Giustizia: sull’uso della custodia cautelare tutto da rifare e non solo per i parlamentari di Beniamino Migliucci (Presidente dell'Unione Camere penali italiane) Il Garantista, 9 agosto 2015 Assegnare alla Corte costituzionale le autorizzazioni per deputati e senatori? Parliamone, ma parliamo soprattutto della custodia cautelare, usata sempre più a sproposito, come se fosse una pena anticipata. Il Ministro Orlando ha posto il tema, dell'opportunità di una riforma dell'istituto dell'autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari. Intervento che ha certamente il pregio di aver coraggiosamente posto sul tavolo una questione non più eludibile, sulla quale l'Ucpi ha più volte richiamato l'attenzione. Anche se la soluzione proposta di chiamare in causa la Corte costituzionale può suscitare (ed ha suscitato) qualche perplessità di ordine tecnico e politico, la necessità di avviare una riflessione incondizionata su questo punto nevralgico dei rapporti fra politica e giustizia appare del tutto condivisibile. La previsione originaria declinata dalla nostra Carta Costituzionale, così come pensata dei padri costituenti, stabiliva che nessun membro del Parlamento potesse essere perseguito per le opinioni espresse nell'esercizio del suo mandato, o sottoposto a procedimento penale senza autorizzazione, né che potesse essere sottoposto a perquisizione o tratto in arresto, neppure in esecuzione di una sentenza passata in giudicato. Si trattava a ben vedere di un precisa linea disegnata a tutela della separazione dei poteri e del Parlamento (e non certo del singolo suo componente sottoposto a processo) che, in uno Stato democratico, resta il cuore pulsante del sistema, cuore che per funzionare correttamente, deve anche essere preservato da ogni ingerenza esterna anche di natura giudiziaria. Con la legge costituzionale numero 3 del 1993, l'articolo 68 della Costituzione è stato modificato e la sua portata fortemente limitata. È superfluo ricordare quale fosse il clima che regnava in quegli anni, si era nel pieno e tumultuoso incedere del fenomeno di mani pulite. In virtù di quella affrettata riforma i parlamentari possono oggi essere liberamente sottoposti a processo penale ed anche tratti in arresto in esecuzione di una sentenza di condanna definitiva, senza che alcuna autorizzazione debba essere domandata o concessa. La necessità dell'autorizzazione sorge solo laddove il membro del Parlamento debba essere oggetto di perquisizione, intercettazione, o limitazione della libertà personale in esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare. Non più, quindi, limiti al processo e all'efficacia delle sentenze passate in giudicato ma, semplicemente alla compressione della libertà personale fin tanto che l'accertamento dell'eventuale responsabilità penale è in corso. Dobbiamo chiederci, come giustamente sollecita l'intervento del Ministro, se l'attuale assetto rappresenti in effetti il corretto punto di equilibrio o se, a distanza di vent'anni da un momento drammatico della vita del Paese, nel quale la politica ed il Parlamento sono stati azzerati dalle inchieste di Tangentopoli, si debba rivalutare l'opportunità di una modifica che di quel tempo e della totale assenza di fiducia nei rappresentanti del popolo, è figlia. Certo è che diverse sono state le interferenze tra politica e attività giudiziaria a dar luogo a distorsioni difficilmente comprensibili. Ci sono stati, infatti, casi di parlamentari per i quali l'autorizzazione all'arresto è stata concessa ed altri per i quali è stata negata senza che all'apparenza vi fossero ragioni chiare ed obbiettive e l'adozione di criteri trasparenti che dessero conto del perché si fosse deciso di procedere nell'uno o nell'altro senso. Sembra opportuno, quindi, valutare se non sia il caso che il Parlamento ristabilisca le garanzie e le regole da porre a presidio della sua autonomia e nel contempo che siano dettati con chiarezza i presupposti e le regole in ragione dei quali deve operare l'immunità. Vale pena di domandarsi anche del perché la questione del rapporto tra Parlamento e Autorità giudiziaria si ponga in termini così delicati quando l'istituto dell'immunità, a seguito della ricordata modifica, è stato fortemente ridimensionato, per non dire anemizzato. La risposta va, evidentemente, ricercata nel rapporto tra indagini e processo. Ormai da tempo, si è fatta strada nel nostro Paese un'idea secondo la quale il momento centrale del procedimento penale non è il processo, nel quale attraverso il contraddittorio tra le parti si tende all'accertamento della fondatezza della pretesa punitiva dello Stato, bensì le indagini. Il momento di ricerca dei mezzi di prova nella signoria del pm, vorrebbe essere, secondo determinate derive culturali autoritarie, il luogo di accertamento della verità, rispetto al quale il processo si pone come un accessorio del tutto eventuale e con funzioni prevalentemente esornative. Alla sfiducia nella funzione del processo si accompagna poi, in modo sempre più diffuso, una sfiducia nell'efficacia del nostro sistema sanzionatorio. In quest'ottica alimentata da spinte securitarie, si inserisce in modo del tutto coerente ed altrettanto illegale un uso delle misure cautelari in funzione di anticipazione di pena. Il tema vero, dunque, disvelato da queste tensioni agostane è quello costituito dalla necessità di ricondurre complessivamente il sistema penale ad un punto di equilibrio nel quale le indagini si svolgono nel tempo più breve possibile ed il processo, collocato nel luogo di centralità che gli è proprio, assolve effettivamente alla propria funzione di garanzia dei principi costituzionali che assistono il cittadino sottoposto alla pretesa punitiva dello Stato. Il destino degli uomini, e tra essi anche e soprattutto quello dei parlamentari, non può per regola restare affidato alle indagini infinite, che attraverso la cassa di risonanza mediatica condannano senza condanna e senza appello, né la libertà di chi sia assistito dalla presunzione di non colpevolezza può essere sacrificata, fuori dei casi assolutamente eccezionali previsti, sull'altare di un malinteso senso di effettività della pena. L'unico modo, dunque, di trovare un equilibrio perduto, a prescindere dalla soluzione tecnica che si intenderà adottare a garanzia del Parlamento, è quello di tornare alle radici strutturali del problema, pretendere il rispetto dei principi che informano il nostro ordinamento che vogliono indagini brevi, un processo garantito e nessuna limitazione della libertà personale prima della sentenza di condanna definitiva se non in casi assolutamente eccezionali. Giustizia: l’Italia dei soldi sporchi, dalle frodi recuperati 1,1 miliardi di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 9 agosto 2015 La Finanza: "Nel 2014 il record di operazioni per nascondere e riciclare denaro è frutto di attività illecite". Case, palazzi, ma anche attività commerciali, alberghi e resort di lusso. Il 2014 si conferma l’anno record per il riciclaggio con migliaia di operazioni per occultare e poi reimpiegare il denaro proveniente da attività illecite. Il rapporto della Guardia di Finanza lo quantifica in 2,8 miliardi di euro. E ciò che desta maggiore allarme è la tipologia dei reati all’origine del trasferimento dei fondi: perché ben 1,1 miliardi di euro provengono da frodi fiscali. Sono dunque soldi sottratti alle casse dello Stato, ricchezze "risparmiate" e nascoste da chi non paga le imposte. L’attività di contrasto svolta dalle Fiamme Gialle ha dato buoni frutti, si è riusciti a ottenere "il sequestro di 5.645 asset patrimoniali di cui 5.094 beni e 551 aziende". Ma il volume d’affari dei criminali - uomini dei clan organizzati, ma anche imprenditori e personaggi che gestiscono affari con la pubblica amministrazione - continua a crescere minando pericolosamente l’economia. Tanto che la relazione sugli ultimi dodici mesi rende conto degli strumenti di prevenzione antiriciclaggio usati "per intercettare in tempo reale le nuove pratiche criminali soprattutto quando realizzate con metodi diversi dai semplici trasferimenti fisici di valuta, come nel caso dell’utilizzo di moneta elettronica o virtuale (ad esempio bitcoin) o di ricorso ad articolati societari (trust, fiduciarie, società estere con azioni al portatore)". Discorso a parte, ma non meno importante, riguarda i money transfer, perché "negli ultimi dodici mesi il valore delle rimesse all’estero - in gran parte effettuate attraverso questo circuito - si è attestato a 5,3 miliardi di euro". Il dossier cita i casi più eclatanti, ma anche indicativi dei "sistemi" più utilizzati. La criminalità organizzata investe in immobili e in locali notturni. E proprio in questi settori si concentrano le verifiche delle Fiamme Gialle per cercare di recuperare il denaro sottratto allo Stato. I provvedimenti di sequestro nel settore immobiliare hanno avuto un valore di "570 milioni di euro, pari al 38 per cento totale delle aziende interessate dai controlli che è pari a un miliardo e mezzo di euro". Il rapporto della Finanza illustra anche i "risultati ottenuti nel settore dei "servizi di supporto alle imprese" con oltre 282 milioni di euro di sequestri e il dato relativo alle "attività di intrattenimento e divertimento" nel cui ambito sono scattati i sigilli per 230 milioni di euro". Tre mesi fa è stato arrestato un imprenditore di Legnano che aveva "depositato su conti correnti cifrati aperti presso alcune banche svizzere milioni di euro non dichiarati al Fisco da liberi professionisti e industriali italiani". Il meccanismo prevedeva l’investimento delle provviste "in società in stato prefallimentare che poi venivano "svuotate" con fittizi trust liquidatori cui trasferire l’attivo delle aziende decotte, privando le società del patrimonio e destinandole unicamente al fallimento. E così sono scattati i sigilli allo "Champoluc Paradise Resort" in provincia di Aosta; un complesso immobiliare in Brianza; un immobile a Rapallo; l’albergo "Le Miramonti Wellness Hotel" de La Thuile in Val d’Aosta; diversi appartamenti di pregio a Courmayeur; immobili commerciali e abitazioni in Lombardia, Piemonte e Valle d’Aosta; un’imbarcazione modello Fairline 52; quote societarie". In Romagna sono state individuate società "cartiere" "prive di qualsiasi struttura operativa, di attrezzature, macchinari e strumentazioni idonee per realizzare i lavori indicati nelle fatture". In realtà "le imprese erano state create al solo scopo di emettere fatture per operazioni inesistenti e consentire a un’altra società a vocazione internazionale (con sede in Lombardia), dedita al montaggio e alla