Alghero Verde Sociale è un'importante occasione di formazione professionale che contribuirà a far acquisire nuove competenze spendibili nel mondo del lavoro e permetterà ai due giovani di diventare attivi protagonisti del proprio percorso di riscatto sociale. I diversamente abili lavoreranno guidati dall'Aps Gruppo Format che supporterà gli utenti nello sviluppo di abilità sociali, quali l'attenzione per l'altro e per i suoi bisogni, il rispetto dei tempi legati al ciclo produttivo, lo sviluppo delle capacità organizzative, il rispetto dei ruoli, l'impegno e l'integrazione. Il gruppo di diversamente abili sarà composto da circa 15 persone, parte delle quali fanno parte dell'associazione Pensiero Felice che ha sposato il progetto proposto. Gli studenti della 2^ D dell'Istituto Comprensivo n°1, guidata dal docente Fulgenzio Piras, seguiranno l'intera filiera produttiva supportando detenuti e disabili nel lavoro sul campo. Settimanalmente verranno annotati i progressi degli ortaggi e della frutta piantumata e nelle lezioni didattiche comuni si approfondiranno i temi legati al ciclo di vita delle piante, le tipologie di semina e coltivazione e le differenti modalità di raccolta. Confezionamento, tracciabilità e vendita chiuderanno il percorso formativo e nel mese di giugno il gruppo di lavoro sarà ospitato negli spazi della Conad per proporre gli ortaggi e la frutta raccolti. Alghero Verde Sociale si concluderà a fine luglio, ma fino ad allora l'orto potrà e esser visitato tutti i pomeriggi quale simbolo di integrazione e amore per l'ambiente. Genova: "Angeli con la pistola", l'autoironia degli attori detenuti di Silvana Zanovello Secolo XIX, 12 aprile 2015 L'ottimismo americano del New Deal, riproposto ad Hollywood negli anni Sessanta, una favola metropolitana di Frank Capra, concepita all'insegna dell'ottimismo, "Angeli con la pistola" approda a teatro, alla Tosse fino al 15 e la prossima estate, il 20 e 21 luglio al festival di Borgio Verezzi in un a versione "naturalmente" velata di autoironia ma interpretata con molta convinzione. A portarla in scena sono infatti "Gli scatenati "compagnia di detenuti che operano da una decina d'anni nel carcere di Marassi dove da qualche mese hanno anche ultimato l'allestimento di una sede stabile "Il teatro dell'Arca" ma che, sotto la sorveglianza attenta e discreta della polizia penitenziaria, non perdono l'occasione di andare in tournée. Certamente è difficile, per lo spettatore esterno scindere il valore puramente artistico dell'esperienza da finalità di recupero psicologico o professionale di chi vi partecipa. Ma in questo caso alcuni elementi fondamentali contribuiscono alla piacevolezza, al di là della pedagogia. Ben scelto, per fruizione più ampia, il tema, riproposto in forma di musical. Favola, senza dubbio, anzi con il dubbio calcolato che si tratti di una situazione impossibile. Ma va bene cosi. Nella New York del proibizionismo un gangster di buon cuore recluta colleghi di grande e piccola taglia e ballerine per aiutare la barbona Annie a sostenere l'incontro con il futuro genero, figlio di un nobile spagnolo, che la crede una signora dell'alta società. Nessuna "rilettura" le immagini sullo sfondo alla Lichtenstein, realizzate nel laboratorio di grafica del carcere, citano affettuosamente il film con richiami impliciti a quella poetica del cartoon che , all'epoca, avvicinava Capra a Disney. Le musiche di Bruno Coli, la regia esperta di Sandro Baldacci e la presenza di alcuni attori professionisti, Federica Granata, Mariella Speranza, Francesca Pedroni, Igor Chierici, Massimo Orsetti, aiutano tutti, compreso un cinese con la vocazione per la comicità e il cabaret, a trovare ritmo. Applausi per un'esperienza che cresce stagione dopo stagione. Padova: fornitore della coop Giotto tenta di entrare al Due Palazzi con cinque sim card di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 12 aprile 2015 Fermato all'entrata un fornitore della cooperativa Giotto: "Le avevo dimenticate". È stato denunciato. Carcere colabrodo. Stavolta, però, i controlli hanno funzionato. Un fornitore della cooperativa Giotto è stato bloccato con cinque sim card in tasca. "Sono per uso personale... Le avevo dimenticate" si è giustificato con gli agenti