Le amnesie su giustizia e sicurezza di Luigi Ferrarella Il Corriere della Sera, 11 aprile 2015 Va bene tutto, ma la meraviglia no. Non dopo che a Velletri parenti e amici di tre condannati per violenza sessuale avevano messo a ferro e a fuoco l'aula di tribunale, costringendo i giudici ad asserragliarsi per ore in una stanza ad aspettare i rinforzi come a un check-point di marines dispersi in Somalia. Non dopo che a Reggio Emilia in una causa di divorzio un uomo aveva ucciso la moglie e il cognato, sparato all'avvocato della donna e ferito un poliziotto prima di essere abbattuto da un altro agente casualmente in corridoio. Non dopo che a San Donato Milanese nel contesto di un'altra conflittuale separazione un padre aveva ucciso il figlio di 9 anni davanti agli assistenti sociali dell'Asl e si era suicidato. E nemmeno dopo che l'anno scorso a Nocera Inferiore - tribunale che come molti altri è senza metal detector, senza guardie agli ingressi, senza grate alle finestre dei giudici al primo piano e senza filtro interno perché dentro c'è persino un parcheggio comunale - un'udienza di sfratto era finita con il brutale pestaggio (braccio fratturato e denti rotti) del padrone di casa sottratto alla furia dell'inquilino solo dalla fortuita presenza di un magistrato cintura nera di arti marziali. La differenza con la strage di Milano è forse che questi eclatanti 13 proiettili sembrano di colpo risvegliare dall'amnesia sul congiunto bisogno di giustizia e sicurezza, e proiettare sull'ingigantita sanguinosa scala di 3 morti e 2 feriti l'ombra di quanto i tribunali siano oggi la prima e più esposta trincea, la calamita e al contempo la valvola di sfogo di sempre più rabbiose tensioni sociali, esasperate rivendicazioni economiche, aspre conflittualità familiari, represse frustrazioni personali. Una miscela micidiale che, se trasforma in "nemici" simbolici i magistrati oggettivamente già bersaglio da parte di larghi strati della politica di quello "strisciante discredito" denunciato dal presidente della Repubblica, espone però al destino di capri espiatori anche gli avvocati che, proprio come nella commovente testimonianza della mamma del legale ucciso, tengono dritta la schiena deontologica e rifiutano di fare "la marionetta" del cliente. Sul piano del contenimento dei rischi entro fisiologiche e mai del tutto eliminabili percentuali di imprevedibilità, non sarebbe difficile individuare utili correttivi, a patto però di fare seguire alle parole i soldi per le dotazioni tecnologiche e i fatti per rimediare alla disfunzionale sovrapposizione di competenze: quella che in molti casi, come sui 30.000 metri quadrati dei 7 piani di Milano, vede un ministero proprietario (Economia), un ministero utilizzatore (Giustizia), un ministero attore della manutenzione straordinaria (Infrastrutture), e un ente pubblico (il Comune) chiamato a pagare la manutenzione ordinaria con spese che poi un ministero (Giustizia) rimborsa non di rado in ritardo. Altrimenti resterà illusorio inseguire la singola risolutiva "falla" in un sistema di controlli nel quale la "falla" si riveli uno dei buchi di un sistematico groviera: traforato negli anni dalla riduzione dei budget e dal conseguente subappalto a società di vigilanza privata (peraltro non sempre di cristallina affidabilità) o persino ad agenzie di semplice portierato, della responsabilità di un potere tipicamente pubblico come il controllo della sicurezza nei luoghi dove si amministra giustizia. Contenere l'eventuale paranoico tracimare della palude dell'odio dilagante e della rabbiosa rivalsa contro chi per conto dello Stato deve far pagare le tasse (come all'epoca dei pacchi bomba a Equitalia) o far rispettare le regole della convivenza (come nei tribunali), non basta però a bonificare questa palude. A togliere alibi alle esasperazioni e a bagnare le polveri della paranoia può forse in parte giovare anche rilegittimare lo strumento del processo (quello civile ancor più di quello penale) adeguandolo all'obiettivo per il quale ha senso: non solo distribuire torti e ragioni, ma (nel farlo) risolvere un problema in tempi accettabili e con percorsi comprensibili alle parti. Prima che a risolverlo fuori dalla giurisdizione sia il dispiegarsi dei rapporti di forza. La violenza che frantuma il racconto del progresso di Donatella Di Cesare Il Corriere della Sera, 11 aprile 2015 La violenza è entrata anche nelle aule di un tribunale - il luogo in cui alla violenza si dovrebbe porre riparo, la sede della giustizia. Un'arma è passata inosservata. Ancora una volta a cadere sono stati civili indifesi; tra questi un magistrato che attendeva al suo dovere. Odio, rabbia, risentimento, disperazione - la violenza ha motivazioni diverse e innumerevoli volti. Escogita nuovi orrori, si avvale di inventiva e astuzia, più spesso di quanto non si creda. Dato che per definizione non ha limiti, è in grado di assumere continuamente forme inedite. Occorre riconoscerlo: quel congedo progressivo dalla violenza, in cui molti avevano sperato, non è mai avvenuto. Una violenza endemica percorre le strade delle nostre città, travolge e scuote borghi isolati e piccoli comuni, imperversa tra le mura domestiche. Quella stessa violenza oltrepassa di nuovo il labile confine tra privato e pubblico, esplodendo con ferocia ovunque, anche nelle sedi istituzionali. Non c'è diritto né divieto che sembra poterla arginare. Fuori dai vecchi schemi ideologici, al di là perfino della criminalità convenzionale, la violenza di questi tempi non è tanto l'aggressione del fuorilegge, quanto la crudeltà di chi non conosce regole. A cominciare da quelle che dovrebbero reggere gli stessi rapporti umani. Perciò questa violenza fa apparire obsoleto ogni scontro regolato, che sia il duello di un tempo o la guerra tra eserciti. E infierisce sul più vicino, sul prossimo, su chi, per sorte, è a tiro. Così la violenza che viene da fuori ha più di un tratto in comune con quella che riemerge all'interno. E c'è da chiedersi quale sia alla fin fine più inquietante. In entrambi i casi si tende a parlare, come è accaduto spesso in questi giorni, di "follia", un'etichetta con cui si elude sbrigativamente la complessità. Forse perché la violenza che, nelle sue innumerevoli forme, è ormai protagonista delle cronache, mette in crisi il grande racconto del miglioramento, quel mito del progresso che appare sempre più una finzione. Giustizia: nessun attacco ai magistrati, le riforme vanno fatte di Beniamino Migliucci (Presidente Ucpi) Il Garantista, 11 aprile 2015 Speravamo di non dovere aggiungere altro di fronte a una tragedia quale quella verificatasi ieri nel Palazzo di Giustizia di Milano. L'omicida ha, infatti, espresso il suo sentimento di rabbia e di vendetta nei confronti di chi riteneva ingiustificatamente responsabile delle sue disavventure, ma ciò non ha nulla a che vedere con una asserita delegittimazione o con il discredito della magistratura. Speravamo di non dovere aggiungere altro di fronte a una tragedia quale quella verificatasi ieri nel Palazzo di Giustizia di Milano. Avevamo rilevato che si trattava di un dramma per il quale si doveva esprimere il più profondo cordoglio alle famiglie delle vittime e che colpiva avvocatura, magistratura e società nel suo complesso. Come bene ha detto il presidente della Corte di Appello di Milano, Giovanni Canzio, di fronte a episodi come questo occorre "misurare gesti e parole e non è il tempo per rivendicazioni corporative o sindacali". La gravità del fatto è chiara ed è attribuibile a una lucida follia, frutto forse della disperazione e di un disagio sociale, che spesso si interseca a un sofferenza di natura psicologica: in questo contesto, sul processo, civile o penale che sia, si scaricano tutte le tensioni e le aspettative sociali, il che rende più vulnerabili i suoi protagonisti, senza nessuna distinzione e, dunque, nel caso, evocare "un clima contro i giudici" è fuorviante e quantomeno inopportuno. L'omicida ha, infatti, espresso il suo sentimento di rabbia e vendetta nei confronti di chi riteneva ingiustificatamente responsabile delle sue disavventure, e ciò non ha nulla a che vedere con una asserita delegittimazione o con il discredito della magistratura. Ciò, a meno di non voler sostenere incomprensibilmente che introdurre le norme sulla responsabilità civile dei magistrati possa isolare o screditare l'istituzione. È compito della politica approvare leggi che regolino diritti, libertà e responsabilità di tutti, nessuno escluso. Il rispetto, dunque, si deve a tutti i soggetti della giurisdizione, magistrati e avvocati, e nel caso a tutti coloro i quali sono stati uccisi o feriti, senza distinzione per il ruolo o la funzione esercitata. Anche sulle misure di sicurezza nei tribunali va fatta una riflessione oggettiva e depurata da strumentalizzazioni determinate dalla circostanza che l'omicida fosse entrato dal varco dedicato agli avvocati senza un effettivo controllo. Si è subito affermato che le misure di controllo nei confronti degli avvocati non fossero adeguate e che nei confronti degli stessi dovessero essere effettuate in modo più approfondito. A riguardo è necessario chiarire che gli avvocati sono, al pari dei magistrati, soggetti della giurisdizione che concorrono all'amministrazione della giustizia e che, dunque, non sono ospiti in tribunale, meritano la stessa fiducia e devono sottoporsi agli stessi controlli cui vengono sottoposti magistrati e personale amministrativo. Ci si soffermi piuttosto sulla mancanza di risorse, sulle prassi diverse nei vari uffici giudiziari, sulla mancanza di strumentazione adeguata, di personale che possa garantire, per quanto possibile, l'incolumità di chi deve frequentare le aule di giustizia. Infine, oltre al cordoglio già espresso nei confronti di tutte le vittime, il ricordo di un giovane avvocato freddato a colpi di pistola esclusivamente per aver svolto la sua professione con dedizione, rispetto delle regole e amore per la toga: gli stessi che l'avvocato che assisterà l'omicida riserverà a chi ha commesso un crimine che ha suscitato un così profondo dolore. Allo stesso modo, i giudici che saranno chiamati a valutare la sua condotta, riserveranno nel processo lo stesso equilibrio che è insito nella loro funzione, valorizzando i principi di giustizia che costituiscono un patrimonio comune e fondamento di una società liberale e democratica. Giustizia: il 70% dei detenuti ha problemi di salute Il Garantista, 11 aprile 2015 Il 70% dei detenuti, circa 16 mila persone, nelle carceri di Toscana, Veneto, Lazio, Liguria, Umbria e negli istituti penitenziari dell'Azienda sanitaria di Salerno, è affetto da almeno una patologia: soprattutto disturbi psichici, malattie infettive e dell'apparato digerente. L'11,5% ha una patologia infettiva e parassitaria, l'epatite C costituisce la malattia infettiva più diffusa. Sempre il 70% è fumatore (contro il 23% della media della popolazione generale). Èla fotografia scattata dall'indagine che l'Agenzia regionale di Sanità (Ars) della Toscana condotta nel 2014 in collaborazione con il Servizio sanitario delle sei regioni coinvolte. L'indagine, finanziata dal Centro controllo malattie del ministero della Salute, ha verificato lo stato di salute della popolazione detenuta nelle carceri. I risultati saranno presentati oggi a Roma nel corso del convegno Salute e malattia dei detenuti in Italia: i risultati di uno studio multicentrico". Secondo il rapporto, i detenuti sono affetti soprattutto da disturbi di natura psichica: oltre il 40% è risultato essere affetto da almeno una patologia psichiatrica, con differenze notevoli a seconda della regione considerata. "Fra i disturbi psichici - precisa Fabio Voller, dirigente dell'Ars Toscana e coordinatore scientifico del progetto - prevalgono quelli da dipendenza da sostanze, diagnosticati nel 24% di tutto il campione e i disturbi nevrotici e di adattamento". Ai disturbi di salute mentale seguono per frequenza le malattie dell'apparato gastrointestinale, che si collocano al secondo posto per numero di diagnosi riscontrate, affliggendo il 14,5% degli arruolati. Si sottolinea come circa il 40% dei disturbi di questo grande gruppo di malattie sia costituito dalle patologie dei denti e del cavo orale, storicamente estremamente diffuse all'interno delle strutture penitenziarie e il 37,5% sia rappresentato da esofagiti, gastriti e ulcere gastro-duodenali, spesso legate allo stress anche all'utilizzo eccessivo di alcuni farmaci, come i Fans. Fra le malattie infettive e parassitarie, che colpiscono l'11,5% di tutti i detenuti sottoposti a visita, l'epatite C costituisce la malattia infettiva più diffusa all'interno delle strutture penitenziarie partecipanti al nostro studio, con una prevalenza del 7,4%, seguita da epatite B e Aids che colpiscono entrambe il 2% degli arruolati. "L'epatite C - commenta ancora Voller - è probabilmente legata alla tossicodipendenza, ed incredibilmente riguarda in misura maggiore i detenuti italiani. Ma questo potrebbe dipendere solo dalla maggiore reticenza degli stranieri a sottoporsi agli screening infettivologici". I tentativi di suicidio ed i gesti di autolesionismo rappresentano un'emergenza nel sistema carcerario italiano. Secondo quanto rilevato dai clinici, su 13.781 detenuti che presentavano questa informazione in cartella, 666 hanno messo in atto almeno un gesto autolesivo nel corso dell'ultimo anno di detenzione raggiungendo il valore complessivo di 4,5 atti ogni 100 detenuti. Spesso inoltre l'atto autolesivo è reiterato: mediamente infatti ogni detenuto ha compiuto questo gesto circa 2 volte. Secondo quanto rilevato dal nostro studio, il numero di detenuti che nel corso dell'ultimo anno di detenzione hanno tentato almeno una volta il suicidio è di 143 (l'1% del totale). Su tutti i detenuti ‘nuovi giunti da libertà, con o senza precedenti, che accedevano a 6 strutture detentive dal 3 febbraio al 3 giugno 2014, è stato effettuato uno screening, rappresentato da uno degli strumenti maggiormente utilizzati in questo ambito (scala di Blaauw). Nel caso di positività al test veniva applicato un protocollo specifico di prevenzione, con il coinvolgimento di una mini-équipe multidisciplinare integrata tra personale sanitario, del sociale e della giustizia. Circa il 53% dei nuovi giunti arruolati e sottoposti a valutazione per il rischio suicidio è risultato positivo: il 44% circa dei detenuti positivi alla scala di Blaauw presentava almeno una patologia e il 56% delle diagnosi rilevate era rappresentato dai disturbi psichici, soprattutto dal disturbo da dipendenza da sostanze. "Nel nostro campione - sottolinea Caterina Silvestri, ricercatrice dell'Ars Toscana - oggetto dell'intervento di prevenzione non si sono verificati tentati suicidi durante la rilevazione". Nello studio sono state coinvolte 6 strutture detentive per minori, per un totale di 6 detenuti minorenni (65% ragazzi e 35% ragazze). L'età media è stata 17 anni e il gruppo etnico più rappresentato quello dell'Europa dell'Est (45% circa, con una percentuale che sfiora l'80% per quanto riguarda le femmine). Il livello scolastico è risultato molto basso, con il 20% dei ragazzi che non ha conseguito alcun titolo di studio, suggerendo il fatto che questi minori sembrano sfuggire al controllo sociale, vivendo spesso in un grave stato di abbandono non solo familiare ma anche istituzionale. Circa il 40% del totale dei minori arruolati ha manifestato almeno una malattia, in particolar modo sono risultate essere maggiormente frequenti le patologie psichiatriche, coinvolgendo il 18,6% dei minorenni detenuti. Da sottolineare come si siano verificati 10 gesti autolesivi e 2 suicidi in questo gruppo: un fenomeno che evidenzia la necessità di intervenire, ancor più che nella popolazione detenuta adulta, con azioni volte a favorire il recupero sociale di questi soggetti. Giustizia: reato di tortura, l'Aula approva... con 14 anni di ritardo di Lorenzo Misuraca Il Garantista, 11 aprile 2015 Renzi tiene De Gennaro e spinge sul reato di tortura, e ottiene un risultato che fa ben sperare i tanti che aspettano da molti in Italia, soprattutto le vittime della macellerie del G8 e i familiari dei tanti casi Cucchi avvenuti. Attento com'è alla pancia del paese, dopo la notizia della sentenza della Corte di giustizia europea che ha definito tortura l'irruzione nella scuola Diaz durante il G8, Matteo Renzi prende nota delle difese di ufficio di tanti membri del suo partito e del suo governo nei confronti del capo di Finmeccanica e decide di puntare solo sull'introduzione del reato nell'ordinamento italiano. Montecitorio approva, con l'opposizione di Lega e Fratelli d'Italia, il testo che ora passa al Senato per il voto finale (a meno di ulteriori