Rabbia fra le sbarre di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 10 aprile 2015 "Arrabbiato nell'infelicità, aspetta il giorno che è passato". (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com). Venerdì, 22 maggio 2015, ore 9.30-16.30, nella Casa di Reclusione di Padova ci sarà una Giornata Nazionale di Studi dal titolo "la rabbia e la pazienza". Ed ho deciso di scrivere qualcosa su questi due argomenti, ma più che sulla pazienza preferisco parlare della rabbia perché la conosco meglio. Sinceramente ho sempre avuto difficoltà a stare calmo, forse perché sono nato in una famiglia arrabbiata. E sono cresciuto in una terra incazzata. Per ultimo ho scontato tanti anni di carcere in mezzo all'odio istituzionale e con una pena disumana sulle spalle come l'ergastolo. E mi sono spesso domandato che cosa rimane ad un uomo spogliato della libertà, costretto a vivere rinchiuso fra le mura fredde di una cella, spesso d'isolamento, tenuto lontano dalla vita, dal sole, dal riso e dal pianto dei suoi figli e dell'amore della sua compagna? Mi sono spesso pure domandato come fare a sopportare "vivo fra i morti" la terribile angoscia del fine pena mai? E cosa può dare un padre ai suoi figli, quando non gli è permesso di regalare una caramella alla bambina in visita e poter dare un bacio, una carezza o quando le visite stesse vengono usate come strumento di ricatto: "o fa il bravo (uguale sottomesso al punto da perdere la stima di te stesso), o revochiamo il permesso di visita ai tuoi figli (non importa, se è il loro compleanno)"? Mi sono spesso domandato anche come potevo essere un marito affettuoso, "l'uomo ombra", (così si chiamano gli ergastolani ostativi fra di loro) che non ha più diritti, né modo di comunicare fisicamente il suo amore per la donna della sua vita? A queste domande che torturano chi sta in carcere, durante gli anni non ho mai smesso di cercare delle risposte. E le ho cercate con rabbia lottando contro le quotidiane ingiustizie, inflitte a me ed ai miei compagni, studiando per educare me stesso e l'Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io). Penso che la rabbia è stata il mio primo amore che mi ha fatto crescere e migliorare e nello stesso tempo penso di poter ammettere che mi ha anche portato in carcere. Incredibilmente, una volta dentro, mi ha pure aiutato a sopravvivere e a trovare le energie per lottare contro l'odio istituzionale dell'Assassino dei Sogni. Molti detenuti invece fanno finta di niente e rinunciano persino ad arrabbiarsi, indignarsi e a tentare di cambiare se stessi ed il luogo dove vivono, io ho preferito continuare ad arrabbiarmi in modo costruttivo per migliorare di più me stesso ed il mondo che mi circonda. E vi confido che a volte mi dispero molto perché forse non mi arrabbio abbastanza per tentare di dare il meglio, o il peggio, a seconda del punto di vista, di me stesso. Spero venerdì, 22 maggio 2015, ore 9.30-16.30, nella Casa di Reclusione di Padova durante la Giornata Nazionale di Studi dal titolo "La rabbia e la pazienza" d'incazzarmi abbastanza per dare la voce a tanti miei compagni che in questi giorni saranno deportati e gettati, come spazzatura umana, in altri carceri perché, ormai è ufficiale, nel carcere di Padova sarà chiusa la sezione di Alta Sicurezza. "Tutti trasferiti!" E le vite dei detenuti? Chissenefrega Il Garantista, 10 aprile 2015 La sezione di Alta Sicurezza del carcere di Padova chiude e chi vi è rinchiuso perderà di nuovo quel po' di umanità che aveva ritrovato. Una "deportazione" che spezza tante vite, interrompe percorsi, tronca legami famigliari faticosamente ricostruiti. I detenuti che hanno passato anni della loro vita in regime di 41 bis e poi di Alta Sicurezza sanno bene che cosa sono i trasferimenti improvvisi che ti distruggono anche quel po' di vita che ti eri costruito faticosamente in un carcere. Noi eravamo convinti che l'Amministrazione penitenziaria applicasse finalmente la circolare del 2014 "Disposizioni in materia di trasferimenti dei detenuti" riducendo al minimo i trasferimenti, non trincerandosi sempre dietro i motivi di sicurezza per giustificare gli spostamenti di persone detenute da un capo all'altro dell'Italia, senza nessuna preoccupazione per le loro famiglie, costrette a viaggi sfiancanti, costosi, per vedere i loro cari per poco tempo in sale colloqui squallide. Il vocabolario definisce la deportazione come una "pena consistente nella relegazione del condannato in un luogo lontano dalla madrepatria, con privazione dei diritti civili e politici": ecco, certi trasferimenti assomigliano tanto a deportazioni, e privano i detenuti di tutto, anche del diritto a preservare i loro affetti. Quelle che seguono sono le testimonianze di detenuti (il resto delle testimonianze le troverete sul sito di ristretti.it, ndr) che, dopo anni passati in carceri di massima sicurezza lontano dalle famiglie, sono arrivati a Padova, dove sono riusciti a ricostruire i legami spezzati e a dare un senso alla loro carcerazione, ma ora pare che chiuderanno davvero la sezione di Alta Sicurezza, e chi vi è rinchiuso verrò trasferito, a Parma, a Sulmona, a Asti, a Opera, in Sardegna, e perderà di nuovo quel po' di umanità che aveva ritrovato. E desolante che le persone detenute troppo spesso siano trattate come pacchi e spostate senza avere la minima possibilità di decidere qualcosa della loro vita. Come se la perdita della libertà significasse perdere anche la dignità propria di ogni essere umano. Il mio reinserimento, oggi a rischio di essere devastato, di Gaetano Fiandaca Dopo quasi otto anni trascorsi nella Casa di Reclusione di Padova, nei prossimi giorni sarò trasferito, poiché la sezione di Alta Sicurezza dove attualmente mi trovo sarà chiusa per motivi a me ignoti, che sicuramente riguardano delle convenienze ministeriali, ma che non rispettano per niente le vite delle persone. Questo immotivato trasferimento comporterà un totale azzeramento di quello che è stato il mio percorso in questo istituto, il quale mi ha dato la possibilità di crescere sul piano culturale e ha reso i contatti con i miei familiari molto più umani, cosa che verrà meno se verrò trasferito in altro luogo. Da quando mi trovo in questo istituto ho sempre usufruito di 6 ore di colloquio e da un paio di anni di altre due telefonate straordinarie, questo mi ha permesso di coltivare meglio i miei rapporti familiari con mia figlia, mia moglie e con i miei anziani genitori. I colloqui si svolgono in una sala accogliente che nasconde il grigiore del carcere. In particolare mi preme segnalare che da circa 3 anni effettuo colloqui esterni con mia figlia nella struttura protetta "Piccoli passi" poiché la bambina manifestava gravi disagi psichici ogni volta che veniva a trovarmi in carcere. Se andrò via da qui tutto ciò verrà meno e sicuramente andrò in un carcere dove dovrò ripartire da zero, iniziare con 2 telefonate mensili, 4 ore di colloquio e trascorrere le mie giornate chiuso in cella per 20 ore lasciandomi logorare totalmente dall'ozio. Sicuramente quello che mi peserà particolarmente sarà il dovere interrompere i contatti con mia figlia, in quanto temo che in altri posti non troverò la sensibilità e la comprensione che ho trovato qui. Subire questo è veramente ingiusto dopo 20 anni di carcere, sono questi i motivi per cui cresce la delusione e la diffidenza nei detenuti, ai quali spesso viene spazzato via quello che hanno costruito, anche con sacrifici e ulteriori privazioni. Trovo che questi trasferimenti avvengano senza tenere minimamente in considerazione i detenuti come esseri umani, né le famiglie che devono pellegrinare su e giù per l'Italia per andare a trovare il loro caro. E sono proprio queste condizioni di detenzione che spesso causano molti allontanamenti fra i detenuti e le loro famiglie. Forse a quasi 50 anni sono ancora un po' ingenuo a non capire che queste lunghe distanze hanno proprio il fine di creare una vera e propria rottura con ogni affetto familiare. Ma insieme alla distruzione degli affetti, viene cestinato anche il percorso carcerario che un detenuto per anni svolge con impegno costante, cercando in tutti i modi di partecipare a quelle iniziative culturali e lavorative che sono così importanti per ricostruire la propria vita. Questi comportamenti delle istituzioni determinano delusione e sfiducia e fanno perdere alle persone la voglia di intraprendere ulteriori percorsi carcerari in altri istituti di destinazione, dove dovrebbero ripartire da zero, magari dopo più di vent'anni di carcere alle spalle, con l'angoscia di sapere che poi questi percorsi saranno quasi sicuramente spazzati via dalla prossima, immotivata deportazione di massa. Perché di deportazione si tratta, non c'è niente di umano in questi trasferimenti, nessun rispetto, nessuna considerazione per la dignità delle persone. Da quando mi hanno detto che chiuderanno la sezione di Alta Sicurezza, ho ripensato alla mia esperienza di studio qui in carcere. Al momento in cui ho lasciato la scuola nel 1983, dopo avere conseguito la licenza media, pensavo che la mia esperienza scolastica si fosse conclusa per sempre. A 43 anni, a seguito della mia detenzione, ho avuto la possibilità di iscrivermi a ragioneria e devo dire che fin da subito mi sono reso conto di quanto fossero importante l'istruzione e la cultura e di quanto io ne avessi bisogno. I benefici di ciò sono veramente tanti, sono passato dall'ozio quotidiano, fatto di consuetudini ripetitive, a un'attività completa per accrescermi sul piano culturale. La scuola per me è stata una notevole apertura sul mondo, mi permette di confrontarmi con gli insegnanti e mi apre tutti quegli spazi, che diversamente sarebbero rimasti invalicabili. Sull'immediato ho notato solo benefici a livello mentale e interiore, nel futuro spero che possa servirmi nella vita sociale e lavorativa, dico spero poiché il mio ergastolo ostativo non mi consente di avere una certezza, visto che le attuali leggi, a riguardo, dicono che la mia pena finirà con i miei giorni di vita. Questa esperienza della scuola, che auguro a tutti, in particolar modo a quelle persone che come me vivono una situazione di ristrettezza, consente di poter vivere più serenamente con se stessi i problemi, ma anche di potersi meglio aiutare e difendere nella vita, uscendo dal vuoto in cui si vive quando non si ha una adeguata istruzione. L'ignoranza infatti è una brutta bestia. Spero di continuare in questo percorso, che mi consente un ampliamento totale della visione della vita. Mi affascina molto anche l'aspetto competitivo che automaticamente s'innesca con me stesso, in una attività di studio che non affronto più da adolescente. Chiaramente, tutti questi buoni propositi oggi non dipendono esclusivamente dalla mia volontà, io sono condizionato dalle possibilità che offrono i posti in cui mi trovo, che non sempre garantiscono una continuità nelle attività didattiche, anzi, a breve chiuderà la sezione di Alta Sicurezza dove attualmente mi trovo, e io sarò deportato per la tredicesima volta chissà dove per motivi che esulano da mie responsabilità, ma che riguardano convenienze e comodità del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, che spesso ci considera e ci tratta come dei pacchi postali da stipare in posti deve occupiamo meno spazio e possibilmente sempre più difficili da raggiungere ai nostri familiari, i quali sono colpevoli di essere ancora molto legati a noi. Tali iniziative stridono fortemente con il tanto decantato reinserimento dei detenuti, visto che quello che i detenuti costruiscono con molto impegno e sacrificio viene spesso spazzato via da decisioni prive di considerazione per le persone, motivo per cui molti detenuti rimangono scettici e diffidenti verso coloro che in teoria dovrebbero aiutarli ad un reinserimento, ma che di fatto fanno una cosa diversa. Il mio più vivo auspicio è che venga rivista la possibilità di questa imminente deportazione di massa, in modo che io, cosi come altri detenuti che in questo istituto da tempo abbiamo intrapreso un percorso didattico e lavorativo, possiamo continuare a crescere sul piano culturale, nella remota speranza che anche per noi possa esserci un futuro. Giustizia: il reato di tortura e trenta casi simili, contro il populismo penalista del mio Pd di Luigi Manconi (Senatore Pd) Il Foglio, 10 aprile 2015 1. Un esempio recente, scelto tra tanti. Il 23 dicembre scorso, il governo presenta il disegno di legge delega (AC n. 2798) contenente tra i principi e criteri direttivi anche l'eliminazione di automatismi normativi in ambito penale, nonché la revisione della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari (art. 26, comma 1, lett. c). Esattamente due mesi dopo, il Parlamento approva la legge 23 febbraio 2015, n. 19, che estende l'automatismo ostativo ai benefici penitenziari (art. 4-bis ord. penit.) anche ai condannati per il delitto di scambio elettorale politico mafioso (art. 416-ter c.p.). La mano destra del Legislatore promette di cancellare ciò che la mano sinistra continua a scrivere. 