addetti a monitorare con attenzione ogni accesso nella struttura penitenziaria del Due Palazzi, il grattacielo dove sono ospitati, in media, oltre 850 detenuti condannati in via definitiva. È accaduto nel primo pomeriggio di venerdì quando l'uomo, un lavoratore esterno che garantisce materiale e prodotti alla coop specializzata nella pasticceria di alta qualità, stava entrando nell'area del carcere alla guida del suo furgoncino. Come tante altre volte. È da circa un anno che rifornisce la cooperativa. Ieri, quando si è presentato ai cancelli, le guardie di turno hanno controllato il mezzo. Poi un agente lo ha invitato a scendere dall'abitacolo e a lasciare in guardiola il cellulare e qualsiasi altro apparecchio tecnologico strumentale ad avviare contatti con l'esterno. Tuttavia, prima di farlo risalire a bordo, l'agente ha fatto scivolare il metal detector sugli abiti dell'autista. E l'allarme è scattato. Tasche svuotate all'istante. E sono spuntate le cinque sim card, che, inserite in un cellulare qualsiasi, consentono di telefonare o di ricevere chiamate. Subito l'uomo è stato accompagnato nell'ufficio comando e la denunciata trasmessa in procura. Nel carcere continua a entrare di tutto? È probabile che la vicenda sia destinata a ingrossare gli ormai numerosi fascicoli che compongono l'inchiesta sul Due Palazzi-colabrodo, il cui filone principale è decollato il 7 luglio 2014 con l'arresto degli agenti Pietro Rega e Luca Bellino, finiti in carcere, mentre agli arresti domiciliari furono destinati i colleghi Roberto Di Profio, Paolo Giordano che si suicidò un mese più tardi, Giandonato Laterza e Angelo Raffaele Telesca. Agenti che, in cambio di droga e soldi, a loro volta procuravano ai detenuti stupefacenti, sim card e cellulari con un occhio di riguardo per alcuni boss della sacra corona unita. Con loro risultano imputati altri 18 detenuti e sette persone tra parenti e amici: per tutti l'udienza preliminare è fissata per il 15 maggio prossimo quando il Gup deciderà se mandarli a processo o ammettere a riti alternativi chi lo ha richiesto. Giampietro Pegoraro, responsabile per il Veneto di Cgil Fp-Polizia penitenziaria commenta: "La parte sana della polizia penitenziaria è venuta a galla. Il che evidenzia che la gran parte degli agenti operano con impegno e serietà". Messina: a Barcellona Pozzo di Gotto si è svolto un convegno sulla chiusura degli Opg Adnkronos, 12 aprile 2015 Messaggio del ministro Orlando, ospedali psichiatrici appartengono al passato. "Il manicomio e il monte Sinai.... il malato di mente autore di reato tra politiche sicuritarie e reinserimento sociale", è il titolo del convegno che si è chiuso ieri presso l'Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, promosso dalla direzione dell'Opg locale, in collaborazione con la presidenza del tribunale di sorveglianza di Messina. A fare il punto sul passaggio dagli Opg alle Rems (residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria), sono stati magistrati, giuristi, psichiatri ed esperti. Due giorni di discussione, analisi e approfondimento che hanno verificato il crono programma che in pochi mesi concluderà il piano delle dimissioni dei pazienti dalla struttura siciliana che passeranno nelle Rems: nell'isola è già attiva la struttura di Naso e a breve sarà utilizzabile quella di Caltagirone. Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha inviato un messaggio che è stato letto in apertura dei lavori dal Capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo. "Oggi possiamo finalmente dire - si legge nel testo - che tali realtà appartengono al passato del nostro sistema della tutela della salute e del nostro sistema dell'esecuzione penale. Soprattutto si è fatto un passo importante affermando in modo netto il principio della prevalenza della necessità di cura per le persone non imputabili". Il Ministro ha quindi evidenziato in maniera netta che con la chiusura degli Opg "non vi saranno i pur evocati rischi per la sicurezza collettiva, gli internati più pericolosi verranno ospitati in strutture più idonee per la cura; ma alla cura sarà associato l'elemento della garanzia della sicurezza per la collettività". Avellino: un detenuto di Ariano minaccia di darsi fuoco e poi si scaglia contro