manutenzione di grossi impianti produttivi, di consumare una frode fiscale per oltre 31 milioni di euro". Annotano gli investigatori: "La società lombarda, ha realizzato impianti petroliferi negli Emirati Arabi ottenendo rilevanti ricavi di natura estera (quindi senza l’applicazione dell’Iva nello Stato italiano) e si è avvalsa per anni di questi soggetti compiacenti, instaurando un meccanismo fraudolento che le ha consentito di abbattere illecitamente il reddito imponibile, l’importo sul quale l’Erario calcola le imposte dovute, attraverso indebiti rimborsi d’Iva e il riconoscimento di costi inesistenti". Qualche mese fa il Nucleo di polizia tributaria di Forlì ha avviato un monitoraggio su "58.000 soggetti che negli anni dal 2009 al 2014 hanno effettuato movimentazioni finanziarie tra l’Italia e la Repubblica di San Marino. Le prime 1.050 verifiche, hanno consentito di scoprire redditi nascosti al Fisco per oltre 850 milioni di euro ed evasione per oltre 153 milioni di euro". Nella lista ci sarebbero numerosi nomi eccellenti. Giustizia: nei campi tornano braccianti italiani, paga di 3 euro l'ora e "caporali" stranieri di Antonio Manzo Il Mattino, 9 agosto 2015 Molti i cinquantenni che hanno perso il lavoro. I "caporali" che li reclutano sono stranieri. È solo quando arriva la luce del giorno che si scopre l'ombra del dramma riflesso nella terra bruciata dal sole. Alle cinque del mattino, le sagome assonnate di uomini e donne incarrozzati su pulmini o a bordo di biciclette, si riescono solo a intravedere. Solo quando il sole inizia ad albeggiare si definiscono meglio le forme. Eccoli i braccianti. Uomini e donne sfruttati, che staranno curvi per dieci ore sotto serre di pomodoro, rucole, prezzemolo e basilico, dove con questo caldo africano non puoi resistere neppure se ti garantissero l'aria condizionata a manetta, perché qui il tetto di plastica è il fotovoltaico degli sfruttati. Non sono più solo marocchini o rumeni, ma da qualche mese anche moltissimi italiani disoccupati, scaricati da fabbriche chiuse, imprese edili fallite, ma anche ex piccoli imprenditori finiti sul lastrico. Esodati, cassintegrati, disoccupati di casa nostra allungano una fila che negli ultimi tempi si sta sempre più infoltendo. Siamo nella piana del Sele, profondo Sud, a duecento chilometri dai campi della provincia di Andria dove la scorsa settimana una donna era morta di fatica, la stessa che decine e decine di persone soffrono in questo angolo di Campania. "Invocano un lavoro qualsiasi, sono tutti disoccupati, uomini o donne tra i quaranta e cinquant'anni, spesso anche qualcosa in più", raccontano Giovanna Basile e Alferio Bottiglieri, sindacalisti Cgil. I braccianti, nella piana ai piedi di Eboli come in Puglia e in Calabria, vengono pagati per 25, massimo 30 euro a giornata. Stranieri o italiani non conta. La beffa nella beffa è che chi li sfrutta, insieme ai soldi consegna loro una busta paga dove il computo finale, in apparenza, non fa una grinza, con il lordo a pagare tutto secondo contratto, limpido ma con la truffa mascherata. Perché i soldi in tasca, alla fine, della giornata in realtà sono la metà. Chi si ribella va fuori, perde anche quel poco che basta per vivere. A Battipaglia, Capaccio-Paestum, Bellizzi, Pontecagnano, Eboli è come a Rosarno ma anche qualcosa in più perché quasta Piana l'hanno definita da sempre la California d'Italia. Ma non è più come apparve agli occhi innocenti di Rocco Scotellaro che descrisse proprio qui i contadini del Sud capaci perfino di parlare con le bufale, chiamandole per nome, o a Piero Ottone quando negli anni del "miracolo italiano" incrociò la ricchezza della Piana e i grandi agrari, come Mellone o Valsecchi, capaci di esser virtuosamente passati da latifondisti a grandi imprenditori agricoli di respiro nazionale. Erano loro gli Agnelli del Sud. Oggi dire Piana del Sele è come dire Andria dove la prima vittima della terra non ha cognome e nome straniero ma italiano, ed era quello di Paola, 49 anni bracciante di San Giorgio Jonico. Paola non era Mohamed, il sudanese ucciso dalla fatica in un'azienda tra Nardo e Avetrana, né Zakaria, crollato dopo nove ore di lavoro a Polignano a Mare e dove la moglie e i quattro figli che ha lasciato non torneranno più. Paola è un'italiana. E proprio da icona, martire del lavoro nero nei campi al tempo della globalizzazione, che ti appare come una sagoma inquietante, alle cinque del mattino, tra moltissimi italiani che, insieme a marocchini, rumeni, indiani, raggiungono i campi coltivati della piana del Sele. Proprio come è capitato nel Nordest dove la vendemmia non è più appannaggio solo degli immigrati ma di disoccupati italiani. Ci eravamo tutti abituati a descrivere solo le facce straniere di questi reduci dei barconi finiti a raccogliere pomodori nelle terre dei presunti ricchi che si erano perfino arrogati il diritto di odiare la terra, lasciarla, abbandonarla al destino dei nuovi schiavi, oppure sfruttarla in ogni metro quadrato con la cementificazione selvaggia contigua alla camorra. Le auto dell'esodo estivo dell'Italia sulla Statale 18 si confondono con i pulmini dei nuovi "caporali" con i braccianti a bordo. Le auto schivano i marocchini in bicicletta, a bordo carreggiata, visibili solo per quei giubbini catarifrangenti nell'oscurità della notte ormai prossima all'alba. Ogni mattina, nella piana del Sele, in appena trenta minuti, circa 5mila lavoratori vengo -no smistati in 400 aziende agricole. "Vedi ancora molti rumeni ma ci sono anche tanti italiani" testimonia Davide Palo, gestore di un impianto di carburanti. Lui è un pezzo di storia da queste parti: ricorda i tempi dell'irruzione violenta sul mercato del pomodoro di Pasquale Simonetti, meglio noto come "Pascalone de Nola", fino ad oggi, epoca della grande ortofrutta. I braccianti sfruttati lasciano povere case con tetti di amianto e immondizia. A via Vincenzo Gioberti, sulla litoranea di Eboli, in improbabili villette per le vacanze vivono centinaia di immigrati nel degrado più assoluto. Racconta Anselmo Botte, sindacalista-sociologo ed autore di libri sulla miseria degli immigrati della piana del Sele. "È cambiato tutto quaggiù. Perché quel 100 per cento di braccianti di origine straniera, ora è diminuito all'80% e scende sempre di più. La manodopera è cambiata e nei campi non si parla più solo marocchino o rumeno". Antonio Calabrese 52 anni, quattro figli, è di Bracigliano, un paesino della Valle dell'Irno. "Sono un carpentiere disoccupato - racconta - lavoravo in edilizia e la mia ex impresa è fallita. Voglio andare a lavorare nella piana del Sele. La colpa non è dei marocchini, è che noi italiani abbiamo pensato per decenni che la fatica nella terra era un declassamento nella società". Alfredo Provenza, 53 anni, di Battipaglia: "Ho chiesto di esser inserito nel collocamento pubblico promosso dal sindacato, la mia azienda produceva plastica. È fallita, a casa mia era l'unico stipendio. Sono pronto a tornare alla terra". Raffaele Del Torto, 50 anni, cilentano: "No dovrò avere vergogna se alle cinque del mattino troverò lavoro nella Piana. Devo sbarcare il lunario, ero un operaio edile". Tutto è cambiato, anche la faccia e la carta d'identità dei "caporali" è cambiata. I "caporali" italiani, ineguagliabili, fino a venti anni, fa nello sfruttamento dei braccianti dei paesini dell'Irpinia o del Basso Cilento, non hanno più le stesse facce. Ora i "caporali" sono tutti stranieri, trasformazione etnica profonda, radicale. "Sono i caporali etnici che trattano direttamente con gli imprenditori agricoli della Piana. Una intermediazione di manodopera con la gestione del sotto salario, il controllo dei ritmi di lavoro, punti di snodo di una tratta di esseri umani perfino prestata alla politica, come quando gruppi di rumeni furono spediti anche a votare alle primarie Pd" spiega ancora Anselmo Botte. Se vuoi, da marocchino, un posto di lavoro puoi anche essere costretto a sganciare una tangente che si aggira tra i 7 e i 10mila euro. Spesso sono anche truffe. Basta aprire un'agenzia di consulenza per gli immigrati, con avvocati, qualcuno già finito in galera, e sedicenti commercialisti per aprire il mercato dei contratti di lavoro. I sindacalisti e qualche esponente della Caritas quaggiù appaiono come gli ultimi, solitari combattenti nella guerra per la legalità. A giugno scorso la Cgil ha organizzato un convegno sullo sfruttamento nelle campagne. C'era anche il questore di Salerno, Alfredo Anzalone. Ha ascoltato tutti, pazientemente, e per ore. Lui che arriva dalla frontiera di Rosarno avrà, ad esempio, percepito in tutta la sua gravità la denuncia sindacale sulla tratta dei rumeni, centinaia di uomini ai quali sarebbero stati sottratti documenti e premessi di soggiorno e resi così "invisibili": una vita quotidiana tra tuguri e lavoro. È così, ancora più facile, per i mafiosi rumeni che si aggirano al bivio di Santa Cecilia di Eboli poter incassare migliaia di euro ogni quindici giorni per conto degli "invisibili", con la complicità di imprenditori italiani, naturalmente. E pensare che qui l'agricoltura incrocia il mondo. Tino Bellina, imprenditore bergamasco, intuì alla fine degli anni Ottanta il futuro dell'insalata in busta, pronta per essere messa nel piatto. Prima Ortobell poi nel 2000 l'arrivo del colosso francese Bonduelle. Oppure i laboratori della Finagricola che trasferiscono la più avanzata ricerca ai prodotti nei campi. È la cosiddetta "quarta gamma" dell'ortofrutta di Battipaglia, la faccia pulita della ricchezza globale. "Le insalatine che finiscono nei piatti di mezzo mondo hanno salvato l'agricoltura della Piana" spiega Oreste Mottola, il cronista dei contadini. Perché qui negli anni 80 il pomodoro fu colpito da una virosi che distrusse coltivazioni per migliaia di ettari. Ora è tornato, l'oro rosso. Grazie ai braccianti stranieri sfruttati e sottopagati. Come quelli che sostano ogni sera davanti ad una banca nella Piana, alle loro spalle scorre, inesauribile, il display delle Borse proprio mentre loro attendono di sfidare la morte sotto il sole. E per appena tre euro all'ora. Giustizia: Mafia Capitale; lo scontro Alemanno-Gabrielli i migranti e la nevicata del 2012 Il Tempo Le presunte ripicche tra comune di Roma e Protezione Civile. Lo "scontro sulla crisi neve del 2012" fra l’allora capo della Protezione civile e attuale prefetto di Roma, Franco Gabrielli, e Gianni Alemanno, "fece venire meno i fondi per l’emergenza immigrazione" nella Capitale. Lo racconta Salvatore Buzzi nei suoi interrogatori alla Procura della Repubblica di Roma. Racconta che "alcuni del quinto dipartimento pensano che siccome sono