L’attacco del Papa al cuore dell’Europa di Luca Kocci Il Manifesto, 8 agosto 2015 "Respingere i migranti in mare è come un atto di guerra, equivale a uccidere". Il pontefice parlava della popolazione in fuga dal Myanmar ma il suo discorso arriva diritto alle politiche Ue. Quando ieri mattina, ricevendo in udienza in Vaticano 1.500 giovani del Movimento eucaristico giovanile (legato ai gesuiti), Papa Francesco, rispondendo a braccio alla domanda di un partecipante all’incontro, ha pronunciato queste parole, non parlava del Mediterraneo. Parlava dei Rohingja, una popolazione musulmana in fuga dal Myanmar e respinta da diversi Paesi del sud-est asiatico. Ma quel passaggio del discorso del papa può valere anche per le stragi di questi giorni nel Canale di Sicilia e per i 2mila morti che, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ci sono stati nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno ad oggi. "Pensiamo a quei fratelli nostri dei Rohingja, sono stati cacciati via da un Paese, da un altro e da un altro, e vanno per mare", ha detto Bergoglio. "Quando arrivano in un porto o su una spiaggia, danno loro un po’ d’acqua, un po’ da mangiare e li cacciano via sul mare. Questo è un conflitto non risolto, e questa è guerra, questo si chiama violenza, si chiama uccidere". Il contesto del discorso era quello delle tensioni e dei conflitti personali e sociali. Inevitabili, perché una società senza conflitti sarebbe "un cimitero", invece - ha detto il Papa - "quando c’è vita, c’è tensione e c’è conflitto". Ma tensioni e conflitti vanno affrontati con il "dialogo" e "con il rispetto dell’identità di ciascuno", ha proseguito Francesco. "Se io ho un conflitto con te e ti uccido, è finito il conflitto, ma quella non è la strada. Se tante identità, siano culturali o religiose, vivono insieme in un Paese, ci potrebbero essere conflitti, ma con il rispetto dell’identità dell’altro e con il dialogo si risolvono". Un atteggiamento che secondo il pontefice riguarda anche i credenti: i musulmani ("in Medio Oriente stiamo vedendo che tanta gente non è rispettata, le minoranze religiose, i cristiani non sono rispettati, tante volte sono uccisi, perseguitati, perché non si rispetta la loro identità") e i cattolici, che nella storia più volte hanno detto "questo non è cattolico, non crede in Gesù Cristo. Rispettalo, cerca che cosa buona ha, cerca nella loro religione, nella loro cultura, i valori che ha. Così i conflitti si risolvono: con il rispetto dell’identità altrui". Il fatto che il discorso di papa Francesco avesse anche una valenza mediterranea, europea ed italiana è dimostrato dalla reazione scomposta di Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, che sulla sua pagina Facebook si è affrettato a dire: "Respingere i clandestini un crimine? No, un dovere. Sbaglio?". E ad Affa?ri?ta?liani?.it ha precisato: "Con tutto il dovuto rispetto per papa Francesco, respingere i clandestini non è un crimine ma, anzi, un dovere di qualunque buon amministratore, cattolico o no". Seguito a ruota da Tony Iwobi, responsabile del dipartimento sicurezza e immigrazione della Lega: "Mi chiedo se il Regno Unito, l’Australia, Malta, la Spagna e molti altri Paesi che respingono i clandestini siano, secondo il principio cattolico, nazioni razziste. Non credo proprio". Uno scontro che va avanti da diversi giorni quello fra la Lega e papa Francesco, anzi fra Lega e Chiesa cattolica sul tema immigrazione. Anche se su altre questioni, per esempio la crociata contro le unioni omosessuali, la Chiesa diventa alleata dei leghisti, "cattolici" per opportunismo e a corrente alternata. Papa Francesco incassa invece il sostegno delle altre religioni presenti in Italia, i Valdesi - con il moderatore della Tavola valdese, Bernardini - e i musulmani, con Piccardo, dell’Unione delle comunità islamiche in Italia: "L’Europa si dice cristiana e riconosce unanimemente il valore della personalità del papa, eppure non si comporta di conseguenza". E del Centro italiano rifugiati: "Il Papa ha detto parole molto importanti definendo atto di guerra il respingimento di popoli in fuga dal proprio Paese e in cerca di rifugio altrove", ha detto il portavoce del Cir, Christopher Hein. "Il respingimento è già stato condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma vediamo che in Europa invece di accettare e accogliere si erigono muri". Il nome della cosa Raniero La Valle Il Manifesto, 8 agosto 2015 Ed ecco che il papa Francesco dà il nome alla cosa: respingere i profughi è guerra, e cacciare via da un Paese, da un porto, da una sponda i migranti abbandonati al mare, è violenza omicida. Papa Francesco aveva già detto, dopo un’ennesima strage di migranti al largo di Lampedusa: "È una vergogna". Questa vergogna non ha fatto che ripetersi, per mesi, e c’è anche qualcuno che si rallegra perché l’Europa adesso mostrerebbe un po’ più di sensibilità, c’è perfino una nave irlandese che partecipa alle operazioni di tumulazione nel Mediterraneo di centinaia e centinaia di profughi, mentre una parte ne salva. Intanto la Francia sigilla la frontiera di Ventimiglia, l’Inghilterra stabilisce una linea Maginot all’ingresso dell’Eurotunnel della Manica, l’Ungheria alza un muro e l’Italia è tutta contenta perché ha posto fine all’unica cosa buona che era riuscita a fare, l’operazione "Mare Nostrum", ed è rientrata nei ranghi dell’Europa perché sia chiaro che la vita negata ai profughi non è una scelta solo dell’Italia, ma è un sacrificio collettivo che tutta l’Europa