2. Nel frattempo, il piede del Legislatore insiste nel premere sull'acceleratore dell'inasprimento sanzionatorio. Come se, a ogni tornante della vita collettiva, la sola traiettoria da seguire sia - sempre e comunque - l'incremento delle pene e il ricorso al carcere. Nell'attuale XVII Legislatura si contano almeno trenta interventi normativi (veicolati da leggi, decreti legge, decreti legislativi) che introducono nuovi reati o che elevano i massimi edittali per reati vigenti. Il Legislatore è, in questo, davvero generoso con tutti: terroristi e relativi arruolatori, detentori abusivi di precursori di esplosivi, piromani di rifiuti, falsari, indebiti importatori di legno o di sostanze attive o controllate, coltivatori di sementi vietate, riciclatori di beni di provenienza illecita, frodatori informatici o in competizioni sportive, schiavisti, disertori o insubordinati di equipaggio navale. È un elenco che pecca per omissione. E che, grazie al lavoro straordinariamente vigile e acuto di Andrea Pugiotto e Stefano Anastasia, ha consentito di meglio evidenziare questa perversa tendenza alla bulimia sanzionatorio-carceraria. Una vera e propria patologia che fa fare un salto di qualità (orribile) al populismo penalista trasformandolo, in men che non si dica, in demagogia punizionista. 3. È, questo, un treno cui andranno ad aggiungersi sempre nuovi convogli. Alcuni sono quasi in dirittura d'arrivo. Così, sarà da otto a dodici anni la reclusione per chi, al volante in stato di ebbrezza o sotto l'effetto di droghe, provochi la morte di una persona. E la pena aumenterà del triplo, fino a un massimo di diciotto anni, se le vittime fossero più d'una (AS n. 859, Norme penali sull'omicidio stradale). Quanto all'introduzione del delitto di tortura (AC n. 2168), i tetti edittali saranno così elevati da toccare, quale aggravante ad efficacia speciale, la vetta del carcere a vita. E la normativa anti-corruzione ha ricalcato, fin quasi al parossismo, quella stessa impostazione. 4. La scelta di ricorrere all'illecito penale rientra nell'ambito delle scelte discrezionali del Legislatore. Ma, da troppo tempo più che alla leva, è alla clava penale che si ricorre con autistica reiterazione. Eppure la sanzione penale non è strumento imposto dalla Costituzione, che non conosce obblighi di criminalizzazione, salvo l'ancora inevasa previsione del reato di tortura. La sanzione penale, infatti, "per sua natura costituisce extrema ratio, da riservare ai casi in cui non appaiano efficaci altri strumenti per la tutela di beni ritenuti essenziali" (Corte costituzionale, sentenza n. 273/2010): è per questo che il suo impiego deve avvenire nel rispetto dei principi costituzionali di proporzionalità e di sussidiarietà. Compito del Legislatore è, dunque, quello di interrompere l'irresistibile espansione di pene e reati, allargando progressivamente gli spazi nei quali obblighi e doveri sono operanti, ma non necessariamente sottoposti alla minaccia del carcere. E sottoposti, invece, a più serrati controlli e a responsabilità amministrative o a sanzioni alternative alla detenzione. 5. Sono il realismo e la misura ad imporre questa strada. Con fatica, l'Italia tenta di uscire da un sovraffollamento carcerario strutturale e sistemico, di cui dovrà nuovamente rispondere al Consiglio d'Europa nel giugno prossimo. Le condizioni inumane e degradanti del sistema penitenziario riducono la pena ad una finalità esclusivamente retributiva, capace solo di affliggere il detenuto. E così, dovremo tutti pagare il conto di una detenzione totalmente indifferente a quella che è la sua costituzionale finalità rieducativa. Si aggiunga che - nessuno sembra ricordarlo - la nostra Costituzione non parla mai di carcere, lasciando campo libero a un legislatore capace di cambiare radicalmente la fisionomia delle sanzioni penali. Esattamente l'opposto di quanto accaduto con l'ignorata delega legislativa (legge 28 aprile 2014, n. 67), lasciata cadere proprio per la parte in cui mirava a introdurre nuove pene detentive non carcerarie. Sullo sfondo una sentenza della Consulta, dove in particolare si nega legittimità a quelle "incriminazioni che producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) e alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima" (sentenza n. 409/1989). 6. Se si vuole, si può fare. E se si può, si deve fare. Com'è accaduto nello stato del Vaticano, con l'abolizione dell'ergastolo, e con le recenti esortazioni di Papa Francesco in tema di pene e reati. Si legga e si mediti questa radicale contestazione del "populismo penale". Ovvero della convinzione che "attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina […] In questo contesto, la missione [del legislatore] non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze" perché "la cautela nell'applicazione della pena dev'essere il principio che regge i sistemi penali" (Udienza alla delegazione dell'Associazione Internazionale di Diritto penale, 23 ottobre 2014). Ma si legga anche l'esortazione a mantenere le pene nel solco della giustizia (Lettera al Presidente della Commissione Internazionale contro la pena di morte, 20 marzo 2015), attraverso l'eliminazione di quelle massime, siano esse palesi (la pena di morte) o nascoste (la pena fino alla morte, qual è l'ergastolo), perché "c'è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene". Si è affievolita, così, "la concezione del diritto penale come ultima ratio", e "si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative". 7. L'abuso del diritto penale e l'inflazione del ricorso alla carcerazione sono come un colpo di spada vibrato nell'acqua: spettacolare ma sterile. Meglio, allora, ascoltare e seguire l'insegnamento evangelico di Matteo (26, 52): "Rimetti la spada nel fodero". Giustizia: il dolce (ma letale) racconto del populismo giudiziario e del populismo penale di Maurizio Crippa Il Foglio, 10 aprile 2015 Forse a Gianni Cuperlo, uomo di buone letture e minoranze dem, piace ancora. Forse anche a Matteo Orfini, pure buone letture. Forse ai renziani no, troppo comunista, fino alla fine, era rimasto. Però qualche volta, i renziani soprattutto, Orfini soprattutto, Manuel Vázquez Montalbán dovrebbero rileggerlo. Ad esempio l'inizio di "Assassinio al Comitato centrale". C'è una riunione a porte chiuse, all'improvviso va via la luce e sparano al segretario generale. L'attimo di buio è il momento politico perfetto per far fuori un avversario. (Avversario di chi, poi?). C'è un metodo narrativo, o un modo di lavorare del subconscio, che nella sinistra continua ad agire sottotraccia, mentre la renziana guarigione delle coscienze sembra restare in superficie. Un attimo di buio, l'occasione colta al volo, e Matteo Orfini ha fatto partire un siluro, siluro politico, contro Gianni De Gennaro. La luce è tornata subito. Ma il comitato centrale è rimasto in silenzio. Il loquace garantismo di Matteo Renzi non s'è udito, il garantismo a fasi alterne del suo Pd non ha emesso tweet. Pensare male è un peccato di prudenza. Ma non sentire nel silenzio l'eco del metodo Lupi, è difficile. Il giustizialismo può essere criticato in parole, un po' meno in atti, a giudicare da quanto il governo ha fatto finora, ma c'è uno stile narrativo che continua ad agire. Basta raccontare che il mantenimento di una certa posizione non è più opportuna, perché così la pensa il popolo, perché c'è un racconto dei fatti sedimentato e diffuso, che scorre come il flusso di coscienza della nazione (del partito della nazione?). E allora perché non assecondarlo, il racconto del populismo giudiziario? Perché non approfittarne, quando serve? È un calarsi alla corrente cui Renzi dovrebbe stare bene attento, poiché va in senso contrario alle sue enunciazioni di principio e di logica sul tema della giustizia. Anche Raffaele Cantone dev'essere un uomo di buone letture. Così il presidente dell'Autorità anticorruzione ha detto: "Gianni De Gennaro è stato indagato e assolto. L'assoluzione conta pure qualcosa". È il volto umano di un commissariamento giudiziario in cui il renzismo sta avvolgendo (morbidamente, eh!) il paese. Così ieri, ad esempio, ha anche detto, sull'Expo: "Sono convintissimo che in alcuni casi la corruzione si annidi anche nella perfezione, di certo i nostri controlli l'hanno resa più difficile". Rassicura l'opinione pubblica, mette il timbro dei pm mentre tiene a bada l'attivismo dei pm. A lui regaleremmo la "Lettera al mio giudice" di Simenon: "Signor giudice, vorrei tanto che un uomo, un uomo solo, mi capisse. E desidererei che quell'uomo fosse lei". Guarigione delle coscienze. Ma la corrente è sempre quella, la narrazione del giustizialismo sottotraccia è sempre quella. E i racconti sedimentano in miti. E i miti hanno la pretesa di farsi leggi. Così che al populismo giudiziario segue il populismo penale. Corruzione? Eccovi le pene più alte che la storia ricordi, dopo il Taglione. L'omicidio stradale? Nessuna miglior cura della galera. Lì, almeno, non si guida. Il reato di tortura? Per carità, quello è sacrosanto. Ma sarà la pena il deterrente per il poliziotto manesco, o per uno stato che non sa amministrare la sua giustizia e allora la racconta, se la racconta? Giustizia: approvata la riforma delle misure cautelari, il carcere diventa un'eccezione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2015 Custodia cautelare solo in casi estremi. Con rafforzamento delle misure alternative e obblighi di motivazione più stringenti da parte dei giudici. Il Senato ha approvato ieri definitivamente il disegno di legge di riforma. In nome di un principio di civiltà, il carcere solo come misura estrema, e di una realtà tutta italiana (quasi il 35% dell'intera popolazione carceraria, 18.622 detenuti, è in attesa di giudizio e, dal 1991 lo Stato ha pagato più di 600 milioni di euro per l'ingiusta detenzione di circa 20mila persone anche per effetto di sentenze di assoluzione). Esulta il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "È un provvedimento di grandissima importanza, che rafforza la riforma che stiamo portando avanti" sulle carceri e "consente di dare una risposta ulteriore e definitiva alla questione sollevata dalla Corte di Strasburgo" in materia di sovraffollamento carcerario. La Corte di Strasburgo aveva condannato l'Italia per il sovraffollamento, chiedendo l'adozione di misure di contrasto. L'Italia ha presentato un piano che è stata valutato positivamente nel giugno 2014 e su cui c'è l'impegno di un'ulteriore verifica entro giugno di quest'anno in sede europea. "A maggio - ha infatti annunciato Orlando - mi recherò al Consiglio d'Europa per illustrare definitivamente i risultati ottenuti nel corso di quest'anno". Risultati che hanno consentito di diminuire la popolazione carceraria e di aumentare il ricorso alle pene alternative. "Uno scenario nuovo, rispetto al quale c'è però ancora da fare in particolare riguardo all'esecuzione della pena", ha detto il ministro, che ha ringraziato il Parlamento per aver rispettato la tabella di marcia fissata sulla custodia cautelare. Nel merito, il provvedimento esclude qualsiasi applicazione automatica della custodia cautelare, considerandola la "prima scelta" solo per mafia e terrorismo. In tutti gli altri casi, per i quali oggi è comunque prevista la presunzione dell'adeguatezza del carcere (reati a sfondo soprattutto sessuale), andrà motivata da parte del giudice la necessità della misura. In generale, per giustificare il carcere, il giudice non potrà avere come punto di riferimento la gravità del delitto e le modalità della sua esecuzione. Per potere privare della libertà una persona, un peso maggiore andrà attribuito a elementi come i precedenti, la personalità, la condotta. Inoltre, il pericolo di fuga o che il reato possa essere ripetuto dovrà non solo essere concreto, ma anche attuale. Il carcere, poi, sarà possibile solo quando altre misure, come quelle interdittive (sospensione dall'esercizio della professione o di un'attività imprenditoriale, dalla potestà di genitori, dall'esercizio di un pubblico ufficio), o coercitive (arresti domiciliari, per esempio), sono impraticabili. In più, se le esigenze cautelari vengono ad aggravarsi, diventa anche possibile il cumulo di una pluralità di misure. Più volte, anche da parte della Cassazione, è stata poi sottolineata la necessità per i giudici di non appiattirsi sulle richieste dei pubblici ministeri. La legge approvata ieri stringe le maglie sulle motivazioni. E lo fa sottolineando che non potranno più essere richiamati gli atti dell'accusa nelle decisioni sul carcere e che, anzi, andrà spiegato perché le argomentazioni della difesa sono state ignorate. Il Tribunale della liberta avrà poi tempi perentori per decidere e depositare le motivazioni, in caso contrario la misura cautelare perderà di efficacia. Misura che, salvo eccezionali esigenze, non potrà più essere rinnovata. Il collegio del riesame dovrà inoltre annullare l'ordinanza (liberando l'accusato), e non come oggi integrarla, quando il giudice non abbia motivato il provvedimento cautelare o non abbia valutato autonomamente tutti gli elementi. Tempi più certi anche in sede di appello cautelare e in caso di annullamento con rinvio da parte della Cassazione. Quanto alle misure interdittive, si prevede: la perdita di efficacia decorso il termine stabilito dalla relativa ordinanza; l'aumento da 2 a 12 mesi della durata massima delle misure stesse; la loro possibile rinnovazione per esigenze probatorie non oltre il limite di durata massima. A uscire rafforzate ci sono poi anche misure. Come gli arresti domiciliari, la cui trasgressione, se lieve, non può essere - sottolinea la legge - la sola ragione per la revoca e il ripristino della custodia in carcere. Giustizia: misure cautelari riformate, ma l'efficacia richiede un cambio culturale Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2015 