minori, siccome è l’emergenza Nord Africa i fondi devono venire da Gabrielli che è il capo della Protezione civile. Ma era successa un’altra cosa grave, era successo, questo glielo dico tranquillamente, che aveva nevicato a Roma, si ricorda la nevicata a Roma nel 2012? Si ricorda la polemica tra Alemanno e Gabrielli? Che Alemanno dice che a Roma è paralizzata perché Gabrielli non ha dato le previsioni, invece de stasse zitto come fece Zingaretti, perché quando nevica a Roma ogni trenta anni è meglio che te stai zitto tanto la colpa è de tutti, Alemanno va in prima fila perché è generoso, dice: "È colpa di Gabrielli che non ha… è colpa del dipartimento Protezione civile che non c’ha previsto le previsioni", insomma, secondo Buzzi nasce un "odio" tra Gabrielli e Alemanno. "E come gliela fa scontare Gabrielli? Gliela fa scontare che quando il Comune di Roma va a chiedere i fondi al dipartimento della Protezione civile nazionale per i minori, Gabrielli gli fa le pulci, Bangladesh non è Nord Africa, quindi invece di riconoscergli le 100, gliene riconosce 70, 30, stiamo a sti rapporti". Spiega per questa situazione si crea "un debito fuori bilancio" che ricade comunque sul Comune. "Si crea un debito fuori bilancio, perché loro sul bilancio non l’hanno previsti, Gabrielli non dà e per noi diventa un debito fuori bilancio. E quindi il debito fuori bilancio tutte e cinque le associazioni cerchiamo di farlo approvare in Consiglio comunale entro la consiliatura di Alemanno. Alemanno se andava nel 2013, quindi l’ultimo giorno utile era il 10 aprile 2013. E noi le dico che ci siamo riusciti grazie alla grandissima competenza di Riccardo Solfanelli che è stato il capo della segreteria della Belviso che si prese in carico sta cosa e riuscì a fa tutti i passaggi burocratici, e fu approvato a mezzanotte meno dieci, dieci minuti prima della mezzanotte, poi dopo la mezzanotte non si approvava più. E niente, quindi venne approvata questa delibera con il debito fuori bilancio". Torino: morto durante il Tso, quattro indagati. "Soffocato dal vigile" di Ottavia Giustetti e Diego Longhin La Repubblica Avvisi di garanzia ai tre agenti e allo psichiatra. "Per Andrea fatale la stretta al collo durata 5 minuti". C’è chi è già pronto a battezzare come un nuovo caso Aldrovandi, chi lo definisce solo un tragico incidente, quello di Andrea Soldi, il 45enne torinese, malato psichiatrico, morto durante un tragico ricovero mercoledì scorso a Torino. Andrea era seduto sotto un albero dei giardinetti dove spesso trascorreva le sue giornate. Era tranquillo. Quando il medico e i tre agenti si sono avvicinati per convincerlo a seguirli in ospedale si è aggrappato con tutte le sue forze allo schienale della panchina. Non voleva curarsi. Erano stati il padre e la sorella a chiedere l’intervento dei medici perché fosse costretto a riprendere la terapia. Ma giurano che Andrea non era stato mai violento. Diceva che i matti erano loro e si rifiutava di sprofondare il quel torpore che gli davano i medicinali, quel sonno costante. Un’ora e mezza dopo quel primo incontro, sotto gli occhi di decine di testimoni, il corpo di Andrea veniva scaricato dall’ambulanza in pronto soccorso, e i medici constatavano la sua morte per arresto cardiaco. Cresce, ora dopo ora, il sospetto che i tre agenti del reparto servizi mirati dei vigili, insieme al medico psichiatra che lo seguiva da tempo, abbiano esercitato la forza in maniera spropositata. Tanto che la procura di Torino ha notificato loro quattro avvisi di garanzia in relazione alla morte di Andrea, in attesa che l’autopsia chiarisca quale è stata la causa e quando è avvenuta esattamente. "Ho capito come l’avevano ucciso", raccontava venerdì la sorella di Andrea, Cristina, dopo aver descritto la drammatica immagine di suo fratello all’obitorio. "Aveva le orecchie nere, tre cicatrici sul volto, attorno al collo una collana di lividi, dei segni bianchi tutt’attorno ai polsi. Mio fratello è stato messo in croce, è morto soffocato, con la testa in giù, e batteva le gambe". Solo quattro delle nove persone che hanno preso parte al ricovero forzato sono state indagate dal procuratore Raffaele Guariniello: lo psichiatra Pier Carlo Della Porta, che ha chiesto l’intervento dei vigili e che seguiva da tempo Andrea Soldi; e i tre agenti Enri Botturi, Stefano Delmonaco - che ha preso Soldi da dietro all’altezza del busto per immobilizzarlo - e Manuel Vair. Anche Della Porta avrebbe collaborato ad ammanettare l’uomo nei cinque minuti concitati prima di caricarlo sull’ambulanza. Soldi è stato messo a terra, faccia in giù, ed è stato trasportato prono in ospedale. Lì, secondo i medici, era già in arresto cardiaco. I testimoni raccontano di aver visto un agente aggredirlo alle spalle e stringerlo alla gola con il braccio per minuti. Un uomo che abita nella piazza e che ha scattato con il telefonino ha ritratto Andrea Soldi riverso con il volto schiacciato a terra e con le manette ai polsi. Il procuratore Guariniello e i Nas di Torino hanno ascoltato in queste ore tutte le possibili ricostruzioni: quelle dei barellieri e dell’autista dell’ambulanza che è stata chiamata dallo psichiatra per portare il paziente in ospedale, e quelle dell’infermiere, Andrea Campassi, che ha viaggiato sull’ambulanza insieme a Delmonaco. Gli investigatori interrogheranno i vigili e lo psichiatra la prossima settimana dopo che il medico legale avrà presentato la sua consulenza sull’autopsia. Intanto due relazioni sono sotto esame, quella dei vigili e quella del 118, che in alcuni passaggi riferiscono dettagli diversi e si smentiscono a vicenda. Torino: il dramma del padre di Andrea "chiesi io il Tso, non me lo perdono" di Giusi Fasano Corriere della Sera, 9 agosto 2015 Andrea Soldi morto dopo il ricovero forzato. La relazione: "Preso al petto, non al collo". "Non si trattano così nemmeno le bestie da portare al macello. Se ripenso a quella scena mi viene da piangere. Io ho portato la divisa per una vita, so cos’è il senso del dovere e dello Stato. E l’altro giorno, mi creda, il senso dello Stato qui non c’era". Sebastiano Pischedda, 76 anni, è un ex carabiniere in pensione e mercoledì pomeriggio guardava piazza Umbria dalla finestra di casa sua. Ha visto Andrea Soldi seduto sulla solita panchina, ha visto gente che si agitava attorno a lui e poi ha visto "quello che si è messo dietro di lui e gli ha stretto il braccio attorno al collo. E che non mi si venga a dire che non è vero, so distinguere un collo da un petto". Andrea aveva 45 anni e quelli erano i suoi ultimi minuti di vita. Dovevano ricoverarlo per un Tso, trattamento sanitario obbligatorio. Un intervento quasi di routine per lui, già sottoposto ad altri Tso e in cura psichiatrica da molto tempo. Ogni tanto smetteva di prendere i farmaci e bisognava costringerlo a ricominciare. Per farlo erano arrivati lo psichiatra, un infermiere e tre agenti della polizia municipale. Si doveva soltanto portarlo in ospedale, anche contro la sua volontà. "E invece l’hanno caricato sulla lettiga che non si muoveva più dopo averlo tenuto per terra a faccia in giù e ammanettato con le braccia dietro la schiena", si arrabbia Pinuccia, la moglie dell’ex carabiniere. "Abbiamo scattato una fotografia con il telefonino (adesso nelle mani degli inquirenti, ndr). Povero Andrea. Era una presenza fissa, non ha mai dato fastidio a nessuno. Ci mancherà quel verso che faceva... lo sentivamo al mattino e dicevamo: ecco, è arrivato Andrea". Ululava come fanno i lupi, Andrea. Lo sapevano i bambini del quartiere, che correvano davanti a lui a imitarlo con il consenso divertito delle mamme tutte in lutto, sabato, davanti alla sua panchina piena di fiori. Maria, Rosa, Giovanna, Rita, Roberta... improvvisano capannelli, lasciano biglietti per il "tenero lupo mannaro", maledicono persone che non conoscono. I vigili urbani, soprattutto. Eppure è ancora tutto da scrivere il capitolo della responsabilità di questa storia. Chi ha sbagliato? Se davvero l’agente ha stretto il suo braccio al collo di Andrea com’è possibile che lo psichiatra, che a quanto pare sarebbe il responsabile dell’esecuzione del Tso, non abbia ordinato di interrompere l’operazione davanti a un uso eccesivo della forza? Più di un testimone racconta di Andrea "con il volto cianotico" e il medico, oppure l’infermiere, non l’hanno notato? Sabato il sostituto procuratore Raffaele Guariniello ha indagato i tre agenti municipali e il medico. Lunedì l’autopsia proverà a chiarire la dinamica dei fatti e poi si valuteranno le relazioni presentate in procura dallo psichiatra e dai vigili. Nel documento degli agenti si racconta che Andrea è stato afferrato non per il collo ma "nella parte superiore del busto", si dice che era "renitente alla somministrazione delle cure", si parla del suo "stato di delirio" e si ricostruisce anche il viaggio in ambulanza verso l’ospedale (uno degli agenti è salito con l’infermiere): nessuno, spiegano i vigili, ha detto che il paziente stava andando sotto i parametri vitali né sono state messe in moto procedure di urgenza. Insomma: una strada che porta dritto verso un rimpallo delle responsabilità fra vigili e azienda sanitaria. Tutto questo mentre il padre di Andrea, Renato, dice a chi gli sta vicino che "non mi perdonerò mai di aver chiesto io stesso il Tso..." e mentre l’avvocato della famiglia (che è anche cugino), Giovanni Maria Andrea, si dice "commosso dall’aiuto che stiamo ricevendo". La barista cinese della piazza, i romeni che lì bivaccano, la gente che abita nei palazzi accanto, quelli che mercoledì pomeriggio erano di passaggio o i pensionati che ci passano ore: tutti sono andati a testimoniare "in onore di Andrea". Tutti l’hanno descritto "buono, innocuo, sempre gentile e sempre lì, sulla sua panchina, da mattina a sera, estate e inverno". E tutti invocano una sola cosa: giustizia. Trapani: carcere di San Giuliano, chiusa per inagibilità la sezione femminile di Luigi Todaro Giornale di Sicilia, 9 agosto 2015 Chiusa per inagibilità la sezione femminile delle carceri di San Giuliano. La scelta è stata adottata in seguito alle relazioni inviate dalla Direzione della casa circondariale e culminate nel sopralluogo eseguito da personale tecnico del Provveditorato regionale dell'amministrazione Penitenziaria di Palermo, al fine di tutelare l'incolumità fisica delle detenute e del personale che vi presta servizio, il Superiore Ufficio ha disposto la chiusura del reparto. Le ventidue detenute verranno trasferite in altri istituti penitenziari della Sicilia, munite ovviamente di Sezioni Femminili. Il reparto delle carceri ericine, dichiarato inagibile, che, peraltro, era