gli agenti di Gianni Vigoroso www.ottopagine.it, 12 aprile 2015 Presso la Casa Circondariale di Ariano Irpino si è assistito all'ennesima aggressione ai danni del Personale di Polizia Penitenziaria in servizio presso l'Istituto Arianese, a darne notizia è il Delegato Regionale Ettore Sommariva, l'ultimo episodio, risale al pomeriggio di ieri, quando un detenuto, dopo aver minacciato il personale in servizio di sorveglianza, si è barricato all'interno della stanza minacciando di darsi fuoco in caso di intervento da parte degli agenti. "Dopo una lunga ed estenuante trattativa, si è proceduto a un intervento coatto ma il detenuto si è scagliato contro i due agenti intervenuti, costringendo successivamente a ricorrere alle cure mediche presso l'Ospedale Civile "Frangipane" di Ariano Irpino. Sono stati medicati e ritenuti guaribili in sette giorni. "Un altro aspetto da non sottovalutare - ha aggiunto Sommariva - e la grave e cronica carenza di organico nell'istituto arianese, che costringe il personale a dover svolgere il proprio turno, coprendo più posti di servizio e ai minimi standard di sicurezza, mettendo a serio rischio la propria incolumità personale, tanto è vero che nella serata di ieri, non vi erano agenti disponibili a poter intervenire e garantire che l'Operazione fosse svolta in sicurezza. Ormai quotidianamente assistiamo a questi episodi che vedono vittime chi svolge umilmente e silenziosamente il proprio servizio per contribuire a garantire la Sicurezza al nostro Paese". Novara: i detenuti, coordinati da Società Assa, tinteggiano la scuola primaria "G. Rodari" Corriere di Novara, 12 aprile 2015 Al ritorno dalle vacanze pasquali gli alunni della primaria "Gianni Rodari" di via Cavigioli hanno trovato una piacevole sorpresa anche a scuola. Ad accoglierli non solo i sorrisi delle insegnanti, ma anche aule, corridoi, spazi comuni e bagni del secondo piano rimessi a nuovo, completamente ritinteggiati grazie al lavoro svolto dai detenuti della Casa Circondariale di via Sforzesca, accompagnati dagli agenti della Polizia Penitenziaria, coordinati e supportati da Assa, impiegando il materiale necessario acquistato dal Comune di Novara ed esprimendo la loro contentezza per aver potuto contribuire a migliorare gli ambienti scolastici anche scrivendo sulle lavagne messaggi di saluto e augurio per i bambini. L'attività si è svolta dal 2 al 7 aprile nell'ambito delle "Giornate di recupero ambientale", protocollo che vede coinvolti Comune di Novara, Magistratura di Sorveglianza, Casa Circondariale, Ufficio esecuzioni penali esterne e Assa e che prevede l'impiego dei detenuti per lavori di pulizia e riordino di aree e strutture pubbliche. "Sono molto soddisfatto dei risultati dell'iniziativa che Assa ha promosso lo scorso anno e che sta consentendo la realizzazione di importanti opere per la comunità", sottolinea il presidente di Assa, Marcello Marzo. Nella giornata di conclusione dei lavori hanno fatto un sopralluogo il vicesindaco Nicola Fonzo e l'assessore Elia Impaloni. Il sindaco Andrea Ballarè ha ribadito il grande valore di questo tipo di iniziativa "che - ha detto - vogliamo riproporre e potenziare". Ai ragazzi la coordinatrice del plesso, Cristina Staurenghi, e tutte le insegnanti hanno illustrato la valenza del progetto di cui ha potuto beneficiare la loro scuola e che unisce al lavoro di pubblica utilità come occasione di riscatto per i detenuti, il beneficio per la collettività che in questo caso è direttamente apprezzato dagli alunni e da tutte le loro famiglie oltre che dalle insegnanti e da tutto il personale della Rodari. Un giudizio positivo lo ha espresso anche la Dirigente Scolastica dell'Istituto Comprensivo "Fornara Ossola", Fabia Scaglione, soddisfatta del lavoro svolto che ha seguito anche con sopralluoghi. Allo stabile di Via Cavigioli sono stati fatti dal Comune, edilizia scolastica, anche altri lavori di manutenzione, quali la verniciatura della recinzione, la sistemazione dell'area verde e la realizzazione del canale di scolo. "Ci auguriamo - commenta la dirigente scolastica - che gli interventi vengano completati, come previsto, alla chiusura dell'anno scolastico, quando si proseguirà con la tinteggiatura di aule, laboratori, spazi comuni e bagni di primo