offre a se stessa avendo cessato di essere umana. Ed ecco che il papa Francesco dà il nome alla cosa: respingere i profughi è guerra, e cacciare via da un Paese, da un porto, da una sponda i migranti abbandonati al mare, è violenza omicida. Lo dice nell’anniversario del delitto fondatore di questa fase della modernità, lo dice nei giorni di Hiroshima e Nagasaki. Quando aveva denunciato che la guerra mondiale non era finita, perché nella globalizzazione si sta combattendo una guerra mondiale "a pezzi", era sembrato che parlasse per metafore; ma oggi mette le cose in chiaro: la guerra è questa, i garantiti contro i disperati, un mondo che voleva abolire le frontiere e ne ha alzate altre più spietate e invalicabili, contro un’umanità senza patria né asilo che invano cerca salvezza. E se è una guerra, una guerra non dichiarata e non tutelata da alcun diritto, nemmeno umanitario, gli atti che vi si compiono sono crimini di guerra. E questo vale per le vittime in fuga dalla Birmania nell’Oceano Indiano, a cui il papa specificamente si riferiva, e vale per le vittime che non riescono ad attraversare senza soccombere la fossa comune del Mediterraneo. Sono mesi e mesi che i siti nonviolenti, pacifisti, o semplicemente umani, denunciano questi delitti perpetrati dai governi europei, compreso il nostro, sollecitano appelli e firme dei cittadini perché ci si risolva a dare l’unica soluzione vera al problema, che è quella di aprire le frontiere, riconoscere l’antico diritto umano universale di migrare, permettere ai profughi e ai fuggiaschi di viaggiare al sicuro su treni, navi e aerei di linea. E sono mesi che siti nostalgici e integralisti, invidiosi di papa Francesco, cercano di screditarlo lamentandone la popolarità, e rallegrandosi se quando parla ai poveri e ai movimenti popolari, come ha fatto in Bolivia, il mondo per bene con i suoi media neanche lo ascolta. La verità è che papa Francesco è l’unico che oggi ha parole all’altezza del dramma storico che stiamo vivendo. Gli scartati della terra sono i veri soggetti storici attorno a cui si deve costruire la nuova convivenza, sono il fulcro dell’umanità di domani. E la giustizia e il diritto devono garantire la "casa comune" e tutti i suoi abitanti, a cominciare dal diritto a vivere, a prendere terra, a riposarsi sotto qualsiasi sole. Questo dice il papa, e non è una cosa impossibile, è solo una cosa non ancora avvenuta. I puntini nel mare, gli annegati e quegli aguzzini di Adriano Sofri La Repubblica, 8 agosto 2015 Le autorità, ma anche i comuni cittadini hanno una preziosa distanza da quel Mediterraneo, mezzo pieno o mezzo vuoto, dove gli esseri umani continuano a morire. La prima fotografia è presa da più lontano: il mare blu appena increspato e tanti puntini neri o colorati sparpagliati, forse uccelli marini, forse esseri umani. Esseri umani? Se ne può dubitare, una volta che si sia saputo che cosa c’è sotto la fotografia. Sotto, invisibili, tanti altri puntini ammassati e andati a fondo, forse duecento, senza vedere un’ultima luce. Dicono alcuni sopravvissuti che gli scafisti li hanno costretti, per impedire ai dannati della stiva di arrampicarsi fino alla luce, a sedersi sulla botola chiusa. In una foto successiva, più ravvicinata, c’è uno che sembra un ragazzino, ha un salvagente e batte forte i piedi, dallo spruzzo. Più indietro c’è un altro che sembra un bambino, e un adulto che lo sorregge. E altri, alla rinfusa. Stavano su un peschereccio di ferraglia, hanno ondeggiato verso il lato dal quale arrivavano i canotti di soccorso e l’hanno capovolto: è colato a picco in un momento. È il momento peggiore, quello in cui la salvezza arriva a portata di mano. Sono annegati in 26, tre bambini, oltre alle centinaia della stiva. Poi ci sono le fotografie di 5 scafisti arrestati, algerini e libici, tra i 21 e i 26 anni. La polizia li ha lasciati fotografare con pieno agio, e ha fatto bene: ma non si legge sulle loro facce la ferocia che i passeggeri hanno raccontato. Con le stesse facce, avrebbero potuto annegare anche loro o cercare un’altra vita. Uno è a torso nudo, uno, barba nera e lunga, gambe nude e maglietta verde che recita: Original Timberline. Crafted for toda". Uno ha la canottiera celeste, uno la t-shirt bianca con un marchio italiano famoso. L’ultimo ha i capelli rasta e la maglietta col manifesto di Full Metal Jacket, con la scritta spagnola - La chaqueta metálica - e l’elmetto famoso con il motto Born to kill . Che siano disgustosi, è fin troppo facile. Sono scafisti, cioè l’unica risorsa per chi ha attraversato i deserti e deve ancora attraversare il mare - e poi avrà tante altre traversate ancora da compiere a rischio della vita, fino alla più surreale, sotto il mare della Manica. Che siano anche aguzzini, è un eccesso di zelo, e anche un incerto del mestiere, dato che bisogna tener in equilibrio una mandria umana che sbandando può rovesciare la carretta. C’è poi la questione degli esseri umani, e della vita dichiarata sacra. Le autorità costituite europee e internazionali, anche quando hanno un nome e un cognome, e pure loro una faccia e magari una barba una camicia una cravatta, tengono una distanza accuratamente misurata dall’acqua in cui si annega. La distanza, e tutti i suoi gradi intermedi, impediscono che ci sia qualcuno cui incombe il doveroso compito di fissare il numero di migranti da far annegare nel Canale di Sicilia all’anno o al mese: non troppo pochi, per tentare almeno una dissuasione fra le centinaia di migliaia che premono sulle