stato oggetto di infiltrazioni d'acqua che avevano provocato crolli nei tetti, verrà probabilmente ristrutturato nei prossimi mesi al fine di renderlo nuovamente fruibile. Roma: detenuto si getta dalla finestra, agente lo afferra per le gambe e lo salva di Alessia Marani Il Messaggero Lo ha afferrato letteralmente per le gambe. L'ha tirato su dando fondo a tutta la sua forza e alla fine lo ha salvato. Così un agente della polizia penitenziaria ha sventato il suicidio di un detenuto, S. P., ricoverato all'ospedale Santo Spirito di Roma. Il fatto è accaduto durante il turno della mattina di venerdì. S.P. si trova al terzo piano dell'ospedale, nel reparto di Chirurgia. Sono le 8,15 e apparentemente va tutto bene. A un certo punto l'uomo si rivolge al poliziotto e lo impreca: "Dammi la tua pistola che mi voglio ammazzare". L'agente, che di esperienza ne ha, non dà troppa importanza a quelle parole e continua a sorvegliarlo. Dopo qualche secondo il detenuto si alza dal letto per andare in bagno. Ed è quando sta per tornare nel suo letto che passando davanti alla finestra, con una mossa veloce, la apre e si tuffa di sotto. Come un fulmine l'agente si fionda su di lui, lo prende per le gambe e lo sostiene fino a quando non arrivano gli altri colleghi che erano di piantonamento ad aiutarlo. S.P. era già con il corpo fuori dalla finestra. I poliziotti appartengono tutti al corpo penitenizario di Regina Coeli. S. P. è stato ammanettato sul letto per bloccarlo ed evitare altri gesti drammatici. Ma, in escandescenze, ha tentato di lesionarsi picchiandosi la testa con le stesse manette. Si è calmato solo dopo che i medici lo hanno sedato. Quindi, ne è stato disposto il trasferimento nel reparto psichiatrico. A dare notizia dell'accaduto (nel 2015 la penitenziaria ha già salvato 200 detenuti dal suicidio) è Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-pa penitenziari. Che sottolinea: "Soggetti affetti da patologie psichiche dovrebbero seguire un percorso terapeutico piuttosto che un percorso detentivo. Purtroppo - spiega - si è voluto smantellare la sanità penitenziaria senza offrire una valida alternativa e alla soppressione degli Opg, ospedali psichiatrici giudiziari, non ha fatto seguito una adeguata organizzazione delle Rems. Tutto ciò si scarica sulla già fragili e stanche spalle della polizia penitenziaria". Roma: la storia di don Gaetano, che ogni giorno porta luce all’Ipm di Casal del Marmo di Marina Corradi Avvenire, 9 agosto 2015 Casalotti, periferia della capitale, oltre il raccordo anulare. Un portone, un cancello spalancato su un bel giardino. Un grosso cane buono che dorme nell’ombra, dei ragazzi intenti a fare pulizie. In una sala da pranzo la tavola è apparecchiata per venti persone. Qui, ogni sera, don Gaetano mangia con i suoi ragazzi. Sette vengono dal carcere minorile di Casal del Marmo; un’altra decina sono migranti stranieri, minorenni, approdati soli in Italia. Di cosa si parlerà a questa tavola la sera, quali ricordi affioreranno, mentre fuori sul raccordo anulare le auto dei pendolari incolonnate lentamente rincasano? I migranti ragazzini dicono in un italiano incerto del deserto, della traversata del mare, della paura. Per quelli che vengono dal carcere è forse più difficile, raccontare. Quanto a don Gaetano, lui non fa, dice, differenze. Tutti a casa, la sera alle otto. E non va a dormire, se uno solo tarda a rientrare. Come un padre, o una madre, che tende l’orecchio, aspettando i passi del figlio sulle scale. Don Gaetano Greco, nato nel ’47 a San Giovanni Rotondo, il paese di Padre Pio, è dal 1981 il cappellano del Carcere minorile di Casal del Marmo. Nel 1995 ha fondato questo centro per i minori, Borgo Amigò, dal nome del fondatore dell’ordine dei Terziari Cappuccini dell’Addolorata, cui Greco appartiene. Qui ospita i ragazzi affidatigli dal Tribunale. Colpevoli, anche, di reati gravi. Eppure il cancello aperto non ha, attorno, alcuna recinzione. Si vive in un rapporto di fiducia, di una parola data. Deve essere forte, pensi, l’affetto e l’autorevolezza che circondano questo prete, a cui obbediscono i ragazzi più travagliati, come se in lui avessero trovato un padre. Ha una faccia simpatica, su cui il dolore che ha visto affiora, senza cancellare il sorriso. Ma come nasce una simile vocazione, un’intera vita accanto ai figli che gli altri rifiutano? "Io sono figlio di contadini - racconta - eravamo sei fratelli, mia mamma era devota a Padre Pio. L’idea di diventare prete l’avevo in mente fin da bambino. Mi affascinarono i giovani Terziari Cappuccini che arrivarono in una chiesa vicino a casa nostra. Avevano una vocazione all’aiuto dei giovani "difficili". Sentivo raccontare da loro le storie di ragazzi apparentemente persi, e poi recuperati. Mi rimase in mente un’espressione: "Per ogni ragazzo salvato, si salva una generazione"". Ad appena 11 anni entra in Seminario nel Salento, dopo avere ricevuto, in sagrestia, la benedizione di Padre Pio. A 17 i primi voti, a 26 l’ordinazione. Il tirocinio in Spagna, nella Mancha, perché il fondatore dell’Ordine, Luigi Amigò, era un vescovo spagnolo. Poi nell’istituto per minori di Monastir, in Sardegna, Greco sperimenta la possibilità di un nuovo sistema di rieducazione, oltre le sbarre: e questa speranza lo entusiasma. Arriva a Roma, a Casal del Marmo. Sono i tempi dei ragazzi "rossi" e "neri", del terrorismo. Poi, arriva l’eroina. Approdano nell’istituto gli adolescenti sbarcati a Roma in cerca di fortuna, e finiti nei guai; e i figli delle borgate. Ma già cominciano a vedersi i primi stranieri, avanguardia di una nuova grande onda. Don Gaetano ha visto passare generazioni di figli ribelli, o disperati, o abbandonati a se stessi. Eppure, dice, tutti in fondo, cercavano una cosa sola: "Qualcuno che li ascoltasse, che non li rifiutasse, non avesse paura di loro. Perché spesso, oggi, gli adulti hanno paura dei giovani, non sanno essere paterni. Rispetto a trent’anni fa quelli in difficoltà sono molti di più, una conseguenza delle famiglie in frantumi. I figli soffrono terribilmente nel sentirsi abbandonati: l’abbandono è la piaga forse più difficile da recuperare. Oppure vedo famiglie cieche, in cui i genitori, troppo impegnati nel lavoro, non si accorgono di nulla. So che è impopolare dirlo, ma sono venute a mancare le madri: lo sguardo, l’attenzione che sapevano avere le madri. E i padri, appaiono spesso svuotati di ogni autorità". Le generazioni si sono succedute in questi trent’anni, sotto gli occhi del sacerdote. "Con i primi leggevo il Vangelo in carcere, e riscoprivano la fede. Ora invece partono da zero, non sono "contro" la Chiesa, perché non sanno più niente. Naturalmente, poi, ormai gli islamici e gli ortodossi dei Paesi dell’Est hanno superato gli italiani". Uno spaccato dell’Italia più dolente, nei corridoi di Casal del Marmo. Ma, quando passa il cappellano tutti domandano una parola. Greco: "Ogni rapporto comincia da un piccolo gesto di attenzione: magari solo il portare a un ragazzo un francobollo e una busta, perché scriva a casa. E ti commuove come ti aspettano, e come sono in ansia, se tardi ad arrivare". Forse, per molti, quel prete è il primo padre che incontrano. Gli vogliono bene. E lui continua a volergliene comunque, anche se tornano a rubare. "Li andavo a trovare alla Stazione Termini ed erano contenti di vedermi, contenti che qualcuno li cercasse. Poi si scusavano, sa, padre, ora devo "lavorare"". La novità, lo stupore, è qualcuno che voglia loro bene, comunque. Ma è sempre solo questione di mancanza di amore? Non ha mai conosciuto, padre, dei ragazzi cattivi? Tace e riflette, interrogandosi. Si vede che vorrebbe dire, semplicemente, di no. "Guardi, il germe della cattiveria - dice, quasi a fatica - l’ho visto nascere in quei ragazzi che si sono sentiti abbandonati dalla madre. Questo abbandono genera una profonda paura, e poi aggressività. Poi, si ritrovano dentro a drammi da cui non riescono più a uscire". Storie, occhi, facce stanno a decine nella memoria del cappellano. Quel ragazzo borghese che un giorno sterminò, senza alcuna ragione, padre, madre e fratello. In carcere non parlava con nessuno. Però gli piaceva giocare a ping pong: allora don Gaetano per settimane giocò con lui lunghe, mute partite - senza far domande. Finché il ragazzo un giorno mise giù la racchetta: "Oggi no, ho bisogno di parlare". E il figlio del mafioso? Finito dentro, giovanissimo, pregò don Greco di fargli conoscere suo padre, che quasi non aveva mai visto, ed era in un carcere di massima sicurezza. "Lo accompagnai, e quei due quasi non sapevano cosa dirsi. Ma alla fine il padre, nel congedarsi, parlò: "Cambia vita, ti prego, non tornare indietro. Io ho creato solo dolore". Ora quel ragazzo lavora, è sposato, ha due bambini". Ma il volto che ancora pesa di più nella memoria è quello di un giovane detenuto che una sera, mentre don Greco se ne andava, gli chiese di parlargli. "Quella sera io non potevo fermarmi. La mattina dopo mi dissero che il ragazzo, nella notte, si era ucciso". Una commozione intensa gli passa negli occhi, il solco di un grande dolore. "Quella tragedia mi ha spinto a stare ancora più dentro al carcere, ancora più vicino". Anni dopo un’altra sera, un altro adolescente appena arrestato gli chiese di parlare. Poche parole, faccia a faccia. Poi, gli consegnò una cintura: "Tenga padre, con questa stanotte volevo impiccarmi". "Il momento dell’arresto - dice don Gaetano - è critico, perché è l’ennesima di una lunga serie di sconfitte. Questi ragazzi hanno già "perso" in famiglia, hanno "perso" a scuola, l’arresto può farli crollare. Hanno "perso", spesso, anche all’oratorio: quanti ne arrivano, che sono stati mandati via anche da lì". E lei, allora, cosa direbbe ai sacerdoti di oratorio? "Direi di cercare di volere bene davvero a quei ragazzi, di non cedere alle provocazioni, che spesso sono una richiesta di attenzione. Se gli vuoi bene davvero, lo avvertono: e qualcosa cambia". Una questione di amore, solo d’amore, sembra ripeterti quest’uomo. E l’energia, per esserne capaci? "È solo Cristo. Senza di lui tutto sarebbe impossibile. Lui è la mia energia vitale". Due anni fa, il Giovedì Santo, il Papa, appena eletto, volle andare dai ragazzi di Casal del Marmo. A dodici di loro lavò i piedi. "All’inizio c’erano quelli che non capivano, che non volevano. Eppure alla fine fu un momento splendido: come se tutti, di ogni fede, fossimo uniti in uno spirito buono. Come se, per un momento, non ci fossero più barriere". Da qualche anno a Borgo Amigò c’è un centro sportivo, e la piscina, e vengono a fare sport i ragazzini del quartiere. Ma, e i genitori non hanno