piano e seminterrato. L'anno prossimo speriamo in un intervento per la Scuola secondaria di primo grado, magari sempre tramite questo progetto che è molto utile alla collettività e che persegue il reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti". La scuola Rodari ha anche aderito all'attività promossa dalla Commissione di Rete per l'Educazione Ambientale e Assa ha tenuto gli incontri di educazione alla sostenibilità ambientale, quest'anno collegati alla sostenibilità dell'alimentazione quale tema conduttore di Expo 2015, alle classi 2A, 2B, 3B, 4A, 5A. Alessandria: detenuto tenta fuga dopo il trasferimento in pullman, bloccato da un agente La Stampa, 12 aprile 2015 Denuncia del Sappe: un marocchino di 35 anni, durante le operazioni di consegna degli oggetti personali per l' ingresso nel penitenziario, si è svincolato dalla scorta. La polizia penitenziaria del carcere di Alessandria ha sventato un tentativo di evasione da parte di un detenuto marocchino di 35 anni che "durante le operazioni di consegna degli oggetti personali per il suo ingresso nel penitenziario, si è svincolato dalla scorta e ha tentato di fuggire. Solo dopo alcune centinaia di metri, grazie alla professionalità del personale è stato bloccato e condotto in carcere". A darne notizia è il Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria. "Alle 15,40 circa - spiega il segretario Donato Capece in una nota - è giunto dinanzi all'ingresso dell'istituto di piazza Don Soria di Alessandria, un pullman della polizia penitenziaria proveniente dal carcere di Asti. A bordo dell'autobus, c'erano molti detenuti", tra i quali il protagonista della tentata evasione. Pena di morte: s'impicca in Pakistan, in India e negli Usa si "perfeziona" la camera a gas La Repubblica, 12 aprile 2015 Dalla periodica nota di "Nessuno tocchi Caino", l'Ong italiana affiliata al Partito Radicale Transnazionale, che si batte da sempre per l'attuazione della moratoria universale della pena di morte e la lotta contro la tortura, si apprendono notizie legate alla pratica delle condanne e delle esecuzioni capitali in atto in tutto il mondo. Eccone qui di seguito una breve sintesi. Pakistan Altri cinque impiccati. Cinque prigionieri sono stati impiccati in Pakistan, portando cosi a 69 il numero delle esecuzioni da quando sono riprese nel dicembre 2014. Il 7 aprile Jafar alias Kali è stato giustiziato nel carcere di Sahiwal. Era stato condannato nel 2000 per aver ucciso due fratelli, Khalil e Sadia, per una disputa sulla terra nel 1997. Sempre il 7 aprile, Tayyab Ghulam Nabi, è stato impiccato nel carcere di Kot Lakhpat a Lahore. Era stato condannato da un tribunale distrettuale a Toba Tek Singh per aver ucciso Abrar durante una rissa nel 2002. Le loro istanze di revisione erano state respinte dai tribunali di appello, mentre quelle alla clemenza sono state rigettate dal Presidente del Pakistan. Ancora il 7 aprile, un detenuto del braccio della morte identificato come Sikander, è stato impiccato nel carcere centrale di Bahawalpur. Era condannato da una corte marziale, dopo essere stato riconosciuto colpevole di aver ucciso un collega a Rawalpindi nel 2002. L'8 aprile è stato giustiziato nel carcere Machh Ameer Hamza, che era stato condannato a morte da un tribunale anti-terrorismo a Sibi nel 2004, dopo essere stato riconosciuto colpevole di aver ucciso un uomo a Harnai nel corso di una disputa minore nel 1995. Il suo appello alla clemenza era stato respinto dal Presidente Mamnoon Hussain il 30 marzo. Hamza sarebbe il primo prigioniero a essere impiccato nel Balochistan negli ultimi sette anni. Il 9 aprile un altro condannato per omicidio è stato giustiziato nel carcere di Adiala a Rawalpindi. Raja Mushtaq Ahmed era stato trovato colpevole di duplice omicidio. India Tre condannati all'impiccagione per stupro. Un tribunale indiano ha condannato all'impiccagione tre uomini in relazione allo stupro di un fotoreporter, avvenuto lo scorso anno all'interno di una filanda abbandonata a Mumbai. Un quarto imputato è stato condannato al carcere a vita, ha detto il procuratore Ujjwal Nikam all'agenzia di stampa Reuters. Il procuratore ha detto di aver chiesto la condanna a morte ai sensi della severa legge anti-stupro introdotta sulla scia