coste meridionali del Mediterraneo; e non troppi, perché non ne esca sfregiata la figurina di un’Europa civile. Il numero giusto - tra i 3.279 del 2014 e i 4.000 previsti per quest’anno, che già ne conta già 2.400 - si fissa per così dire da sé, come succede con le statistiche. Si può essere responsabili di una morte o cinque, non di una statistica. La quale si consola col versante opposto, la statistica sui salvati dell’anno scorso, e i salvati di questo: già 88 mila, un netto progresso. È la solita questione del Mediterraneo mezzo pieno o mezzo vuoto. Le autorità possono essere ottimiste o pessimiste, sono comunque innocenti. Intendiamoci, non solo le autorità, anche i cittadini hanno la loro preziosa distanza dall’acqua in cui si affoga, benché la televisione faccia vedere la cosa, prima più da lontano, puntini che forse sono gabbiani, forse esseri umani, poi più da vicino, fino ad avere la sensazione di tendere la mano da casa propria a una ragazzina intirizzita, e avvolgerla in una carta d’oro e una d’argento, e attaccarla a una flebo, e ringraziare il cielo per lei. Ieri un commento alle foto (lo so, i commenti non si devono leggere) ammoniva gli imbarcati, vivi e morti: "Il volo Tunisi-Roma costa 160 euro!" E quelli che sono andati a picco serrati nella stiva, i più poveri, avevano pagato 1.200. Che lezione! In realtà, si può volare a Tunisi anche per meno, e in meno di un’ora. La Tunisia, che resta il meno dispotico dei Paesi del Maghreb, per ostacolare i reclutamenti jihadisti, è arrivata a vietare ai suoi giovani (fino ai 35 anni!) di espatriare verso i Paesi a rischio - cioè, dalla Tunisia, tutti - con qualche eccezione autorizzata dai genitori (dei figli di 35 anni!). E figuriamoci i somali, i sudanesi, i siriani, gli eritrei, che al barcone arrivano dopo aver distrutto i documenti e magari limato i polpastrelli. Domanda: appartengono alla stessa specie vivente, sono ambedue animali umani, quello che con qualche decina di euro vola a Tunisi e a bordo ordina un succo di ananas, e quello che per 1.200 euro si guadagna uno spazio nella stiva di una carcassa di peschereccio, come in una camera a gas? Quello che viaggia col bagaglio a mano, e quello che crepa asfissiato dentro una valigia tra Melilla e la Spagna? Quello che arriva fino a Calais e, respinto per l’ennesima volta, getta la sua bambina di là dalla barriera, che almeno lei ce la faccia? Lo so, bisogna stare attenti a non fare i demagoghi, a non vellicare sensi di colpa e buoni sentimenti del proprio prossimo. Ma non sto mettendo a confronto la foto dei 400 puntini sul mare blu, e dei 200 puntini che mancano, con quella delle caviglie di una signora che, sulla stessa homepage di ieri, aveva la didascalia: "300mila dollari per i sandali di diamanti". Lo so che non è per permettere a quella signora il paio di scarpe che tante donne incinte di stupri vanno a fondo nel Canale di Sicilia. Che paragonare i naufragi nel Canale di Sicilia al raddoppio del Canale di Suez è populista: non sono vasi, né canali comunicanti. Si può però paragonare una parte di mondo, compresa la gran maggioranza dei suoi poveri, che non può sopportare di sentire la propria incolumità fisica minacciata, e un’altra parte di mondo che scappa dalla morte a rischio della morte e viaggia incontro a tante morti successive, non per rifarsi una vita, ma per farsela, e se non a sé almeno alla propria creatura. Gli errori fatti dai giudici ci sono già costati 600 milioni di Franco Bechis Libero, 8 agosto 2015 Sono 24mila le vittime della sciatteria delle toghe ingiustamente condannate e detenute Lo Stato risarcisce tardi, i pm non pagano mai. Quest’anno saranno versati 35 milioni. È una piccola città, composta da 22.689 cittadini italiani censiti al 24 settembre 2014. E in questo momento assai vicina alle 24 mila persone. Sono i perseguitati dalla giustizia italiana, cittadini mandati dietro alle sbarre senza motivo dal 1992 ad oggi. Errori dei pubblici ministeri, che hanno fatto scattare le manette ai loro polsi prendendo un abbaglio. Non un errore casuale: una città. Probabilmente le vittime della giustizia sono ancora di più, perché il tristissimo elenco numerico è compilato dal ministero dell’Economia: i ventiquattromila sono quelli che dopo avere subito l’ingiusta detenzione non si sono limitati ad accettare le scuse, ma hanno avuto la possibilità di pagarsi un avvocato, fare ricorso e ottenere un risarcimento. Per questo il loro elenco è conservato da Pier Carlo Padoan e non dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando: le casse dello Stato hanno dovuto pagare loro, per l’errore e spesso la sciatteria dei magistrati, la bellezza di 567 milioni di euro dal 1992 ad oggi. Ogni anno c’è un migliaio di casi così, qualche volta anche il doppio. E il Tesoro è costretto a sborsare 20,30, 40 perfino 55 milioni di euro l’anno per mettere una toppa ai guai combinati da magistrati faciloni: è diventato un problema di finanza pubblica. Questo conto è assai salato perché lo è il risarcimento a chi è stato in carcere ingiustamente anche solo in custodia cautelare. Ma sale per le casse dello Stato accompagnato dai risarcimenti per la legge Pinto sulla ingiusta durata dei processi, dalle condanne continuamente ricevute dall’Unione europea per lo stesso motivo e per l’incredibile ritardo con cui vengono pagati anche quei risarcimenti alle vittime della mala giustizia. Oltre a quella piccola città - evidenziata nella tabella qui in pagina - c’è anche un’altra cifra che fa tremare