modifiche). Se approvato così com'è, il provvedimento inserisce nel codice penale la fattispecie di tortura che può essere commessa da chiunque, con un'aggravante quando i fatti sono commessi da un pubblico ufficiale, che rischia fino a 15 anni di carcere. Aggiunto nel codice penale anche il delitto di istigazione a commettere la tortura, reato proprio del pubblico ufficiale. Inoltre, vengono raddoppiati i termini di prescrizione per il delitto di tortura e - articolo che ha comportato molte polemiche da parte della Lega - "è vietato espellere o respingere gli immigrati quando si supponga che, nei Paesi di provenienza, siano sottoposti a tortura". Che la giornata sarebbe stata campale si era capito dalle parole del premier, secondo cui il G8 di Genova "è stato una pagina nera nella storia del nostro Paese", a cui ha aggiunto: "Conosco bene la vicenda per motivi personali, per il racconto di alcuni scout che erano lì e per un amico che ha rischiato di perdere un occhio. Ma se vogliamo affrontare questa pagina seriamente - continua - guardando al futuro la cosa più logica è introdurre il prima possibile il reato di tortura. Credo che nessuno debba avere paura dell'introduzione del reato di tortura". L'esame degli emendamenti al disegno di legge sull'introduzione del reato di tortura nell'ordinamento italiano si era svolto in un clima di opposte barricate. Mentre il Movimento 5 Stelle ha insistito per modificare abbondantemente il testo, e Sel, pur avendolo ritenuto insufficiente ha spinto per la sua approvazione, l'atteggiamento di chiusura è arrivato dalle forze di centrodestra, che rappresentano tradizionalmente l'area di riferimento elettorale delle forze dell'ordine. "Il reato di tortura è l'ennesimo regalo ai ladri e l'ennesimo attacco alle guardie - sostiene il segretario del Carroccio, Matteo Salvini in trasmissione da Belpietro. La Lega è l'unica contraria. Con questo reato basterà che qualunque delinquente appena arrestato denunci il poliziotto o il carabiniere anche per una violenza "psicologica", e il poliziotto o il carabiniere passano i guai", e non va per il sottile: "Io chiuderei la Corte di Strasburgo, non serve a nulla, la paghiamo noi per sentenze idiote una dopo l'altra". Salvini viene scavalcato in tutela dei diritti anche da un sindacato di polizia: "L'introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento è non solo un obbligo di diritto internazionale, ma anche un dovere di civiltà" dice Daniele Tissone, segretario del Silp Cgil. Più articolata la posizione di Forza Italia e di Ncd, che presentano emendamenti per limitare l'uso del reato a fattispecie in cui la sofferenza sia legata sempre alla lesione. Da parte dei grillini e di Sel si spinge affinché la nuova norma non valga solo nel caso in cui il soggetto torturato sia stato affidato alla tutela dell'ufficiale: in questo modo si produrrebbe il paradosso di approvare un reato di tortura sulla spinta di una sentenza europea sui fatti della Diaz, che una volta legge non punirebbe come tortura fatti come quelli della stessa Diaz: qui infatti i ragazzi massacrati stavano semplicemente dormendo, senza essere sotto tutela della polizia. Richiesta inascoltata, come quella dei vendoliani di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta che "spieghi perché, ad esempio, molti dei funzionari di Polizia che dovevano garantire l'ordine e la sicurezza - anche dei cittadini che parteciparono alle manifestazioni - si sono macchiati del reato di tortura, sanzionato ieri l'altro da una sentenza della Corte Europea di Giustizia, ma sono ancora in servizio e in diversi casi, sono stati addirittura promossi". Cittadinanzattiva: un importante passo in avanti, anche se con evidenti limiti nel testo "La nostra organizzazione si è impegnata nella battaglia per l'introduzione del reato di tortura nell'ordinamento nazionale, perché siamo convinti che il terreno della protezione dei diritti umani sia patrimonio di tutti i cittadini. Certo, il testo approvato è abbastanza lontano da quanto auspicato e presenta forti limiti, da quelli legati alla configurazione della tortura come reato comune e non come reato proprio - seppure con un'aggravante quando il fatto è commesso da pubblico ufficiale - alla necessità, alquanto pleonastica e quindi foriera di difficoltà di applicazione, che la sofferenza inflitta sia "ulteriore rispetto all'esecuzione delle legittime misure privative o limitative dei diritti", alla limitazione dell'ambito di applicazione del reato ai soli casi in cui la vittima è affidata o sottoposta all'autorità dell'agente", ad affermarlo Laura Liberto, coordinatrice nazionale di Giustizia per i diritti-Cittadinanzattiva. "D'altro canto, nel corso degli ultimi vent'anni, si sono succeduti numerosi tentativi di introdurre il reato, sistematicamente sfumati anche a causa di resistenze e timori di parte consistente della politica e dei puntuali tentativi di ideologizzare strumentalmente un tema che riguarda semplicemente la tutela dei diritti umani e l'esistenza civile di tutti. Ciò considerato, l'approvazione della proposta di legge da parte della Camera rappresenta comunque un passo concreto per colmare una gravissima lacuna nel nostro ordinamento e sopperire ad un ritardo di più di un quarto di secolo sull'adempimento degli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la ratifica della Convenzione Onu contro la tortura. Il nostro impegno naturalmente prosegue, continueremo a monitorare l'iter parlamentare e ad adoperarci affinché sia definitivamente portato a compimento nel corso di questa legislatura". Giustizia: il grido dei magistrati "lasciati soli" di Luca Fazio Il Manifesto, 11 aprile 2015 Il giorno dopo la strage compiuta da Claudio Giardiello, assemblea straordinaria dell'Anm al Tribunale di Milano. Per il presidente Rodolfo Sabelli "occorre richiamare tutti al diffuso rispetto verso la giustizia". L'omicida, che giovedì ha ucciso tre persone tra cui un giudice, verrà interrogato questa mattina nel carcere di Monza. Anche i magistrati sanno che non c'è alcun rapporto diretto tra la follia omicida di Claudio Giardiello e quel malessere diffuso che gli uomini di legge hanno ugualmente voluto esprimere durante l'assemblea straordinaria dell'Anm di ieri mattina al Tribunale di Milano. Però quegli spari, i tre morti e quell'improvviso senso di vulnerabilità in uno dei luoghi più rappresentativi della politica italiana non possono non assumere una forte valenza simbolica, al di là del pur drammatico fatto di cronaca. Da più di venti anni quel palazzo cerca di fare da filtro depuratore di una politica che sembrava sul punto di cambiare e invece non è cambiata. La storia, le cronache quotidiane, dicono che la battaglia è stata persa. Deve essere per questo che oggi i magistrati dicono di sentirsi abbandonati. Ovviamente, visto il dramma dell'altro giorno, anche per via della scarsa sicurezza dei luoghi dove lavorano. Sono amareggiati, parlano di clima sfavorevole. "I magistrati non possono essere lasciati soli, bisogna esprimere un sostegno concreto alla magistratura per il lavoro che fa per la giustizia del paese", ha detto il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. L'assemblea dell'Associazione nazionale magistrati si è aperta con un lunghissimo applauso per il giudice Fernando Ciampi e per le altre due vittime della strage, il socio in affari dell'omicida Giorgio Erba e il giovane avvocato Alberto Claris Appiani. Rodolfo Sabelli, presidente di Anm, è stato il più esplicito: "Siamo qui per chiedere rispetto". Per Sabelli, questa strage "ha un valore simbolico, troppe tensioni e troppa rabbia si raccolgono sulla giustizia. Occorre richiamare tutti al diffuso rispetto verso la giustizia". Il presidente dell'Anm ieri ha rilasciato diverse interviste per spiegare il perché di tanta amarezza. "Va respinta ogni forma di discredito della giurisdizione, un tema che molto opportunamente è stato richiamato dal capo dello Stato. Un discredito che viene da un dibattito che dura da decenni". Laddove la politica è inadeguata, lascia intendere Sabelli, gli uomini di legge non possono certo fare da parafulmini: "Troppe tensioni si concentrano sulla giustizia e in un'epoca di crisi e di forti tensioni sociali magistrati e avvocati sono particolarmente esposti". L'Italia, infatti, è piena di uomini disperati come Claudio Giardiello che a torto o a ragione si sentono vittime di una qualche ingiustizia e non riescono più a gestire problemi di natura principalmente economica. Ancora ieri l'omicida avrebbe manifestato tutta la sua rabbia proprio contro i giudici: "Il tribunale mi ha rovinato, quel posto è l'origine di tutti i miei mali" (questa mattina verrà interrogato nel carcere di San Quirico Monza). Il pm gli contesterà l'omicidio plurimo premeditato. Il problema esiste, un certo allarme sicurezza è giustificato, ma, come ha detto Giovanni Canzio, presidente della Corte d'appello di Milano, "noi non ci sentiamo una fortezza assediata, non vogliamo alzare ponti levatoi ma vogliamo continuare ad aprirci ai cittadini e a una cultura comune". In un momento delicato come questo, Giovanni Canzio ha voluto sottolineare il compito delicato che tocca anche alla magistratura: "Noi abbiamo il dovere di svolgere alcune riflessioni più ampie riguardanti il rapporto tra la crisi dell'economia e la crisi della ragione che determina un carico di tensioni individuali e sociali". Sono soli anche i cittadini, ha detto. Messo a fuoco il problema, ne rimane un altro: è incredibile che un uomo armato possa entrare in un tribunale, uccidere e scappare. L'Anm adesso chiede un intervento specifico per la sicurezza di tutti i palazzi di giustizia d'Italia. "Non si può lasciare solo chi lavora nella giustizia - ha ribadito il presidente Rodolfo Sabelli - il fatto che queste persone siano state uccise mentre erano al servizio è un fatto grave che deve fare riflettere tutti". Ieri mattina il dispositivo di sicurezza a Palazzo di Giustizia è stato intensificato, ma senza nessun intervento particolarmente eclatante. Solo controlli più minuziosi e un po' di coda agli ingressi laterali, dove ogni giorno entrano migliaia di persone. Le indagini sono ancora in corso, ma sembra che l'omicida sia entrato da via Manara senza esibire alcun tesserino. Qualche testa cadrà, ma il problema resterà. Spiega una guardia giurata della AllSystem: "Delle due l'una: o si trova il modo di far passare sotto il metal detector tutti quelli che entrano qui, magistrati, avvocati e personale amministrativo, oppure c'è il rischio che episodi come quello di ieri possano succedere ancora, perché i pazzi non sono prevedibili". Giustizia: strage in Tribunale a Milano, un dramma che colpisce tutti da Giunta dell'Unione Camere Penali www.camerepenali.it, 11 aprile 2015 Il rispetto per quanto accaduto l'altro ieri a Milano si deve a tutti i soggetti della giurisdizione, magistrati e avvocati, e nel caso a tutti coloro i quali sono stati uccisi o feriti, senza distinzione per il ruolo o la funzione esercitata. Speravamo di non dovere aggiungere altro di fronte a una tragedia quale quella verificatasi ieri nel Palazzo di Giustizia di Milano. Avevamo rilevato che si trattava di un dramma per il quale si doveva esprimere il più profondo cordoglio alle famiglie delle vittime e che colpiva avvocatura, magistratura e società nel suo complesso. Come bene ha detto il Presidente della Corte di Appello di Milano, Dott. Giovanni Canzio, di fronte a episodi come questo occorre "misurare gesti e parole e non è il tempo per rivendicazioni corporative o sindacali". La gravità del fatto è chiara ed è attribuibile a una lucida follia, frutto forse della disperazione e di un disagio sociale, che spesso si interseca a una sofferenza di natura psicologica: in questo contesto, sul processo, civile o penale che sia, si scaricano tutte le tensioni e le aspettative sociali, il che rende più vulnerabili i suoi protagonisti, senza nessuna distinzione e, dunque, nel caso, evocare "un clima contro i giudici" è fuorviante e quantomeno inopportuno. L'omicida ha, infatti, espresso il suo sentimento di rabbia e vendetta nei confronti di chi riteneva ingiustificatamente responsabile delle sue disavventure, e ciò non ha nulla a che vedere con una asserita delegittimazione o con il discredito della magistratura. Ciò, a meno di non voler sostenere incomprensibilmente che introdurre le norme sulla responsabilità civile dei magistrati possa isolare o screditare l'istituzione. È compito della politica approvare leggi che regolino diritti, libertà e responsabilità di tutti, nessuno escluso. Il rispetto, dunque, si deve a tutti i soggetti della giurisdizione, magistrati e avvocati, e nel caso a tutti coloro i quali sono stati uccisi o feriti, senza distinzione per il ruolo o la funzione esercitata. Anche sulle misure di sicurezza nei tribunali va fatta una riflessione oggettiva e depurata da strumentalizzazioni determinate dalla circostanza che l'omicida fosse entrato dal varco dedicato agli avvocati senza un effettivo controllo. Si è subito affermato che le misure di controllo nei confronti degli avvocati non fossero adeguate e che nei confronti degli stessi dovessero essere effettuate in modo più approfondito. A riguardo è necessario chiarire che gli avvocati sono, al pari dei magistrati, soggetti della giurisdizione che concorrono all'amministrazione della giustizia e che, dunque, non sono ospiti in tribunale, meritano la stessa fiducia e devono sottoporsi agli stessi controlli cui vengono sottoposti magistrati e personale amministrativo. Ci si soffermi piuttosto sulla mancanza di risorse, sulle prassi diverse nei vari uffici giudiziari, sulla mancanza di strumentazione adeguata, di personale che possa garantire, per quanto possibile, l'incolumità di chi deve frequentare le aule di giustizia. Infine, oltre al cordoglio già espresso nei confronti di tutte le vittime, il ricordo di un giovane avvocato freddato a colpi di pistola esclusivamente per aver svolto la sua professione con dedizione, rispetto delle regole e amore per la toga: gli stessi che l'avvocato che assisterà l'omicida riserverà a chi ha commesso un crimine che ha suscitato un così profondo dolore. Allo stesso modo, i giudici che saranno chiamati a valutare la sua condotta, riserveranno nel processo lo stesso equilibrio che è insito nella loro funzione, valorizzando i principi di giustizia che costituiscono un patrimonio comune e fondamento di una società liberale e democratica. Giustizia: Casson "voglia di vendetta contro magistrati, ma follia di Milano non c'entra" di Carlo Lania Il Manifesto, 11 aprile 2015 Senatore Felice Casson, da magistrato passato alla politica ritiene che quanto accaduto a Milano possa essere inserito in quel clima di delegittimazione della magistratura che c'è da tempo? "Non in senso stretto. Certamente il fatto di delegittimare una persona o una categoria, ma non solo la magistratura, indebolisce comunque quella figura o quell'organismo, però collegare direttamente l'episodio con il clima di polemiche e di attacchi che ci sono stati mi sembra un po' esagerato. Si tratta di una vicenda molto specifica, di una situazione drammatica come ce ne sono tante nel nostro Paese che però, fortunatamente, soltanto molto di rado terminano in episodi violenti di questo tipo". I tribunali, e in modo particolare quelli fallimentari, con l'aggravarsi della crisi si sono trovati a far fronte a una numero sempre maggior di situazioni di bancarotta come quella che stava giudicando ieri… "Purtroppo situazioni di questo tipo si verificano sempre di più e con reazioni diversificate: ci sono casi di violenza su se stessi e purtroppo un aumento piuttosto consistente di casi di imprenditori che si ammazzano. In questo caso si è avuto l'effetto contrario, cioè della violenza rivolta contro l'esterno, verso quello che rappresentava un simbolo, al di là di ogni responsabilità. D'altra parte situazioni di crisi, economica o lavorativa conducono sempre più spesso a fenomeni di lesionismo o di autolesionismo, anche tra i lavoratori". Il presidente Mattarella ha voluto comunque ricordare l'opera di svalutazione del ruolo della magistratura. "Per carità questo deve essere fatto e ci mancherebbe altro. Però bisogna anche stare attenti a non creare tensioni ulteriori rispetto a quelle già esistenti. Ma al di là di questi casi violenti ai singoli, fa male alle istituzioni, al prestigi delle istituzioni e al modo di lavorarvi all'interno". C'è secondo lei una voglia di vendetta nei confronti della magistratura? "Da una certa parte della politica certamente sì e ce ne rendiamo conto in qualche caso anche all'interno del parlamento. Basta sentire alcuni interventi che ci sono stati anche di recente