Il Senato approva in via definitiva la legge in tema di misure cautelari personali, concludendo il tortuoso iter del ddl n. 1232-B, iniziato alla Camera il 9 gennaio 2014. Obiettivo della riforma, porre un freno all'uso disinvolto della custodia cautelare in carcere, mediante il rafforzamento dei parametri che legittimano l'adozione del provvedimento e un più stringente controllo di Gip e Tribunale del riesame sulla procedura seguita e sulla motivazione a sostegno. È presto per dire se le nuove disposizioni invertiranno il trend esistente, dal momento che le modifiche formali incideranno poco senza un diverso atteggiamento culturale della magistratura. L'eccesso di custodia cautelare è statisticamente innegabile: su un totale di 54.122 detenuti al 31 marzo 2015, i non condannati in via definitiva sono 18.696, pari al 34,5% (Fonte Dap). Sebbene la popolazione carceraria sia in diminuzione, anche per effetto di recenti provvedimenti "svuota-carceri", resta tuttavia alta la percentuale di chi è in carcere in attesa di giudizio, specie se comparata con la Ue. Le ragioni sono complesse e riconducibili, da un lato, alla porosità delle norme procedurali vigenti, in grado di assorbire ipotesi variegate di ricorso alla custodia cautelare, grazie anche alla generosa interpretazione giurisprudenziale. Dall'altro, alla sottile convinzione in chi chiede e ottiene il carcere preventivo che tale misura anticipatoria sarà l'unica in concreto a essere applicata, complice la lunghezza eccessiva del processo e l'alea incombente della prescrizione. La riforma recupera così il ruolo di extrema ratio della detenzione, in linea con la presunzione costituzionale di non colpevolezza dell'imputato. Le principali novità consistono innanzitutto nel richiedere, nel caso di pericolo di fuga o di reiterazione del reato, l'attualità, oltre al già presente requisito della concretezza. In sostanza, per qualsiasi esigenza cautelare sarà necessario un pericolo concreto e attuale. Il giudice, inoltre, non potrà desumere automaticamente il pericolo di fuga o di recidiva dalla gravità del reato per il quale si procede. Quanto ai criteri di scelta delle misure si rafforza il carattere residuale del carcere, con il ricorso a esso solo se inadeguata ogni altra misura coercitiva o interdittiva, anche cumulativamente applicate. L'automatismo del ricorso al carcere per reati di particolare allarme sociale viene mitigato, prevedendosi l'esame valutativo del giudice di circostanze concrete, tali da annullare le esigenze cautelari o salvaguardarle con misure meno afflittive. La presunzione iuris et de iure del regime detentivo viene dunque scalfita anche sulla scia delle recenti sentenze della Corte costituzionale (da ultimo, sentenza n. 48/2015, in tema di concorso esterno nell'associazione mafiosa). Ancora, l'ordinanza del Gip dovrà contenere, a pena di nullità, oltre alla già prevista "esposizione", anche "l'autonoma valutazione" delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa, innovazione utile per mettere fine ai provvedimenti del Gip di "copia-incolla" della richiesta del Pm. Da registrare infine positivamente le novità riguardanti la procedura di riesame, disegnandosi un più stringente controllo del Tribunale, con poteri estesi di annullamento. L'imputato potrà richiedere il differimento della data dell'udienza fino a un massimo di 10 giorni, per un migliore esercizio della difesa e sarà impossibile rinnovare l'ordinanza coercitiva dichiarata inefficace, salvo eccezionali esigenze cautelari, per evitare le prassi distorte di richieste custodiali a catena. Giustizia: Cassazione; la messa alla prova deve riguardare tutti reati per i quali si procede Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2015 La messa alla prova non può essere solo parziale. E non può riguardare perciò solo alcuni dei reati per i quali si procede. In caso contrario, a venire compromessa sarebbe la funzioni risocializzante della misura. Lo chiarisce la Corte di cassazione, con la sentenza n. 14112 della Seconda sezione penale, depositata ieri. La Cassazione prende posizione di fronte alle osservazioni della difesa, contraria alla decisione del Gip di Palermo, per quale la sospensione del processo per messa alla prova non è possibile solo per alcuni reati. La Corte ha sottolineato innanzitutto che la disciplina della messa alla prova non prevede un diritto assoluto per l'imputato di accesso all'istituto, sebbene sia indiscutibile che lo spirito della misura sta nel riconoscimento agli imputati della possibilità di procedere a una risocializzazione attraverso un procedimento di rieducazione. Esiste infatti sempre un potere valutativo del giudice con riferimento alla situazione processuale dell'imputato. Infatti, ricorda ancora la Corte, la concessione del beneficio ha come logico presupposto un giudizio positivo sulle possibilità di successo della rieducazione dell'interessato, "per la cui formulazione non può prescindersi dal tipo di reato commesso, dalle modalità di attuazione dello stesso, e dai motivi a delinquere". Con l'obiettivo di valutare se il fatto contestato deve essere considerato un episodio del tutto occasione e non invece una "spia" di un intero sistema di vita, tale da fare escludere una considerazione positiva sull'evoluzione della personalità dell'imputato. Non è poi condiviso dalla Cassazione il motivo di ricorso con il quale la difesa metteva in evidenza come la riunione da parte del pm dei procedimenti, elemento necessario per l'accertamento dei fatti, fa dipendere dalle scelte della pubblica accusa sulle modalità di esercizio dell'azione penale la possibilità di accedere al beneficio della messa prova. La Cassazione, tuttavia fa notare come il pm è il dominus dell'azione penale e che, comunque, al momento dell'esercizio della stessa il Pm non può sapere se l'imputato in un momento successivo formulerà la richiesta di sospensione del procedimento per messa alla prova. Quanto poi all'abbinamento, nel medesimo procedimento, di reati per i quali non è possibile l'accesso all'istituto e altri per quali invece i margini ci sono, appare ai giudici "stridente con la struttura del sistema e, diremmo, con gli stessi presupposti dell'istituto che possa avvenire una "parziale" risocializzazione del soggetto interessato". Lo stesso legislatore, puntualizza la sentenza depositata ieri, non ha fatto riferimento ai reati quanto piuttosto ai procedimenti per reati, lasciando così intendere una visione unitaria e complessiva della prospettiva di risocializzazione attraverso la messa alla prova con sospensione dell'intero procedimento solo quando è possibile per tutti i reati contestati. La stessa logica della messa alla prova con la necessità di un giudizio favorevole basato anche sul reato commesso e sulle sue modalità di attuazione esclude alla radice la concessione quando l'imputato è chiamato a rispondere anche di reati più gravi che contrastano evidentemente con una prognosi positiva sulla risocializzazione. Cassazione Penale, Sentenza n. 14112 del 2015 L'esigenza di rieducazione del condannato, così come indicata nel comma 3 dell'articolo 27 della Carta Costituzionale rappresenta un beneficio non solo per l'imputato, ma per la collettività e l'essenza dell'istituto in esame non può certo ricollegarsi al solo fatto materiale di consentire all'imputato di vedere estinto il reato del quale è chiamato a rispondere, ma ha radici ben più profonde (e nobili) che tendono all'eradicazione completa delle tendenze di condotta antigiuridica del soggetto e che contrastano con l'idea di un individuo risocializzato. Naturalmente l'imputato potrà nell'eventuale fase esecutiva della sentenza definitoria della vicenda accedere al corrispondente istituto dell'affidamento in prova. Giustizia: l'imputato assolto in sede penale non è risarcibile per le offese della parte civile di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2015 Corte di cassazione - Sezione III Civile. Sentenza 9 aprile 2015 n. 7119. Le offese della parte civile rivolte all'imputato nel processo penale non danno diritto al soggetto, poi, assolto di ottenere un risarcimento per la lesione dell'immagine. È quanto precisa la Cassazione con la sentenza n. 7119/2015. La Corte ha così ritenuto corretto il ragionamento seguito dai giudici d'appello secondo cui le eventuali offese contenute negli scritti difensivi non sono punibili perché sussiste la scriminante prevista dall'articolo 598 del codice penale a condizione che si tratti di offese concernenti l'oggetto della causa. Tesi dell'imputato. Nel caso concreto l'imputato poi assolto in sede penale aveva ritenuto che gli scritti difensivi della parte civile costituissero un'evidente lesione alla propria immagine, costringendolo a richiedere un risarcimento in sede civile. Nella sentenza si legge, inoltre, come il soggetto risultato innocente avesse eccepito come la parte civile - nella fattispecie una Onlus - si fosse costituita con affermazioni inutilmente "vessatorie e persecutorie". Ma secondo i Supremi giudici, tuttavia, la pretesa non merita accoglimento in quanto nel ricorso per l'appunto si fa riferimento in modo assolutamente impreciso a locuzioni ed espressioni vessatorie. Si tratta perciò di concetti talmente generici che non possono essere individuati e comparati con l'oggetto della causa. E già la Corte d'appello a tal proposito aveva evidenziato come non risultasse da alcun elemento che le affermazioni potenzialmente offensive fossero estranee all'oggetto del processo penale. Costituzione di parte civile. In tema è infatti del tutto evidente che l'atto di costituzione di parte civile nel processo penale sia frutto di una scelta discrezionale della parte che assume di essere stata danneggiata dal comportamento criminoso ed è, quindi, evidente che un tale scritto non possa non contenere una qualche prospettazione accusatoria contro l'imputato, perché in caso contrario la costituzione stessa sarebbe priva di senso. Conclusioni. Nella fattispecie, peraltro, evidenzia la Cassazione all'imputato erano stati addebitati reiterati episodi truffaldini e ciò era in linea con la concretezza della vicenda processuale. In conclusione l'imputato poi prosciolto in sede penale qualora avesse voluto ottenere un risarcimento doveva dimostrare che le accuse mosse nei suoi confronti esulassero dai confini della causa in corso, così da evidenziare senza meno una lesione della propria immagine. Giustizia: salute, studio su 16mila detenuti in 6 regioni "il 70% ha almeno una patologia" Adnkronos, 10 aprile 2015 Tra problematiche più diffuse i disturbi psichici e le malattie infettive come l'epatite C. Il 70% dei detenuti, circa 16 mila persone, nelle carceri di Toscana, Veneto, Lazio, Liguria, Umbria e negli istituti penitenziari dell'Azienda sanitaria di Salerno, è affetto da almeno una patologia: soprattutto disturbi psichici, malattie infettive e dell'apparato digerente. L'11,5% ha una patologia infettiva e parassitaria, l'epatite C costituisce la malattia infettiva più diffusa. Sempre il 70% è fumatore (contro il 23% della media della popolazione generale). È la fotografia scattata dall'indagine che l'Agenzia regionale di Sanità (Ars) della Toscana condotta nel 2014 in collaborazione con il Servizio sanitario delle sei regioni coinvolte. L'indagine, finanziata dal Centro controllo malattie del ministero della Salute, ha verificato lo stato di salute della popolazione detenuta nelle carceri. I risultati saranno presentati domani Roma nel corso del convegno ‘Salute e malattia nei detenuti in Italia: i risultati di uno studio multicentricò. Secondo il rapporto, i detenuti sono affetti soprattutto da disturbi di natura psichica: oltre il 40% è risultato essere affetto da almeno una patologia psichiatrica, con differenze notevoli a seconda della regione considerata. "Fra i disturbi psichici - precisa Fabio Voller, dirigente dell'Ars Toscana e coordinatore scientifico del progetto - prevalgono quelli da dipendenza da sostanze, diagnosticati nel 24% di tutto il campione e i disturbi nevrotici e di adattamento". Ai disturbi di salute mentale seguono per frequenza le malattie dell'apparato gastrointestinale, che si collocano al secondo posto per numero di diagnosi riscontrate, affliggendo il 14,5% degli arruolati. Si sottolinea come circa il 40% dei disturbi di questo grande gruppo di malattie sia costituito dalle patologie dei denti e del cavo orale, storicamente estremamente diffuse all'interno delle strutture penitenziarie e il 37,5% sia rappresentato da esofagiti, gastriti e ulcere gastro-duodenali, spesso legate allo stress anche all'utilizzo eccessivo di alcuni farmaci, come i Fans. Fra le malattie infettive e parassitarie, che colpiscono l'11,5% di tutti i detenuti sottoposti a visita, l'epatite C costituisce la malattia infettiva più diffusa all'interno delle strutture penitenziarie partecipanti al nostro studio, con una prevalenza del 7,4%, seguita da epatite B e Aids che colpiscono entrambe il 2% degli arruolati. "L'epatite C - commenta ancora Voller - è probabilmente legata alla tossicodipendenza, ed incredibilmente riguarda in misura maggiore i detenuti italiani. Ma questo potrebbe dipendere solo dalla maggiore reticenza degli stranieri a sottoporsi agli screening infettivologici". I tentativi di suicidio ed i gesti di autolesionismo rappresentano un'emergenza nel sistema carcerario italiano. Secondo quanto rilevato