le vene ai polsi: 30,6 milioni di euro che lo Stato ha dovuto pagare negli stessi anni a 100 vittime di errori giudiziari: casi in cui non solo hanno sbagliato pm, gip, tribunali del riesame, ma anche le corti di primo e secondo grado e perfino la Cassazione. Sentenze divenute definitive, e poi un nuovo evento, magari una confessione improvvisa, svelano che il colpevole era invece innocente. I risarcimenti dipendono dai mesi o anni di carcere ingiusto patito, ma queste come le altre cifre sono la vera vergogna della giustizia italiana. Casi che sembravano negli anni scorsi per lo meno ridursi, e che invece nell’ultimo biennio sono tornati a lievitare. In tutto il 2013 erano 24,9 milioni i risarcimenti pagati per ingiusta detenzione. In otto mesi e mezzo dell’anno successivo sì era già a 22,2 milioni di euro, e probabilmente l’anno si è chiuso sopra ì 29 milioni di euro. Da fonti ufficiose abbiamo appreso che la stessa voce al 30 luglio 2015 era già arrivata a 20,9 milioni dì euro dì risarcimenti pagati. Con quel trend quest’anno si chiuderà intorno ai 35 milioni dì euro. Al ministero custodiscono gelosamente la divisione per uffici giudiziari dì questi casi. Ma da fonti attendibili abbiamo saputo che ai vertici della classifica sì trovavano procure ben note alle cronache giudiziarie. I risarcimenti avvengono normalmente 4-5 anni dopo gli errori, e fino al 2013 ai primi posti di questa classifica del disonore c’erano gli uffici giudiziari dì Potenza, poi soppiantati nel 2014 e soprattutto nel 2015 dagli uffici giudiziari dì Napoli. Chissà se è l’effetto del passaggio da una procura all’altra di un pm protagonista dì indagini che hanno fatto molto discutere (e portato a scarsi risultati processuali) come John Henry Woodcock. Ma il dato numerico è proprio quello. Nella tabella del ministero esiste una voce in uscita, ma non una in entrata. Chi ha compiuto quegli errori giudiziari non paga un centesimo di quello che lo Stato deve versare. Spesso non paga nemmeno sotto il profilo disciplinare, nonostante la legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Il fatto è che quasi sempre questi incredibili casi vengono trattati nascondendo la polvere sotto classico tappeto di casa. I magistrati sbagliano, ma non pagano. A settembre proprio questo sarà uno dei temi principali da affrontare sulla giustizia. Il Nuovo Centrodestra ha depositato alcuni emendamenti a un disegno di legge governativo che rendono obbligatoria l’azione disciplinare nei confronti di qualsiasi magistrato abbia causato un risarcimento per ingiusta detenzione o un errore giudiziario. Il Pd sta facendo resistenza, a difesa della corporazione dei magistrati e fregandosene di quella città di vittime della giustizia. Ma la battaglia è all’inizio. Abruzzo: "ha precedenti penali", Rita Bernardini ineleggibile come Garante dei detenuti Ristretti Orizzonti, 8 agosto 2015 L’esperta deputata e storica militante radicale Rita Bernardini, che più di chiunque altro in Italia porta quotidianamente all’attenzione della politica e dell’opinione pubblica le condizioni in cui versano le carceri italiane, è stata dichiarata ineleggibile come Garante dei detenuti abruzzesi. La segretaria di Radicali Italiani ha subito infatti il respingimento della candidatura per via dei suoi precedenti penali dovuti alle azioni di disobbedienza civile per la legalizzazione della cannabis. Le battaglie per i diritti umani e civili diventano così un impedimento per combatterne altre a fianco di chi vive ogni giorno in condizioni disumane. La speranza dei detenuti abruzzesi di vedere la parlamentare (XVI legislatura) soprannominata "Santa Rita delle Carceri" incaricata di vigilare affinché i loro diritti umani fondamentali siano rispettati è stata inghiottita dall’applicazione di una legge proibizionista, che punisce le battaglie antiproibizioniste. Per la legge vigente Rita Bernardini può essere eletta garante nazionale ma non regionale, così come può candidarsi al Parlamento nazionale ed europeo, ma non al consiglio regionale e comunale. Insomma, quando Rita Bernardini disobbedisce coltivando pubblicamente piantine di marijuana sul suo terrazzo nessuno applica la legge per timore che il suo arresto apra un dibattito sulla legalizzazione; ma se la stessa Bernardini si candida a Garante dei Detenuti, immediatamente la legge viene applicata per depennare la sua candidatura. Uno spaccato dell’Italia in cui viviamo, secondo l’avvocato Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi, che ha già annunciato ricorso dichiarando a Radio Radicale: "Riteniamo di dover impugnare questo provvedimento sollevando questioni di legittimità su una legge assurda, che diventa ancor più tale se si considera che l’esclusione non ci sarebbe stata per altro tipo di reati e che le condanne sono state riportate per disobbedienza civile". Lazio: Cangemi (Ncd); niente Garante per le carceri, Zingaretti calpesta diritti detenuti Askanews, 8 agosto 2015 "La fuga di Zingaretti dal Consiglio regionale calpesta anche i diritti dei detenuti: in carcere si soffre, purtroppo si muore anche, e la Regione Lazio non provvede a nominare il nuovo Garante dei detenuti. Da mesi attendiamo questa nomina, abbiamo lanciato appelli per accelerare la procedura, ma la maggioranza ha fatto orecchie da mercante e con lei il presidente Zingaretti paladino, a parole, di tante belle battaglie. Poi alla prova dei fatti sparisce. Per la nomina del Garante dei detenuti se ne riparlerà con il fresco, forse". Così Giuseppe