paura? Greco sorride tranquillo: "No. Vedono, e si fidano". Ciò che alcuni, qui dentro, hanno alle spalle, non è cosa da poco. Eppure vedi che tutti gravitano su don Gaetano, come i figli di una numerosa famiglia. Te ne torni verso il centro domandandoti come fanno, certi uomini, a fare certe cose. Questo qui, per esempio, felice di portare ogni domenica l’Eucaristia in un carcere minorile, ma lui preferisce dire che porta "Cristo, a Casal del Marmo". La forza, il motore è in quel nome. Ha cara una frase: "Io mi dono tutto a tutti, e come potrei non farlo, quando so che tutto mi è stato dato gratuitamente". Parole di Padre Pio, il santo del suo paese, caro a sua madre. Dieci minuti dopo che hai salutato don Gaetano ti arriva un sms. È lui. "No, non esistono ragazzi cattivi", scrive, come se ci avesse pensato fino ad adesso, e non potesse tacere la certezza della sua vita. Profughi, Lega e 5 Stelle all’attacco. Il Pd "gli sciacalli si ritrovano" di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 9 agosto 2015 Dopo le parole di Papa Francesco sulla "violenza" dei respingimenti dei profughi che equivalgono a un atto di guerra, dopo l’appello della Commissione europea per un approccio più solidale alla crisi dei migranti, il segretario della Lega Nord Matteo Salvini commenta su Twitter: "Altri 800 clandestini sbarcati. Li staranno portando a Bruxelles o in Vaticano?". Dal Nord al Sud d’Europa il tema accende il dibattito politico e polarizza l’opinione pubblica, governi e opposizioni giocano la carta sicurezza. Con un’inedita consonanza di toni con la Lega, il Movimento 5 Stelle chiede dal blog di Beppe Grillo "giro di vite sui permessi di soggiorno, sorveglianza più stretta, sistemi efficienti per il rimpatrio forzato, procedura specifica per i ricorsi contro il diniego dell’asilo". "Ci manca solo che Grillo si iscriva alla Lega - commenta il presidente pd Matteo Orfini. Perché alla fine gli sciacalli si ritrovano sempre: a destra". Proprio a Salvini si rivolgeva ieri l’editoriale del quotidiano cattolico Avvenire : "Siamo stanchi di questa politica vuota di ideali e di sagge iniziative che gioca a svuotare il cuore della gente per riempirlo di risentimento". Mentre l’Osservatore Romano condannava la decisione francese di rafforzare "gli sbarramenti di filo spinato e la dura linea di respingimento adottata da Londra". Nel Mediterraneo la situazione si aggrava giorno dopo giorno. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati ha definito "vergognose" le condizioni di accoglienza nella Grecia già stremata dalla crisi finanziaria, dove dall’inizio dell’anno sono arrivate via mare oltre 124 mila persone, con un aumento del 750% rispetto al 2014. Le isole sono al collasso, la Commissione europea è pronta a sbloccare risorse per aiutare Atene a gestire i flussi attingendo al Fondo Asilo e a quello per la Sicurezza interna. "Stiamo facendo il lavoro sporco per la Gran Bretagna" dicono sulla Manica i poliziotti francesi schierati nella battaglia di Calais. I 15 agenti della polizia di frontiera a guardia all’Eurotunnel non ce la fanno a mantenere l’ordine. Così capita che un gruppo di trenta migranti non debba scavalcare le recinzioni del terminale di Coquelles perché ha indovinato la combinazione per aprire la serratura elettronica dei cancelli. Cercando i tasti più consumati. E succede che un sudanese di quarant’anni superi quattro barriere di sicurezza e 400 telecamere di sorveglianza, si lanci a piedi nelle tenebre della galleria, percorra oltre 50 chilometri in uno spazio di 90 centimetri, con i treni superveloci che gli sfrecciano accanto, per essere preso dopo 11 ore a pochi passi dall’uscita inglese, Folkestone, Kent, fine della corsa. Allarmato dall’impresa di Abdul Rahman Haroun e dal rischio emulazione, il governo britannico ha considerato la possibilità di chiudere di notte il tunnel. Anche se il Regno Unito non ha mai abolito i controlli alle frontiere perché resta fuori dall’Area di libera circolazione di Schengen, la chiusura avrebbe un forte valore simbolico nel momento in cui l’Europa si sfalda. L’ipotesi, discussa in un vertice del comitato Cobra per le emergenze nazionali, ha sollevato l’immediata reazione della società Eurotunnel, che si dice pronta a chiedere centinaia di milioni di sterline di risarcimento. Le ombre continuano a prendere il mare, in silenzio. Emergenza rifugiati, dalla Ue in arrivo sette miliardi di euro di Eugenio Occorsio La Repubblica, 9 agosto 2015 Bruxelles costretta a rifare i conti per il boom di sbarchi All'Italia 500 milioni. A Londra 370 solo per l'accoglienza. Sette miliardi di euro nel periodo 2014-20 fra i fondi "per l'asilo, le migrazioni e l'integrazione" (3,2 miliardi) e quelli per "la sicurezza", a loro volta suddivisi in "tutela dei confini" e "protezione interna" (3,8). Del primo di questi fondi, 310 milioni sono destinati all'Italia, che non è neanche il principale beneficiario, perché alla Gran Bretagna vanno 370 milioni per qualche alchimia comunitaria, ed è da lì che sono stati presi i 25 milioni appena assegnati a Londra per l'emergenza Eurotunnel. Ma il Regno Unito resta escluso dagli altri fondi sulla "sicurezza", dei quali oltre 200 milioni spettano all'Italia a cui seguono con quote minori gli altri Paesi. Ecco l'impegno dell'Unione europea, appena rivisto dalla commissione nelle ultime sedute pre-ferie, per aiutare i Paesi membri a fronteggiare l'ondata di migranti in arrivo dalla sponda Sud del Mediterraneo. Tanti? Pochi? Di certo questi "fondi strutturali", totalmente separati da quelli assegnati allo sviluppo interno (per avere un metro di comparazione, nello stesso periodo i "fondi per la coesione" per l'Italia sono ben 32,8 miliardi), rappresentano la maggior parte del bilancio "Home affaire": 10,3 miliardi in totale. Un impegno finanziario ma non solo: nei vari programmi è prevista una forte azione in favore dell'inclusività, del rispetto dei diritti umani, della cura della salute per queste decine di migliaia di esseri umani che ogni giorno sbarcano disperati sulle nostre coste. Il tutto in nome della solidarietà "sia fra i Paesi dell'Ue che con quelli terzi", come ha detto il commissario alle Migrazioni, Dimitris Avramopoulos, rimasto in queste ore nel suo studio di Palazzo Berlaymont ad affrontare l'accorata richiesta di aiuti del suo Paese, la Grecia, che si trova, come se non le bastassero le difficoltà, ad affrontare un'ondata di arrivi addirittura superiore a quella dell'Italia. L'escalation degli ultimi giorni sta prendendo tutti di sorpresa. L'agenzia Frontex, che fa capo all'Ue, aveva appena annunciato di aver triplicato il bilancio delle operazioni Triton e Poseidon per il 2015 fino a 89 milioni, in aggiunta ai 50 milioni dedicati allo schema di "resettlement" (quello delle quote) stabilito a Lussemburgo il 20 luglio: 32mi-la profughi da redistribuire per ora ospitati in Italia e Grecia, più 20mila provenienti dai campi extra Ue. Un totale che si conta di portare al più presto a 60mila, il 40% secondo la Ue degli sbarchi nei due Paesi. Ma il volume di arrivi e tale da far saltare tutti i conti: secondo Eurostat erano stati in Grecia 55mila in tutto il 2014, ora nel solo luglio 2015 ne sono arrivati quasi altrettanti. La stessa unità statistica europea calcola in 64.625 persone gli "applicanti" per protezione internazionale in Italia nel 2014 ( su 177 mila arrivi ), con un incremento del 143% sui 26.920 del 2013, ma è sotto gli occhi di tutti come la realtà attuale sia esponenzialmente maggiore. Per ora è previsto che ad ogni Paese vadano 6000 euro per ogni migrante accolto. L'Ue cerca di recuperare fondi da ogni fonte possibile. Dal programma spaziale Galileo, per esempio, sono stati sottratti 70 milioni con il rinvio a fine 2016 del lancio della terza generazione di satelliti previsto per questi mesi. Servono a cofinanziare una trentina di assunzioni fra Frontex, Europol e l'European Asylum Support Office di Malta, operazione che di milioni ne costa 89, più l'acquisto di dieci navi e 33 mezzi di terra. Peccato che quando si sia trattato di stabilire la data di un vertice nella stessa La Valletta con tutti i governi africani (almeno quelli che si presenteranno) per esporre le disponibilità europee allo sviluppo interno di questi Paesi non si sia riusciti a trovare una data più vicina del prossimo novembre. L’infernale gabbia del Cie a Torino, l’ultima struttura della legge Turco-Napolitano di Mauro Ravarino Il Manifesto, 9 agosto 2015 : un centinaio di "clandestini" con pezzi di vita che aspettano solo di essere raccontate. Un cortile ampio, il selciato rovente, casette sparse, circondate da sbarre altissime. Fuori dalle mura di questa fortezza, oltre al filo spinato, svettano i palazzi di Torino che si affacciano come se niente fosse su un’architettura angosciante. Dentro alle gabbie ci sono i migranti, clandestini, in attesa di lunga, talvolta infinita, identificazione in vista di rimpatrio o espulsione. Si avvicinano alle reti metalliche: raccontano pezzi di vita, protestano per le condizioni insostenibili, sudano; alcuni sono in sciopero della fame. Poi, rimangono nelle gabbie - non sono esemplari, sono esseri umani - mentre ce ne andiamo via. Questo limbo di cemento sospeso nella metropoli sabauda è il Cie di corso Brunelleschi, anche se in realtà l’ingresso è in via S. Maria Mazzarello. Venerdì il termometro ha toccato i 38,5 gradi, temperatura record. Grazie alla campagna LasciateCIEntrare siamo riusciti ad accedere per la prima volta. Non è stato facile, da tempo il movimento lo chiedeva. La campagna è nata nel 2011 per contrastare una circolare del Viminale che vietava l’accesso agli organi di stampa nei Cie e nei Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo). Appellandosi al diritto-dovere di esercitare l’articolo 21 della Costituzione (libertà di stampa), ha ottenuto l’abrogazione della circolare e oggi si batte per la chiusura dei Cie, l’abolizione della detenzione amministrativa e la revisione delle politiche sull’immigrazione. Un risultato ancora lontano. Sono 81 gli ospiti della struttura di Torino, tutti uomini. I paesi di origine sono Marocco, Tunisia, Nigeria e Senegal, ma anche Albania, Georgia, Algeria e Ghana. Vivono in piccoli edifici, per nulla confortevoli; dalle porte si intravvedono camere spoglie, letti sgangherati, televisioni appese al soffitto, muri scrostati dentro e incendiati fuori, segno delle ultime rivolte. Il centro, un tempo Cpt (Centro di permanenza temporanea), fu inaugurato nel 1999 nel quartiere di Pozzo Strada, zona ovest di Torino, in un’area della storica caserma Cavour, tra via Monginevro e