dai clinici, su 13.781 detenuti che presentavano questa informazione in cartella, 666 hanno messo in atto almeno un gesto autolesivo nel corso dell'ultimo anno di detenzione raggiungendo il valore complessivo di 4,5 atti ogni 100 detenuti. Spesso inoltre l'atto autolesivo è reiterato: mediamente infatti ogni detenuto ha compiuto questo gesto circa 2 volte. Secondo quanto rilevato dal nostro studio, il numero di detenuti che nel corso dell'ultimo anno di detenzione hanno tentato almeno una volta il suicidio è di 143 (l'1% del totale). Su tutti i detenuti ‘nuovi giunti da libertà', con o senza precedenti, che accedevano a 6 strutture detentive dal 3 febbraio al 3 giugno 2014, è stato effettuato uno screening, rappresentato da uno degli strumenti maggiormente utilizzati in questo ambito (scala di Blaauw). Nel caso di positività al test veniva applicato un protocollo specifico di prevenzione, con il coinvolgimento di una mini-équipe multidisciplinare integrata tra personale sanitario, del sociale e della giustizia. Circa il 53% dei nuovi giunti arruolati e sottoposti a valutazione per il rischio suicidio è risultato positivo: il 44% circa dei detenuti positivi alla scala di Blaauw presentava almeno una patologia e il 56% delle diagnosi rilevate era rappresentato dai disturbi psichici, soprattutto dal disturbo da dipendenza da sostanze. "Nel nostro campione - sottolinea Caterina Silvestri, ricercatrice dell'Ars Toscana - oggetto dell'intervento di prevenzione non si sono verificati tentati suicidi durante la rilevazione". Nello studio sono state coinvolte 6 strutture detentive per minori, per un totale di 86 detenuti minorenni (65% ragazzi e 35% ragazze). L'età media è stata 17 anni e il gruppo etnico più rappresentato quello dell'Europa dell'Est (45% circa, con una percentuale che sfiora l'80% per quanto riguarda le femmine). Il livello scolastico è risultato molto basso, con il 20% dei ragazzi che non ha conseguito alcun titolo di studio, suggerendo il fatto che questi minori sembrano sfuggire al controllo sociale, vivendo spesso in un grave stato di abbandono non solo familiare ma anche istituzionale. Circa il 40% del totale dei minori arruolati ha manifestato almeno una malattia, in particolar modo sono risultate essere maggiormente frequenti le patologie psichiatriche, coinvolgendo il 18,6% dei minorenni detenuti. Da sottolineare come si siano verificati 10 gesti autolesivi e 2 suicidi in questo gruppo: un fenomeno che evidenzia la necessità di intervenire, ancor più che nella popolazione detenuta adulta, con azioni volte a favorire il recupero sociale di questi soggetti. Giustizia: Assistenti Sociali; chiudere gli Opg questione umanità e diritti Ansa, 10 aprile 2015 "Serve vigilare affinché la chiusura degli Opg, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari - ufficialmente sancita da inizio aprile - non rimanga sulla carta ma sia davvero un fatto acquisito e consolidato. Troppi segnali, che giungono da varie città italiane, indicano che molte di queste strutture continuano a ospitare detenuti con infermità psichica senza che nulla, se non formalmente, sia cambiato. Serve ricordare che quanti - nella follia - hanno commesso reati anche gravissimi debbono poter essere curati, in una cornice volta a restituire loro dignità e decoro, e non semplicemente internati sine die": cosi Silvana Mordeglia, presidente del Consiglio nazionale degli Assistenti sociali, sulla chiusura degli Opg. "Serve che si vigili e si governi questa fase di passaggio - aggiunge Mordeglia - nella quale vanno gestiti in modo nuovo sia i detenuti-pazienti degli Opg sia le nuove modalità di esecuzione della pena: una fase non semplice, non facile, non breve. Gli assistenti sociali sanno bene quanto gli Opg abbiano dimostrato, in questi anni, di non essere stati in grado di assicurare quel percorso di cura, riabilitazione e reinserimento che è alla base di ogni provvedimento restrittivo di uno stato di diritto. La loro chiusura non era assolutamente più rinviabile. Sono da stigmatizzare le manovre dilatorie messe in atto da alcune Regioni che tendono a non volersi assumere le responsabilità e i compiti che la legge assegna loro". Per Mordeglia serve vigilare affinché ciò che è uscito dalla porta non rientri dalla finestra. "Le Rems, le residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria, non possono e non devono diventare dei neo mini-manicomi: sarebbe il fallimento di tutto quel lungo e difficile percorso culturale, oltre che organizzativo, che, sia pure in ritardo anche rispetto alle pronunce della Corte Costituzionale, sta lentamente allineando il nostro Paese a standard di decoro che sembravano dimenticati" conclude. Giustizia: spara in Tribunale a Milano e uccide tre persone "mi volevo vendicare" di Luca Fazio Il Manifesto, 10 aprile 2015 L'omicida, Claudio Giardiello, imputato di bancarotta, ha ucciso a colpi di pistola un giudice, un avvocato e un coimputato. È entrato a Palazzo di Giustizia con un'arma in tasca esibendo un tesserino qualunque e dopo la strage è riuscito a scappare in moto fino a Vimercate, dove è stato arrestato dai carabinieri. Infuriano le polemiche sulla sicurezza di uno dei luoghi simbolo non solo della giustizia. Il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati deve ammettere: "Le falle nel dispositivo di sicurezza evidentemente ci sono state" Voleva vendicarsi perché lo avevano rovinato. E ha scelto di farlo a Milano nel luogo che dovrebbe essere simbolo dell'inviolabilità e della sicurezza: Palazzo di Giustizia. L'uomo che ha compiuto la strage si chiama Claudio Giardiello, ha 57 anni, è titolare della società Magenta Immobiliare e ieri mattina alle 11 era in un' aula del terzo piano per rispondere di bancarotta fraudolenta. Incredibile che sia riuscito ad arrivarci armato di una pistola Beretta calibro 7.65 con due caricatori pieni. Dei trenta colpi a disposizione ne ha utilizzati tredici. Tre persone sono rimaste uccise: l'avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani, 37 anni, il commercialista Giorgio Erba, coimputato nello stesso procedimento, e Fernando Ciampi, 72 anni, giudice della seconda sezione fallimentare del Tribunale di Milano. Le vittime potevano essere molte di più. L'omicida ha anche ferito Davide Limongelli, suo socio affari, e sparato alcuni colpi a vuoto contro il pm Luigi Orsi che rappresentava l'accusa. La sequenza da film che ha lasciato Milano col fiato sospeso è durata poco più di un'ora, lo sparatore è stato intercettato e bloccato vicino a un centro commerciale di Vimercate, a circa 20 chilometri dal tribunale. Gli spari cinque minuti dopo le undici. In quel momento, in Prefettura, a meno di un chilometro dal luogo della strage, alla presenza del ministro degli Interni Alfano, si stava tenendo un vertice nazionale sulla sicurezza in vista dell'Expo. Comprensibile lo sgomento generale e l'imbarazzo delle istituzioni tutte. Dal presidente della Repubblica Mattarella fino all'ultimo usciere del Palazzo di Giustizia più sorvegliato d'Italia. Un luogo che, invece, poteva essere violato da chiunque. Mai successo prima, ha detto il procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, ma un'altra cosa l'ha dovuta ammettere: "Le falle nel dispositivo di sicurezza evidentemente ci sono state". Quali lo stabilirà il procuratore di Brescia Tommaso Buonanno, titolare delle indagini. Il caso è semplice da risolvere: i filmati delle telecamere diranno chi non ha fermato Giardiello. L'azienda che si occupa di vigilare agli ingressi del tribunale è la All System, la stessa che ha vinto l'appalto per il sito dell'Expo. Come è entrato? Forse nella maniera più semplice. "È possibile - ha spiegato Bruti Liberati - dall'ingresso di via Manara presentando un documento falso, lì non c'è metal detector perché è un ingresso riservato al personale della giustizia e agli avvocati. Basta presentare un documento in una corsia riservata". Una leggerezza banale ma grave. Tutto ciò, in politica, si traduce in un coro di "inammissibili falle nel sistema di sicurezza" e nel governo che si dice "pronto a riferire in aula". Misteri ce ne sono pochi. Dopo aver eluso la sorveglianza con un documento falso, l'imprenditore sale al terzo piano ed entra nell'aula dove si tiene il suo processo per fallimento. Immediatamente spara nel petto al giovane avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani, quindi rivolge l'arma contro il suo coimputato Giorgio Erba (morirà poco dopo al Policlinico) e ferisce gravemente un terzo uomo, Davide Limongelli (suo nipote). Poi esce dall'aula, scende al secondo piano e si infila nella stanza del giudice Fernando Ciampi, il quale era stato citato come testimone al processo poiché in precedenza aveva emesso una sentenza per il fallimento di una società collegata alla bancarotta della Magenta Immobiliare. Anche la fuga ha dell'incredibile. In quel momento l'uomo è braccato, tutti hanno sentito gli spari, nel tribunale è il caos, c'è chi scappa a chi si barrica nelle aule, in strada si riversano centinaia di persone. Eppure Claudio Giardiello esce, inforca il suo scooter e si dirige verso Brugherio (Brianza). Dove risiede. Non una fuga dunque. Secondo i carabinieri che lo fermano, voleva uccidere un altro uomo che sarebbe stato responsabile della sua bancarotta. Come può un uomo disperato e senza un piano scappare in questo modo dopo aver ucciso tre persone? Il procuratore capo Bruti Liberati quasi non ci sta a rispondere: "Tutto si è svolto nel giro di qualche minuto e la cattura è avvenuta in tempi strettissimi". Lo conferma un generale dei carabinieri: "Le cose professionalmente sono andate bene, la catena di risposta ha funzionato". Spiegazioni che non bastano per placare le polemiche sulla scarsa sicurezza di un luogo che da oggi non sarà mai più come prima. L'omicida, infatti, dopo aver ucciso ha percorso tre piani senza incontrare agenti di polizia ed è riuscito addirittura a lasciare Milano. In queste ore non c'è niente di più facile che raccogliere testimonianze allarmate di chi lavora a Palazzo di Giustizia, tutti sono sconvolti e raccontano episodi che fanno pensare a una struttura colabrodo. Ma chi è Giardiello? Nato a Benevento nel 1958, lavora nel settore dell'edilizia ma da diversi anni le sue aziende sono entrate in crisi. La prima è fallita nel 2008, la seconda nel 2012. Sembra che il bilancio della società Magenta fosse in passivo di quasi 3 milioni di euro. Un avvocato che lo ha avuto come cliente, lo descrive come un soggetto irruento e difficile da gestire. La sua ex moglie è scioccata: "Mai avrei pensato che fosse così disperato, non immaginavo che potesse fare una cosa simile". Giustizia: il frutto avvelenato della scuola dell'odio di Livia Pomodoro (Magistrato) Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2015 Oggi è una giornata davvero triste: le immagini che scorrono in televisione quelle delle famose dirette televisive oggi dal Palazzo di Giustizia di Milano per chi come me da quelle stanze vi è appena uscita dopo 50 anni di servizio sono estremamente dolorose e riaprono ferite mai chiuse. Per chi come me ha vissuto tante altre situazioni di violenza, ferocia, odio ed ha visto cadere accanto a se tanti valorosi colleghi che, tutti, hanno creduto in un ideale di giustizia ed armonia sociale è un momento particolarmente drammatico. Conoscevo il giudice Ciampi da lungo tempo non le altre vittime, ma sento che il loro destino di morte non può essere in questo momento disgiunto né avere valore diverso se non quello del comune rimpianto per queste vite spezzate. Il Palazzo di Giustizia di Milano uno dei più grandi d'Italia è oggi organizzato come una grande casa di vetro in vista del grande evento Expo e tutto ciò è stato immaginato e realizzato soprattutto perché ai cittadini fosse fornita l'opportunità di avere un trasparente luogo di risoluzione pacifica dei conflitti: ciò che è accaduto è un grandissimo vulnus. Questa violazione non è solo quella relativa ad un luogo per eccellenza deputato appunto all'amministrazione della giustizia, ma è anche e soprattutto, al di là di ogni questione relativa alla sicurezza del luogo di lavoro, è un'offesa grave all'ordinato svolgimento della vita civile. Il clima di insofferenza di faziosità, di violenza e talora di odio che sembra essere il luogo comune di questo momento storico del nostro paese produce, inevitabilmente, effetti terribili come quelli di cui oggi siamo stati spettatori. Credo che su questo sarà necessario riflettere nelle prossime ore e nei prossimi giorni perché oltre alle ovvie considerazioni sulle esasperazioni di una difficile contingenza economica, alle ovvie considerazioni sugli steccati sempre più alti di incomprensione tra coloro che gestiscono la cosa pubblica e i cittadini, oltre al dolore della perdita di vite umane che in un giorno qualsiasi si trovavano in Tribunale per il normale disbrigo delle proprie vicende giudiziarie o per fare solo il proprio dovere di funzionari dello Stato, perché oltre a tutto ciò si ritrovino le ragioni di una buona convivenza che consenta ai cittadini di sapere che i conflitti, anche quelli più aspri, non si risolvono con le armi né con l'eliminazione violenta degli avversari, ma con l'applicazione delle leggi riconosciute da tutti da parte di chi è chiamato a svolgere con onestà, correttezza e responsabilità la difficile arte del giudicare. Che ci sia di insegnamento ciò che oggi ci ha