in Senato, quando si è parlato di misure sulla giustizia. C'è una sensazione, una voglia quasi di vendicarsi e comunque di mettere la magistratura sotto un controllo più stretto. Però io non vorrei ricollegare tutto questo con l'episodio di violenza accaduto a Milano". Immagino che il suo riferimento sia alla legge sulla responsabilità civile dei magistrati. "Sì ma non solo. Al di là della legge specifica, anche nelle discussioni generali, come successo di recente sempre in Senato discutendo ad esempio in materia di custodia cautelare, o comunque quando si parla di misure sulla giustizia: ci sono sempre degli attacchi sconsiderati o comunque gratuiti e offensivi nei confronti della magistratura che non portano da nessuna parte". Si parla di sicurezza nei tribunali, di aumento delle misure di controllo. Alla fine i palazzi di giustizia diventano delle specie di fortezze. Le sembra logico tutto questo? In fondo nei tribunali si esercita la giustizia. "Questo è vero, però non funziona così nella realtà. Mi ricordo che anche quando nell'agosto del 2001 è stata messa una bomba nel tribunale di Rialto e io ero di turno antiterrorismo, chi lo ha fatto ha potuto agire perché i due carabinieri che erano di vigilanza durante la notte dormivano invece di fare il loro lavoro. La vigilanza ci deve essere e deve essere fatta in maniera seria. Purtroppo questo non succede come dimostrano alcune trasmissioni televisive dove è possibile vedere come all'interno del palazzo di giustizia sostanzialmente entra chi vuole e fa quello che vuole. Poi sono d'accordo con lei, non dovrebbe essere così, ma purtroppo i tribunali diventano il centro di smistamento di conflitti e di scontri a volte di natura economica, a volte di natura familiare o addirittura degli scontri sociali". Giustizia; la Cassazione conferma "è Mafia Capitale" di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 11 aprile 2015 "Valido l'impianto accusatorio della procura": il reato è il 416 bis. Per la Suprema Corte la Cupola romana deve restare in carcere. Respinto il ricorso degli uomini di Carminati: Buzzi, Odevaine e Panzironi. Non è stata solo corruzione, come sostenevano le difese. Mafia Capitale è mafia. Così ha stabilito la Cassazione, chiamata a decidere sull'arresto di alcuni indagati finiti in carcere il 2 dicembre scorso durante il mega blitz dei carabinieri del Ros. Restano dunque dietro alle sbarre il ras delle cooperative, Salvatore Buzzi, considerato il braccio finanziario di Massimo Carminati (che aveva rinunciato al ricorso); l'ex comandante della polizia provinciale ed ex vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni, Luca Odevaine; e l'ex ad di Ama, Franco Panzironi. Per loro e per altri 16 indagati, la Suprema Corte ha confermato le misure cautelari disposte dal gip. Un successo, dopo il primo incassato al tribunale del Riesame, per la procura di Roma, guidata da Giuseppe Pignatone, che sin dall'inizio aveva ritenuto il clan del "Cecato" un gruppo mafioso. Diverso da quelli della criminalità organizzata classica, ma comunque da 416bis. E gli ermellini sono stati d'accordo. Solo per uno degli indagati, Giovanni De Carlo, non ha retto l'aggravante: l'ex delfino di Carminati è dunque tornato in libertà. Dopo una camera di consiglio durata circa quattro ore, la Sesta sezione penale della Suprema Corte, presieduta da Stefano Agrò, ha "promosso" la solidità degli indizi raccolti dai pm antimafia di Roma Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli coordinati dall'aggiunto Michele Prestipino, e ha respinto il tentativo, portato avanti dagli avvocati, di far "derubricare" le accuse di associazione a delinquere di stampo mafioso in quelle di associazione a delinquere semplice. E i giudici non sono stati i soli: già il sostituto procuratore generale, Luigi Riello, aveva bollato i ricorsi erano come inammissibili. Così come era stato per il gip di Roma, Flavia Costantini, e per il tribunale del Riesame, anche la Cassazione ha confermato il lavoro della procura e dei carabinieri del Ros, convinti che ci fosse una "cupola" di soggetti che, sfruttando la forza intimidatrice da un lato e quella della corruzione dall'altro (grazie a una serie di pubblici funzionari a libro paga del clan), avevano messo le mani sul sistema di appalti capitolino del settore sociale e in quello dei rifiuti. E non solo: le migliaia di pagine di informative depositate in procura dagli investigatori dell'Arma hanno dimostrato come gli appetiti del gruppo si allargassero giorno dopo giorno. "Ho contestato soprattutto l'accusa di associazione mafiosa - ha detto l'avvocato Alessandro Diddi, difensore di Buzzi - perché dal materiale di indagine non risulta un solo atto del mio assistito, o di Carminati, che sia stato compiuto con intimidazione. Possiamo parlare della corruzione, cosa che comunque è da provare e per la quale ci sono delle spiegazioni, ma non di mafia". Era stata questa la linea sostenuta anche durante gli interrogatori con i pubblici ministeri e davanti ai giudici della Libertà. "Il Pg Riello invece - ha proseguito Diddi - ha condiviso completamente i contenuti dell'ordinanza cautelare e ha ritenuto esistenti gli indizi dell'associazione mafiosa". L'avvocato, come gli altri legali, aveva l'obiettivo dichiarato di "smontare" l'accusa associativa. Sapevano i difensori e sapeva la procura che quello era il nodo centrale di tutta la questione, era il gol che avrebbe deciso, almeno per ora, la partita. Se infatti l'aggravante mafiosa non avesse retto, Un obiettivo che se raggiunto avrebbe consentito agli indagati in carcere, per prima cosa di essere detenuti a Roma, vicino alle famiglie e ai difensori, e, in vista del processo, di ottenere - successivamente - un rinvio a giudizio per un'accusa meno grave e che contempla condanne più leggere. Tra circa un mese saranno depositate le motivazioni del verdetto della Suprema Corte. Giustizia: il prezzo del silenzio, sorveglianza di massa e auto-censura www.vociglobali.it, 11 aprile 2015 (Traduzione a cura di Giorgio Guzzetta dall'articolo originale di Nik Williams pubblicato su openDemocracy). Il panopticon di Jeremy Bentham è la soluzione più efficace per il controllo disciplinare indiretto. I detenuti possono essere osservati in qualsiasi momento e dovunque si trovino, da una torre panoramica situata al centro della struttura carceraria. Non potendo vedere cosa succede dentro la torre, i detenuti si sentono sempre osservati, pur non potendo avere la certezza della presenza delle guardie. La possibilità di una sorveglianza continua basta da sola per spaventare, vincolare e infine modificare il comportamento. Nell'era digitale la sorveglianza è meno esplicita, ma i risultati sono ugualmente allarmanti. Le rivelazioni di Edward Snowden hanno evidenziato la capacità di NSA e GCHQ di raccogliere dati da diverse piattaforme digitali, e anche il loro tentativo di essere esaustivi, il loro voler ‘raccogliere tutto'. Questo ha portato alla luce un sistema che, a causa della sua onnipresenza, è in grado di prendere di mira chiunque, a prescindere da dove si trovi, dalla sua nazionalità o dalla sua colpevolezza, vera o presunta che sia. In questo situazione i giornalisti hanno poche possibilità di fare ricerche e di porre domande senza paura di essere spiati. I pericoli della sorveglianza di massa non esistono solo quando si è consapevoli di essere osservati. Probabilmente non c'è modo di sapere che siamo spiati, ma questo significa anche che non c'è modo di sapere che non lo siamo. "Se senti che qualcuno ti sta guardando, moltissime sono le cose che non fai. [Non sarai] in grado di utilizzare strumenti e strutture a causa di una paura che non ha nome" sostiene Sir Tim Berners-Lee, creatore del World Wide Web. Questa paura indefinibile di cui lui parla è simile a quella auspicata da Bentham - una tensione invisibile ma tangibile che può disturbare o modificare le azioni altrui, senza essere realmente presente. Questo legame tra la sorveglianza di massa e l'auto-censura emerge in maniera molto chiara dal rapporto Global Chilling, redatto nel 2014 da Pen International. Attraverso 772 interviste a scrittori e saggisti di tutto il mondo, l'associazione ha denunciato un crescente disagio causato dalla sorveglianza di massa e un corrispondente mutamento nel modo di vedere e nel comportamento. Adottando le categorie utilizzate da Freedom House, il sondaggio rivela che, nei Paesi liberi, almeno uno scrittore su tre (34 %) afferma di aver rinunciato a scrivere o parlare su argomenti scottanti, dopo le rivelazioni di Snowden. Inoltre il rapporto prosegue affermando che "i livelli di auto-censura riferiti da scrittori che vivono nei Paesi democratici si stanno avvicinando a quelli di autori che vivono in Paesi autoritari o semi-democratici". Anche se, diversamente da forme di controllo attivo sulla libertà di stampa, come per esempio la censura e le proibizioni messe in atto dalla Cina, dalla Corea del Nord e dall'Iran, l'auto-censura è una forma di controllo passivo - nessuno Stato ha attivamente impedito a questi scrittori di scrivere su quei temi, il risultato rimane lo stesso: il controllo e la limitazione di ciò che viene detto. Oltretutto, mentre il controllo attivo è oneroso dal punto di vista delle risorse impiegate, il controllo passivo generato dalla minaccia di una sorveglianza continua e onnipresente è molto meno dispendioso e molto più efficiente a livello di rapporto costi-benefici. Allora perché censurare in modo esplicito, quando si possono spingere i giornalisti a definire i propri limiti? Come scrive Peggy Noonan, "il risultato inevitabile della sorveglianza è l'auto-censura". Avendo un impatto diretto sulla libertà dei media e la libertà di espressione, l'atto di autocensura limita inoltre la ricchezza e la varietà delle notizie che arrivano al pubblico. Suzanne Nossel, direttore esecutivo del Pen Center americano, ha dichiarato nel suo editoriale per la CNN: argomenti che risultano estranei, fuori dal comune o che fanno paura, lo diventeranno ancora di più se i giornalisti e anche gli studenti hanno paura di indagare e spiegare. Gli effetti di queste preoccupazioni si avvertono in ogni fase del processo, dalle indagini dei giornalisti fino alla lettura di queste da parte del grande pubblico. L'acquisizione continua e la manipolazione di metadati sulle nostre comunicazioni (al di là di questioni di contenuto) mette a rischio anche la possibilità dei media di incontrare e proteggere le fonti. Jillian York della Electronic Frontier Foundation afferma che "Il pericolo dei metadati è che permette di sorvegliare e tracciare i nostri spostamenti, i nostri network e le nostre attività, costringendoci a riflettere attentamente prima di contattare un certo gruppo o individuo." Fornendo un resoconto delle proprie scelte, l'onnipresente sorveglianza di massa trasforma l'atto di comunicare nel gesto più pericoloso di tutti. Secondo il rapporto di Pen International, il 26 % degli scrittori che vivono in Paesi democratici e liberi afferma di aver preferito non fare ricerche su Internet o visitare siti web su argomenti che possono essere considerati controversi o sospetti. Volendo capire come si costruiva una bomba all'anidride carbonica dopo un fallito attentato all'aeroporto di Los Angeles, Peter Galison, giornalista della Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha dovuto combattere con la sua paranoia per decidere se fare o meno una ricerca in Rete. Raccontando il suo dilemma, ha descritto molto bene il problema dei giornalista che lavorano nell'età della sorveglianza: "il solo fatto di sapere che le parole chiave che avrei dovuto usare potevo farmi finire sotto sorveglianza è stato sufficiente a farmi esitare." Il vero impatto della sorveglianza di massa sulla libertà dei media è dato proprio da questi momenti di esitazione. Ogni rinuncia ci farà perdere qualcosa, qualcosa sarà raccontato male, una possibilità di creare un dibattito più consapevole scomparirà. Per usare le parole di Philippe Val, ex direttore di Charlie Hebdo, "Che cosa minaccia di più la democrazia? Il Silenzio". Giustizia: Mastrogiovanni fu torturato e ucciso in ospedale, il Pg chiede pene più severe di Giuseppe Galzerano Il Manifesto, 11 aprile 2015 In Corte d'appello la vicenda del "maestro più alto del mondo", rimasto legato per 83 ore al letto senza cibo né acqua. 6 medici e 12 infermieri alla sbarra. Con semplicità e toni pacati ma determinati il procuratore generale della Corte d'appello di Salerno, Elio Fioretti, ha chiesto un inasprimento delle condanne ai sei medici e dodici infermieri responsabili della morte di Francesco Mastrogiovanni, il "maestro più alto del mondo", come lo avevano soprannominato i suoi alunni, legato ininterrottamente ai quattro arti per 83 ore nell'ospedale di Vallo della Lucania (Sa). Al termine della lunga e articolata requisitoria (due ore) ha formulato la richiesta di 5 anni e 4 mesi per i medici Michele Di Genio, Rocco Barone e Raffaele Basso, che erano stati condannati rispettivamente a 3 anni e 6 mesi e 4 anni; per Anna Angela Ruberto 4 anni e 8 mesi (condannata a 3 anni) e per Amerigo Mazza e Michele Della Pepa 4 anni e 4 mesi, (condannati a 3 e 2 anni). Alla richiesta del raddoppio della pena Della Pepa e Ruberto, unici presenti in aula, sobbalzano dalle sedie. Una pesante richiesta anche per gli infermieri (presenti solo in 5): assolti nella sentenza del 30 ottobre 2012, Fioretti chiede per otto di loro 4 anni e 8 mesi e per altri tre 4 anni. "I fatti accaduti nell'ospedale di Vallo della Lucania - ha esordito il procuratore - rappresentano un grave caso di malasanità e di cattiva gestione della cosa pubblica". Fioretti ha ricostruito con cura la vicenda di Francesco Mastrogiovanni, legato senza alcuna ragione per quattro giorni a un letto, senza cure, senza cibo né acqua, senza consentire ai familiari di vederlo. Un incredibile sequestro di persona che non è avvenuto nel medioevo, ma nell'estate del 2009. E la conseguenza naturale dell'atroce e inumano trattamento è stata, nella notte tra il 3 e il 4 agosto, la morte del paziente, scoperta incredibilmente con sei ore di ritardo. Fioretti ha detto che la tortura, invece della cura dei pazienti era prassi normale. Ha parlato di condizioni agghiaccianti, ripugnanti e terribili emerse anche dalle testimonianze degli altri pazienti. "Il mio compito è semplice perché esiste un video, consultabile anche su internet, in cui l'inaudita e illecita violenza consumata ai danni di Mastrogiovanni è di tutta evidenza, in quanto né i medici né gli infermieri hanno garantito la corretta applicazione delle norme, perché una persona ricoverata dev'essere curata e assistita. Invece lui è stato sottoposto a una contenzione che non era affatto necessaria, senza annotazione, illegittima e fuori da ogni regola, in quanto Mastrogiovanni - come testimonia il video - era tranquillissimo". Fioretti accusa: "Tutti gli imputati non avevano nessuna intenzione di curare il paziente, hanno fatto il minimo tenendo a letto una persona legata mani e piedi. Non meritano nessuna attenuante perché hanno violato i loro doveri professionali e di umanità". Il procuratore ha sottolineato che Mastrogiovanni non è stato contenuto perché violento, come è stato detto, ma solo perché si oppose al prelievo del sangue richiesto dai carabinieri per accertare l'eventuale uso di droga. Era invece finito in ospedale per un illecito "T.S.O." e, inascoltato, aveva invano e profeticamente supplicato: "Non fatemi portare all'ospedale di Vallo perché là mi ammazzano!". Il caso di Mastrogiovanni, sottoposto a una lunga, gratuita, inaudita, immeritata e degradante tortura, è l'unico al mondo ad avere un'inoppugnabile documentazione video, in cui è possibile seguirlo minuto dopo minuto. Una documentazione che è particolarmente utile proprio in questi giorni in cui, dopo la condanna dell'Italia da parte della Corte Europea, si discute timidamente d'introdurre nella nostra legislatura il reato di tortura. La prossima udienza il 15 maggio. La sentenza è prevista per il 18 settembre. Giustizia: delitto Reggiani; Mailat estradato, sconterà l'ergastolo in Romania di Emilio Orlando La Repubblica, 11 aprile 2015 Romulus Mailat il cittadino romeno condannato all'ergastolo per l'omicidio di Giovanna Reggiani, sconterà il resto della pena nel suo Paese. Lo ha deciso il tribunale di Roma a seguito delle sentenze di condanna e degli accordi internazionali con la Romania che danno facoltà alla nazione dove lo straniero è detenuto, di rimpatriarlo in quella di origine dove si apriranno di nuovo le porte del carcere. Secondo gli avvocati di Mailat, la decisione che ha spedito l'assassino e stupratore in un penitenziario di