Cangemi, consigliere Ncd della Regione Lazio. Sicilia: il Garante dei detenuti manca da 2 anni, da Regione pioniera a ultima della classe di Rossella Fallico Quotidiano di Sicilia, 8 agosto 2015 Nell’agosto 2013 la nostra isola è stata privata di una figura di riferimento per la tutela dei diritti più elementari. La storia di Desirè: nata circa un mese fa, vive in cella al Pagliarelli di Palermo con la madre detenuta. Desirè è un bel fagottino di neanche un mese di vita, ma sta già pagando un prezzo troppo alto, a causa di un errore della madre. Nata in ospedale il 15 luglio scorso, si trova oggi a vivere i suoi primi giorni di vita al carcere Pagliarelli di Palermo. La madre Mirella ha evaso gli arresti domiciliari per ben tre volte e così, incinta, è finita in carcere, da dove non è più uscita se non il giorno in cui ha partorito la piccola. L’arresto della donna ha segnato l’inizio di un vero e proprio calvario: madre e figlia hanno già cambiato tre istituti penitenziari. Il primo, quello di Trapani, quando la piccola era ancora nel grembo materno; il secondo, a soli tre giorni di vita, con il trasferimento ad Agrigento ed infine Palermo, il Pagliarelli. Ad "accoglierla", una cella con culla, fasciatoio, giochi e colori ed il personale e tutte le altre detenute che la considerano una mascotte femminile: ma per quanto si possa cercare di rendere quanto più "normale" possibile quel luogo, la piccola Desirè non ha mai fatto una passeggiata oltre quelle sbarre, se non quando è stata ricoverata all’ospedale dei Bambini a causa di una cisti alla gola, che al più presto dovrà essere asportata. La cella, nonostante sia stata adattata al suo ingresso, resta un posto caldo senza alcun condizionatore: "Abbiamo messo un ventilatore in cella", spiega la vicedirettrice Giovanna Re. Mirella e Desirè non possono lasciare il carcere ed è stato anche rifiutato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il trasferimento presso un Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri con prole fino a tre anni) ovvero una struttura penitenziaria simile ad una casa famiglia, dove senza ombra di dubbio la piccola crescerebbe meglio. Un rifiuto le cui conseguenze ricadono su una neonata di neanche un mese di vita che non solo non ha commesso alcun reato, ma non gode di ottima salute. Un errore della madre, senz’altro ma anche la nostra Regione ha un po’ (forse troppa) di responsabilità in tutto questo. La Sicilia, infatti, è l’unica regione senza questo tipo di residenze. E, come se non bastasse, un paradosso: la nostra Isola è stata tra le prime regioni dello Stivale ad aver introdotto la figura del Garante dei detenuti, con la legge regionale n.5 del 2005, ma adesso dall’agosto del 2013, l’ufficio è vacante. L’ultimo mandato è stato quello di Salvo Fleres, che sulla vicenda ha così commentato: "Solo la colpevole assenza della Regione che da oltre due anni non ha provveduto alla nomina di un Garante può provocare situazioni di tale gravità trattamentale e questo al di là dell’encomiabile attenzione che sicuramente la struttura penitenziaria di Pagliarelli avrà riservato a madre e figlia". Ad aprile di quest’anno è stata istituita la figura del garante nazionale, ma la Sicilia, dal 2013, attende che il Presidente della Regione Rosario Crocetta, a cui spetta tale nomina, faccia un passo avanti per istituire una figura fondamentale per la tutela dei diritti dei detenuti e di chi, come Desirè, si vede negata quella libertà e quella normalità che invece spetta di diritto a tutti i bambini della sua età. Pordenone: malore in carcere, detenuto muore a 27 anni per un attacco cardiaco di Ilaria Purassanta Messaggero Veneto, 8 agosto 2015 È stato vano il trasferimento in ospedale. In passato c’erano state numerose proteste per le celle torride. Un detenuto nella casa circondariale di Pordenone è morto, ieri sera, a seguito di un malore che lo aveva colpito nella sua cella. L’intervento del personale del 118 è stato chiesto verso le 20. L’uomo, italiano di 27 anni, era stato colto da malore e subito soccorso sia da altri detenuti sia dal personale di sorveglianza del carcere. Il giovane è stato rianimato dal personale del 118, giunto in pochi minuti sul posto, e quindi trasferito d’urgenza al Santa Maria degli Angeli. Pochi minuti dopo il suo arrivo al pronto soccorso, tuttavia, il quadro clinico è precipitato: il ventisettenne è stato colto da un nuovo attacco cardiaco, che non ha superato ed è quindi deceduto. Al momento non è noto che il detenuto soffrisse di patologie cardiache e quali siano le cause che hanno portato alla sua morte. Sarà eventualmente l’autorità giudiziaria a disporre eventuali accertamenti. Non è pertanto nemmeno possibile accostare la morte del giovane al caldo africano che attanaglia da diversi giorni tutta l’Italia, Pordenone compresa. Da anni, tuttavia, detenuti e personale di custodia della casa circondariale denunciano che la situazione, in queste condizioni, è insostenibile. L’inadeguatezza dell’edificio - creato per tutt’altri scopi - è sempre più evidente. Con l’estate, inoltre, l’assenza di aria condizionata costituisce un elemento di disagio in più. Viceversa, alcuni anni fa l’impianto di riscaldamento era stato ammodernato e migliorato grazie a una collaborazione tra la casa circondariale, la Caritas e la Crup. Nel frattempo, alcuni detenuti cercano refrigerio aprendo le finestrelle dietro le inferriate e stando a petto nudo. Fuori dalla cella si potrebbe stare un po’ meglio, ma il camminamento