prodotto un così grande dolore non solo perché non si ripeta ma perché si ritrovino davvero i valori che uniscono e che comunque fanno sentire i magistrati, i funzionari, tutti quelli che operano all'interno dell'ordine giudiziario orgogliosi e fieri del loro mestiere così riconosciuto da tutti. Giustizia: perché serve la pacificazione nazionale di Astolfo Di Amato Il Garantista, 10 aprile 2015 Sono stati uccisi, nell'ordine, un avvocato, un coimputato del reato di bancarotta ed un magistrato. Quale deve essere la chiave di lettura? Quella cronologica, per la quale occorre concentrarsi innanzitutto sulla prima vittima? Quella corporativa, per la quale ogni categoria piange il suo rappresentante assassinato? Quella della rilevanza sociale, che apre la questione di quale categoria sia più rilevante? O bisogna limitarsi a dire che si è trattato del l'ennesima tragedia della follia? Innanzitutto occorre, credo, guardarsi dal pericolo della strumentalizzazione. Tutte e tre le categorie coinvolte potrebbero farlo. Ed aggiungerebbero tragedia alla tragedia. L'immagine sarebbe quella delle iene, per le quali la morte è un banchetto. Ma neppure ci si può limitare a ridurre quanto accaduto ad una esplosione di tragica follia. Il tema della giustizia evoca, oggi, in Italia reazioni violente. Ed è una situazione che si trascina, ormai, da oltre vent'anni. Mani pulite è stata una rivoluzione, alla quale non è seguita alcuna pacificazione nazionale. La questione, oggi, non è più se Mani Pulite sia stata un evento positivo o negativo. Quella stagione c'è stata: è un fatto. La questione è un'altra. La spaccatura del Paese che ha segnato quella stagione non si è ricomposta. Anzi, sotto certi aspetti, si è addirittura accentuata, rendendo il contrasto ancora più velenoso e violento. Questa atmosfera diventa necessariamente una chiave di lettura di quanto accaduto. La violenza dialettica sui temi della giustizia, con le reciproche delegittimazione che ne derivano, finisce con l'essere un ingrediente esplosivo, non solo per le manifestazioni di follia che può favorire. Ne resta corrosa la stessa tenuta del vincolo sociale. I cattivi vanno puniti, i corrotti vanno messi in galera, gli evasori vanno debellati. Ma se si perde il senso della misura, se si perde il sentimento di un necessario equilibrio tra esigenze punitive e rispetto dei diritti individuali, si finisce con il mettere in pericolo le ragioni stesse dello stare insieme in uno stato, in uno stato di diritto. Peggio ancora se sul tema della giustizia aleggia l'ombra della strumentalizzazione: se, cioè, si percepisce che al fondo vi è una mera lotta di potere. Il giustizialismo e il garantismo alla carta hanno un ruolo esiziale, in quanto finiscono per confermare che è tutto non solo relativo ed opinabile, ma soprattutto strumentalizzabile. A quel punto ognuno ha diritto di sentirsi vittima degli altrui soprusi e degli altrui imbrogli. La tragedia di Milano deve, perciò, indurre a fermarci a riflettere, a cercare una pacificazione nazionale, a riportare le questioni della giustizia in una dimensione appropriata, che le sottragga alle drammatizzazioni da cui sono troppo spesso segnate. Giustizia: il premier Renzi "qualcosa non ha funzionato, chi ha sbagliato pagherà" di Luca Fazio Il Manifesto, 10 aprile 2015 Strage a Milano. Il presidente del Consiglio ha gioco facile a chiedere chiarezza sulla sparatoria a Palazzo di Giustizia che è costata la vita a tre persone. Il suo governo presto riferirà in aula, mentre il ministro della Giustizia Orlando incontrerà tutti i procuratori generali presso le corti d'appello. Intanto infuriamo le polemiche sulla sicurezza nei tribunali italiani Ci sono tre morti uccisi in uno dei luoghi simbolo anche della politica italiana. Al netto delle prevedibili speculazioni politiche, è evidente che anche il governo oggi finisca un po' sotto botta. Il sistema di sicurezza all'interno del Tribunale di Milano non ha funzionato. Questo è chiaro a tutti. A chi cerca di presentare il conto al governo, e al governo stesso che se da una parte non può far a meno puntare il dito contro le "falle evidenti" dall'altra difficilmente verrà messo in difficoltà per questa vicenda. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi è il primo ad avere gioco facile nel chiedere chiarezza. Il suo governo, ovviamente, riferirà. Parlando a Palazzo Chigi, prima ha sottolineato il presunto "atto di eroismo" dei carabinieri che "hanno disarmato il killer che aveva ancora dei caricatori e poteva fare ancora del male". Poi ha ammesso che qualcosa non ha funzionato, ritagliandosi la parte di quello che vuole vederci chiaro, anche se la dinamica della sparatoria dice che ci sono ben poche cose da chiarire: "Oggi è successa una cosa gravissima e incomprensibile. I sistemi di sicurezza del nostro paese poggiano su donne e uomini capaci al limite dell'eroismo, ma il controllo non può permettersi di avere buchi e falle come quelli che ci sono stati nel tribunale di Milano. Bisogna accertare chi, come e perché ha sbagliato. Qualcosa non ha funzionato, chi ha sbagliato pagherà". Il presidente del Consiglio ha ringraziato anche il ministro degli Interni Angelino Alfano, anche se la cattura di Claudio Giardiello non sembra essere stata molto complicata. Anche Alfano ha promesso risposte quasi immediate, e così sarà, non essendo l'indagine particolarmente complessa: "Occorre fare chiarezza immediatamente e vogliamo che sia fatta subito, su quello che non ha funzionato nel dettaglio, su chi è il responsabile dell'ingresso di un'arma in un palazzo di giustizia". Il ministro si è anche felicitato per "un'azione di grande sintonia fra poteri e ordini dello stato, un esempio". Il riferimento è ad una riunione improvvisata appena dopo la sparatoria tra lui, il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati e il ministro della Giustizia Orlando. Anche Orlando, che insieme ad Alfano, ha incontrato i parenti delle vittime, ha parlato di gravi errori nel sistema di sicurezza. "Le indagini che abbiamo chiesto di operare con la massima rapidità - ha precisato - ci daranno informazioni per ricostruire le responsabilità di questa vicenda e per una riflessione più generale". Per questo il ministro ha convocato una riunione (si terrà tra una decina di giorni) per incontrare tutti i procuratori generali presso le corti d'appello. Sono loro i responsabili anche per quanto riguarda i provvedimenti che vanno presi per tutelare la sicurezza all'interno dei palazzi di giustizia. È probabile che mai come questa volta i magistrati ne approfitteranno per sottolineate le condizioni di lavoro delle persone che passano le giornate nei tribunali. Pessime, dicono oggi. Giustizia: magistrati tra malessere e paura, anche la tentazione di uno sciopero di Aldo Fabozzi Il Manifesto, 10 aprile 2015 I magistrati: noi messi all'indice come con la responsabilità civile. La tentazione dello sciopero. L'ex giudice Colombo: è il risultato della sottovalutazione della categoria. Mattarella: va respinta ogni forma di discredito. Nella locandina della serie tv del momento - 1992 - l'ingresso del palazzo di giustizia di Milano si intravede in cima alla famosa scalinata e fa da sfondo evocativo per gli attori che interpretano Gherardo Colombo, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, magistrati nell'epoca in cui i magistrati erano eroi. Non c'erano metal detector allora, e se qualcuno entrava con cattive intenzioni era perché voleva abbracciare Di Pietro. Quasi un quarto di secolo dopo il palazzo di giustizia ha visto di tutto, anche l'attuale ministro dell'interno Alfano, quello che dovrebbe garantire la sicurezza, capeggiare in quelle stanze una chiassosa rivolta di parlamentari berlusconiani. E adesso si spara: 13 colpi di pistola indirizzati verso cinque persone. Due feriti gravi, tre morti, uno di questi era un giudice. È un tempo in cui l'umore dei magistrati italiani non potrebbe essere più basso, e a dargli voce, per primo, è proprio Colombo, quello vero, ormai il più lontano da Mani pulite tanto da essere consigliere d'amministrazione Rai. Lo raggiunge una televisione concorrente, Sky, la stessa della serie 1992. E lui: "Certamente questa continua sottovalutazione del ruolo, di svalutazione dei magistrati, contribuisce a creare un clima". Dopo un po' nelle mailing list delle toghe si comincia a parlare di sciopero. Interviene l'Associazione nazionale magistrati. Oggi un minuto di silenzio in tutte le aule di giustizia, domani assemblea con i vertici a Milano. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella convoca, da presidente, una riunione straordinaria del Csm. Che dura pochissimo. Il tempo per il vicepresidente Legnini (Pd) di lamentare la "poca attenzione all'enorme lavoro quotidiano che i magistrati svolgono in condizioni difficili" e per Mattarella di dire con chiarezza che "va respinta ogni forma di discredito nei confronti dei magistrati". Il presidente poi raccomanda di reagire rispettando "le garanzie costituzionali e dei diritti dell'uomo" e infine poche parole arrivano dai rappresentanti della magistratura milanese. Che oggi nel Csm sono solo due e nessuno è una "toga rossa". Dalla destra di Magistratura indipendente viene il giudice Claudio Galoppi, dalla corrente moderata di Unicost il presidente di sezione di corte d'appello Rosario Spina. Si indigna il vicepresidente del senato, il leghista Castelli, perché registra un cordoglio a senso unico per i magistrati, ma se la categoria ha reagito con più allarme è proprio perché si sente nel mirino da mesi. Della politica, non certo dei revolver, eppure la segretaria di Magistratura democratica Anna Canepa è lì che va a parare: "Il nostro non è un lavoro come un altro. Devi comporre contrasti e così diventi nemico di chi ritiene di aver avuto torto ingiustamente. È proprio quello che abbiamo tentato di spiegare quando c'è stata la riforma della responsabilità civile". A fatica il vertice dell'Associazione nazionale magistrati aveva frenato le richieste di sciopero nei giorni in cui fu approvata la riforma, in base alla quale non c'è più alcun filtro per il condannato che intende citare in giudizio per danni il suo giudice. Se ne riparlerà tra due domeniche, il 19 aprile, nell'assemblea per la quale Magistratura indipendente ha raccolto le firme, e si riparlerà di sciopero. Magari anche di cosa sono diventati i tribunali italiani negli anni della crisi. "I magistrati sono rimasti gli unici a dover dare risposte a tutte quelle istanze e aspettative spesso frustrate dalle altre istituzioni", ragiona il segretario dell'Anm di Roma Eugenio Albamonte, della coalizione di sinistra Area. E mette all'indice anche le campagne di denigrazione della magistratura: "Nessuno oggi accetta più le decisioni giudiziarie, che sono per definizione ingiuste. Soprattutto quando danno torto". Il segretario generale dell'Anm Maurizio Carbone aggiunge: "Nei periodi di crisi amministrare la giustizia è ancora più importante; si creano all'interno dei palazzi di giustizia delle tensioni che richiedono maggiore attenzione alla sicurezza" Giustizia: tremila tirocinanti a casa da maggio. Cgil: il governo deve stabilizzarli di Valerio Raspelli Il Manifesto, 10 aprile 2015 Per poche centinaia di euro mensili, lavorano da cinque anni per lo Stato, tenendo letteralmente in piedi decine di uffici giudiziari e tribunali, in cronica carenza di organico: 9mila posti con punte del 30 per cento in alcuni grandi uffici. Ma dal primo maggio molti di 2.650 tirocinanti di giustizia resteranno a casa, causa fine finanziamento della legge di stabilità per quest'anno. Per evitare i licenziamenti e - al contrario - contrattualizzare in maniera corretta tutti i tirocinanti di giustizia, la Cgil ha lanciato una mobilitazione. Cgil e Fp Cgil hanno proclamato diverse iniziative di lotta: il 17 aprile ci saranno manifestazioni territoriali in più città (Milano, Bologna, Reggio Calabria, Napoli, Cagliari) per poi arrivare, martedì 28 aprile, ad una manifestazione nazionale a Roma. La possibilità di utilizzare questi lavoratori è stata inserita nella parte del decreto 90 del 2014 che istituisce l'Ufficio per il processo, e la Cgil, anche in virtù di questo provvedimento, ha chiesto e previsto un percorso virtuoso che trasformi i tirocini in contratti per questa platea, nel rispetto delle norme del pubblico impiego e dicendo basta alla prosecuzione del tirocinio formativo, che ormai nasconde una vera e propria forma di lavoro nero. La copertura economica, trattandosi di contratti a termine, potrebbe essere data dal Fondo Unico Giustizia (Fug). Nonostante la citata norma del Dl 90 e i segnali di disponibilità dati in più occasioni, non sembrano esserci aperture da parte del ministro della Giustizia Andrea Orlando e il governo paventa solo l'utilizzo di una parte di questi lavoratori, (magari quelli con titolo di studio superiore e giovane età, con evidente discriminazione dei più svantaggiati) e sempre con la forma del tirocinio. Si tratta di una chiusura incomprensibile da parte dell'esecutivo, di un atteggiamento che ci porta a dare il via ad un nuovo percorso di mobilitazione. Partiti nel 2010, i tirocini erano frutto di convenzioni stipulate dalle amministrazioni giudiziarie con Province e Regioni: sono stati attivati prima nel Lazio e poi in quasi tutte le altre regioni lungo lo stivale. "Abbiamo elementi per dire che svolgono funzioni che servono al sistema