Bucarest, dove i prigionieri vengono trattati in maniera disumana e tenuti al buio per quasi tutto il giorno, arriva ora che Mailat, che nell'ottobre del 2007 massacrò la donna alla stazione di Tor di Quinto, aveva intrapreso un percorso di riabilitazione. L'episodio di sette anni fa sconvolse tutti per la barbarie e la crudeltà con cui la Reggiani, moglie di un alto ufficiale della marina militare venne uccisa mentre faceva ritorno a casa dopo una giornata di shopping. Il muratore romeno, che all'epoca dei fatti aveva ventiquattro anni e viveva in una baraccopoli nei pressi della stazione ferroviaria, venne individuato ed arrestato dalla squadra mobile capitolina nel giro di poche ore grazie ad una donna rom, che lo riconobbe quale unico autore del sequestro e dello stupro avvenuto prima dell'omicidio. Le indagini svolte allora non chiarirono mai se Romulus Mailat aveva agito con la complicità di qualche altro connazionale. A seguito del delitto Reggiani, nella capitale scoppiò la prima emergenza rom che porto l'amministrazione capitolina a smantellare in pochi giorni numerosi accampamenti abusivi sorti in quegli anni nelle periferie. Un provvedimento di ieri è stato fortemente voluto dalle autorità italiane dopo diverse detenzioni in vari istituti di pena italiani, da Roma a Padova. Ieri mattina alle 13 scortato dalla polizia, dall'aeroporto di Milano Malpensa, Mailat è stato imbarcato su un volo Alitalia diretto nella capitale romena dove un gruppo di ufficiali della polizia ed alcuni magistrati della corte d'appello di Alba Iulia lo hanno preso in consegna e portato nel carcere di Jilava in attesa di essere trasferito ad un regine carcerario più duro, in un complesso penitenziario della Transilvania dove rimarrà a vita. Lettere: è il giudizio lungo una vita, o la vita che dura un giudizio? Guido Vitiello Il Foglio, 11 aprile 2015 Sembra Kafka, ma è la realtà del sistema penale italiano. Una pagina di Milan Kundera dai "Testamenti traditi" è servita a Giovanni Fiandaca per illustrare, sul Foglio di giovedì, l'invincibile vocazione espansionista del processo penale. Che dovrebbe concentrarsi sui fatti, ma finisce per mettere sotto giudizio gli uomini nella loro interezza; che dovrebbe restare nel recinto del diritto, ma pascola abusivamente nei campi della morale, della sociologia o della politica. "Il processo celebrato dal tribunale", scriveva Kundera commentando Kafka, "è sempre assoluto; cioè non riguarda un atto isolato (furto, frode, violenza carnale) ma l'intera personalità dell'accusato". A esso, si può aggiungere, corrisponde la pena assoluta del carcere, che per colpire un reato specifico sequestra tutta la persona del reo. Esiste dunque un'inclinazione naturale del processo a dilagare, a espandersi in lunghezza, larghezza, profondità e soprattutto nel tempo, dimensione che la nostra fisica giuridica tende a ignorare, come dimostra il surreale allungamento della prescrizione. "Il processo è assoluto anche in questo", aggiungeva Kundera nella stessa pagina, "e cioè che travalica i limiti della vita dell'accusato". Il caso ha voluto che, nello stesso giorno in cui Fiandaca rievocava questo commento a Kafka, il Fatto Quotidiano desse conto dell'intervento dell'avvocato Massimo Krogh, difensore di Nicola Mancino, nell'ultima udienza del processo di Palermo sulla trattativa: "Il mio assistito sta vivendo un momento di grande sofferenza fisica e psichica: teme di finire prima che finisca il processo". Mancino ha più di ottant'anni, ma non meno angosciose furono due anni fa le parole di Ottaviano Del Turco, ammalato di tumore, che dopo la condanna in primo grado chiese al suo medico "cinque anni di vita per dimostrare la mia innocenza". Sono i corollari del processo assoluto e infinito. Dev'esserci un punto in cui per l'imputato, specie per l'imputato di lungo corso, per l'eterno imputato che è figura così comune in Italia, il processo diventa la forma stessa della vita; in cui la liturgia della procedura s'impone ai suoi giorni fino a scalzare la liturgia feriale della quotidianità. L'imputato è costretto a calarsi tutto nella sua condizione, a farne una seconda natura, quasi avesse contratto una malattia cronica. Vedere la fine del processo può diventare allora lo scopo di tutta un'esistenza a cui il processo stesso ha imposto una trama narrativa, minacciando di lasciarla incompiuta. Anche questo è prefigurato nel "Processo" di Kafka, e precisamente nelle pagine in cui Josef K. chiede consiglio a Titorelli, il pittore del tribunale. L'ipotesi di un'assoluzione reale non va neppure tenuta in conto, gli dice Titorelli. Restano due vie, l'assoluzione apparente e il rinvio. Nel rinvio, "il processo non termina mai, ma l'accusato è sicuro di non essere colpito da una sentenza, è come se fosse libero". Il veleno è in quel "come se"; perché, aggiunge subito il pittore, in realtà l'accusato non è mai libero, e l'assillo del giudizio sarà con lui fino a che muore. Immagino che molti imputati si riconosceranno in questa pagina più che nella sorte finale del protagonista. Perché per Josef K. arrivano, in ultimo, la sentenza e l'esecuzione per mano di due signori in redingote e cilindro che gli piantano un coltello da macellaio nel cuore. "Gli parve che la sua vergogna gli sarebbe sopravvissuta" è la frase che chiude il romanzo. Più terribile ancora è che a sopravvivere all'imputato non sia la vergogna, ma il suo stesso processo. Lettere: misericordia e carità al posto di diritti e giustizia di Adriano Prosperi Left, 11 aprile 2015 Il consenso universale che circonda ogni uscita di Francesco ha molto di ambiguo e strumentale. Ed è funzionale alla restaurazione dì una nuova età democristiana. Come ha osservato di recente Thomas Piketty, i partiti di centrosinistra al governo hanno cessato da tempo di difendere le classi popolari: davanti alla crisi della deindustrializzazione, invece di rafforzare le istituzioni pubbliche e i sistemi di protezione sociale esistenti, i partiti di governo hanno scelto di abbandonare le classi popolari e i ceti medi. Noi italiani lo sappiamo bene. Scomparso da tempo perfino lo spettro verbale della "patrimoniale", da noi si fanno avanti ricette come quella di colpire le "pensioni d'oro" e ridisegnare la curva delle pensioni. Sulla pelle dei lavoratori si è abbattuta la cancellazione dell'art. 18, ultima fondamentale conquista della politica dell'abbandono delle tutele e dei servizi pubblici essenziali - si pensi alle ferrovie, alla sanità, alla scuola pubblica e all'università, ai beni culturali e al paesaggio. Si capisce perché le classi popolari votino per le destre, osserva Piketty pensando al caso francese. Ma in Italia le cose vanno in altra direzione: un partito che si definisce ancora di centrosinistra continua a riscuotere la maggioranza dei consensi, almeno di coloro che ancora pensano di partecipare alle elezioni. Quella italiana è una variante che non si spiega con la miseria delle destre nostrane ma chiede di essere analizzata. E qui bisogna ricorrere alla celebre formula di Tornasi di Lampedusa: bisogna che tutto cambi perché tutto resti com'era. Formula suggestiva e persuasiva quanto misteriosa. Quel che resta com'era è l'ingiustizia sociale, il rapporto di sopraffazione dei vincitori sui vinti, le classi popolari: quel che cambia è la retorica. Renzi ne offre un buon esempio nel colorare di rosa la realtà. Si pensi alla storia della ripresa dovuta al Jobs Act: una vera invenzione della politica parlata. Secondo Renzi, a inizio 2015 avremmo avuto 82.000 posti di lavoro in più: un segno di speranza. Ma la realtà dei dati Istat ha calato la suo gelida carta: la disoccupazione è salita di nuovo sfiorando il 13% complessivo mentre quella giovanile tocca la cifra terrificante del 42,3%. Comunque, bando alla realtà, l'ottimismo di Stato è necessario. Perché da noi lo stato d'animo diffuso è lo scoramento. Una volta l'orgoglio nazionale scattava quando Coppi e Bartali vincevano il Tour de Trance. Oggi che la Ferrari è un'azienda in mani non italiane è difficile rivitalizzare l'esultanza del tifo. Ma c'è nella retorica della comunicazione pubblica qualcosa che è cambiato, contribuendo a che tutto resti com'era. Parliamo di Chiesa e religione. Col papato argentino di Francesco è caduto in desuetudine lo sfacciato legame delle gerarchie ecclesiastiche con gli affari della destra finanziaria più feroce e gaudente incarnata da Berlusconi. Oggi la denunzia delle sofferenze ha trovato un grande amplificatore nell'uomo che fa affluire torme umane in piazza San Pietro; ma si è anche aperta la possibilità di trasformare la protesta in un dolce e gratificante lamento devoto sulla malvagità umana. Le classi popolari sono ridiventate i poveri del mondo preindustriale. La parola dominante è misericordia. Ci sarà un giubileo col suo nome. Il consenso universale che circonda ogni uscita di Francesco ha molto di ambiguo e di strumentale: se ieri, in mezzo a una massa di indifferenti più o meno credenti, c'era anche qualche laico (magari devoto), oggi ci sono solo devoti, non importa se credenti o meno. Il furbissimo partito renziano ha colto l'opportunità che gli si offriva per restaurare una nuova età democristiana dove la carità prevarica sulla giustizia e la misericordia ha la meglio sui diritti: provate un po' a parlare di moschee da costruire o di diritti di cittadinanza per chi vive e lavora da noi. Padova: l'Unione Camere penali; preoccupazione per chiusura Sezione di Alta Sicurezza Adnkronos, 11 aprile 2015 La Giunta dell'Unione delle camere penali italiane con il proprio Osservatorio carcere denunciano la "fortissima preoccupazione che desta la decisione del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria di chiudere la sezione di Alta Sicurezza del carcere di Padova". Saranno trasferite in altre carceri italiane, spiegano i penalisti, persone che a Padova svolgono con continuità un'attività lavorativa, che stanno compiendo corsi scolastici, che si preparano alla maturità, che studiano nel polo universitario, che collaborano stabilmente con la redazione della rivista Ristretti Orizzonti. "Tutti costoro - sottolineano i penalisti - vedrebbero irreparabilmente compromesso quel percorso rieducativo costituzionalmente affermato, che a Padova trova applicazione, contrariamente a quanto avviene nella maggior parte degli istituti di pena del nostro Paese. Chiediamo quindi - conclude la nota - che l'amministrazione penitenziaria ponga prontamente rimedio alla situazione che si va prospettando e salvaguardi tutte le persone, oggi ospitate nella sezione alta sicurezza del carcere di Padova, che hanno in atto positivi percorsi di trattamento". Roma: Garante Lazio; Dap "decapita" compagnia teatrale Rebibbia che vinse Orso d'Oro Adnkronos, 11 aprile 2015 Il Dap "decapita" la compagnia teatrale che "solo 3 anni fa aveva vinto l'Orso d'Oro al Festival del Cinema di Berlino interpretando, da protagonista, il film Cesare deve morire dei fratelli Taviani, sull'esperienza della compagnia teatrale Liberi Artisti Associati, composta da detenuti di Alta Sicurezza di Rebibbia Nuovo Complesso. Oggi il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria rischia di scrivere la parola fine su questa straordinaria esperienza trasferendo, per motivi di sfollamento, 5 detenuti dell'Alta Sicurezza di Rebibbia fra i quali uno degli attori principali della Compagnia teatrale nonché capocomico". È la denuncia del Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. "Una scelta che arriva come un fulmine a ciel sereno - ha commentato Marroni - perché coinvolge persone da tempo detenute a Rebibbia Nuovo Complesso che avevano fatto del Teatro una ragione di riscatto personale e sociale. I trasferimenti riguardano anche detenuti iscritti all'Università che, vedono, in tal modo, interrotto il loro percorso formativo. Una decisione anche in questo caso poco comprensibile, visto che lo stesso Dap ha indicato l'Alta Sicurezza di Rebibbia come riferimento nazionale per i detenuti che intendono frequentare corsi universitari". "Fra i nomi più noti dei reclusi trasferiti, spicca quello di Antonio Frasca, universitario, capocomico della Compagnia Liberi Artisti Associati e protagonista del pluripremiato Cesare deve morire - continua Marroni - Al Garante risulta, fra l'altro, che l'uomo abbia già espiato il reato ostativo di cui all'articolo 416 cp. Con lui trasferito anche Giancarlo Polifroni, anch'egli attore e responsabile dell'orto del reparto di Alta Sicurezza. Insieme a loro, sono stati sfollati altri tre detenuti, fra i quali uno laureato e titolare di un assegno di dottorato all'Università La Sapienza di Roma". "Nella sezione di Alta Sicurezza di Rebibbia N.C., con questa decisione, viene mortificata una esperienza virtuosa che lo stesso Ministero di Giustizia aveva, negli anni, annoverato tra le buone pratiche dell'Amministrazione Penitenziaria", prosegue il garante dei detenuti del Lazio. Sulla vicenda dei trasferimenti, il Garante Angiolo Marroni ha inviato una lettera al Capo del Dap Santi Consolo chiedendo "un ripensamento sulla decisione assunta che appare ispirata da criteri meramente burocratici, ignorando il contesto e la complessità in cui tale decisione si applica". "Ritengo - scrive Marroni - che questa decisione vada a compromettere le importanti attività trattamentali che per lunghi anni hanno fortemente caratterizzato il reparto di Alta Sicurezza di Rebibbia nuovo complesso e che, a mio avviso, indebolisce la scelta fatta, d'accordo con il Dap, di creare e potenziare proprio nell'Alta Sicurezza di Rebibbia il Polo Universitario nazionale del circuito penitenziario". Roma: Pagano (Dap); la compagnia teatrale che vinse Orso d'Oro non sarà smantellata Adnkronos, 11 aprile 2015 "Nulla sarà smantellato. Rivedremo tutte le posizioni e se c'è stata qualche omissione, penseremo a recuperare". Lo assicura all'Adnkronos Luigi Pagano, vice capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, rispondendo all'allarme del Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, secondo il quale il Dap, con il trasferimento di alcuni detenuti dell'Alta Sicurezza di Rebibbia, fra i quali il capocomico della compagnia, decreterebbe la fine della compagnia teatrale che 3 anni fa vinse l'Orso d'Oro al Festival del Cinema di Berlino con il film ‘Cesare deve morirè dei fratelli Taviani. Le attività definite trattamentali, come il lavoro o lo studio, che hanno l'obbiettivo di reinserire socialmente il detenuto, "ci stanno a cuore e non smantelleremmo mai un'attività di questo genere. Prendiamo in considerazione la segnalazione del garante e, nel caso corrispondesse al vero, vedremo come poter recuperare", aggiunge Pagano. Il problema, secondo Pagano, nasce dalla "riorganizzazione dei circuiti carcerari che prevedono la ricollocazione dei detenuti secondo varie caratteristiche, come la posizione giuridica e il circuito di appartenenza. In questo processo ricollocamento si rischia di spostare anche qualche detenuto che partecipa ad attività trattamentali organizzate da tempo. Ma rassicuriamo tutti che ci sarà una rivalutazione completa delle singole situazioni". Firenze: detenuti del "Gozzini" contro trasferimento Opg, a rischio percorsi riabilitativi Ansa, 11 aprile 2015 Preoccupazione per il progetto di trasferire l'Opg di Montelupo all'istituto fiorentino a custodia attenuata Mario Gozzini. A scriverla gli stessi detenuti dell'istituto, il cosiddetto Solliccianino. La lettera è stata citata dal consigliere regionale Fi Nicola Nascosti che ha tenuto una conferenza stampa sul trasferimento dell'Opg. Nella missiva i detenuti sottolineano che la struttura non è adatta ad accogliere i pazienti dell'Opg ed esprimono timori che l'istituto possa perdere il suo carattere di custodia attenuata portando al trasferimento di chi vi è internato. I detenuti spiegano quindi di sentirsi "trattati come merce di scambio , e non come essere umani che hanno commessi degli errori ma che cercano di riprendere in mano la loro vita. Ci sembra che chi ha pensato questa nuova destinazione per l'istituto Gozzini, voglia privarci di quei pochi diritti che la nostra condizione ci consente" Nascosti (Fi): errore trasferire Opg Montelupo a Gozzini "Fermo restando la condivisione della necessità della chiusura degli Opg, non posso non esprimere delle riserve sulla gestione di tale importante decisione in Toscana, sulla quale peraltro aleggia più di un sospetto riguardo la finalità politico elettorale". Lo ha detto il consigliere regionale Fi Nicola Nascosti, in merito alla chiusura dell'Opg di Montelupo e al suo spostamento presso l'istituto Gozzini di Firenze, il cosiddetto Solliccianino. La scelta di Solliccianino, ha aggiunto, "risulta calata dall'alto senza una