corso Brunelleschi. È stato il primo in Italia per effetto della legge Turco-Napolitano. Si diceva dovesse essere una struttura provvisoria, in attesa di altre soluzioni. Nel 2010 è stato, invece, ampliato con 11 milioni di euro. Negli ultimi mesi, dopo 14 anni di gestione da parte della Croce Rossa, è stato assegnato al raggruppamento temporaneo di imprese formato dalla francese Gepsa (controllata dalla multinazionale Gdf Suez), leader nella logistica di penitenziari e centri di detenzione, e all’associazione culturale Acuarinto di Agrigento, unici concorrenti ad aver partecipato alla gara d’appalto, nonché gli stessi gestori del Cie di Ponte Galeria a Roma. "L’attuale capienza" spiega il direttore del centro, Emilio Agnello, membro di Acuarinto, "è di 90 persone, nel bando erano 180, ma alcune strutture sono state danneggiate da precedenti rivolte. Tre sono i mediatori: un palestinese, una camerunense e una nigeriana. Siamo gli unici senza divisa". Il resto degli operatori sono agenti di polizia e militari dell’esercito, un’interforze. "Su 81 trattenuti il 35-40% arriva direttamente dal carcere, l’80% è stato in passato detenuto, il reato più comune è spaccio di stupefacenti; 17 hanno richiesto asilo ma i casi di accoglimento sono molto rari", spiega un ispettore di polizia, che opera da oltre dieci anni nel Cie di Torino. Accanto a loro, in una delle stanze per le convalide del "trattenimento dei cittadini stranieri", siede la dirigente della prefettura Valeria Sabatino che sottolinea: "Qui, sono vietate fotografie e riprese". Oltre il 70% dei migranti viene rimpatriato. Gli altri, una volta ricostruita l’identità all’interno del Cie, ricevono il decreto prefettizio di espulsione: viene intimato di abbandonare il territorio italiano entro sette giorni. Superati gli uffici, si arriva nel cuore della struttura, in uno dei buchi neri del XXI secolo, dove le persone rischiano di fermarsi fino a 90 giorni. Dietro alle reti, si intravvedono le sagome dei reclusi. Alcuni si riparano nei pochi spazi d’ombra. Altri ci vengono incontro. Ndoje è alto, indossa la maglia di una tuta e gronda di sudore. È senegalese e padre di tre figli. Scandisce le parole, conosce bene l’italiano: "Puoi aver commesso reati, ma dopo aver scontato una pena devi poterti reinserire nella società, non finire in un Cie. Noi, ricordatevi, prima di tutto e prima di essere clandestini, siamo esseri umani. Non meritiamo un trattamento simile. La storia un giorno condannerà i responsabili". Alle sue spalle si fa largo Chkara, 27 anni, origine maghrebina. Ha vissuto a Como, dove si è fatto un po’ di carcere e ha incominciato a seguire un percorso terapeutico con il Sert locale. Mi allunga un foglio tra le sbarre: "Leggi! È il report di un educatore dell’Asl, spiega che una comunità di recupero, La Centralina di Morbegno (Sondrio), è disposta a prendermi in affidamento. Dice che non sono cattivo né pericoloso. Io sogno un’altra vita". Le voci si accavallano, si sente gridare "Charlie", come gli americani chiamavano i vietcong. Così i migranti reclamano l’attenzione dei militari che presidiano il campo. Qualcuno invoca soccorsi, si sente male. In 6-7 stanno facendo lo sciopero della fame per protesta. Le camere sono bollenti, gli operatori sostengono siano climatizzate. "Non è vero e, quando c’è, il condizionatore non funziona. Si stava meglio in carcere", racconta Ahmed, marocchino, da 14 anni in Italia, di cui 5 e mezzo passati in una casa circondariale, dopo un arresto per spaccio. È stato portato nel Cie, mesi dopo aver scontato la pena, perché senza documenti: "Nella vita si fanno sbagli, ma questo non giustifica un trattamento disumano. Ho deciso di fare lo sciopero della fame". Per chi sceglie questa forma di protesta nonviolenta, l’obiettivo è raggiungere "condizioni al limite" per essere rilasciati se diventano incompatibili con la reclusione. Yassine, marocchino, ha il corpo tagliuzzato, parla della sua compagna italiana: "È incinta e vorrei sposarla", racconta mentre riceve un po’ di caffé da un georgiano che lamenta problemi di cuore. Maxwell ha 35 anni, proviene dal Ghana, faceva il muratore è nel Cie da 17 giorni, ha problemi di tossicodipendenza: "Ci danno il metadone, ma non vedo l’ora di rivedere la luce". Jabali, tunisino 21 anni, ha il volto di un ragazzino e non vuole tornare in Nord Africa: "Sono arrivato minorenne, nel 2007, e a Udine ho frequentato la scuola, incominciando a vivere come un qualsiasi coetaneo italiano. Sono qui da 50 giorni e mi vogliono spedire in Tunisia, ma non voglio. Che ci vado a fare lì? Ormai la mia vita è in Italia". Aidarai Abedì la pensa diversamente: "Io, invece, voglio tornare in Albania. Mia madre sta male, voglio andarmene da qui, non mi interessa far casino. Voglio solo riabbracciare la mia famiglia". Nella zona detta dell’Ospedaletto, utilizzata per "l’isolamento medico non disciplinare" precisa la dirigente della prefettura, ci sono due giovani, un senegalese e un nigeriano del Biafra. Gli operatori dicono che sono stati collocati lì perché omosessuali, "per proteggerli". "Io non l’ho scelto - spiega il secondo - qui dormiamo su letti di ferro, senza materassi. Vogliono rispedirmi in Nigeria, ma lì mi ucciderebbero. Ho chiesto asilo politico". Le altre stanze dell’Ospedaletto sono danneggiate, i muri sono pieni di scritte: "Georgia = Mafia", "Dio è grande", "Fuck" declinato in vari modi. E soprattutto "Basta" in tutte le lingue. "Qui scatta la detenzione senza reato accertato" di Mauro Ravarino Il Manifesto, 9 agosto 2015 Daniela Balduin, avvocato, si preoccupa anche della trasparenza gestionale. Privatizzazione della detenzione amministrativa, questo il futuro, se non già il presente dei Cie. "Sebbene le norme consentano l’affidamento della gestione a soggetti di natura privata, è lecito sollevare dubbi sulla scelta dello Stato di "ritirarsi" da settori delicati, come quello dell’immigrazione, in cui si misura la civiltà di un paese", lo sostiene Daniela Bauduin, avvocato amministrativista, che oltre ad aver pubblicato Glossario dei diritti in divenire con Elena Faletti, ha collaborato alla stesura di un testo importante come Contro il reato di immigrazione clandestina (Ediesse) di Giancarlo Ferrari, già avvocato distrettuale dello Stato. "Una gestione avveduta del fenomeno immigrazione" spiega Bauduin, "richiederebbe una maggiore presenza del "pubblico", nel rispetto dei principi costituzionali e delle convenzioni internazionali sui diritti umani, al di fuori di quell’approccio emergenziale che, del tutto inspiegabilmente, ancora viene richiamato per giustificare scelte eccezionali e derogatorie". Secondo il Testo unico delle disposizioni sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero, infatti, spetta alla prefettura scegliere il soggetto gestore, mediante una gara d’appalto, e quindi controllarne l’attività svolta. A proposito del Cie di Torino, l’11 aprile 2014 scadeva la convenzione stipulata nel triennio precedente con la Croce Rossa Italiana (persona giuridica pubblica), poi prorogata in attesa della conclusione della nuova gara. Che è stata aggiudicata all’unico concorrente: il raggruppamento temporaneo di imprese la società Gepsa Sa (mandatario) con sede legale a Rueil Malmaison Cedex (Francia) e l’associazione culturale Acuarinto (mandante) con sede legale ad Agrigento. "Non è stato, invece, reso pubblico" contesta l’avvocato Daniela Bauduin, "il contratto stipulato tra la prefettura di Torino e l’ente cui è stato aggiudicato l’appalto, la cui accessibilità risulta, al momento, sottoposta al vaglio del ministero dell’interno. Questa decisione suscita perplessità in virtù dei principi di trasparenza e pubblicità dell’attività amministrativa, così come censurabile è la mancanza di adeguata diffusione dei dati relativi al funzionamento effettivo dei Cie, anche allo scopo di valutare l’entità delle risorse pubbliche impiegate durante la loro gestione". Per esempio, chi sono i fornitori della struttura? Quali generi di prima necessità vengono acquistati? Passano gli anni e si dimenticano le radici del problema. È bene ricordare come, nell’ordinamento giuridico italiano, la possibilità di trattenere gli stranieri destinatari di un provvedimento di espulsione in appositi centri di permanenza temporanea sia stata introdotta dalla legge Turco-Napolitano che porta la data del 6 marzo 1998. "Tali strutture, in seguito denominate Centri di identificazione ed espulsione, sono luoghi in cui persone prive di un valido titolo di soggiorno nel territorio nazionale vengono detenute" sottolinea ancora l’avvocato Bauduin, "senza aver commesso un reato accertato con sentenza passata in giudicato. La legittimità costituzionale dei Cie è stata contestata da più voci, così come è stata denunciata la violazione di diritti fondamentali riconosciuti dalla nostra Costituzione repubblicana a "tutti" e non solo ai cittadini". Si tratta di una detenzione "amministrativa" disposta per il solo fatto di possedere lo stato giuridico di "irregolare", spesso acquisito per il venir meno del permesso di soggiorno, anche a seguito della perdita del posto di lavoro. "Una misura di privazione della libertà" conclude l’avvocato Bauduin, "che viene disposta nell’ambito di un procedimento amministrativo, quindi al di fuori del processo penale e delle garanzie che esso offre sul versante del diritto di difesa (articolo 24 della Costituzione)". India: il "caso marò" arriva davanti al Tribunale del Mare di Amburgo di Michele De Feudis Il Tempo, 9 agosto 2015 La partita più delicata per la libertà dei fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone si gioca domani ad Amburgo: davanti ai giudici del Tribunale internazionale del diritto del Mare Italia e India - in un confronto che si preannuncia spigoloso - cercheranno di far valere le proprie ragioni al fine di individuare una via giurisdizionale per risolvere una querelle che si trascina dal febbraio 2012. Le istanze del governo italiano sono state più volte presentate e sostenute ai massimi livelli: ai giudici della città anseatica si chiede in primis di applicare le misure cautelari nei confronti dei militari italiani, riportandoli in patria in attesa dello svolgimento dell'arbitrato internazionale, e in secundis di congelare i procedimenti giudiziari in corso in India. Al momento Girone è Nuova Delhi, con pesanti limitazioni della libertà personale, dal marzo 2013 mentre Latorre è in permesso per cure a Taranto, dopo l'ictus dell'agosto del 2014. La posizione indiana è antitetica perché contesta la giurisdizione del tribunale di Amburgo e afferma la propria assoluta competenza