giustizia, sono inseriti nell'organizzazione del lavoro", ha detto in una conferenza stampa il segretario della Fp Salvatore Chiaramonte. I tirocinanti sono stati di fatto inseriti nel ciclo lavorativo e hanno affiancato a tutti gli effetti il personale interno, come più volte riconosciuto dai presidenti dei Tribunali, dai procuratori e dal primo presidente della Corte di Cassazione. A provarlo è la documentazione che attesta la loro partecipazione alle attività lavorative - dai moduli di richiesta ferie, negate ed autorizzate, alle firme sullo scarico dei documenti, sul ritiro della corrispondenza e sui transiti negli archivi - e la presenza negli sportelli aperti al pubblico. "Lo Stato - ha sottolineato il segretario confederale Cgil Gianna Fracassi - ha investito negli ultimi cinque anni risorse per formarli, presumibilmente in vista di un inserimento stabile, ma non dà loro nessuna prospettiva dal primo maggio. Da parte del governo non c'è nessuna assunzione di responsabilità, anzi denunciamo una certa indifferenza rispetto alla loro sorte, vengono messi in secondo piano rispetto ai lavoratori interni al ministero e a quello delle Province". A questo proposito il segretario generale della Cgil Susanna Camusso ha sottolineato che "si è scelto di contrapporre tanti soggetti", "una guerra tra poveri esercitata in nome della mancanza di risorse, ma le risorse rispetto alle quali fare delle scelte ci sono". La Cgil e la Fp Cgil chiedono che "si ragioni su una collocazione contrattuale, che venga riconosciuto ai tirocinanti lo status di lavoratori a tutti gli effetti", il costo del tirocinio è stato di circa "240 euro a persona al mese, e noi - ha spiegato Fracassi - abbiamo chiesto che venga utilizzato il Fug, il fondo unico per la giustizia, per risolvere il problema nell'immediato. Non rispondano che non è possibile perché in passato deroghe sull'utilizzo vi sono state". Lettere: chiudono gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ma non le Case di Lavoro di Antonio Mattone www.merqurioblog.it, 10 aprile 2015 Se è vero che da oggi viene messa la parola fine agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, è altrettanto vero che nel nostro ordinamento giuridico resta la norma per cui un individuo può essere sottoposto a misure di sicurezza. Infatti l'articolo 25 al comma 3 della Costituzione italiana recita che "nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge". Quindi è ancora possibile che degli individui possano essere messi in prigione pur non essendoci una sentenza o un reato a cui debbano rispondere. Il problema sarà dove collocare le persone per cui scatterà questa norma. Ma c'è di più. Resta in vigore il concetto di "pericolosità sociale" che ha fatto il suo ingresso nell'ordinamento giuridico italiano con il Codice Penale Rocco del 1930. Una norma retaggio del periodo fascista che è stata ancora eliminata e che si basa sulla premessa che il reato dovesse essere considerato un fenomeno naturale determinato da fattori criminogenici e non da una scelta individuale. La pericolosità di un individuo può dipendere da un fattore psichiatrico e per questo caso era previsto il ricovero in Opg o da un motivo di carattere sociale con l'internamento in Case di Lavoro. Se il lungo iter cominciato con il Dpcm del 1 aprile 2008 ha portato oggi alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, restano invece aperte le Case lavoro. Qui vengono rinchiusi per lo più tossicodipendenti storici, persone con problemi di salute mentale non particolarmente gravi, e possiamo trovare anche malati di Aids. Individui isolati socialmente con famiglie sfasciate o che non si vogliono prendere cura di loro. Sono persone che hanno commesso ripetutamente reati, non necessariamente gravi e che per questo sono entrati e usciti più volte dalle galere, che possono arrivare al reinserimento sociale solo attraverso il lavoro. Ma nella realtà lavoro non ce n'è. Così sono costrette a restare in carcere senza avere la possibilità di riscattarsi. Queste detenzione sono state definite "ergastoli bianchi", perché senza occupazione lavorativa e attività trattamentali, gli internati possono restare in carcere senza una data di uscita prevista e con una grande incertezza sul proprio futuro. Nelle Case di lavoro italiane sono reclusi circa 300 internati, un numero tutto sommato abbastanza esiguo, ma restano aperte alcune domande: come mai ben un terzo di essi è residente in Campania? Non è auspicabile l'istituzione di una commissione parlamentare come quella che ha contribuito a mettere fine agli Opg? Perché questi internati sono dislocati per lo più in carceri lontane dal territorio di origine? Non è una palese forma di diseguaglianza il trattamento riservato agli internati che hanno un problema psichiatrico da quelli con patologie sociali? Questo regime di semireclusione andrebbe sostituito con altre forme di reinserimento, come comunità di accoglienza dedicate, misure di sicurezza applicate nella libertà vigilata eseguite nei territori di residenza solo per fare qualche esempio. Resta un'ultima domanda: avrà la politica il coraggio di mettere fine a questa sorta di segregazione? Lettere: volevate punire De Gennaro? dovevate farlo nel 2001 di Pietro Mancini Il Garantista, 10 aprile 2015 Dopo la condanna dell'Italia per "tortura", il premier, Matteo Renzi, e il ministro dell'Interno, don Angelino Alfano, dovrebbero, subito, comunicare al presidente di Finmeccanica, Gianni De Gennaro, che il governo ha deciso di porre fine alla sua lunghissima carriera di "grand commis" dello Stato. Che è macchiata dalla pagina nera del "G8" a Genova, 14 anni fa, quando era ministro dell'Interno l'eterno inconsapevole di tutto, e inadeguato, il forzista Claudio Scajola, detto "Sciaboletta", con le brutali percosse alla scuola genovese "A. Diaz", nel 2001. Quale migliore occasione, per un giovane Capo del governo progressista, per prendere le distanze, con nettezza e chiarezza, da un caso emblematico di tradimento dello Stato, della Costituzione e delle leggi, cacciando, subito, e non promuovendo, quanti, in quelle vergognose giornate di Genova, occupavano posti di comando e responsabilità? Il silenzio del governo sull'allora capo della Polizia, ancora inamovibile dalla presidenza di Finmeccanica - il gruppo italiano pubblico più esposto ai giudizi internazionali, insieme all'Eni -ha trasmesso, sinora, questo messaggio, non positivo, alle forze dell'ordine: quando gli agenti e i carabinieri commettono reati gravi, vengono stangati gli uomini e le donne di medio e basso livello. I capi sono, e restano, intoccabili, anche chi comandava i sottoposti, i quali hanno abusato dei loro poteri, trasformandosi in torturatori di cittadini italiani e stranieri. Quale altro governo di uno Stato democratico, quale grande azienda lascerebbe al suo vertice un dirigente, che ha scritto una pagina così vergognosa, da procurare al nostro Paese la più infamante delle censure? Lo scrittore Roberto Saviano, che ha invocato le dimissioni spontanee di De Gennaro, si illude. Ignora che l'ex capo della Dia, figlio della stagione del giustizialismo, gestì la fase oscura degli assassini "pentiti", utilizzati in delicati processi, quelli ad Andreotti, Mannino, Mancini e Contrada, ed è a conoscenza di segreti molto delicati. E poi don Gianni era un attento lettore di Indro Montanelli, che ammoniva: "Le dimissioni? State attenti a minacciarle : talvolta, potrebbero essere accolte!". Un altro aspetto ha influito non poco nel giudizio, con cui la Corte europea dei diritti umani ha condannato l'Italia per le torture, affibbiate ai manifestanti all'interno della scuola "A. Diaz" del capoluogo ligure. Quello dell'impunità totale per i funzionari, seppure condannati dai tribunali: Calderozzi a Finmeccanica con De Gennaro, Gava a Unicredit, Ferri alla sicurezza del Milan. Addirittura potrebbero tornare a indossare la divisa due funzionari, in servizio a Genova. Uno di loro è quel Pietro Troiani, che diede ordine al suo autista di trasferire dal blindato al cortile della scuola "A. Diaz" il sacchetto con le molotov, poi addebitate ai manifestanti. L'aver beneficato dell'affidamento ai servizi sociali per i pochi mesi non coperti dall'indulto, gli consentirà, infatti, la cancellazione della sospensione. Veneto: i cappellani penitenziari "stop all'ergastolo, pena inutile" di Giorgio Malavasi Gente Veneta, 10 aprile 2015 L'ergastolo? Non serve a recuperare chi ha sbagliato e non serve a dare soddisfazione a chi ha subito un reato. I circa venti cappellani penitenziari del Triveneto spingono sull'acceleratore e, riprendendo con forza l'intervento scritto da papa Francesco all'Associazione internazionale di Diritto penale, dicono che è tempo di ripensare radicalmente all'istituto dell'ergastolo che, come dice il Pontefice, "è una pena di morte nascosta". E che c'è un'alternativa più efficiente e giusta. I cappellani penitenziari hanno espresso questa tesi incontrandosi, nei giorni scorsi, a Venezia, per uno dei convegni che, periodicamente, li vedono insieme, per la formazione comune e per approfondire alcuni aspetti o enucleare proposte comuni. Con loro anche il referente designato dalla Conferenza episcopale triveneta, l'arcivescovo di Gorizia mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, che ha coordinato la riflessione comune. "Il problema non è solo l'ergastolo ostativo, quello che nega permessi o semilibertà e in ragione del quale è praticamente impossibile uscire dal carcere, ma anche quello "ordinario", che comporta comunque 26 anni di detenzione": lo rileva fra Nilo Trevisanato, cappellano del carcere femminile della Giudecca e uno dei due cappellani - insieme a don Antonio Biancotto - degli istituti penitenziali lagunari. "Che possibilità di rieducazione e di recupero ci sono - sostiene padre Nilo - se, dato un periodo lunghissimo come 26 anni, quasi non si avverte la speranza che la carcerazione ad un certo punto finirà? Lo si vede nelle detenute che si trovano in questa condizione e che, anche al più piccolo litigio in carcere, non si tirano indietro e sembra quasi dicano: "tanto che cosa abbiamo da perdere?". Cosa fare, dunque? Anche perché l'opinione pubblica è sgomenta di fronte agli atti di criminalità e sente il bisogno che i colpevoli vengano presi e puniti adeguatamente, con un congruo periodo in carcere. È una richiesta fatta spesso, e a gran voce... "È comprensibile - risponde il frate francescano - ma non giustificabile. Ed è molto spesso inutile. La realtà dice che una persona che ha subito un reato si sente ripagata non tanto da una pena esemplare, perché poi il reo può anche scontare tantissimi anni di carcere e uscire con la convinzione di aver pagato il proprio debito, senza mai curarsi di chi ha subito il danno". In termini di giustizia riparativa, la persona offesa viene ripagata "solo quando si accorge che il reo percepisce il dolore che ha arrecato. Ci sono esperienze molto belle, di incontri fra vittime di reato e chi lo ha commesso: quando la vittima percepisce che chi le sta di fonte avverte il dolore provocato, non è quasi più interessata alla pena del colpevole, perché si sente già ripagata. E accade anche il viceversa: molto spesso chi ha commesso questi reati ne capisce la gravità a partire dall'esperienza del dolore provocato e inferto alla vittima". Perciò - sostengono padre Nilo Trevisanato e gli altri cappellani penitenziari del Triveneto - oggi all'emozione collettiva, che domanda punizioni e pene esemplari, si deve rispondere offrendo dei percorsi di giustizia riparativa. Dicendo stop all'ergastolo. Abruzzo: Sinistra Ecologia Liberta chiede la nomina del Garante regionale per i detenuti www.abruzzo24ore.tv, 10 aprile 2015 Sinistra Ecologia Liberta Abruzzo ritiene indispensabile la nomina del Garante dei detenuti. "Per noi - scrive il partito in una nota - la garanzia dei diritti costituzionalmente riconosciuti alle persone private della libertà personale è un'assoluta priorità. Sono già troppi gli anni passati dall'approvazione della Legge regionale che imponeva al Consiglio regionale la nomina del garante entro 90 giorni. Questo, con la maggioranza di centro destra non è avvenuto, auspichiamo - prosegue Sel - che con una convergenza bipartisan si possa arrivare celermente alla nomina del garante e che esso possa diventare un presidio di civiltà e controllo sul rispetto dei diritti dei detenuti. Questo anche sulla scorta delle numerose iniziativa di tutela dei detenuti intraprese dal nostro deputato Gianni Melilla". Toscana: slitta trasferimento internati a Solliccianino, per chiudere l'Opg forse un anno www.nove.firenze.it, 10 aprile 2015 Si fa sempre più concreta l'ipotesi di trasferimento nell'istituto Gozzini di alcuni internati nella struttura empolese. Secondo la stampa occorrerà almeno un anno di tempo per trasferire gli internati dall'Opg di Montelupo al carcere Gozzini di Firenze: un anno di tempo per adeguare il carcere fiorentino e trasformarlo in un "centro di eccellenza per la salute mentale", indire la gara di appalto, assumere infermieri specializzati e trovare una sistemazione ai detenuti in regime di semi-libertà del Gozzini. "Attendere un altro anno per trasferire i malati psichiatrici dell'Opg di Montelupo a Solliccianino è emblematico sulla mancanza di capacità ed efficienza che hanno dimostrato la Regione e il governo nell'affrontare il problema. La decisione di chiudere Montelupo