adeguata conoscenza delle reali condizioni dell'istituto. Si tratta di una struttura in cemento armato con spazi non corrispondenti alle norme previste per i pazienti e quindi richiede una totale ristrutturazione, che richiederà 2 o 3 anni di tempo. Questo significa che la Regione è in enorme ritardo rispetto alla ormai datata decisione di chiusura, il che rafforza l'idea che si tratti di una manovra politico elettorale". Nascosti ha poi annunciato di voler presentare un esposto per i costi, 11 milioni di euro stimati, per i costi che comporterebbe spostare l'Opg all'istituto Gozzini. Il trasferimento, ha detto ancora, "comporterebbe poi la fine di un'esperienza positiva e all'avanguardia che finora ha prodotto ottimi risultati quale è stata ed è quella svoltasi all'intero dell'Istituto di custodia attenuata Gozzini. Pare ovvio, quindi, che i primi a risentire negativamente della chiusura di questa esperienza saranno proprio i detenuti" di Solliccianino. Livorno: al carcere delle Sughere padiglione ristrutturato, arrivano 30 nuovi detenuti di Lara Loreti Il Tirreno, 11 aprile 2015 Dopo 8 anni, ecco l'edificio ristrutturato: celle confortevoli e tecnologiche. La Uil: "Perplessità sul numero del personale". Con la primavera, ventate di novità anche alle Sughere: dopo anni di polemiche, ritardi e un'inchiesta alla Procura della Repubblica di Roma, finalmente il nuovo padiglione delle Sughere ha aperto i battenti. Nei giorni scorsi, sono arrivati i primi detenuti di "alta sicurezza", coloro, cioè, che hanno commesso reati gravi come quelli legati alla mafia. Si tratta di tutti uomini arrivati prevalentemente da Sicilia, Campania e Abruzzo. In un primo momento, sembrava che alcuni detenuti di alta sicurezza dovessero giungere in città anche da Prato, progetto poi sfumato perché le persone in questione stanno seguendo dei corsi di studi. Arrivati a gruppi, i detenuti sono stati sistemati, così come prevede il regolamento, nelle celle singole, dotate di vari confort come docce private, tv al plasma, prese della corrente, angolo cottura in acciaio, phon e così via, oltre delle suppellettili canoniche come tavolo e sgabelli. Nelle prossime settimane, è previsto l'arrivo di altri detenuti, per un totale di 100-120 persone. La struttura è organizzata in tre piani, ciascuno dei quali ospita 27 celle. Presenti anche l'infermeria e la cucina, anche se quest'ultima non è stata ancora aperta perché ci sono stati dei problemi. Per il momento, quindi, il cibo viene inviato al nuovo padiglione dalla vecchia cucina, dove vengono preparati i pasti per l'intero corpo dei detenuti, che ammonta a circa 150 persone. In servizio nel nuovo padiglione attualmente ci sono trenta agenti della polizia penitenziaria, coordinati dal nuovo comandante, il commissario capo Marco Garghella (ha sostituito nei mesi scorsi la precedente, Morgana Fantozzi). Quando il padiglione funzionerà a regime - si suppone entro la fine di questo mese - gli agenti in servizio all'interno della nuova struttura saranno circa il doppio, quindi una sessantina. Un numero che desta preoccupazione nei sindacati. Lo sottolineano i rappresentanti della Uil Penitenziaria: "Siamo perplessi perché temiamo che il numero del nostro personale non sia sufficiente per far fronte alle esigenze del nuovo padiglione. Il numero dei detenuti è destinato ad aumentare e ciò potrebbe creare problemi nella turnazione del personale - spiegano dalla Uil Penitenziaria - Infatti, se ora è possibile lavorare sei ore con quattro turni, quando si è in emergenza tutto si complica e si è costretti a fare tre turni da otto ore, con un sacrificio enorme per il personale. Come Uil monitoreremo la situazione per evitare che sia il personale a pagare scelte non congrue da parte dell'amministrazione". San Gimignano (Si): Garante Corleone visita il carcere "necessario rivedere le presenze" Ansa, 11 aprile 2015 L'Istituto di San Gimignano è nato sotto una cattiva stella, ovvero con gravi responsabilità di chi negli anni Ottanta scelse di costruire il carcere in una vallata, lontano dalla cittadina e quindi con difficoltà di raggiungibilità e condizioni logistico-ambientali che ancora oggi pesano, a partire dall'approvvigionamento idrico e dalla linea Telecom scadente, con tutte le conseguenze del caso. Questo il commento del Garante dei diritti dei detenuti, Franco Corleone, che oggi ha visitato il carcere di San Gimignano, per diverso tempo caratterizzato da una direzione non stabile. Da qualche anno il direttore è in servizio permanente; attualmente la presenza dei detenuti è di 365, rispetto ad una capienza regolamentare di 235, con gli ergastolani che chiedono con forza la cella singola. A San Gimignano infatti i due terzi dei detenuti sono ad alta sicurezza, mentre un terzo a media sicurezza. Da qui la necessità di rivedere il numero delle presenze - come ha sottolineato Corleone - e la possibilità di celle singole per gli ergastolani. Accanto a tante migliorie su cui intervenire, come i servizi igienici, i camminamenti stretti o i televisori piccoli che causano problemi alla vista. Accanto alle ombre non mancano però le luci: la ben articolata situazione dell'infermeria, le cure odontoiatriche per i detenuti garantite dall'Asl di Siena, i corsi di scuola superiore, il progetto di una lavanderia industriale e di luoghi di socialità per i detenuti di media sicurezza. Spoleto (Pg): prosegue il progetto per l'impiego dei detenuti in lavori di pubblica utilità www.spoletonline.com, 11 aprile 2015 Prosegue il progetto sperimentale per l'impiego di detenuti in lavori di pubblica utilità presso l'Ase di Spoleto, avviato nel mese di marzo in attuazione del protocollo d'intesa siglato a novembre scorso tra Amministrazione comunale - Assessorato alle Politiche sociali, Casa di Reclusione di Spoleto e Ufficio Esecuzione Penale Esterna del Ministero della Giustizia di Spoleto. In questi giorni le attività di manutenzione stanno interessando alcune aree verdi del centro storico della città (giardini Casina Ippocastano e viale Giacomo Matteotti). Sono stati già completati lavori di manutenzione del verde nella zona del Cimitero Monumentale, della chiesa San Pietro, a Piazza Campello, attorno alla nuova sede della Prociv e in molte della fioriere diffuse nel territorio. "Desidero ringraziare i quattro uomini che stanno lavorando con grande responsabilità e abnegazione ha dichiarato il Sindaco Fabrizio Cardarelli. Alla soddisfazione per essere riusciti ad avviare un progetto dal grande valore sociale, si aggiunge il piacere di vedere quanto attaccamento alla cosa pubblica e alla comunità di adozione stiano manifestando quotidianamente attraverso il proprio impegno e il proprio lavoro. Un ringraziamento anche alle istituzioni che hanno reso possibile questo progetto, la casa di Reclusione di Maiano, lufficio di Esecuzione Penale Esterna e il Magistrato di sorveglianza. Il progetto infatti intende promuovere il reinserimento sociale anche attraverso l'occupazione in attività di pubblica utilità, da effettuarsi durante il periodo di espiazione della pena, garantendo al contempo ai detenuti l'acquisizione di competenze e conoscenze professionali spendibili nella fase post detentiva. Le attività sono svolte dai detenuti a titolo completamente gratuito, assumendo così una valenza simbolica "risarcitoria" nei confronti della collettività cittadina che si avvarrà proficuamente di tali interventi manutentivi, altrimenti non realizzabili a causa della scarsità di risorse pubbliche disponibili. Il progetto, sulla scorta di questa prima esperienza, proseguirà con l'individuazione di ulteriori detenuti per le fasi successive che si protrarranno fino alla fine del 2016, con la possibilità di essere poi prorogato ed anche ampliato. Firenze: abuso di psicofarmaci in cella, se ne parla a Sollicciano www.gonews.it, 11 aprile 2015 Il ragazzo ha sbagliato, per questo sta scontando una pena in carcere. Ma che il malessere dentro ci fosse prima o sia emerso dietro le sbarre, ora chiede al medico di essere sedato, qualcosa che lo tenga calmo e gli consenta di affrontare la giornata. Ma quel rimedio può far gola a molti, anche a un pregiudicato prepotente per preparare un cocktail di farmaci capace di alterare la giornata di un recluso o per avere una merce di scambio. Dell'uso, dell'abuso e delle problematiche connesse alla diffusione degli psicofarmaci nelle carceri toscane si discute nella mattinata di martedì 14 aprile, a partire dalle 9, nel Giardino degli incontri della Casa circondariale di Sollicciano in via Minervini 2R nell'ambito di una iniziativa intitolata "Guida pratica all'uso di psicofarmaci nelle carceri toscane: per una riduzione del danno da uso improprio, abuso, accumulo, traffico interno", promossa dall'Azienda sanitaria di Firenze, d'intesa con l'Amministrazione penitenziaria toscana, la Casa circondariale di Sollicciano, la Regione Toscana e l'Università di Siena. L'uso degli psicofarmaci in carcere pone problemi correlati con la percentuale elevatissima di individui tossicofilici, taluni affetti da disturbi di personalità severi, per i quali non vi sono prescrizioni con margini confortanti di risultato. Essi tendono a ricorrere in maniera impropria a tali prodotti, abusandone attraverso l'accumulo e lo smercio di quelli troppo spesso "pretesi" al di là della indicazione prescrittiva, quindi consegnati o somministrati, specie quando la formulazione in compresse, capsule, buste favorisce il traffico interno. Alcuni prodotti psicofarmacologici, come ad esempio le benzodiazepine in genere, il clonazepam in specie, o il biperidene cloridrato o la quetiapina sono molto richiesti dai tossicodipendenti. Il clonazepam è prescrivibile dal neurologo, avendo specifiche indicazioni antiepilettiche; il biperidene cloridrato è utilizzato per ridurre gli effetti collaterali dei neurolettici; la quetiapina è un antipsicotico di nuova generazione. Non sempre e non in tutte le carceri i medici si attengono alle limitazioni e alle opportunità prescrittive, essendo anche arduo resistere alle pretese dei reclusi, talvolta pericoloso. C'è poi una inclinazione a creare un mercato interno degli unici prodotti di abuso consentiti anche all'esterno. Questo avviene per esempio con la somministrazione non controllata di farmaci, consegnati al detenuto, così come avviene talvolta con il metadone da parte dei Ser.T. esterni. Compresse, capsule o bustine, a differenza di farmaci in gocce o in sospensione, sfuggono così più facilmente anche ai controlli infermieristici e alimentano appunto un commercio parallelo. Questa tendenza al commercio e alla mancata somministrazione monitorata di psicofarmaci mette a rischio anche la terapia di quei soggetti deboli che necessitano di cure, talora non pienamente eseguite e vengono sopraffatti da compagni più forti e prepotenti. La dottoressa Gemma Brandi che dirige il Centro di salute mentale per adulti in funzione a Sollicciano ha promosso in collaborazione con la cattedra di Psichiatria dell'Università di Siena, la stesura appunto di una Guida pratica rivolta a tutti i medici e gli infermieri che operano nelle carceri toscane, con l'obiettivo di ridurre il danno che può derivare da consuetudini infauste. La Guida e le problematiche connesse alla inappropriatezza delle prescrizioni, all'uso delle compresse, più pratico ma anche più rischioso in quanto favorisce l'accumulo e il commercio illecito, sono dunque al centro del confronto che si terrà nel luogo pensato da Giovanni Michelucci per umanizzare il penitenziario. Ufficio stampa Az. Sanitaria Firenze Torino: Sappe; detenuto frattura il setto nasale a poliziotto www.obiettivonews.it, 11 aprile 2015 Alta tensione nel carcere di Torino, dove questa notte un detenuto straniero ha dato in escandescenza e turbato l'ordine e la sicurezza della struttura penitenziaria aggredendo un Agente di Polizia in servizio. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Questa notte verso le ore 2,00, presso la Casa circondariale di Torino, un detenuto comune di origini africano, ristretto nella sezione Filtro padiglione A, ha colpito senza alcun motivo l'Agente di Polizia Penitenziaria sul naso, fratturandogli il setto nasale", spiega il segretario generale del Sappe Donato Capece. "Al collega ferito va la nostra vicinanza e solidarietà, ma servono ora risposte certe: sono più di dieci le aggressioni a poliziotti registrate a Torino dall'inizio dell'anno". Il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria torna a sollecitare il Ministro della Giustizia Orlando e i vertici dell'Amministrazione centrale "di dotare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria di strumenti di tutela efficaci, come può essere lo spray anti aggressione recentemente assegnato - in fase sperimentale - a Polizia di Stato e Carabinieri. Mi auguro che il Ministro della Giustizia Andrea Orlando e il Capo Dap Santi Consolo valutino positivamente questa nostra proposta e, quindi, assumano i provvedimenti conseguenti. Vicente Santilli, segretario regionale Sappe per il Piemonte, evidenzia che, nei dodici mesi del 2014, nel carcere di Torino si sono contati "17 tentati suicidi di altrettanti detenuti, sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria, 54 episodi di autolesionismo (ingestione di corpi estranei, chiodi, pile, lamette, pile, tagli diffusi sul corpo e provocati da lamette), 5 colluttazioni e 8 ferimenti". Capece evidenzia infine come l'ennesima aggressione nel carcere di Torino, un penitenziario nel quale oggi ci sono circa 1.300 detenuti, è "sintomatico del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell'esecuzione della pena in Italia sono costanti. E che a poco serve un calo parziale dei detenuti, da un anno all'altro, se non si promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell'esecuzione della pena nazionale, come ad esempio l'espulsione dei detenuti stranieri". Bari: Cosp; 3 poliziotti feriti da aggressione detenuto durante trasferimento in infermeria Ansa, 11 aprile 2015 Tre agenti di polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Bari sono rimasti feriti dopo essere stati aggrediti da un detenuto che stavano trasferendo dalla Sezione ordinaria in infermeria. L'episodio, del quale riferisce il Coordinamento sindacale penitenziario (Cosp), sarebbe avvenuto il 7 aprile scorso ma se ne è avuta notizia solo nelle ultime ore. Gli agenti hanno riportato rispettivamente la frattura del setto nasale, un trauma cranico facciale con ematoma nella zona dell'occhio sinistro e una ferita al polso sinistro, e sono stati medicati al Pronto soccorso del Policlinico di Bari. Anche il detenuto - 44 anni, di Afragola (Napoli), condannato per reati contro la persona e il patrimonio con fine pena nel 2017 e pare con disturbi psichici - è stato medicato in ospedale dopo aver compiuto atti di autolesionismo, e i medici - per quanto riferito dal Cosp - gli avrebbero suturato l'addome con decine di punti. Il Cosp prende spunto dall'episodio per sottolineare le difficoltà in cui operano gli agenti di polizia penitenziaria nel carcere di Bari, anche per l'organico carente, e chiede l'intervento del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Velletri (Rm): Fns-Cisl; agente penitenziario aggredito da un detenuto www.romatoday.it, 11 aprile 2015 L'assistente capo di 49 anni ricoverato in ospedale con 23 giorni di prognosi. Lo rende noto i sindacati dei Baschi Azzurri. Aggressione il giorno di Pasqua nel carcere di Velletri dove un detenuto ha aggredito una guardia penitenziaria costringendola al ricovero in ospedale. Lo rende noto il l Segretario Generale Aggiunto della Fns-Cisl Massimo Costantino. Sempre nel giorno di domenica un altro carcerato ha inoltre tentato il suicidio tunisino nel carcere di Rieti. Secondo quanto riferito dal sindacato dei ‘Baschi Azzurri' l'aggressione è stata perpetrata ad opera di un detenuto magrebino ai danni di un assistente capo di 49 anni. Le violenze nella sezione isolamento della casa circondariale dei Castelli Romani. In particolare l'agente penitenziario ha riportato trauma contusivo e distorsivo al V e VI raggio della mano sinistra con successivi 23 giorni di prognosi. In riferimento ai due episodi Massimo Costantino commenta: "Per la Fns Cisl Lazio, quindi, occorre intervenire, al fine di evitare episodi del genere, aggressioni al personale e tentativi di suicidio da parte dei detenuti, aumentando sia il numero degli agenti ma anche quello del personale medico ed infermieristico. Occorre, comunque, allo stesso tempo inasprire le pene detentive per detenuti resosi responsabili di aggressione a danno del personale di Polizia Penitenziaria". Per la Fns Cisl Lazio anche il dato in aumento dei detenuti nelle 14 carceri del