è per gran parte della giornata battuto dal sole. A pesare, come fuori dalla struttura, il tasso di umidità, che rende l’aria ancora più disagevole. Catanzaro: detenuto tenta il suicidio, ma un agente penitenziario riesce a salvarlo Giornale di Calabria, 8 agosto 2015 Un presunto scafista di origini siriane ha tentato il suicidio nel carcere di Catanzaro. Lo rendono noto il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante, ed il segretario nazionale, Damiano Bellucci. Un agente della Polizia penitenziaria è intervenuto nella cella del detenuto ed è riuscito a salvarlo. "Nonostante - affermano i sindacalisti - le gravi carenze di personale, ulteriormente ridotto in questo periodo per il piano ferie, gli agenti in servizio sono intervenuti ed hanno salvato l’uomo. Ogni anno la polizia penitenziaria, nelle carceri italiane, salva oltre 1.000 detenuti che tentano il suicidio, nonostante le gravi carenze di organico. Bisogna ricordare che quella di Catanzaro, dotata anche di un reparto con detenuti condannati per reati di terrorismo, è senz’altro la struttura più complessa ed importante della regione, dove, a breve, dovrebbe anche essere aperto il centro clinico. Riteniamo che l’amministrazione centrale debba adeguatamente incrementare l’organico, prima di procedere all’apertura del centro clinico, per il cui corretto funzionamento necessitano almeno 50 agenti in più rispetto all’organico attuale". Roma: detenuto tenta suicidio in ospedale buttandosi dalla finestra, salvato da un agente Adnkronos, 8 agosto 2015 Un detenuto italiano affetto da disturbi psichici, proveniente dal carcere di Regina Coeli e ricoverato presso l’ospedale S. Spirito di Roma, ha tentato ieri il suicidio, lanciandosi dalla finestra del bagno al terzo piano. A renderlo noto è Eugenio Sarno, segretario generale dell’Uilpa penitenziari, riferendo che "è stata evitata una tragedia unicamente per la prontezza di riflessi dell’agente di sorveglianza che ha afferrato al volo per le caviglie il detenuto". Secondo l’Uil-pa penitenziari, "l’episodio di ieri rinfocola le polemiche sulla gestione di detenuti con problemi psichici e dello stato del servizio sanitario all’interno delle carceri". Sarno ritiene, infatti, che "alcuni soggetti affetti da patologie psichiche debbano seguire un percorso terapeutico piuttosto che un percorso detentivo". Il segretario dell’Uilpa denuncia che "si è voluta smantellare la sanità penitenziaria senza offrire una valida alternativa" e "alla soppressione degli Opg non ha fatto seguito un’adeguata organizzazione delle Rems". "Tutto ciò - prosegue - si scarica sulle già fragili e stanche spalle della polizia penitenziaria che nel 2015 ha già salvato da suicidio certo circa 200 detenuti". Secondo Sarno, "è certificata l’ipocrisia dei legislatori che da un lato, a chiacchiere, rimarcano l’emergenza penitenziaria mentre dall’altro destrutturano il Dap e desertificano gli organici della polizia penitenziaria". Ne sarebbe la prova la recente approvazione di "un’assunzione straordinaria per tutte le forze di polizia, a eccezione della polizia penitenziaria". Inoltre, denuncia Sarno, "con la riforma della Pa, il governo ha azzerato le deficienze organiche" e questo significa che "le 8000 unità in meno all’organico della polizia penitenziaria sono definitivamente perse". Torino: ammanettato in ambulanza per un Tso muore a 45 anni, il caso finisce in Procura di Mauro Barletta Il Quotidiano, 8 agosto 2015 "Mio fratello era malato. Soffriva di schizofrenia sin dal 1990. Ma era un buono, non aveva mai fatto del male a nessuno. Era già stato sottoposto a trattamenti sanitari e non aveva mai dato problemi. Non doveva essere ammanettato. Non doveva essere preso per il collo. Non doveva finire così". La voce è pacata ma le parole sono forti: Cristina Soldi è al quinto piano del Palazzo di Giustizia di Torino per dare un contributo all’inchiesta giudiziaria sul caso di Andrea, 45 anni, morto dopo essere stato caricato a forza su un’ambulanza e portato in ospedale per un trattamento sanitario obbligatorio. "Non accuso nessuno. Chiedo solo che venga fatta chiarezza. Che non venga insabbiato nulla". Andrea, prima che la sua vita finisse, aveva dato in escandescenze in una piazzetta di Torino. Il centro di salute mentale dell’Asl 2 aveva ordinato un Tso (Trattamento Sanitario Obbligatorio) e una pattuglia di vigili urbani aveva eseguito. Molte persone hanno riferito che per immobilizzare il paziente, un uomo dì 150 chili, sono state usate maniere troppo forti. Anche in ambulanza - si afferma - gli sono state lasciate le manette ai polsi. Ma le testimonianze raccolte finora dalla polizia giudiziaria non coincidono. Del caso sì occupa il pm Raffaele Guariniello. Dall’autopsia, prevista lunedì, si attendono molte risposte. "Da quanto mi è parso di capire - interviene l’avvocato di famiglia, Giovanni Maria Soldi - ci sono versioni discordanti. Bisogna trovare "la quadra". Ma io ho fiducia in Guariniello". Il legale ha ricevuto una telefonata dal sindaco, Piero Fassino, che ha espresso il cordoglio e la vicinanza a nome dell’intera città. "Sin da subito - informa una nota di Palazzo Civico - le autorità comunali, dopo aver segnalato per prime l’episodio alla magistratura, si sono messe a disposizione degli inquirenti fornendo la più completa e fattiva collaborazione". Il comandante della polizia municipale, Alberto Gregna-nini, ieri mattina ha incontrato Guariniello. Il Corpo ha avviato un’indagine interna e i tre vigili della pattuglia