giurisdizionale sul caso. Il duello vedrà contrapposti due pool di legali: per i marò la linea difensiva sarà tracciata dall'inglese David Bethlehem, ex consigliere legale del Foreign Office; per l'India il governo Modi oltre al procuratore generale aggiunto, PL Narasimha, ha ingaggiato due legali di fama, Alain Pellet, francese, già presidente della Commissione di Diritto Internazionale dell'Onu, e il britannico Rodman Bundy. L'udienza sarà presieduta dal giudice russo Vladimir Golitsyn, mentre del collegio faranno parte l'indiano P. Chandrasekhara e l'italiano Francesco Francioni, professore di diritto internazionale della Luiss. Il verdetto non arriverà in poche ore: i lavori sono stati già calendarizzati fino al 24 agosto e già domani mattina l'Italia presenterà in forma orale le sue istanze, mentre nel pomeriggio ci sarà la replica indiana. Il popolo tricolore per la libertà dei marò, intanto, non manca di mostrare la vicinanza ai due Leoni del San Marco, al centro di una interminabile odissea ormai da 1267 giorni, mentre l'ex ministro Giulio Terzi ha elogiato il presidente del collegio, il russo Golitsyn: "È un uomo di grandissimo spessore. La cultura giuridica russa, nel diritto del mare, è molto importante e afferma lo stato di diritto nelle relazioni internazionali. Ho fiducia nell'indipendenza dell'intero tribunale". La partita più delicata per la libertà dei fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone si gioca domani ad Amburgo. Davanti ai giudici del Tribunale internazionale del diritto del Mare Italia e India - in un confronto che si preannuncia spigoloso - cercheranno di far valere le proprie ragioni al fine di individuare una via giurisdizionale per risolvere una querelle che si trascina dal febbraio 2012. Le istanze del governo italiano sono state più volte presentate e sostenute ai massimi livelli: ai giudici della città anseatica si chiede in primis di applicare le misure cautelari nei confronti dei militari italiani, riportandoli in patria in attesa dello svolgimento dell'arbitrato internazionale, e in secundis di congelare i procedimenti giudiziari in corso in India. Al momento Girone è Nuova Delhi, con pesanti limitazioni della libertà personale, dal marzo 2013 mentre Latorre è in permesso per cure a Taranto, dopo l'ictus dell'agosto del 2014. La posizione indiana è antitetica perché contesta la giurisdizione del tribunale di Amburgo e afferma la propria assoluta competenza giurisdizionale sul caso. Il duello vedrà contrapposti due pool di legali: per i marò la linea difensiva sarà tracciata dall'inglese David Bethlehem, ex consigliere legale del Foreign Office; per l'India il governo Modi oltre al procuratore generale aggiunto, PL Narasimha, ha ingaggiato due legali di fama, Alain Pellet, francese, già presidente della Commissione di Diritto Internazionale dell'Onu, e il britannico Rodman Bundy. L'udienza sarà presieduta dal giudice russo Vladimir Golitsyn, mentre del collegio faranno parte l'indiano P. Chandrasekhara e l'italiano Francesco Francioni, professore di diritto internazionale della Luiss. Il verdetto non arriverà in poche ore: i lavori sono stati già calendarizzati fino al 24 agosto e già domani mattina l'Italia presenterà in forma orale le sue istanze, mentre nel pomeriggio ci sarà la replica indiana. Il popolo tricolore per la libertà dei marò, intanto, non manca di mostrare la vicinanza ai due Leoni del San Marco, al centro di una interminabile odissea ormai da 1267 giorni, mentre l'ex ministro Giulio Terzi ha elogiato il presidente del collegio, il russo Golitsyn: "È' un uomo di grandissimo spessore. La cultura giuridica russa, nel diritto del mare, è molto importante e afferma lo stato di diritto nelle relazioni internazionali. Ho fiducia nell'indipendenza dell'intero tribunale". Medio Oriente: profughi arrestati nel Sinai da militari egiziani ed israeliani di Giuseppe Acconcia e Francesco Ditaranto Il Manifesto, 9 agosto 2015 L’esercito egiziano ha permesso a una pattuglia israeliana di entrare nel Sinai e di arrestare e deportare migranti eritrei e sudanesi che tentavano di entrare in territorio israeliano. 15 migranti erano riusciti ad attraversare il confine tra i due paesi ma sono stati arrestati dai militari israeliani. Alcuni di loro erano stati in precedenza feriti da soldati egiziani e trasferiti nel Centro medico di Soroka a Beer Sheva, mentre gli arrestati sono stati portati nella prigione di Saharonim nel Negev. "I clandestini sanno che rischiano la vita nel viaggio verso Israele. L’esercito egiziano non tollererà più chi si ribella contro le forze di sicurezza e spara contro chiunque si muova nel Sinai senza permesso", ha dichiarato un alto ufficiale israeliano, citato dal quotidiano saudita con sede a Londra al-Sharq al-Awsat. Una forza speciale israeliana si starebbe coordinando già con l’esercito egiziano. I militari israeliani potrebbero entrare in territorio egiziano per "trasferire" chi viene colpito dai soldati del Cairo per impedirgli di attraversare il confine. Sarebbero circa 50 mila i migranti di origine africana che negli ultimi mesi hanno tentato di superare i 245 chilometri di confine tra Egitto e Israele. Secondo un report di Human Rights Watch dello scorso anno, dal 2006 decine di migliaia di eritrei che tentavano di scappare dal loro paese sono stati deportati nella penisola del Sinai. Fino al 2010, passavano per il Sinai volontariamente ma negli ultimi tre anni hanno subito arresti, torture, sono stati vittime di traffici o uccisi. Trafficanti sudanesi hanno rapito e venduto a trafficanti egiziani migliaia di eritrei con lo scopo di estorcere somme di denaro ai parenti delle vittime. Con l’approvazione del piano anti-immigrazione, che prevede l’arresto dei profughi, Tripoli ha costretto gli scafisti a partire dalle coste egiziane, in particolare dalle spiagge di Alessandria. Per questo anche il governo del Cairo è sempre più nell’occhio del ciclone per la gestione dei flussi migratori. Il premier greco Alexis Tsipras, nella sua prima visita al Cairo dal golpe del 2013 per l’inaugurazione del parziale raddoppio del Canale di Suez dello scorso 6 agosto, ha discusso con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi di politiche migratorie. Tsipras ha invitato al-Sisi (che cerca legittimazione tra i leader socialisti europei per rafforzarsi internamente) ad Atene per il summit trilaterale con Cipro che si terrà in Grecia nei prossimi mesi. In quell’occasione si discuterà anche dei flussi migratori, provenienti dalle coste egiziane, e che continuano ad interessare le coste greche. Da parte sua, il presidente francese Hollande si sarebbe recato a Suez invece per vendere le due navi militari Mistral, costruite per la marina russa nei cantieri di Saint Nazaire, poi finite nella rete delle sanzioni commerciali imposte a Mosca dall’Ue, dopo lo scoppio della crisi in Ucraina. L’accordo per la consegna delle due navi militari Mistral era stato firmato nel 2011; la fine dei lavori aveva però coinciso con l’inizio le misure contro la Russia. Parigi e Mosca si sono accordate per il pagamento di una penale per la mancata consegna. Stando alle rivelazioni del quotidiano Le Monde, proprio al-Sisi avrebbe mostrato interesse per le due navi alla disperata ricerca di un compratore. Non è passata inosservata neppure l’assenza allo show post-coloniale di Suez (solo la copertura mediatica è costata 30 milioni di dollari mentre il ministero della Difesa egiziano ha commissionato l’ideazione di colonne sonore e inni ad hoc per l’evento) del premier italiano. Matteo Renzi, dopo aver esaltato per mesi al-Sisi come modello di stabilità, ha forse compreso fino a che punto l’aggressività egiziana in Libia (al fianco di Haftar) penalizza gli interessi italiani e alimenta l’immigrazione clandestina. Stati Uniti: Lansdale "tanti errori giudiziari la pena di morte fa più paura agli americani" di Vittorio Zucconi La Repubblica, 9 agosto 2015 È folle che chiunque possa comprare decine di fucili da usare per esprìmere la sua frustrazione. "Qui in Texas non avremmo mai esitato a consegnare James Holmes nelle mani del boia", osserva lo scrittore Joe Lansdale, dicendosi "un po' sorpreso" per l'esito del processo contro il responsabile della strage del 2012 nel cinema di Aurora, nel Colorado. Ma perché la giuria popolare non ha voluto giustiziare il giovane killer, come avrebbero fatto in Texas, lo stato che detiene il primato americano delle condanne a morte, optando invece per l'ergastolo tra le proteste dei familiari delle vittime? È forse un segno che negli Stati Uniti la giustizia capitale sta perdendo l'appeal di una volta? Landsale risponde da Nacogdoches, la cittadina del Texas dove vive da sempre: in molti dei suoi fortunati romanzi "noir", infatti, a cominciare da Devil Red e Freddo a Luglio, l'autore americano ha esplorato i temi della violenza, delle armi e della psicologia degli assassini. Landsale, innanzitutto ci chiarisca la sua posizione sulla pena di morte: è favorevole o contrario? "Non ho alcuna obiezione morale, né religiosa: anche perché non sono credente. Nella nostra società ci sono persone che commettono crimini orrendi, con sadismo e spesso con un senso di piacere, e non avrei alcuno scrupolo nel far scomparire per sempre questi psicopatici. mettendo in atto una sorta di vendetta sociale. Ma il problema si complica quando passiamo dalla teoria alla pratica. Troppo spesso sono gli afro-americani e gli ammalati di mente a finire sulla sedia elettrica o sul lettino della iniezione letale, perché magari non hanno i soldi per pagarsi un buon avvocato. Le mie perplessità sono dunque legate a un sistema giudiziario che non funziona a dovere". Secondo i sondaggi, l'opinione pubblica americana non è più entusiasta della pena di morte come una volta. All'inizio degli anni Novanta c'era l'80 per cento di favorevoli al boia e solo il 16 per cento di contrari, adesso siamo passati al 63 per cento in favore rispetto al 33 per cento di contrari. Come spiega il trend? E ha avuto un ruolo nella sentenza del Colorado? "Molti americani sono come me: non si oppongono alla pena di morte per ragioni di principio, ma temono che sia imposta in modo discriminatorio e ingiusto. Sono anche preoccupati del rischio di giustiziare un innocente: troppi condannati a morte si sono salvati solo grazie ai test del Dna che, all'ultimo minuto, ne hanno stabilità l'innocenza. Il caso di James Holmes è comunque diverso: molti, me compreso, pensano che al momento della sparatoria del cinema non fosse del tutto in grado di intendere e di volere". Quella strage nel cinema di Aurora non è servita a