dell'indignazione pubblica per uno stupro di gruppo letale avvenuto a New Delhi nel 2012. "Questo è il primo caso in India in cui la pena di morte è stata data agli imputati pur essendo rimasta viva la vittima", ha detto Nikam. "Un messaggio forte alla società". In un altro caso, gli stessi tre uomini erano stati giudicati colpevoli lo scorso mese di aver violentato un operatore di call-center nello stesso mulino abbandonato nel luglio 2013, alcuni mesi prima dell'aggressione al fotogiornalista. Nikam ha descritto i tre come delinquenti abituali. Per il giudice Shalini Phansalkar-Joshi il crimine era di natura diabolica e la punizione invierà un messaggio forte alla società. Oklahoma (Usa) Il Parlamento approva la camera a gas. Il Senato ha approvato l'uso dell'azoto come metodo di riserva per compiere le esecuzioni. La Camera aveva approvato lo stesso ddl il 3 marzo scorso. La legge va ora alla firma della governatrice Mary Fallin, Repubblicana, che non ha ancora preso una posizione pubblica su questa norma. L'azoto è il gas inerte, di per sé non velenoso, che compone per il 79% l'aria che respiriamo, assieme al 21% di ossigeno. Una camera a gas che venisse riempita di azoto provocherebbe la morte non per "avvelenamento", come avveniva nelle vecchie camere a gas che utilizzavano il cianuro, ma per asfissia per totale mancanza di ossigeno. Ma il metodo primario resta l'iniezione. Il ddl prevede che il metodo di esecuzione primario rimanga l'iniezione letale, ma nel caso tale metodo venisse dichiarato incostituzionale, o risultasse impossibile reperire i farmaci letali, il metodo "di riserva" sarebbe l'utilizzo della camera a gas ad azoto. Attualmente il metodo di riserva è la sedia elettrica, seguita dalla fucilazione. Questi metodi passerebbero rispettivamente al 3° e 4° posto. Questo ddl è stato presentato dal deputato repubblicano Mike Christian. Texas (Usa) Giustiziato Kent Sprouse. Kent Sprouse, 42 anni, bianco, è stato giustiziato in Texas. Era accusato di aver ucciso, il 6 ottobre 2002, durante una rapina in un negozio, l'agente di polizia Harry Steinfeldt, e Pedro Moreno, un passante scambiato per un poliziotto in borghese. Venne condannato a morte il 1° marzo 2004 per la morte del poliziotto, non è mai stato processato per il secondo omicidio. I suoi difensori non avevano presentato i tradizionali "appelli dell'ultima ora". L'esecuzione è avvenuta apparentemente senza problemi, con una overdose di Pentobarbital. Sprouse diventa il 5° giustiziato di quest'anno in Texas, il 523° da quando il Texas ha ripreso le esecuzioni nel 1982, l'11° dell'anno negli Usa, e il n° 1405 da quando gli Usa hanno ripreso le esecuzioni nel 1977. Egitto: condannati a morte per terrorismo 14 Fratelli musulmani, fra cui la guida suprema Nova, 12 aprile 2015 Quattordici membri dei Fratelli musulmani, fra cui la guida suprema Mohamed Badea, sono stati condannati a morte da un tribunale egiziano con l'accusa di aver organizzato un gruppo terroristico. La sentenza è sospesa, come vuole la legge in Egitto, fino all'assenso da parte dell'autorità religiosa. Nello stesso processo, altri 37 membri della Fratellanza sono stati condannati al carcere a vita. L'ergastolo è stato comminato anche a Mohamed Sultan, che avrebbe attuato uno sciopero della fame di 414 giorni, nel corso dei quali è stato mantenuto in vita con l'alimentazione forzata, per protestare contro la sua detenzione. È stato condannato a morte invece suo padre, Salah Sultan, noto predicatore e membro della Fratellanza. Secondo l'accusa, i condannati avrebbero organizzato un gruppo eversivo denominato "Sala operativa di Rabaa" l'anno scorso durante una manifestazione di protesta a sostegno del deposto presidente islamista Mohamed Morsi. Il gruppo si prefiggeva di attaccare sedi della polizia, strutture statali e chiese cristiane in tutto il paese e in particolare nell'Alto Egitto, dove oltre 70 luoghi di culto non islamici sono stati dati alle fiamme dopo la repressione da parte delle autorità egiziane delle proteste pro-Morsi. Stati Uniti: da carcerati a programmatori grazie al progetto The Last Mile di Marla Wilde www.videogiochi.com, 12 aprile 2015 A due passi dalla Silicon Valley e dalla città di San Francisco si trova uno dei carceri