è sbagliata, una verità dimostrata dal fatto che adesso le istituzioni non sanno che pesci prendere". Così il capogruppo di Fratelli d'Italia in Regione e candidato a governatore Giovanni Donzelli commenta, insieme ai consiglieri Paolo Marcheschi e Marina Staccioli "L'Opg di Montelupo nelle intenzioni delle istituzioni doveva essere chiuso già dal 1° aprile - sottolineano gli esponenti di Fratelli d'Italia - invece ancora oggi si discute sulle nuove strutture destinate ad ospitare i pazienti. Non ci si poteva pensare prima?", sottolineano Donzelli, Marcheschi e Staccioli. "La Regione ancora una volta è stata incapace di gestire un problema - concludono gli esponenti di Fratelli d'Italia - si è già perso troppo tempo: le istituzioni trovino in fretta le soluzioni più adeguate, soprattutto per la sicurezza delle comunità locali". "Di male in peggio - commentano Massimo Lensi e Maurizio Buzzegoli, Presidente e Segretario dell'associazione radicale Andrea Tamburi. Ci chiediamo, non senza stupore, ma dove era la Regione Toscana negli ultimi due anni? La Legge 81 del 2014, infatti, aveva indicato in tempo e disposto quanto necessario per chiudere gli Opg, sia deistituzionalizzando gli internati con programmi individualizzati di inserimento sociale, sia abrogando gli ergastoli bianchi, sia prevedendo strutture residenziali alternative. Ribadiamo la nostra contrarietà a scelte che comportano l'impiego di strutture carcerarie, pur adeguate strutturalmente, per il trasferimento degli internati. E riteniamo inaccettabile il tempo previsto di un anno per adempiere, benché in maniera non consona, agli adempimenti di legge: forse non è chiaro, ma ogni giorno trascorso in Opg da parte di un internato è una violazione della legge 81. Fin dalla cosiddetta Legge Marino (Legge del 17 febbraio 2012), è stata prevista la nomina del Commissario (in sostituzione) per inerzia delle Regioni. Ci sembra che questo sia proprio il caso della Regione Toscana". Il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale,Franco Corleone, ha in calendario una nuova settimana di sopralluoghi nelle strutture penitenziarie della Toscana. Il Garante si recherà venerdì 10 aprile in visita alla Casa circondariale di San Gimignano (Siena). Lunedì 13 aprile visiterà la struttura di Porto Azzurro (Li) e martedì 14 sarà al carcere della Gorgona (Li). I sopralluoghi che Corleone sta effettuando in questi mesi hanno l'obiettivo di verificare lo stato dei lavori di ristrutturazione delle carceri toscane, e se siano state superate alcune criticità, come le precarie condizioni igienico-sanitarie, a suo tempo segnalate. Ascoli: tenta il suicidio il detenuto tunisino accusato della morte del compagno di cella www.veratv.it, 10 aprile 2015 Ha tentato la scorsa notte di togliersi la vita impiccandosi nel bagno della cella del carcere di Marino del Tronto dove è rinchiuso perché accusato di essere coinvolto in un traffico di sostanze stupefacenti. Da febbraio però Ben Alì è inoltre accusato di omicidio preterintenzionale. Il tunisino infatti avrebbe avuto una violenta lite con Nicola Mestichelli, 52enne ascolano che con Ben Alì divideva i pochi metri della cella. Una lite finita poi in tragedia: È stato lo stesso Ben Alì a raccontare come sarebbero andati i fatti: durante la rissa avrebbe spinto Achille Mestichelli il quale è caduto battendo il capo sul pavimento. Ricoverato all'ospedale Torrette di Ancona, l'uomo, originario di Castel di Lama, è morto dopo un'agonia durata tre giorni. Proprio mercoledì, Ben Ali doveva essere interrogato in carcere dal giudice Giuliana Filippello, ma nella notte di martedì il tunisino ha tentato di togliersi la vita. Ad accorgersi di quello che stava accadendo è stato un agente della polizia penitenziaria il cui intervento ha evitato il peggio: Mohamed Ben Alì è ora ricoverato nel reparto di Psichiatria dell'ospedale Madonna del Soccorso di San Benedetto del Tronto, le sue condizioni non sono gravi. La vicenda relativa alla morte di Mestichelli che sembra essere stata chiarita dalla confessione di Ben Alì presenta invece ancora molti lati oscuri: l'autopsia, condotta dal professor Adriano Tagliabracci sul corpo di Mestichelli e durata oltre quattro ore, rivelò un quadro ben più grave. Infatti pur in assenza di ecchimosi diffuse, il medico legale riscontrò sul cadavere la frattura dell'osso temporale del cranio causa della morte, ma anche di sette costole, di una vertebra lombare, del bacino e della milza. Lesioni che non sarebbero compatibili con l'ipotesi di ferite provocate da una caduta a terra, conseguenza di una banale spinta, come sostiene invece l'indagato. Reggio Emilia: Sappe; chiusura Opg? Ancora nessuna novità su trasferimento a Rems Ansa, 10 aprile 2015 "Nessuna novità ancora per quanto riguarda il trasferimento degli internati dagli ospedali psichiatrici giudiziari alle Rems (residenza per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria). Nonostante la scadenza del 31 marzo, come termine ultimo per il trasferimento ci sono regioni che non hanno ancora le strutture. Infatti, l'ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, da dove nessun internato è stato ancora trasferito nelle Rems di Parma e Bologna, dovrà continuare ad ospitare anche gli internati di altre regioni, come le Marche e il Veneto". Lo affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) e Francesco Campobasso, segretario regionale dell'Emilia Romagna. "Inoltre - aggiungono, l'ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia continuerà a restare come struttura che ospiterà gli internati per malattie psichiatriche sopravvenute durante l'esecuzione della pena, poiché le Rems sono state previste soltanto per l'esecuzione delle misure di sicurezza, per coloro, cioè, che sono stati dichiarati incapaci di intendere e di volere nel processo penale e non per le patologie sopravvenute durante l'esecuzione della pena. Come avevamo previsto, la questione degli ospedali psichiatrici giudiziari presenta problemi complessi che non consentiranno, almeno nel breve tempo, una soluzione definitiva. Inoltre, desta non poche preoccupazioni la gestione quotidiana degli internati, i quali, spesso, mettono in atto gravissimi gesti di autolesionismo e di aggressioni. Ricordiamo alcuni episodi avvenuti proprio a Reggio Emilia, dove un internato sbatteva violentemente la testa contro il muro, procurandosi gravi lesioni, un altro si è aperto la pancia credendo di avere un bambino, un altro ancora ha tentato di darsi fuoco. Nei mesi più freddi abbiamo registrato caso di ipotermia, dopo che gli internati si erano denudati ed avevano dormito tutta la notte con le finestre aperte". Firenze: Asp; Progetto "Panacea", tre detenuti promuovono l'uso della tessera sanitaria www.gonews.it, 10 aprile 2015 "Buongiorno, lei è in possesso della tessera sanitaria elettronica? Sa cos'è e a cosa serve?" Da lunedì 13 aprile 3 detenuti in regime di semilibertà negli istituti penitenziari Gozzini e Sollicciano, che usufruiscono cioè di misure alternative alla pena, seguiti costantemente da un tutor professionale della cooperativa sociale Ulisse, da anni impegnata nell'inserimento lavorativo di persone svantaggiate e in progetti di recupero in ambito carcerario, telefoneranno ai cittadini di Firenze il cui nominativo compare sulle pagine bianche allo scopo di promuovere, per conto dell'Azienda sanitaria fiorentina, l'attivazione e l'uso concreto della carta sanitaria elettronica, il cui pieno utilizzo è per tanti ancora poco conosciuto, in particolare per le persone più giovani. Moltissimi infatti non sanno che essa fornisce il codice fiscale, dà accesso alle prestazioni sanitarie nazionali e all'assistenza medica in ambito comunitario. E che, con un computer dotato di lettore smart card fornito presso gli sportelli della Asl, si può accedere al sito della Regione Toscana per verificare l'archivio dei propri dati sanitari personali, come per esempio i referti degli esami o l'acquisto di farmaci, per consultare il fascicolo sanitario elettronico, per compilare l'autocertificazione della propria posizione economica e l'eventuale esenzione dal ticket, nonché, entrando nel sito internet della Asl 10, per prenotare o disdire esami, visite ed anche per cambiare on line il proprio medico di base. Il progetto si chiama Panacea, è finanziato dalla Regione Toscana, durerà un anno, con una pausa in agosto ed una a Natale, prevedendo 17-18 mila telefonate, e già in questo mese sono stati individuati i detenuti dei due istituti di pena fiorentini in condizione di poter usufruire delle misure alternative alla pena e con caratteristiche compatibili con la tipologia di lavoro da svolgere, tra i quali sono stati selezionati dagli educatori tramite colloqui e prove pratiche i 3 candidati idonei. Per loro è già stata avviata la fase di formazione da parte della società che fornisce il supporto tecnologico necessario ad effettuare dalla sede della cooperativa Ulisse le chiamate, monitorando i risultati raggiunti fra gli utenti, dati che saranno costantemente messi a disposizione dell'Azienda sanitaria di Firenze per valutare l'effettivo miglior utilizzo della tessera sanitaria elettronica. La cooperativa sociale Ulisse è nata a Firenze nel 1998 da un progetto congiunto tra Asl 10, Arca cooperativa sociale, associazionismo e terzo settore, al fine di creare e sviluppare servizi per la comunità con l'ausilio di personale svantaggiato proveniente da diverse aree di disagio. Attualmente occupa 48 persone di cui 23 con handicap o pazienti della salute mentale o in cura nei servizi per le dipendenze o, ancora, detenuti impegnati nel reinserimento lavorativo. Di questi 16 sono soci della cooperativa e gli altri assunti a tempo indeterminato. Proprio nel carcere di Sollicciano la cooperativa Ulisse dal 2000 gestisce l'officina di riparazione di biciclette "Piede Libero" e, dal 2014, un vivaio per la coltivazione di rose in collaborazione con una ditta specializzata di Pistoia sulla base di un progetto della Regione Toscana mirato all'agricoltura sociale. Inoltre dal 2015, presso il carcere di Prato, è stato avviato un laboratorio di lavorazione dei libri per conto di una importante casa editrice che impiega 3 detenuti. Ai cittadini contattati telefonicamente, senza la possibilità di richiedere dati sensibili e sempre con la supervisione di un responsabile, i detenuti forniranno con garbo e previo consenso dell'interessato, informazioni utili a conoscere le opportunità offerte da un utilizzo pieno della tessera sanitaria elettronica e le modalità per attivarla rivolgendosi a uno degli 8 presidi cittadini della Asl o a una delle 20 farmacie fiorentine che erogano questo servizio. L'avvio dell'attività sarà accompagnato da una piccola campagna di comunicazione tramite depliant che segnalano il servizio "Panacea". "Impegni come questi con le cooperative sociali di tipo B - dice il garante per i diritti del detenuto del Comune di Firenze Eros Cruccolini - sono fondamentali per attivare percorsi alternativi a quelli che hanno portato in carcere per chi sta scontando una pena. L'auspicio è che in questa direzione di muovano tutti gli Enti locali". Empoli: carcere fucina di autori, dopo le detenute i liceali scrivono "Sbarre d'inchiostro" www.gonews.it, 10 aprile 2015 Nasce "Sbarre d'inchiostro", il libro con cui gli studenti dell'Isis "Il Pontormo" rispondono a "Codice a sbarre", il volume scritto dalle ospiti detenute della casa circondariale femminile di Empoli. "Sbarre d'inchiostro" è stato presentato oggi, giovedì 9 aprile, nella sala polivalente del carcere del Pozzale. I prossimi appuntamenti, in cui sarà presentato il libro, sono: sabato 11 aprile alle 17 nell'auditorium del Pontormo e poi agli Agostiniani il 26 settembre prossimo. Il libro nasce da "Codice a sbarre", ma prima ancora dal laboratorio di scrittura giornalistica, "Homo videns", da tempo in atto nell'istituto "Il Pontormo". La lettura del libro scritto dalle detenute del carcere del Pozzale aveva provocato forti emozioni agli studenti del Pontormo, che hanno così deciso di dare voce alla loro emotività. "Ponti non muri": questa è la loro metafora per fra capire lo spirito del lavoro. "Si realizza così l'osmosi istituzionale fra la società civile e il carcere", commenta Graziano Pujia, direttore della casa circondariale femminile di Empoli. "Il libro Codice a sbarre è andato molto bene. Dopo ‘Sbarre d'inchiostrò, potremmo creare anche un terzo libro, questa volta con il punto di vista degli agenti. Sarebbe interessante" spiega Antonietta Risolo della Ibiskos Risolo Editrice, che ha curato la pubblicazione del libro. ‘Sbarre d'inchiostrò ha ricevuto anche il riconoscimento ufficiale del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ai quali Ibiskos Risolo Editrice aveva inviato copie in omaggio. Il ricavato delle vendite del volume edito da Ibiskos, coperte le spese di stampa, verrà destinato alle attività didattiche dell'Isis Il Pontormo. Le insegnanti del liceo "Il Pontormo" Sandra Troilo, Daniela Innocenti, Giovanni Lopez, Elisa Mariani, Daniela Malanima, Rosella Luchetti, Daniela Desideri ed Elisa Dei, hanno pensato a che cosa era scattato nei ragazzi dopo la presentazione di Codice a sbarre: "Con questo libro si sono unite due realtà vive, da un progetto che da l'opportunità di cogliere, di essere capaci di scrivere ed incontrare l'attualità come è il carcere. Avete avuto il coraggio di superare i