bloccare le sparatorie nei cinema, nelle chiese e nelle strade d'America. È tutta colpa della diffusione delle armi? "Non sono contrario alla caccia: da piccolo mio padre mi portava a sparare su lepri e scoiattoli, che poi mangiavamo. Non sono neanche contrario ad avere una pistola in casa da usare per legittima difesa. Ma è folle che chiunque possa comprare decine di fucili e poi servirsene per esprimere la frustrazione per una società che inneggia ai consumi e poi li nega a molti. Bisogna mettere dei limiti, imporre nuove leggi. Certo, chi ha veramente intenzione di uccidere può servirsi anche di un banale coltello da cucina, ma le armi da fuoco rendono tutto più facile e soprattutto più impersonale: dando agli autori delle stragi un senso di invincibilità e di potere sugli altri. Che poi è lo stesso che motiva chi va a caccia grossa di leoni in Africa". Stati Uniti: il voto della donna giurato che cancella la pena di morte per James Holmes di Vittorio Zucconi La Repubblica, 9 agosto 2015 Un solo giurato contro gli altri undici, nel tribunale del Colorado che doveva decidere sulla vita o la morte di James Holmes. Una donna ostinatamente contraria al patibolo nella sua resistenza isolata contro tutti, ha salvato dal patibolo l'assassino che fece strage di dodici innocenti in un cinema. E ha detto al resto dell'America, e del mondo, che nella terra della forca, del plotone di esecuzione, delle camere a gas, della sedia elettrica, delle iniezioni letali è cominciata finalmente la lenta agonia della pena di morte. Se mai era esistito un colpevole esemplare e certo, degno di percorrere l'ultimo miglio verso la "camera della morte", questo era James Holmes, il ragazzo con i riccioli rossi e ancora lo sguardo sgranato del bambino, che a 24 anni entrò nel cinema di Aurora, in Colorado, dove proiettavano "Il Cavaliere Oscuro", abbatté dodici spettatori tra i quali un bambino di sei anni, ne ferì settanta. Non c'erano dubbi, incertezza di indizi, difese possibili, ipotesi di errori giudiziari per un uomo cosciente di sé, che aveva diligentemente pianificato la strage, che aveva al proprio attivo una laurea in neurobiologia e che i difensori non hanno voluto alla sbarra dei testimoni in aula, sapendo che nulla avrebbe potuto alleggerire la sua colpevolezza. In base alla legge del Colorado, James Holmes era il perfetto candidato al supplizio capitale. Ma in Colorado c'è, da alcuni anni, il pertugio morale e giuridico dal quale il "walking dead", il morto che cammina può passare per sfuggire all'esecuzione: esiste l'alternativa di una condanna all'ergastolo senza possibilità di scarcerazione futura "sulla parola", dunque di una condanna alla morte quotidiana, allo sgocciolio di una fine che il colpevole consumerà giorno dopo giorno, per i cinquanta o sessant’anni di vita che un uomo di 27 anni come Holmes può attendersi, se non deciderà di auto-giustiziarsi prima. E da quando la legislazione di 31 Stati americani che hanno introdotto l'alternativa del carcere a vita, il numero di condanne a morte decise - come vuole la legge - all'unanimità dalle giurie popolari ha cominciato a scendere. Il lungo, e ancora molto lungo, addio al boia è riconoscibile nelle cifre che non mentono. Diciannove condannati sono stati messi a morte in questo 2015, la grande parte in Texas e in Virginia, e altri quattordici sono in lista d'attesa entro dicembre. Ma se anche il totale per l'anno in corso raggiungesse il numero di trentatré, sarebbe nettamente inferiore ai novantotto ammazzati nel 2000 e il totale più basso dal 1990. Sempre nuovi Stati si aggiungono alla lista della abrogazione - ultimo il pur conservatore Nebraska, in maggio - e anche nei trentuno dove la "camera della morte" è ancora aperta, meno della metà l'hanno fatta funzionare negli ultimi cinque anni. I sondaggi indicano che soltanto una maggioranza di adulti anziani, maschi e femmine, resta fervidamente favorevole al boia, ma il sostegno crolla fra gli "Under 30", la classe dirigente di domani. Come sa chi da troppi decenni, a volte anche troppo da vicino come fu per chi scrive nella straziante esecuzione di Joseph O'Dell in Virginia nonostante l'intervento personale di Giovanni Paolo II, l'agonia della pena di morte negli Usa è stata, e sarà, non un'epifania, una rivolta radicale e improvvisa contro la barbarie del patibolo che accomuna gli americani a cinesi, iraniani o sauditi, ma un processo graduale di riconoscimento dell'oscenità morale, e della inutilità pratica, dell'omicidio di Stato. Il mito della "deterrenza", del pensiero della pena che dovrebbe frenare le pulsioni omicide dei criminali, non regge all'analisi dei fatti: gli omicidi di primo grado, quelli passibili di esecuzione, sono diminuiti in questo millennio proprio mentre diminuivano le sentenze capitali e le esecuzioni. Una conferma che crimini estremi e pena sono variabili indipendenti gli uni dall'altra. Nessun criminale assassino pensa al rischio della pena mentre si prepara a commettere il proprio reato. La "deterrenza" frena chi non ha intenzione di commettere il reato. Anche la lugubre ricerca di un metodo "umano" per uccidere è fallita. L'iniezione letale, in realtà tre flebo di curaro, pentothal e barbiturici pompate da incompetenti guardie carcerarie costrette a improvvisarsi paramedici per il rifiuto dei professionisti della Sanità a partecipare al rito di morte, ha prodotto ormai ben documentati casi di sofferenze atroci, nascoste dalla paralisi muscolare, agonie durate oltre un quarto d'ora, improvvisi risvegli per errori nel dosaggio. Gli elementi che compongono il cocktail mortale scarseggiano. L'Europa non li esporta. Le case americane non li dosano. La miscela è affidata a farmacisti locali, che preparano la pozione nel retrobottega. E un numero crescente di guardie carcerarie rifiutano di premere i pulsanti per non sentirsi, disse una di loro, "assassini". L'Oklahoma ha reintrodotto la fucilazione. Vecchio e collaudato sistema, preferibile all'oscenità del lezzo di carne umana arrostita, che emanava la sedia elettrica o al rituale del gas sprigionato sotto la sedia del condannato per soffocarlo. Ancora nessuno fra i candidati repubblicani alla Casa Bianca ha osato sollevare l'argomento, neppure i più estremisti o funambolici come "The Donald", come Donald Trump, perché il patibolo scotta, non produce voti né finanziamenti, non sembra più la soluzione finale alla domanda di sicurezza e di giustizia che sempre si alza da ogni elettorato, ma soltanto una vergognosa scorciatoia per omicidi di innocenti, come quei 144 messi a morte dal 1976 a oggi e risultati poi certamente estranei. L'ergastolo duro, senza speranza di libertà, ha offerto al comprensibile bisogno di punizione, di giustizia o di vendetta sociale un'alternativa che appare più umana. Soprattutto a chi deve firmare la sentenza, come quella donna sola che non ha voluto vivere con il pensiero di avere, anche lei, ucciso. Stati Uniti: in Texas un altro nero ucciso un anno dopo Ferguson di Paolo Mastrolilli La Stampa, 9 agosto 2015 Un poliziotto bianco ancora in addestramento spara contro un 19enne disarmato Dalla morie di Mike Brown almeno altri sette episodi simili hanno scosso gli Usa. Oggi è un anno dall'uccisione di Mike Brown a Ferguson, e venerdì un poliziotto bianco ha ammazzato un diciannovenne nero disarmato in Texas. Dunque nulla è cambiato? Cominciamo dall'ultimo episodio. Venerdì il Dipartimento di Polizia di Arlington ha ricevuto una chiamata, perché un Suv aveva sfondato la vetrata di un concessionario di auto. Temendo una rapina, sul posto è corso l'agente Brad Miller, 49 anni, ancora in addestramento. Ha trovato Christian Taylor, 19 anni, studente alla Angelo State University e giocatore di football. Miller ha sparato e Taylor, che era disarmato, è morto. Solo la settimana scorsa, Christian aveva fatto un tweet dicendo: "Non voglio morire troppo giovane". L'inchiesta è ancora in corso, ma è ovvio tornare con la mente al 9 agosto del 2014, quando l'agente bianco Darren Wilson uccise il diciottenne Mike Brown, mentre camminava lungo Canfield Drive a Ferguson. Poco prima Mike aveva rubato un pacco di sigari, e Darren lo aveva fermato per strada. L'inchiesta ha dimostrato che Brown aveva caricato Wilson, non incriminato perché aveva sparato per legittima difesa. Era scoppiata la guerriglia urbana, durata giorni. Negozi incendiati sulla West Florissant Avenue, spari, marce ogni notte: solo per miracolo non c'erano stati altri morti. Quella tragedia aveva fatto nascere un movimento, Black Lives Matter, ma soprattutto aveva aperto gli occhi dell'America sulle violenze commesse dalla polizia, l'odio razziale che ancora la divide, la profonda disuguaglianza economica. Erano seguite le morti di Eric Garner a Staten Island, "vendicato" da Ismaaiyl Brinsley che aveva ucciso a Brooklyn i poliziotti Wenjian Liu e Rafael Ramos, e poi il dodicenne Tamir Rice a Cleveland, Freddie Gray a Baltimora, e Samuel Dubose a Cincinnati. Cosa è cambiato, nel giro di un anno? A Ferguson il dipartimento alla Giustizia federale ha accusato la polizia locale di abusi, perché c'erano 11.800 incriminazioni per violazioni del traffico e 45.200 mandati di arresto, su una popolazione di 21.000 abitanti. Quindi i vertici si sono dimessi. Il nuovo capo della polizia ad interim è il nero Andre Anderson, e il nuovo manager della città è il nero Ed Beasley. Darren Wilson vive in una casa anonima, ha ricevuto minacce di morte, non trova più lavoro. Parlando col "New Yorker" ha detto: "Usano la razza come alibi. Io mica do la colpa di quello che mi succede a mio nonno!". Riconosce che "Mike Brown non è cresciuto nelle condizioni migliori, ma ormai non penso più a lui come persona, perché il nostro incontro è durato pochi minuti e non posso giudicarlo. Penso a lui come problema, però, perché i suoi genitori mi hanno fatto causa". A livello nazionale Obama ha creato la "Task Force on 21st Century Policing" e vietato la vendita di equipaggiamenti militari alla polizia. Alcuni dipartimenti hanno cominciato a comprare le body camera, come quella risultata decisiva per incriminare l'agente nel caso di Dubose. A New York i poliziotti si erano rivoltati contro il sindaco de Biasio, perché li aveva criticati. Il loro capo, William Bratton, ha detto qualche giorno fa che la Grande Mela rischia di tornare all'emergenza degli anni 70, perché le polemiche di questi mesi hanno reso i criminali più sfrontati e i poliziotti più timidi. Risultato: gli omicidi sono saliti del 10%, e la tendenza è nazionale. Dunque razzismo, povertà, criminalità, che si mescolano. Problemi che non basta un anno a risolvere.