sono stati trasferiti "in via prudenziale" a incarichi non operativi. Fra i testi ascoltati ieri dalla polizia giudiziaria c’è uno degli operatori sanitari che erano intervenuti sul posto. "È una storia dolorosa e mi sento vicino ai familiari. Facendo il mio mestiere se ne vedono tante e ci si aspetta dì tutto, ma alla morte non ci si abitua mai". Udine: un solo bagno per otto detenuti, in via Spalato carcere sovraffollato di Lodovica Bulian Messaggero Veneto, 8 agosto 2015 Sopralluogo dell’ex sottosegretario alla Giustizia, Corleone, con il provveditore regionale, Sbriglia. La denuncia: "Ci sono due piani inutilizzati, l’infermeria va messa a norma e il Sert è poco presente" . "L’estate in carcere è terribile". Soprattutto in quelle strutture dove ci sono celle con otto detenuti per un solo bagno. Dove non c’è un cortile e non ci sono attività ricreative. Dove mentre il tempo si ferma aumentano i fenomeni di autolesionismo. Ed è così che accade anche nella casa circondariale di Udine, dove ieri mattina Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia oggi Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, ha effettuato un sopralluogo insieme al provveditore regionale Enrico Sbriglia, che si occupa degli istituti dell’intero Triveneto, e il Garante dei detenuti di Udine, Maurizio Battistutta. La fotografia è nitida: in una regione dove la capienza regolamentare si attesta su 484 detenuti e che ne conta invece 641, anche a Udine l’emergenza del sovraffollamento continua a mordere, con 166 detenuti, di cui 76 stranieri, per una capienza di 100 posti. È bastato poco a Corleone per contare le "molte carenze" che compromettono la "qualità della vita" dei carcerati di via Spalato. "Otto detenuti in una cella con un solo servizio non sono accettabili - afferma - non c’è un’area verde, e nemmeno una palestra interna, né un luogo di raccoglimento dove possano svolgersi rappresentazioni, incontri, dibattiti". E poi ci sono due piani interi rimasti abbandonati e inutilizzati dal 2003. Si tratta degli spazi dell’ex carcere femminile, che "potrebbero essere recuperati per momenti formativi". Anche la sezione dei semi liberi è sottoutilizzata visto che in questa condizione si trova un solo detenuto. L’idea del provveditore Sbriglia è di "usufruire di alcuni locali esistenti autonomi rispetto alla struttura carceraria per i semi liberi, dedicando invece quella sezione per i colloqui con le famiglie". Altra nota dolente. Servono spazi più confortevoli, fa notare Corleone, per i reclusi che hanno bambini piccoli. Senza contare la "necessaria demolizione e il recupero" della vecchia stanza colloqui dedicata agli ex 41 bis. E c’è l’infermeria che, riferisce Corleone, "va assolutamente messa a norma". Criticità strutturali si intrecciano con i drammi umani. Ci sono 20 detenuti in trattamento metadonico, ma il Sert non è presente se non una volta la settimana. "Troppo poco", concordano Corleone e Sbriglia anche in considerazione del fatto che l’equipe "non copre il servizio dal sabato al lunedì, le giornate più difficili, perché è nel fine settimana che si verifica la maggior parte di arresti. Questo scarica il problema sulla polizia penitenziaria". Sul tema delle droghe l’ex sottosegretario battaglia da tempo. E sventola i numeri. A Udine ci sono 39 persone detenute per spaccio di sostanze stupefacenti. "Sono tante. Vorrei esaminare i fascicoli - dice, per capire se ci sia una tendenza della magistratura a non utilizzare la lieve entità, che consentirebbe di evitare il carcere". Auspica Sbriglia anche "maggiore attenzione da parte della Regione per mettere a sistema tutti gli attori del territorio, dalle associazioni di volontariato, agli ambiti, alla rete socio sanitaria". Se Udine va ripensata, la maglia nera degli istituti in Fvg continua ad andare a Pordenone. Dove la situazione è ormai "intollerabile", ma dove la realizzazione del nuovo carcere di San Vito al Tagliamento è ancora ferma. Motivazioni politiche e di avvicendamento dei vertici al ministero della giustizia, riferisce Sbriglia, avrebbero stoppato l’iter dei lavori. Certo è che "l’opera va fatta al più presto". Il nodo sarà forse sciolto in una imminente riunione del capo del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) Santi Consolo, con il ministero per le opere pubbliche. Sbriglia è ottimista: "Quello che nascerà sarà un carcere riformato. Diverso. Innovativo". Con le sedie nelle celle e "non più solo sgabelli". Insomma, "sarà un modello". Venezia: ispezione parlamentare del M5S nel carcere di Santa Maria Maggiore veneziatoday.it, 8 agosto 2015 Il deputato e portavoce del Movimento 5 stelle, Marco Da Villa, giovedì è andato nella struttura per valutare le condizioni dopo i recenti fatti di cronaca. Nelle ultime settimane diversi sono stati i casi al limite, nel carcere Santa Maria Maggiore di Venezia. Prima una tentata evasione dall’ospedale Civile da parte di un detenuto marocchino, già autore di un’aggressione a pugni verso due agenti; poi un detenuto tunisino che tenta il suicidio appiccando un incendio, prontamente sventato da tre guardie a costo di una intossicazione; infine, un detenuto veneziano che conclude un’aggressione a un agente della penitenziaria amputandogli a morsi la falange del dito indice. Per capire il clima che c’è nella struttura, nella giornata di giovedì, il portavoce M5S alla camera dei deputati Marco Da Villa ha fatto visita alla casa circondariale della città lagunare. "La situazione è drammatica " ha denunciato