Lazio "dimostra che qualcosa non funziona, basti pensare che la legge svuota carceri non ha dato i risultati sperati, eccetto i primi 7 mesi dove il sovraffollamento delle carceri lentamente diminuiva. Come si ricorderà sono state inserite importanti novità quali braccialetti elettronici, l'affido in prova, la detenzione domiciliare al fine di evitare la detenzione in carcere". I dati che fornisce il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) dimostrano come continuano ad aumentare i detenuti nelle carceri del Lazio, al 31 marzo 2015, si rappresenta che i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione Lazio risultano essere 5.816 (702 in più rispetto ai 5.114 posti disponibili), rispetto al 31 dicembre 2014 si registra in tre mesi un più 216 detenuti considerato che i detenuti erano 5.600. Per la Fns Cisl Lazio quello che preoccupa "è che se non viene ridotto il sovraffollamento nelle carceri difficilmente si potrà migliorare sia le condizione detentiva dei detenuti ma, anche, quella lavorativa del personale ed evitare eventi critici quali aggressione al personale e tentativi di suicidio dei detenuti stessi. La Fns Cisl Lazio non resterà ferma segnalando agli uffici competenti, come sempre ha fatto, i rischi che corre il personale che lavora in condizioni a dir poco sicuro". Varese: progetto "Educare alla libertà", una finta cella nella palestra della scuola www.varesenews.it, 11 aprile 2015 Si tratta della seconda fase del progetto "Educare alla libertà": sarà allestita, insieme a una mostra, all'Isis Ponti di piazza Giovine Italia di Gallarate fino al 24 aprile. Da sabato 11 aprile con inaugurazione alle ore 10, l'Isis Ponti di piazza Giovine Italia ospiterà la ricostruzione di una cella carceraria. Abbinata a una mostra fotografica sulla quotidianità vissuta dai detenuti, l'istallazione potrà essere visitata e abitata per qualche minuto, così da fare comprendere al pubblico che cosa significhi scontare una pena dietro le sbarre. La possibilità di toccare con mano tale realtà è parte di un progetto ampio, "Educare alla libertà", frutto di un lavoro d'equipe. Il facsimile della cella è messo a disposizione dalla Caritas Diocesana mentre l'azione per informare e sensibilizzare gli studenti delle scuole superiori è stata portata avanti dall'Associazione Assistenza Carcerati e famiglie di Gallarate e dall'Associazione Volgiter, in collaborazione con il Bando Volontariato 2014 e il Centro Servizi per il Volontariato della Provincia di Varese. Operatori e volontari, insieme a un detenuto della casa circondariale di Busto, hanno incontrato circa 700 studenti e una trentina di professori dell'ultimo triennio. Hanno aderito l'Istituto Falcone, i Licei di viale dei Tigli, l'istituto Gadda Rosselli e, appunto, l'Isis Ponti. L'iniziativa si avvale del patrocinio del Comune di Gallarate, in particolare dell'Assessorato ai Servizi Sociali e dell'Assessorato alla Cultura. Le classi delle scuole superiori visiteranno la cella e la mostra nei giorni feriali mentre il sabato e la domenica (dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18) gli spazi saranno aperti al pubblico, preferibilmente ma non esclusivamente a gruppi e associazioni che vogliano avviare un percorso di conoscenza e incontro. Mostra ed esposizione fotografica saranno all'Isis Ponti fino al 24 aprile. "La prima parte del progetto, quella informativa che si è svolta nelle classi - spiega Agostino Crotti in rappresentanza dell'Associazione Assistenza Carcerati - ha avuto riscontri molto positivi. Un conto è parlare di carcere in astratto, ben altra cosa è conoscere i detenuti. Quando se ne scoprono le storie e il presente, tra aspirazioni e difficoltà, emerge l'umanità dei reclusi. Non si dimenticano colpe e reati ma diventa possibile guardare al carcere senza pregiudizi". "La detenzione - aggiunge il presidente di Volgiter, Marco Pozzi - dovrebbe essere l'extrema ratio e comunque all'interno di un sistema che punta al recupero della persona con una determinazione ben diversa da quella attuale. Si tratta di cambiare lo schema culturale associato al carcere, per questo è importante incontrare i giovani prima che si consolidi in loro la percezione diffusa di questa realtà, spesso fondata su presupposti erronei o controproducenti per tutti". "Purtroppo capita sempre di più - conclude l'assessora ai Servizi Sociali, Margherita Silvestrini - che chi affronta il disagio e la marginalità, in veste di operatore professionista o volontario, debba scontrarsi con luoghi comuni e pregiudizi. Non si possono nascondere problemi, criticità e responsabilità anche gravi dei singoli, ma le azioni di conoscenza ed educazione danno sempre un contributo importante, spesso sottovalutato, per imparare a leggere la realtà per come è davvero". "Educare alla libertà" prevede anche un concorso di scrittura, in prosa o in versi, sul tema "L'attesa: arco teso tra un vuoto che stringe e il cuore e una speranza che lo sappia colmare", riservato a studenti e detenuti. La premiazione è in programma il 29 aprile nella casa circondariale di Busto. Lecce: presentato "Amore e Rabbia", videoclip musicale interpretato dai giovani detenuti www.lecceprima.it, 11 aprile 2015 Venerdì 10 aprile alle ore 20.00 presso il Laboratorio KiiO Candles, in via Taranto 219 a Lecce, ha presentato il videoclip musicale "Amore e Rabbia", realizzato durante il corso di Musica e Scrittura creativa ed interpretato dai giovani detenuti del carcere di Lecce Borgo San Nicola e da artisti che hanno collaborato al progetto Storie D'Amore e Libertà, promosso dalle Associazioni Antigone onlus e BFake con il patrocinio del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Puglia. Il brano è curato dal musicista rapper Scienza, che ha arrangiato i testi e composto la base del brano in collaborazione con il producer Killo Tha Snatcha. Per l'occasione verrà presentata la Mostra con i disegni creati dalle detenute della sezione femminile per il corso di Street Art, che hanno già terminato un suggestivo murales di Frida Kahlo, soggetto simbolo di libertà femminile, che domina il muro fino ad allora grigio del cortile dei passeggi. Il murales è stato realizzato con l'aiuto dell'artista Ckeckos'Art autore di numerosi murales in Italia e all'estero e per ultimo il "Monaco rissoso che vola tra gli alberi" l'omaggio creativo al poeta salentino Bodini, diventato un grandioso murales in Via Taranto a Lecce. Il video è stato diretto da Mauro Russo di Calibronove che ha firmato la regia dei video di Clementino, Gue Pequeno e altri ancora. Rime forti che raccontano i sogni, le speranze, ma anche la rabbia di giovani che provengono dalla strada. I protagonisti? Proprio loro, i detenuti. La canzone è pungente, descrive la società in cui viviamo oggi, con tutte le sue sfumature più oscure e cariche di ingiustizia. Molti artisti sono rimasti colpiti dalla bravura di questi giovani, capaci di dare sfogo ad un'anima rap di livello senza aver mai pensato di intraprendere la strada dei musicisti. Tutto il backstage fotografico del videoclip è a cura di Alessandra Alfieri e sarà allestita una mostra venerdì durante l'evento. L'idea è nata dal confronto tra Mariapia Scarciglia, responsabile Puglia dell'Associazione Antigone e i soci dell'associazione Bfake, attiva sul territorio nella realizzazione di progetti all'insegna della libera circolazione e condivisione dei saperi. La passione per i diritti e l'impegno per la difesa delle fasce più deboli sono stati fondamentali per spingere il progetto all'interno del carcere leccese. Sono molti gli artisti e le realtà che si sono detti disponibili a collaborare e a fare la loro parte per i detenuti, perché luoghi come questi, siano più vicini alla società e contenitori di cultura, una cultura che per le rispettive associazioni fonda i suoi principi nel Rispetto dei diritti umani e nell'inclusione sociale. Anche quest'anno Il corso di Street art è curato da Ckeckos'Art e Anna Kitlas artisti del Laboratorio 167/B street mentre il corso di Musica dal rapper e dj Scienza. Libri: "Giustizia relativa e pena assoluta", di Silvia Cecchi recensione di Fabio Massimo Nicosia Il Garantista, 11 aprile 2015 Il libro che ricorda le sfide Radicali, che però su questi temi rischiano - paradossalmente - di farsi sfuggire un'occasione storica. L'Italia è un Paese bizzarro. Sapete che mestiere fa il personaggio che più di ogni altro oggi si batte per l'abolizione del carcere? La pianista? La librettista d'opera rii musica contemporanea? Esatto! Ma torse vi sorprenderà di più che la sua occupazione principale è quella di Sostituto Procuratore della Repubblica, a Pesaro per l'esattezza. In un suo testo pubblicato dalla gloriosa Liberi Libri nel 2011 "Giustizia relativa e pena assoluta", Silvia Cecchi argomenta da par suo su tale delicata questione. Non aspettatevi affermazioni mirabolanti e guerrigliere, si tratta di una "moderata". Cecchi semplicemente sostiene che il carcere, nella sua essenza punitiva, retributiva e afflittiva, semplicemente contrasta con l'art. 27 della Costituzione, secondo il quale la pena dove tendere alla rieducazione del condannato, senza con questo ristorare in alcun modo le vittime. In realtà l'autrice svolge anche un discorso più sottile, come si evince da! titolo del lavoro. La pena è "assoluta", nel senso che toglie in toto tempo e spazio al "reo", mentre raramente la condotta "delittuosa" esprime totalmente la personalità "malvagia" di questo, di cui il reato e solo una manifestazione parziale. Si noti - è questo a nostro avviso è un limite - Cecchi non intende contestare il diritto penale in quanto tale: secondo l'autrice rimane comunque spazio per pene alternative, restitutorie, interdittive, per processi di mediazione (questo l'aspetto più interessante, che l'autrice ha sviluppato in altri scritti). Intende invece contestare solo il carcere in quanto istituzione totale, che non ha senso né per il reo (quando è tale: non dimentichiamoci mai le detenzioni cautelari e degli innocenti), né per la vittima, che non vi ricava nulla, se non soddisfazione a un sentimento di vendetta, in sé comprensibile. La vittima quando c'è. Perché moltissimi sono ancora ì reati senza vittime, i victimless crymes, come quelli sulla droga, sicché, aggiungiamo noi, iniziativa anti carceraria e lotta antiproibizionista dovrebbero andare di pari passo. Detto questo sommariamente sul libro di Silvia Cecchi, resta spazio per qualche appunto sull'attuale lotta radicale sulle carceri, e non possiamo non esprimere un senso di insoddisfazione. Proprio il libro di Cecchi, così argomentato, così ricco di spunti, ci fa pensare che ì radicali rischiano di perdere un'occasione storica, Secondo i radicali, in nome dello "Stato di diritto", bisogna "riportare il carcere nelle legalità". Ma quando mai ci è stato? Proprio Cecchi ci dice che, in nome di quello stesso Stato di diritto. Il carcere andrebbe semplicemente abolito, ani mettendosi seni mai (ai sensi dell'art. 13 della Costituzione) qualche limitazione di libertà personale per i casi di maggiore pericolosità sociale, ma ciò non significa "carcere" come lo conosciamo (comunità, case-famiglia, etc.). E allora auspichiamo che, come fecero con i manicomi, i radicali vadano appunto alla radice delle cose e arricchiscano la propria azione con un maggiore approfondimento sull'istituto carcerario in quanto tale, sulla tematica del diritto penale minimo, e così via, dato che il rischio è quello di chiedere troppo e troppo poco nello stesso tempo. In effetti, questa posizione di troppo/troppo poco, di vedere che cosa di buono può aver fatto il governo (decreto legislativo sull'archivi azione atti eli particolare temuta) e, d'altro lato, di criticarlo quando fa qualcosa di sbagliato in quella direzione, come il far scadere i termini della delega sulla detenzione domiciliare. Certo, se si dice amnistia (pur fondamentale per deflazionare i processi pendenti) e basta, ti precludi di interagire su questo terreno più pratico, ma che va più decisamente verso la messa in discussione dell'istituto carcerario in quanto sanzione "generale", come dice Cecchi. Insomma, paradossalmente, proprio una più intransigente posizione sul piano teorico, di messa in discussione dell'istituto carcerario in quanto tale (cosa che peraltro Pannella faceva negli anni 70) consente un più stringente dialogo sulle riforme che vanno in questa direzione, come del resto richiesto dallo stesso messaggio di Napolitano, che solo alla fine parlava dì amnistia, come quadratura del cerchio del problema. Libri: i manicomi ora si chiamano psicofarmaci recensione di Simonetta Fiori La Repubblica, 11 aprile 2015 "Il manicomio chimico", di Piero Cipriano (Elèuthera pagg. 256, euro 15). Si definisce uno "psichiatra riluttante", stufo di fare il giudice dei matti. Talvolta usa parole come "carnefice" e "tortura". Parla di pazienti legati al letto, di psicofarmaci somministrati non per curare ma per annichilire, di case di cura private che assomigliano ai "villaggi turistici della cronicità". È raro sentire un medico che si esprima con questa furente schiettezza sull'establishment psichiatrico e sui luoghi del disagio psichico. Quarantasette anni, irpino, brillante promessa (poi pentita) della psicofarmacologia, Piero Cipriano ha narrato in due libri la sua ventennale esperienza nelle "fabbriche della cura mentale": così chiama i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, ossia i piccoli reparti ospedalieri dove si affronta la crisi psichiatrica. I suoi racconti ripropongono il genere della testimonianza civile da parte dei medici di frontiera: un corpo a corpo con la follia restituito con la forza della denuncia e l'affilatezza delle immagini. L'ultimo, Il manicomio chimico , uscito ora da Elèuthera, richiama l'attenzione su un'emergenza diffusa anche se ancora invisibile. La nascita di un gigantesco manicomio che non è più quello chiuso da Franco Basaglia, ma uno ancora più subdolo e inafferrabile che viene edificato dagli psicofarmaci. Vecchie e nuove catene di cui non sappiamo liberarci. Dottor Cipriano, nei suoi libri racconta storie di pazienti umiliati. "Sì, storie di tortura. In questo momento ci sono trecento persone legate a un letto con le fasce di contenzione. Dei trecento ventitré servizi diffusi nel territorio nazionale, l'80 per cento è a porte chiuse, ha finestre con le sbarre e utilizza le fasce. Le terapie farmacologiche spesso vengono somministrate per ridurre il paziente in uno stato agonico. Aveva ragione Basaglia a temere che questi reparti potessero diventare piccoli manicomi". Nei casi estremi legare non è una necessità? "Ho visto persone costrette alle fasce solo per uno sputo sulla finestra. Oggi si lega con disinvoltura, come se fosse un gesto normale. Però non se parla. Una pratica tabù". Accade solo nei reparti psichiatrici? "Accade ovunque in ospedale. Prendiamo gli anziani, appannati da demenza o arteriosclerosi. Anche loro vengono legati. In un pronto soccorso romano, mi è capitato di vedere un vecchio prete polacco con i genitali per aria. Tutt'intorno camici e casacche linde che lo strattonavano, "anvedi, questo è un prete", e giù a ridere. Ha ragione Ceronetti quando scrive che la più grande sciagura per un uomo è la lunga vita". Lei non lega mai pazienti esagitati? "Preferisco parlarci, fino allo sfinimento. E per bloccare una persona non escludo l'uso della forza fisica. Chi ha figli sa di cosa parlo. Qualche collega mi guarda con ribrezzo: talvolta è lo stesso collega che ordina le fasce, ma senza applicarle personalmente perché il lavoro sporco va lasciato ai subalterni. Io resto convinto che le fasce uccidano la relazione". Ma cosa propone in alternativa ai Spdc? "Basterebbe guardare ai modelli virtuosi, studiati nel mondo ma ignorati nel resto d'Italia. Non solo Trieste, ma anche Merano, Pistoia, Novara: tutte sedi dove vengono svolte attività domiciliari, oltre alla prevenzione e a colloqui più frequenti. Il paziente non ha bisogno solo di molecole, ma di una casa, di un lavoro, di relazioni. E la spia del funzionamento è proprio il Spdc: più è morbido il Servizio e più il territorio funziona bene. A Roma, al contrario, domina l'emergenza". Mancano soprattutto le risorse. "Il caso del Lazio è particolare. La metà del budget va alle cliniche private convenzionate con gli ospedali: dodici solo a Roma con milletrecento posti letto, sui quattromila delle case di cura distribuiti in tutto il territorio nazionale. L'iter è questo: il paziente in crisi arriva da noi, viene aggiustato farmacologicamente, poi affidato a quelli che Basaglia definiva gli imprenditori della follia, che lo ospitano per due o tre mesi riempendolo di farmaci. E poi si ricomincia. Crisi, 