pregiudizi". Erano presenti gli studenti scrittori e le donne detenute autrici dei racconti di "Codice a sbarre". Connessioni e rimandi che si evidenziano già nei due titoli e che fanno dei due volumi quasi un tutt'uno. Una integrazione perfetta. Milano: lo scrittore Ferdinando Scianna incontra i detenuti del carcere di Bollate www.mi-lorenteggio.com, 10 aprile 2015 Ferdinando Scianna incontrerà i detenuti della II Casa di Reclusione di Milano-Bollate per presentare Visti & Scritti (pubblicato da Contrasto) e per raccontare come è nato questo libro che lega insieme immagini e parole. Nell'ambito dell'incontro si parlerà anche di Ti mangio con gli occhi (Contrasto) ed è previsto un reading da testi selezionati dei rispettivi volumi. All'indomani dell'intervista fatta dai detenuti al maestro della fotografia sulle pagine della rivista Salute In Grata, Scianna sarà a Bollate per parlare con loro dal vivo e raccontare ulteriori segreti della sua fucina creativa. Visti&Scritti è il libro che chiude un ciclo personale, che si potrebbe definire il ciclo della memoria, che comprende tre volumi. Prima di quest'ultimo ci sono stati, Ti mangio con gli occhi (2013, Contrasto) e nel 2001 Quelli di Bagheria. Ciclo della memoria perché rievoca l'infanzia e la prima giovinezza di Scianna in Sicilia, ma anche perché si avvale del tema del cibo come innesco del racconto. Nell'ultimo libro il fotografo siciliano raccoglie 350 ritratti realizzati in oltre cinquanta anni di mestiere. Per ogni ritratto Scianna ha scritto un testo che lo accompagna, tentando quindi un grande affresco autobiografico. Libro memoria, libro specchio anche Visti & Scritti dunque. Ma i tre titoli insieme propongono anche un nuovo percorso narrativo per Ferdinando Scianna. L'autore, infatti, sperimenta e propone dei libri nei quali le fotografie si coniugano in maniera stretta e inscindibile con la scrittura. Ha sempre dichiarato che l'obbiettivo centrale della sua idea di fotografia sono i libri. Ne ha pubblicati oltre quaranta e sono stati sempre al centro della sua riflessione su come finalizzare il proprio racconto fotografico. Ma una cosa è comporre un album di fotografie, altra cosa è scrivere un romanzo o un saggio, altro ancora concepire dei libri in cui questi due linguaggi ambiscano a un nuovo, diverso tipo di racconto, che non è possibile leggere prescindendo dalle immagini, né - guardando le immagini - prescindendo dalle parole che vi scorrono insieme (e non accanto). "Mi capitava ogni tanto di sognare che entravo in una piazza e in quella piazza, gremita, scoprivo che c'erano le persone, attraverso le quali ho vissuto la vita. I vivi, i morti, i miei cari, gli amici, i tanti maestri, e in tutti mi riconoscevo, tutti mi suscitavano ricordi, emozioni, pensieri. Un sogno felice. Quella piazza è diventata questo libro. Sono tanti, ma molto più numerosi sono quelli che non ci sono. In un certo senso ci sono tutti, li ringrazio". Ferdinando Scianna nasce a Bagheria in Sicilia, nel 1943. Comincia a fotografare negli anni 60, mentre frequenta la facoltà di Lettere e Filosofia all'Università di Palermo. In questo periodo fotografa, in modo sistematico, la sua terra, la sua gente, le sue feste. Nel 1965 esce il volume Feste Religiose in Sicilia, con un saggio di Leonardo Sciascia: ha così inizio una lunga collaborazione e amicizia tra Scianna e lo scrittore siciliano. Pochi anni più tardi, nel 1967, si trasferisce a Milano, lavora per L'Europeo, e poi come corrispondente da Parigi, citta in cui vivrà per dieci anni. Nel 1977 pubblica in Francia Les Siciliens (Denoel), con testi di Domenique Fernandez e Leonardo Sciascia, e in Italia La villa dei mostri, sempre con un'introduzione di Sciascia. A Parigi scrive per Le Monde Diplomatique e La Quinzaine Litteraire e soprattutto conosce Henri Cartier-Bresson, Ie cui opere lo avevano influenzato fin dalla gioventù. Il grande fotografo lo introdurrà nel 1982, come primo italiano, nella prestigiosa agenzia Magnum. Dal 1987 alterna al reportage la fotografia di moda riscuotendo un successo internazionale. É autore di numerosi libri fotografici e svolge da anni un'attività critica e giornalistica; ha pubblicato moltissimi articoli su temi relativi alla fotografia e alla comunicazione per immagini in generale. Rimini: con la Comunità Papa Giovanni XXIII, dieci km di camminata per 50 detenuti www.altarimini.it, 10 aprile 2015 Dieci chilometri a piedi per una cinquantina di detenuti, dalla casa madre del Perdono di Montecolombo al santuario della Madonna di Bonora a Montefiore Conca, lungo i sentieri della Valconca, nel Riminese. È l'iniziativa "Cammina con me!", organizzata sabato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, per ribadire la necessità del riconoscimento da parte dello Stato delle strutture educative alternative al carcere. Il cammino, spiega l'associazione sarà per i detenuti "un'occasione di raccontare i propri vissuti, le proprie ferite, per riflettere sui reati commessi e sulla voglia di ricominciare a vivere". Sono tutte persone che stanno scontando la pena nelle Comunità educanti con i carcerati (Cec), "che oggi vivono solamente grazie all'autofinanziamento: da oltre 10 anni è attiva la sperimentazione della Comunità Papa Giovanni XXIII". Salvini: i Rom? Raderli al suolo Il Garantista, 10 aprile 2015 La campagna delle elezioni regionali della Lega può regalare a Matteo Salvini un risultato abbondantemente sopra alla soglia delle due cifre. Nei sondaggi il movimento oscilla tra il 13 al 16 per cento dei voti, un aumento sostanzialmente dovuto a un espandersi del consenso anche in regioni fino ad oggi ritenute inespugnabili. La povertà, che ha desertificato molti dei sentimenti di solidarietà tra la popolazione più esposta dalla lunga crisi, favorisce l'attecchirsi dello slogan "prima gli italiani", evoluzione de "padroni a casa nostra", quando questo significava che i "buoni" padani dovevano comandare nel nord e, non i "cattivi" terroni che occupavano i posti pubblici e aumentavano la criminalità e il lassismo. Da qualsiasi lato lo si voglia prendere il razzismo è un'arma efficacissima, quando è usata con sapienza, la giusta dose di arroganza mediatica, coccolata da schiere di intrattenitori dei talk show. Dentro il fenomeno Salvini, come sempre a torto liquidato dalla sinistra elitaria, risiedono un coacervo di calcoli elettorali e progetti politici di medio periodo, molto accorti. Il capo della Lega sa benissimo che è altamente improbabile che diventi presidente del Consiglio, ma è consapevole che la sua destra, si può evolvere passando dalla xenofobia spicciola al nazionalismo anti imperialista europeo, per poi contribuire alla ridefinizione del campo liberista conservatore. Per ora il Matteo da Giussano, accoglie strumentalmente i gruppi dell'estrema destra, ma che per vie scompositive e aggregative punta all'insuccesso di un nuovo soggetto moderato. Il trionfo di Sarkozy nelle recenti dipartimentali francesi, la buonissima affermazione della Le Pen, raccontano della mutazione in atto dei conservatori in tutto il continente e oltre oceano. E la campagna contro i rom, così immediata, condivisa dalla maggioranza dell'opinione pubblica è un "necessario" passaggio, cui la Lega di Salvini sa di dover utilizzare per rafforzare la sua influenza culturale. Per cui è comprensibile che l'eurodeputato intensifichi la crociata: "Cosa farei io al posto di Alfano e di Renzi? Con un preavviso di sfratto di 6 mesi raderei al suolo i campi rom". Secondo il segretario dei padani i rom: "Come tutti gli altri cittadini, si organizzano, comprano o affittano una casa. I campi rom in Europa non esistono e hanno i diritti e i doveri di tutti i cittadini". Sul fronte opposto gli risponde il deputato Pd Khalid Chaouki: "La questione relativa alla gestione dei rom va certamente affrontata di petto e con determinazione, a partire dalla tutela dei minori dallo sfruttamento e dalla chiusura dei vergognosi campi-ghetto, simbolo del fallimento trasversale delle politiche sui rom in questi anni soprattutto nella capitale". A ben leggere le parole di Chaouki, che respinge: "La sterile e ridicola propaganda della Lega, perché alzare i toni e alimentare un clima di odio serve sola nascondere le colpe dei veri responsabili" dentro il campo democratico si è aperta una riflessione nuova, una ammissione che le vecchie risposte non sono più sufficienti. I numeri dicono che in Italia vi sono circa 157mila rom, di cui la gran parte italiani, che i campi hanno aggravato una situazione che in altri paesi è stata affrontata, a fronte di cifre ben più alte, con maggiore efficacia e rispetto dei minimi standard di umanità. "L'allora ministro Maroni - ricorda il deputato Pd - ha speculato politicamente senza risolvere alcunché facendo calare sulla giunta Alemanno milioni di euro in nome di una falsa emergenza rom e alimentando di fatto le casse di Mafia Capitale". Ma che la destra strumentalizzi questi temi è risaputo, il problema è che la sinistra, che governa diffusamente negli enti locali e negli ultimi vent'anni è stata varie volte al governo, non ha saputo mettere in campo politiche adeguate. A cominciare da Roma, il diffuso malessere delle periferie, su cui si sono scaricati centri di accoglienza, campi rom e ignorate i problemi causati da una crescita abnorme dell'urbanizzazione, della mancanza di servizi e trasporti, interrogano oggi non Marino, ma la stagione di Alemanno, e pure le precedenti giunte di centro sinistra. In generale è un modello di multiculturalismo politico, evocato come unico strumento non razzista in grado di affrontare le emergenze, gestire la convivenza, promuovere l'integrazione, a uscirne sconfitto. Salvini fonda la sua attuale fortuna politica, capace com'è di far passare in secondo piano il fatto che le due leggi che più hanno aggravato la situazione sono la Bossi Fini e la Giovanardi Fini. Per questo oggettivamente siamo in una fase politica inedita, dove la narrazione del segretario leghista sostiene che il suo partito diventerà il primo partito del centro destra alle regionali del 31 maggio, usando anche l'argomento che nelle regioni rosse: "Dal primo giugno cambierà tutto e, almeno una di queste non rimarrà tale". È possibile che si riferisca alla Liguria dove la situazione politica dentro il centro sinistra potrebbe degenerare fino a una clamorosa sconfitta. La trasformazione della destra italiana è in pieno svolgimento e le spinte di Salvini obbligheranno anche Forza Italia, dopo una annunciata sconfitta, a ridefinire valori e parole d'ordine. Sbaglia chi pensa che le sinistre non ne saranno influenzate e, una buona dose di realismo alla Chaouki o alla Francesca Danese, assessore di Roma, posta sotto scorta perché affronta con decisione bubboni come la crisi abitativa e l'immigrazione, sarebbe bene si espandesse di più, non solo nel Pd. Stati Uniti: crimini e pene, c'è un'inversione di tendenza di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 10 aprile 2015 A New York e nel New Jersey dal 2000 a oggi le condanne a pene detentive sono calate del 26%, mentre in California dal 2007 il numero dei detenuti nelle carceri statali è sceso da 174 a 149 mila. Primi, piccoli segni di un'inversione di tendenza in un Paese, gli Stati Uniti, che ha pagato il calo a volte spettacolare delle attività criminali (328 gli omicidi a New York l'anno scorso, 2.245 nel 1990) con quello che il musicista John Legend, lo scorso febbraio, ha definito: "Il Paese con più carcerati al mondo, con più neri dietro le sbarre rispetto al 1850, nell'era degli schiavi". Vero? Falso? Sostanzialmente vero: con due milioni e 230 mila detenuti, gli Stati Uniti battono Paesi come Cina e India non solo per prigionieri in rapporto alla popolazione, ma anche in numero assoluto. Numeri impressionanti: del resto già da anni un rapporto dell'Accademia delle Scienze Usa ha certificato che il tasso di detenzioni degli Usa è dieci volte quello delle principali democrazie europee. Due domande: il calo dei crimini in America è il risultato della politica di incarcerazioni a tappeto e, a lungo, anche per reati non violenti come lo spaccio di droga adottata mezzo secolo fa? La predominanza di neri nella popolazione carceraria (1,68 milioni di afroamericani su 2,23 milioni) dipende da fattori oggettivi o è il frutto di discriminazione come denunciato nelle numerose manifestazioni dei mesi scorsi, da Ferguson a New York, passando per le celebrazioni del cinquantenario di Sema? Le risposte, in sintesi, sono che sorvegliare soprattutto le zone nere è giustificato dal fatto che è qui che vengono commessi gran parte dei reati, anche gli omicidi. Ma le incarcerazioni danneggiano le possibilità di recupero della comunità nera dove a delinquere sono soprattutto i figli di famiglie nelle quali almeno un coniuge se ne è andato: volontariamente o perché in un penitenziario. È ora di cambiare depenalizzando o riducendo le pene per i reati minori, ha proposto al Congresso il ministro della Giustizia uscente Eric Holder. Porte chiuse dei repubblicani, per ora, ma le cose cambieranno anche perché studi recenti secondo i quali il calo dei reati dipende solo in minima parte dalla maggiore severità delle pene, stanno convincendo alcune delle lobby conservatrici più potenti, da quella dei fratelli Koch, padroni dell'omonimo impero industriale, al movimento anti tasse: la pressione sul contribuente si riduce e il perimetro dello Stato si allarga.