più popolari del Nord America, il San Quentin, ricordato da molti per essere diventato la dimora del famoso killer Charles Manson. Questo carcere si trova nello stato della California, secondo stato dopo il Texas per numero di detenuti. La percentuale di recidive in California è decisamente alta: ben il 65% dei prigionieri rilasciati commette altri crimini e torna in carcere entro tre anni. Mettendo da parte i pregiudizi è facile rendersi conto di quanto non sia facile uscire da un sistema complesso come quello della criminalità, soprattutto per soggetti che hanno passato tutta la loro vita in condizioni difficili. Molti detenuti non hanno avuto una famiglia stabile e nemmeno la possibilità di studiare o imparare un mestiere, ed è proprio questa una delle maggiori cause che portano a recidive. Per questo al San Quentin, qualche anno fa, è stato avviato un progetto sperimentale di rieducazione dei detenuti, in modo da fornire loro una solida base di lavoro che possano svolgere sia dall'interno sia dall'esterno del carcere. Molti dei detenuti del San Quentin non hanno familiarità con internet, un gran numero di loro non ha mai usato uno smartphone e non ha mai frequentato un social network… ma il programma di riabilitazione/educazione, chiamato The Last Mile e ideato dall'imprenditore Chris Redlitz, ha avuto un successo inaspettato. Kenyatta Leal, ad esempio, è stato condannato all'ergastolo negli anni ‘90 per essere stato fermato diverse volte in possesso di armi da fuoco. Leal è stato il primo laureato del programma The Last Mile, è carcerato dal 1994 e nel 2011 si è avvicinato al mondo dell'informatica, dopo essersi incuriosito parlando con alcuni familiari in visita. Kenyatta ha dichiarato: "Ero completamente perduto quando sono stato incarcerato. Non sapevo cosa stavo facendo, poi ho iniziato a sentir parlare di questa cosa chiamata Internet. I miei familiari in visita mi mostravano degli oggetti chiamati smartphone e parlavamo di Internet, io chiedevo Cos'è un blog? Cos'è Google? Cosa vuol dire twittare?, perché volevo sapere di più". Il programma al quale ha partecipato Leal è stato organizzato in via sperimentale selezionando 15 fra 200 detenuti per un periodo di 6 mesi di studio intensivo di business e informatica, con alcuni imprenditori della Silicon Valley, all'interno del carcere. Kenyatta non è l'unico della sua classe ad essersi fatto notare: Chris Schuhmacher è stato condannato all'ergastolo per omicidio (ha ucciso un amico che aveva rubato una cassa di marijuana dal suo appartamento circa 12 anni fa) e sta ora sviluppando una applicazione dedicata al fitness. Anche Schuhmacher ha completato il programma e si è laureato, cosi come Horatio Herts, che ha creato un business plan chiamato "The Healthy Hearts Foundation" e si concentra sull'aiutare gli americani con problemi di peso a tornare in forma. Kenyatta Leal ha invece sviluppato una versione live di Fantasy Football, che ha chiamato Coach Potato, che però non ha ancora pubblicato. L'uomo è stato rilasciato sulla parola nel 2013 e sta attualmente studiando per prendere la sua seconda laurea, questa volta in business management, il tutto mentre si prepara alla pubblicazione di Coach Potato e si impegna per espandere il programma The Last Mile. Le critiche al programma sono state numerose, ma i prigionieri non si sono scoraggiati: essere in carcere non vuol dire necessariamente essere del tutto isolati dal mondo e nemmeno non poter sperare di cambiare la propria vita. I carcerati come Kenyatta Leal rappresentano le innumerevoli possibilità che un uomo può cogliere nel corso della sua vita, ricordando a tutti i prigionieri (soprattutto a quelli giovani che hanno commesso reati minori) che con l'impegno si può davvero cambiare qualcosa e che bisogna avere fiducia nelle proprie capacità. Sul programma è stato anche realizzato un documentario, diretto da Ondi Timoner e creato in collaborazione con la rivista Wired. Rachel Samuels, Executive Producer, ha dichiarato: "Penso che questo sia un passo importante. Kenyatta, per esempio, è una delle persone più entusiasmanti che abbia mai incontrato. Ti fa pensare: se lui è stato in grado di cambiare completamente la sua vita, quale scusa abbiamo tutti noi per non farlo?".