118, arrivo al Spdc, eccetera. Si ripropone la dinamica del manicomio, una sorta di internamento diffuso e circolare. E sta tornando pericolosamente in auge la pratica dell'elettroshock". Lei viene da quella scuola. "Sì, lavoravo nella clinica universitaria di Pancheri, Biondi e Bersani, luminari della psichiatria. E venni reclutato per il gruppo dell'elettroshock, il più ambito. Poi andai a fare il servizio civile a Montevarchi, dove m'imbattei in una psichiatria diversa". È anche grazie ai suoi studi sulla psicofarmacologia che lei mette in guardia dagli abusi. "Denuncio questo nuovo immenso manicomio chimico che recluta i sani. Oggi si diventa pazienti psichiatrici senza saperlo. Tristezza e lutti, rabbia e timidezza, disattenzione ed effervescenza: per ogni emozione forte c'è la pillola giusta. Pensiamo al lutto. Oggi se questa tristezza dura un po' più del previsto viene rubricata come una depressione e di conseguenza curata con gli psicofarmaci. Per non parlare dell'arruolamento dei bambini: i bulli e gli svogliati sono etichettati come iperattivi. Ma questo è un modo di fabbricare malati. Un bambino diagnosticato iperattivo sarà curato con molecole che lo renderanno un depresso, e poi la depressione sarà curata con farmaci che creeranno eccitazione, e quel bambino è condannato a essere un giovane psicotico". La sua lezione è molto chiara. I farmaci creano dipendenza. E possono provocare nuove psicopatologie. "Il caso Lubitz è interessante. Il suo spettacolare suicidio mette insieme il senso di fallimento esistenziale e una sorta di delirio di onnipotenza: una condizione tipicamente iatrogena, ossia provocata dai farmaci. Qualcuno mi provoca: ma tu che fai, non dai pillole? Ma certo che le do, ma con parsimonia e solo nelle condizioni gravi. E bisogna sospenderle appena è possibile. L'assunzione prolungata modifica l'equilibrio chimico del cervello che sempre più dipenderà da quella sostanza". Oggi appare diffuso l'uso "cosmetico" del farmaco. "Sì, per sentirsi in forma. Nel libro racconto di una brillante professionista che era stata curata per una depressioncina con una pillola e mezza di Prozac, ma venne da me perché gliene somministrassi due. Stava bene ma voleva sentirsi ancora più su. Mi rifiutai di accontentarla, avendola vista già abbastanza eccitata. "Ma come, dottore, non è contento se preferisco il Prozac alla cocaina?". Naturalmente non l'ho più vista". Lei non fa distinzione tra psicofarmaci e droghe. "Sono entrambi sostanze psicotrope, con la differenza che i farmaci sono legali, le altre no. Mi diverto a parafrasare l'incipit di Roberto Saviano in Zero Zero Zero, il libro sulla diffusione di cocaina. Tra poco sarà difficile trovare un pilota con la fedina psichiatrica pulita, o anche un medico o un conduttore di treno, scrittori, politici e cani. Mi viene in mente la provocazione di Michel Foucault: tutto il mondo è diventato un grande manicomio. Ci siamo quasi". Ma noi non eravamo il paese della rivoluzione basagliana? La sua denuncia mostra una resa totale alle catene, chimiche o di altra natura. "Basaglia ha dimostrato che si poteva curare la malattia mentale in altro modo, e indietro non si torna. Però noi basagliani di seconda generazione restiamo una minoranza, e bisogna lavorare ancora molto. Io non dispero". Il dottor Cipriano tra qualche mese sarà trasferito nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell'ospedale San Giovanni, l'unico nel Lazio che abbia le porte aperte. Norvegia: Halden, un'altra idea del carcere di Andrea Fiorello www.ilpost.it, 11 aprile 2015 Un bell'articolo del New York Times spiega perché il carcere norvegese accusato di essere troppo indulgente non fa bene ai detenuti: fa bene a tutta la Norvegia. Il carcere norvegese di Halden è considerato quello che garantisce le più alte condizioni di civiltà e rispetto umano del mondo: quando fu aperto l'8 aprile del 2010 gran parte della stampa internazionale lo definì, in modo piuttosto demagogico e superficiale, una "prigione a cinque stelle" perché le sue celle hanno la tv e il frigorifero, l'estetica di edifici e arredi è molto curata, e il suo muro di cinta è confuso tra gli alberi ed è privo di accessori minacciosi. Partendo dall'idea che le carceri punitive non funzionano in termini di "rieducazione" e maggior sicurezza per i cittadini, nel realizzare Halden il governo norvegese ha seguito il principio secondo cui è necessario che i detenuti siano trattati umanamente affinché abbiano maggiori possibilità di reinserimento nella società e minori incentivi a compiere nuovi reati: per questo la prigione - che è costata quasi duecento milioni di euro e il lavoro di dieci anni - è dotata di uno studio di registrazione, percorsi da jogging, una cucina comune e una foresteria per i parenti che si fermino in visita ai detenuti. A circa cinque anni dalla sua apertura, la giornalista del New York Times Magazine Jessica Benko ha visitato Halden per raccontare la vita quotidiana all'interno della prigione norvegese e per capire se l'esperienza di un carcere il più possibile accogliente e simile al mondo esterno stia funzionando. Benko scrive che dall'esterno Halden non sembra nemmeno un carcere: il muro di cinta che lo circonda è alto circa otto metri, ma fuori dal suo perimetro non ci sono né bobine di filo spinato, né recinzioni elettrificate e tantomeno torrette presidiate da cecchini istruiti a sparare su possibili fuggitivi. Eppure, scrive la giornalista, in questi cinque anni nessuno ha mai provato a fuggire. Confrontato con le strutture penitenziarie di altri paesi - racconta Benko - Halden sembra qualcosa di completamente fuori dal mondo: le sue strutture moderne, accoglienti e ben arredate, la libertà di movimento che offre (compatibilmente con la detenzione) e l'atmosfera calma e silenziosa sono caratteristiche opposte a quelle delle carceri che ci sono più o meno familiari. Queste attenzioni nei confronti degli occupanti sono la materializzazione dei principi norvegesi riguardo alle punizioni e al perdono: il trattamento dei detenuti è totalmente dedicato a prepararli per la vita che dovranno condurre quando usciranno dalla prigione. In Norvegia non solo non c'è la pena di morte, ma neppure l'ergastolo: la pena massima per qualsiasi crimine è di 21 anni di detenzione. "Meglio fuori che dentro" è il motto non ufficiale dell'autorità penitenziaria norvegese, che si propone la reintegrazione nella società per tutti i detenuti che vengono rilasciati: questo dipartimento statale lavora con le altre agenzie governative per assicurare una casa, un lavoro e l'accesso ai servizi di assistenza sociale per ciascun carcerato prima ancora che venga rilasciato. Grazie a un reddito pro capite tra i più alti del mondo, che deriva soprattutto dall'estrazione di petrolio nel Mare del Nord, la Norvegia può permettersi di garantire un welfare esteso ai suoi cittadini e di investire molto denaro nel suo sistema carcerario: secondo i dati del Vera Institute of Justice di New York, infatti, un detenuto di Halden costa al sistema carcerario norvegese circa 85mila euro l'anno, rispetto ai 28.500 euro spesi per un detenuto negli Stati Uniti. A un primo sguardo la differenza tra le due cifre sembra molto elevata, ma se gli Stati Uniti d'America avessero un numero di carcerati proporzionalmente simile a quello norvegese (75 ogni 100.000 abitanti, contro i circa 700 degli USA), il governo americano potrebbe spendere per ciascun detenuto la stessa cifra della Norvegia e in più risparmierebbe 41,3 miliardi di euro ogni anno. In un periodo come questo, in cui il sistema penitenziario statunitense è molto criticato per la durezza delle sue sentenze, l'eccessivo affidamento sull'isolamento dei detenuti e la disparità di trattamento tra le etnie - scrive Benko - i cittadini USA dovrebbero chiedersi che vantaggi porta spendere tanto denaro per 2,2 milioni di detenuti e se non sia il caso di imparare qualcosa dal sistema norvegese, che parte da un punto di vista diametralmente opposto. In Norvegia la pena di morte per i civili fu eliminata nel 1902, mentre l'ergastolo venne abolito nel 1981; fino al 1998, però, le prigioni norvegesi funzionavano in maniera simile a quelle degli altri paesi democratici. In quell'anno il Ministero della Giustizia riformò i metodi e gli obiettivi del sistema penitenziario nazionale, dando esplicita priorità alla riabilitazione dei prigionieri attraverso l'educazione, la formazione lavorativa e la terapia. Nel 2007 le riforme si concentrarono sulla reintegrazione, con particolare attenzione verso l'assistenza ai detenuti nella ricerca di una casa e di un lavoro stabile ancora prima della scarcerazione. Halden fu la prima prigione costruita dopo questa serie di riforme, così la riabilitazione divenne il fondamento della sua progettazione: ogni caratteristica della struttura fu sviluppata con l'obiettivo di moderare la pressione psicologica sugli occupanti, ridurre i conflitti e minimizzare le tensioni interpersonali. Per questo all'interno del muro perimetrale, a separare la prigione dalla campagna circostante, ci sono quasi 50mila metri quadri di foresta tipica del sudest norvegese, un paesaggio composto di cespugli di mirtillo, pini silvestri, felci, muschi e betulle. Secondo Gudrun Molden - una degli architetti che hanno progettato Halden - la foresta di mirtilli non è solo un ambiente naturale utile alla riabilitazione, ma per i norvegesi rappresenta un paesaggio familiare, che fa parte della crescita e dei ricordi di ciascuno. In tutto il mondo, la maggior parte delle prigioni di massima sicurezza è realizzata su terreni completamente piatti e privi di vegetazione, per ridurre al minimo il rischio di fughe e per togliere ai detenuti la possibilità di nascondersi. Jan Stromnes, vicedirettore del carcere, ha raccontato a Benko che quando alcuni membri dello staff provenienti da altre prigioni norvegesi arrivarono la prima volta a Halden, si preoccuparono per la presenza del bosco: "Erano piuttosto sorpresi dal fatto che ci fossero alberi e dal loro numero. Non sarebbe stato meglio rimuoverli? E cosa sarebbe successo se i detenuti si fossero arrampicati? Noi rispondemmo che, beh, se si fossero arrampicati avrebbero potuto sedersi sui rami e restarci finché non si fossero stancati, e a quel punto sarebbero tornati giù," e sorridendo ha aggiunto "Nessuno ha mai provato a nascondersi nel bosco. Ma anche se provassero a scappare là dentro non andrebbero molto lontano: resterebbero comunque dentro". "Dentro" significa all'interno del perimetro del muro di cinta, l'elemento che più di ogni altro definisce il carcere. Quello di Halden è visibile da ogni punto della prigione e rappresenta un ineludibile promemoria che ricorda costantemente ai detenuti la loro condizione. Poiché gli edifici di Halden sono stati concepiti appositamente per essere "a misura d'uomo", hanno un'ampiezza modesta e non sono più alti di due piani; in un contesto simile, il muro diventa una presenza di dimensioni notevoli, scrive Benko. Le due responsabilità principali del sistema penitenziario - detenzione e riabilitazione - sono in costante tensione tra loro e gli architetti che progettarono Halden pensarono che il muro avrebbe potuto rappresentare la prima: "Ci siamo affidati al muro" come simbolo e strumento di punizione, ha spiegato Molden a Benko. Quando nel 2002 Molden e i suoi collaboratori visitarono l'area di Halden, in preparazione al concorso internazionale indetto per progettare la prigione, decisero che avrebbero lasciato il contesto naturale più intatto possibile: per dirigersi alle proprie attività quotidiane di scuola, lavoro o terapia, i detenuti avrebbero camminato all'aperto, su e giù per le colline, su superfici irregolari, esattamente come avrebbero fatto al di fuori della prigione. Gli architetti decisero di realizzare gli edifici abitati dai detenuti a forma di anello, mentre nella scelta dei materiali presero ispirazione dai colori della natura circostante. Il materiale principale di cui sono fatti gli edifici è un mattone di cotto annerito; per rappresentare la detenzione è stato scelto un materiale "duro", pannelli di acciaio zincato, mentre il legno di larice non trattato - con le sue sfumature che vanno dal tortora al grigio chiaro - rappresenta il lato "morbido" associato alle idee di riabilitazione e crescita. Il sistema penitenziario norvegese enfatizza la "sicurezza dinamica", un metodo che vede le relazioni interpersonali tra gli addetti e i detenuti come il fattore fondamentale per garantire la sicurezza all'interno del carcere. L'opposto di questo approccio è rappresentato dalla "sicurezza statica", predominante nella maggior parte delle prigioni di massima sicurezza, che si affida a un ambiente progettato per prevenire i comportamenti pericolosi dei detenuti. In questo tipo di carceri gli occupanti sono costantemente sorvegliati da videocamere, costretti da porte che possono essere chiuse a distanza, mentre il vandalismo e la violenza sono evitati grazie a un mobilio a prova di manomissione. Quando devono essere spostati, i detenuti sono ammanettati e scortati a destinazione, mentre le guardie carcerarie vengono addestrate a ridurre al minimo le interazioni umane per evitare il rischio di scontri. La sicurezza dinamica non cerca di limitare i danni o di rendere le violenze impossibili, ma si occupa di prevenirle favorendo le interazioni tra detenuti e guardie carcerarie: durante la progettazione di Halden, ad esempio, agli architetti fu ordinato di fare in modo che le guardiole fossero più piccole possibili, così da spingere gli addetti della prigione a passare il proprio tempo nelle aree comuni insieme ai carcerati. A Halden, infatti, le guardie socializzano con i detenuti ogni giorno e conversano con loro mentre prendono un caffè, un tè o durante un pasto. Le aree esterne del carcere sono sorvegliate da telecamere, ma i detenuti spesso si muovono senza accompagnamento, usufruendo di un basilare livello di fiducia che l'amministrazione penitenziaria giudica essenziale per il loro progresso personale. Nelle classi dove si fa lezione, nei laboratori, nelle aree comuni o nelle zone delle celle, invece, non ci sono telecamere a riprendere quanto succede; questa sorveglianza molto blanda potrebbe permettere a un detenuto con cattive intenzioni di tenere comportamenti violenti, ma questo evidentemente non succede: nei cinque anni di funzionamento di Halden, la cella d'isolamento non è mai stata usata. Benko fa notare che la relativa calma della vita di Halden non dipende dalla natura tranquilla dei norvegesi o dalla loro omogeneità come gruppo etnico: solo tre quinti dei detenuti del carcere, infatti, sono cittadini norvegesi, gli altri provengono da 30 nazioni (prevalentemente Europa dell'est, Africa e Medio Oriente) e parlano norvegese poco o per niente. Per questa ragione, la "lingua franca" del carcere è l'inglese, necessario perché le guardie carcerarie possano comunicare con i prigionieri stranieri. Dei 251 detenuti di Halden, circa la metà sono stati imprigionati per crimini violenti come omicidio, aggressione o stupro, mentre un terzo è dentro per traffico o spaccio di droghe; nonostante ciò, incidenti violenti o minacce sono piuttosto rari e avvengono quasi tutti nell'Unità A. Questa è la zona più restrittiva del carcere: ospita i detenuti che hanno bisogno di un'assistenza medica o psichiatrica stretta, oppure quelli che hanno commesso crimini che li metterebbero in pericolo nelle Unità B e C, le aree più "libere" del carcere dove la maggior parte degli occupanti convive durante il giorno seguendo i programmi scolastici, lavorativi o di terapia. Benko racconta di aver incontrato alcuni detenuti dell'Unità A nell'area comune di un blocco occupato da otto uomini: nella stanza c'erano un divano arancione di vinile, alcuni scaffali con giochi da tavolo, riviste e manuali di diritto, mentre sotto la finestra che dava sul cortile dell'unità due detenuti erano intenti a giocare a carte con una guardia. Un prigioniero chiamato Omar le ha passato una cialda a forma di cuore appena cucinata, mentre Benko parlava con Chris Giske, un detenuto che parlava in ottimo inglese: "Hai sentito parlare del caso di Sigrid?" le ha chiesto Giske. "È uno dei casi più famosi in Norvegia". Nel 2012, una ragazza di 16 anni chiamata Sigrid Schjetne sparì una sera mentre rientrava a casa; il suo corpo fu trovato un mese dopo e la condanna di Giske lo rese uno degli assassini più odiati nella storia norvegese. Dopo aver assaggiato il tipico formaggio marrone norvegese (il "brunost" o "mysost", fatto di siero caramellato del latte, uno scarto di produzione del formaggio che viene cotto per mezza giornata), il direttore della prigione Are Hoidal ha spiegato a Benko che mangiare tutti insieme waffle e altri spuntini è un'abitudine tipica delle famiglie norvegesi, per questo la ricerca della "normalità" all'interno di Halden prevede che anche i detenuti dell'Unità A si incontrino una volta a settimana nelle aree comuni per prendere parte a questa specie di rituale. A Halden alcuni detenuti seguono corsi di cucina per ottenere certificati professionali e Benko ammette che il pasto migliore che ha ricevuto in Norvegia - lasagna piccante, pane all'aglio e insalata con pomodori secchi - le è stato preparato da un detenuto che aveva passato quasi metà dei suoi 40 anni in carcere. La giornalista ha anche incontrato i detenuti dell'Unità C8, un settore dedicato al recupero dalla tossicodipendenza: questi stavano tornando alle loro celle dopo aver fatto la spesa settimanale al negozio di alimentari interno della prigione. Dopo aver portato in cucina il cibo necessario per i pasti comuni, ciascuno è tornato nella propria cella per riempire il piccolo frigo personale di snack, frutta e bevande. Uno dei prigionieri era Tom, un uomo poco sotto la cinquantina con il corpo ricoperto di tatuaggi: la sua testa era completamente rasata, con "Fuck the Police" scritto in corsivo sul lato destro e "RESPECT" in maiuscolo su quello sinistro. Un tatuaggio sotto all'occhio destro era stato cancellato, mentre sotto quello sinistro c'era il numero "666?; una lunga cicatrice gli percorreva il collo e la testa, residuo di un incidente in motocicletta che lo aveva lasciato in coma l'ultima volta che era stato fuori di prigione. Benko racconta che a un certo punto Tom ha indicato la stanza dietro di lei e ha detto "Ora sei rimasta sola, vedi?": la donna si è girata e ha visto che c'erano altri otto detenuti che giocavano ai videogiochi o ritiravano la biancheria stesa, ma non c'era nessuna guardia. Le condanne ricevute da quel gruppo di carcerati includevano omicidio, possesso illegale di armi e aggressione, ma lei si è mantenuta calma nonostante la sorpresa: gli agenti potevano vederla dalle finestre della loro guardiola e in ogni caso Benko racconta di essere stata lasciata più volte da sola, con le guardie che aspettavano al fondo del corridoio per permetterle di intervistare i detenuti in una situazione più riservata. Dopo la frase apparentemente minacciosa, infatti, Tom la ha rassicurata aggiungendo, con un tono quasi d'orgoglio, "ed è tutto OK". Quando Halden fu aperto, i giornali descrissero l'arredamento del carcere come "lussuoso", "elegante" e lo compararono a quello di un piccolo hotel. In realtà - scrive Benko - i mobili di Halden non sono molto diversi da quelli di un dormitorio universitario: la loro caratteristica particolare, piuttosto, è quella di essere mobili "normali", cioè non progettati per un carcere. Gli arredi potrebbero essere usati come corpi contundenti o dati alle fiamme; anche in cucina - come un detenuto ha fatto notare - ci sono molti oggetti che potrebbero essere usati come armi, se qualcuno lo volesse: i piatti sono di ceramica, i bicchieri di vetro, le posate di metallo e a disposizione dei detenuti ci sono anche lunghi coltelli da cucina, legati a un cavo di metallo plastificato. Gli agenti penitenziari cercano di limitare ogni tensione che potrebbe sfociare in violenza: se due detenuti hanno problemi, una guardia o il cappellano della prigione li riuniscono per una sessione di mediazione che dura finché i due non hanno raggiunto un accordo pacifico e si sono stretti la mano. Anche le gang rivali accettano di non combattersi all'interno del carcere, benché la promessa non resti valida quando i componenti vengono rilasciati. I pochi incidenti violenti accaduti a Halden si sono verificati quasi esclusivamente nell'Unità A, dove sono tenuti i prigionieri con problemi psichiatrici più gravi. Se un detenuto viola le regole, le conseguenze sono rapide, coerenti e applicate in modo uniforme. Eventuali comportamenti recidivi vengono puniti con la reclusione all'interno della cella durante le ore di lavoro, a volte senza la possibilità di guardare la televisione: Benko scrive che un detenuto le ha raccontato di un prigioniero proveniente dall'Europa dell'Est che riuscì a connettere il suo televisore a Internet e per questo l'apparecchio gli venne tolto per cinque mesi. "Cinque mesi!" ha detto stupito il detenuto alla giornalista, "Non so come abbia fatto a sopravvivere". Benko ammette che a un primo sguardo è difficile credere che Halden, con i suoi 251 detenuti, possa rappresentare un modello per un paese come gli Stati Uniti d'America, dove la media nelle prigioni di massima sicurezza è di 1.300 prigionieri. Anche i numeri totali - 3.800 detenuti in Norvegia, 2,2 milioni di Usa - potrebbero apparire logisticamente e finanziariamente incomparabili, eppure c'è stato un momento in cui gli USA pensarono di adottare un approccio alla giustizia criminale simile a quello norvegese: nella sua "guerra al crimine", il presidente Lyndon B. Johnson nominò una commissione di 19 esperti (President's Commission on Law Enforcement and Administration of Justice, commissione presidenziale sull'applicazione della legge e l'amministrazione della giustizia) perché studiassero, tra le altre cose, le condizioni e le pratiche delle carceri statunitensi, già allora catastroficamente sovrappopolate. La relazione del 1967 che ne risultò, intitolata "The Challenge of Crime in a Free Society" (la sfida del crimine in una società libera), sosteneva che molti penitenziari statunitensi fossero dannosi per la riabilitazione: "La vita in molte carceri è nella migliore delle ipotesi sterile e futile, nella peggiore indicibilmente brutale e degradante. […] Le condizioni in cui vivono i detenuti sono la peggiore preparazione possibile alla riuscita del loro reinserimento nella società e spesso semplicemente rinforzano in loro un modello di manipolazione e distruttività". Nelle raccomandazioni, la commissione propose una visione delle carceri molto simile a quella di Halden: "Architettonicamente, la prigione moderna dovrebbe assomigliare il più possibile a un normale ambiente residenziale. Le stanze, ad esempio, dovrebbero avere porte invece che sbarre. I detenuti dovrebbero mangiare seduti a piccoli tavoli in un'atmosfera informale. Ci dovrebbero essere classi, ambienti per il tempo libero, aree diurne e magari un negozio e una biblioteca". A metà degli anni settanta, il federal Bureau of Prisons (dipartimento federale carcerario) statunitense completò tre carceri di detenzione preventiva progettate secondo i principi della relazione del 1967. I tre Metropolitan Correctional Centers (o MCC, centri correzionali metropolitani) ospitavano gruppi di 44 detenuti in unità autonome, dove ognuna delle celle singole con porte di legno si affacciava su un'area comune, dove i detenuti mangiavano, socializzavano e s'incontravano con visitatori e consulenti, riducendo la necessità di spostamenti al di fuori dell'unità. Tutti i prigionieri passavano l'intera giornata fuori dalle proprie celle, con un solo agente penitenziario privo di armi, in un ambiente finalizzato a diminuire lo stress, dotato di mobili di legno, tavoli all'interno delle celle, bagni di porcellana, lampade a vista, pareti dai colori vivaci, lucernari e pavimenti in moquette. Quando questi centri aprirono, però, l'atteggiamento pubblico e della politica verso i programmi di riabilitazione nelle prigioni americane era cambiato: tra i responsabili di questo cambio di approccio ci fu Robert Martinson, un ricercatore di sociologia alla City University di New York. In un articolo del 1974 sulla rivista Public Interest, Martinson descrisse uno studio che analizzava l'impatto dei programmi di riabilitazione nei confronti della recidiva di reato sulla base di dati raccolti dal 1945 al 1967. Nonostante circa la metà dei programmi individuali avessero ottenuto risultati nella riduzione della recidiva, l'articolo di Martinson concludeva che nessun tipo di programma riabilitativo del sistema penitenziario aveva dato esiti soddisfacenti. Lo studio di Martinson diede materiale alla stampa e ai politici per affermare che "nulla funziona" quando si tratta di riabilitazione dei detenuti. "Non funziona" divenne il titolo di una puntata del programma di attualità 60 Minutes in onda sul canale televisivo CBS, mentre nel 1975 il governatore della California Jerry Brown dichiarò che i programmi di riabilitazione "Non riabilitano, non dissuadono, non puniscono e non proteggono". Uno dei maggiori psichiatri del Bureau of Prisons si dimise, deluso da un atteggiamento che percepiva come l'abbandono dell'impegno alla riabilitazione, mentre nel 1974, alla cerimonia d'inaugurazione del MCC di San Diego, il Procuratore Generale degli Stati Uniti d'America William Saxbe dichiarò che la possibilità per il sistema penitenziario di ottenere la riabilitazione era un "mito", tranne che per i criminali più giovani. Lo studio di Martinson fu presto contestato: nel 1975 un'analisi degli stessi dati fatta da un altro sociologo criticò la scelta dello studioso di ignorare i risultati positivi, per giungere a una conclusione generale priva di fondamento. Nel 1979, Martinson pubblicò un altro studio che ribaltava esplicitamente le sue conclusioni precedenti, dichiarando che "contrariamente alla mia posizione precedente, alcuni programmi di trattamento hanno un effetto apprezzabile sulla recidiva". Ma oramai la narrativa del "nulla funziona" si era fermamente radicata: nel 1984, una relazione del Senato Usa che proponeva sentenze penali più dure citò lo studio di Martinson del 1974, ignorando completamente il suo cambio di opinione successivo. Le politiche d'intransigenza nei confronti del crimine che furono promosse in seguito dal Congresso e dal governo Usa prevedevano minimi di pena obbligatori, detenzioni più lunghe, normative che autorizzavano processi per i minorenni uguali a quelli degli adulti e il rilascio di detenuti senza programmi di reintegrazione. Tra il 1975 e il 2005, la quota di detenuti negli Stati Uniti d'America è passata da circa 100 ogni 100mila cittadini a quasi 700, uno dei dati più alti nel mondo: nonostante gli statunitensi rappresentino il 4,6 per cento della popolazione mondiale, infatti, le prigioni americane trattengono il 22 per cento dei detenuti di tutto il mondo. Oggi - scrive Benko - il modello dei MCC è conosciuto come direct supervision (supervisione diretta) e sopravvive in circa 350 strutture, per la maggior parte locali e di detenzione breve, che rappresentano meno del 7 per cento del totale. I dati degli ultimi 40 anni mostrano che queste prigioni hanno livelli di violenza e di recidiva inferiori alla media: alcune di queste strutture, se direttamente comparate con quelle precedenti, hanno visto le violenze ridursi del 90 per cento. Come spiega Benko, però, applicare le statistiche di questo piccolo gruppo di carceri all'intera organizzazione penitenziaria statunitense non ha senso: per potersi avvicinare al sistema norvegese, l'intero atteggiamento nazionale verso la detenzione - a tutti i livelli - dovrebbe cambiare radicalmente. Non è poi facile valutare esattamente quanto il metodo norvegese funzioni. Per provare ad avere più dati, la giornalista del New York Times Magazine ha incontrato l'antropologo Ragnar Kristoffersen, insegnante all'Accademia del Sistema Penitenziario norvegese, dove si occupa di formare le guardie carcerarie. Kristoffersen ha pubblicato uno studio che compara i tassi di recidiva nei paesi scandinavi: un sondaggio tra i detenuti rilasciati nel 2005 ha mostrato che in Norvegia il tasso di recidiva dopo due anni era del 20 per cento, il più basso della Scandinavia. Per dare un riferimento, una ricerca del 2014 realizzata negli Stati Uniti d'America ha stimato che circa il 68 per cento dei detenuti rilasciati nel 2005 sono stati arrestati per una nuova violazione entro tre anni. Parlando di Halden, Kristoffersen si è detto disgustato dagli articoli della stampa anglosassone che descrivevano il carcere come un hotel di lusso, ma passando al tema dell'efficacia del "metodo Halden" nei confronti della recidiva si è dimostrato molto cauto, sostenendo che le statistiche non sono abbastanza affidabili per valutare le pratiche detentive in generale. Da un sistema giudiziario all'altro, infatti, ci possono essere molte differenze nella gestione dei reati: ad esempio, il tipo di sentenze e la loro durata, il genere di crimine o quanto è facile che un soggetto sia rimesso in carcere per una violazione tecnica alla liberazione per buona condotta. A queste differenze, che rendono quasi impossibile comparare i sistemi penali, si aggiunge la diversa definizione di "recidiva" in ciascun paese: alcune nazioni considerano qualunque tipo di arresto come una nuova violazione, altre includono solo i casi che terminano in detenzione, mentre per altre ancora sono rilevanti anche le violazioni della liberazione per buona condotta. Quindi Benko ha provato a comparare le statistiche di Norvegia e Usa utilizzando gli stessi criteri per entrambi i paesi e ha ottenuto un dato di recidiva sorprendentemente simile: 25 per cento in Norvegia, 28,8 per cento negli Stati Uniti d'America. Ma per Kristoffersen è pressoché impossibile comparare l'efficacia dei programmi di reintegrazione, in particolare quella di Halden: le statistiche di recidiva norvegesi, infatti, sono divise in base alla prigione di rilascio; quasi nessun prigioniero, però, è liberato direttamente da un carcere di massima sicurezza, perciò non esistono dati di recidiva per Halden: "Bisogna fare attenzione perché c'è un tipo di errore logico che capita di frequente quando si parla di queste cose, ma non bisognerebbe mescolare due tipi di principi diversi. Uno è: Come si combatte il crimine? Come si riduce la recidiva? Mentre l'altro è: Quali sono i principi di umanità su cui si vuole basare il proprio sistema? Si tratta di due domande diverse". Riguardano tutta la comunità dei cittadini, ma di volta in volta quelli che sono detenuti oppure gli altri. Kristoffersen ha continuato dicendo: "A noi piace pensare che trattare i detenuti con gentilezza, con umanità contribuisca alla loro riabilitazione. Ma ci sono scarse prove scientifiche a sostenere che trattare le persone con gentilezza le dissuaderà dal commettere nuovi crimini. Molto scarse". Poi ha aggiunto "Però se tratti male le persone, questo si riflette anche su di te". Kristoffersen ha raccontato a Benko che durante i corsi di formazione, alle guardie carcerarie viene spiegato che trattare i detenuti con umanità è qualcosa che dovrebbero fare non per i detenuti, ma per se stessi. Questa teoria si basa sull'idea che insegnare agli agenti penitenziari a essere duri, violenti e sospettosi avrà conseguenze sulla loro vita, sull'immagine che hanno di se stessi, sulle loro famiglie e persino sui sentimenti e atteggiamenti dell'intera Norvegia. Kristoffersen ha chiuso il suo discorso con una citazione in genere attribuita allo scrittore russo Fëdor Dostoevskij: "Il grado di civiltà di una società può essere valutato entrando in una delle sue prigioni". Benko scrive di aver sentito la stessa frase poco prima di lasciare il carcere, pronunciata dal direttore di Halden Are Hoidal: che si è detto orgoglioso che le persone vogliano lavorare nella prigione che gestisce e la giornalista conferma che tutti gli addetti di Halden che ha incontrato si sono dichiarati entusiasti di "fare la differenza". "Rendono possibili dei grandi cambiamenti" ha detto Hoidal riferendosi ai dipendenti di Halden. E ha aggiunto: "Ho il miglior lavoro del mondo". Maldive: ex ministro della Difesa condannato a 10 anni per terrorismo Ansa, 11 aprile 2015 L'ex ministro della Difesa delle Maldive, Tholhath Ibrahim, è stato condannato ieri sera a dieci anni di carcere da un tribunale speciale che ha considerato fondata l'accusa di "terrorismo" rivoltagli dal pubblico ministero. Lo riferisce il portale di notizie VNews. I giudici hanno stabilito la colpevolezza di Tholhath che, in associazione con l'ex presidente Mohamed Nasheed condannato a 13 anni, avrebbe fatto arrestare nel 2012 il giudice Abdulla Mohamed. Il verdetto di colpevolezza, sottolinea VNews, è stato emesso all'unanimità dei tre giudici del tribunale. La condanna dell'ex presidente Nasheed, ribattezzato il "Mandela delle Maldive", è avvenuta al termine di un processo sommario ed ha suscitato critiche a livello locale e internazionale. Alcuni giorni fa il quotidiano maldiviano Haveeru ha riferito che l'avvocato di fama internazionale Amal Alamuddin, moglie dell'attore americano George Clooney, farà parte di un team legale internazionale che difenderà l'ex presidente e leader del Partito democratico delle Maldive (Mdp).