Da Villa "il carcere di Santa Maria Maggiore è cronicamente sotto organico e questo costringe la direzione a organizzare turni di 8 ore anziché 6, aumentando il rischio per la sicurezza e la salute dei lavoratori". "Sono necessarie numerose opere di manutenzione - ha suggerito il portavoce M5S - per permettere agli agenti di svolgere il loro lavoro in modo sicuro e ai detenuti di scontare la propria pena in un ambiente dignitoso: su 160 posti disponibili i detenuti ad oggi sono 263". Il Movimento 5 Stelle, a detta del suo portavoce, vigilerà "affinché la direzione e il provveditorato mettano in atto ogni misura per affrontare questa situazione" dichiarando anche di voler portare la questione all’attenzione del ministro Orlando". San Remo (Im): Sappe; il carcere è abbandonato, il direttore è lontano 150 chilometri di Alessio Polveroni Il Garantista, 8 agosto 2015 "Il direttore come può gestire le criticità - chiede Michele Lorenzo - da oltre 150 km di distanza? Con questo non vogliamo dire che il Dott. Frontirrè non abbia diritto alle vacanze, ma non possiamo tollerare che i due istituti possano essere gestiti da così lontano. Ci vuole un direttore presente almeno due giorni la settimana". Almeno due giorni, è si, sarebbe proprio il caso, forse anche un po’ pochino se si deve gestire il più grande penitenziario della Liguria - secondo solo a Marassi - con tutte le criticità del caso. Il virgolettato sopra è una piccola parte del comunicato del Sappe, firmato dal segretario regionale, Michele Lorenzo, attraverso il quale il sindacato di polizia penitenziaria denuncia la grave situazione in cui versano gli istituti penitenziari di Imperia e San remo. È il secondo comunicato, nel giro di poche settimane, che speriamo risuoni alle autorità giudiziarie come un campanello di allarme, non volendo ritrovarci, di qui a breve, a raccontare tristemente dell’ennesima, annunciata, tragedia in un carcere italiano. Solo pochi giorni addietro la polizia penitenziaria aveva attirato l’attenzione in particolare sulla casa circondariale di San Remo. Il carcere ligure da mesi ospita un numero elevato di detenuti con gravi problemi psichiatrici. Autolesionismo, violenza e altre criticità sono all’ordine del giorno. Eppure a quanto si apprende dalla denuncia del Sappe, né il personale, tantomeno la struttura sarebbero idonei ad ospitare detenuti che necessitano un’attenzione particolare. Nella fattispecie, il comunicato fa riferimento, tra l’altro, alla presenza nella Casa circondariale di un detenuto tunisino, con gravi disturbi mentali, la cui gestione starebbe causando un forte disagio, per il detenuto stesso e per gli agenti. "La polizia penitenziaria è davvero sfiancata da comportamenti caparbi e da gesti autolesionistici - si legge nella nota - ad assistere ai continui e costanti tagli su varie parti del corpo. Gli operatori di polizia sono inermi in quanto il soggetto in questione pare pericoloso anche sotto l’aspetto di particolari e critiche affezioni patologiche". "Non riusciamo a comprendere - prosegue il Sappe - come si possa latitare e fingere che non ci sia un problema. La Casa Circondariale di Sanremo non è idonea a fronteggiare tali servizi di sicurezza". La gestione infatti è a dir poco improvvisata "non vi sono celle adatte che con l’ausilio della tecnologia garantiscano la sicurezza, così come pare esistere in altre sedi. Sanremo appare mille anni luce lontana dalla vera realtà penitenziaria che si continua a vivere al momento, l’istituto in questione per assurdo è la struttura più recente della regione, ma molto obsoleta e trapassata nella concezione lavorativa. Tra tutto questo marasma e la questione sollevata, non riusciamo a concepire come possa accadere che l’istituto resti per giorni sguarnito di Direttore e Comandante di reparto, casualmente assenti per l’ennesima volta entrambi per ferie". Roccaromana (Ce): 10 ex internati dell’Opg di Aversa fuggono da Rems, ritrovati in otto campanianotizie.com, 8 agosto 2015 10 ex internati nell’opg di Aversa, nella giornata di ieri, hanno tentato la fuga dalla Rems di Roccaromana, dove sono stati trasferiti dopo la dismissione dei manicomi giudiziari. Immediate le ricerche da parte dei carabinieri di Pietramelara, i quali sono riusciti a trovarne otto. Di due non c’era alcuna traccia. Reggio Emilia: Sappe; detenuto dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario ferisce agenti Agi, 8 agosto 2015 Una grave crisi di nervi di un detenuto dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, avvenuto durante un colloquio con i familiari, è costata ieri mattina il ferimento dei genitori dell’uomo che tentavano di riportarlo alla calma, ma anche di cinque dei sei agenti intervenuti per riportare la situazione alla normalità A denunciare il fatto, Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario regionale dello stesso sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Gli agenti feriti spiega il sindacato, nei prossimi giorni saranno assenti dal servizio e questo - denuncia il Sappe - aggrava ancora di più la situazione, in una struttura già carente di personale di polizia penitenziaria, dove sarebbero necessari almeno venti agenti. Milano: dal carcere all’Expo "lavorare qui mi fa sentire realizzato" di Claudia Nanni La Stampa, 8 agosto 2015 Salvatore, 45 anni, è uno dei 100 detenuti che tra i padiglioni si occupano del primo soccorso e dell’accoglienza. "È come se fossi su un balcone. Per la prima volta mi affaccio sulla libertà". Salvatore arriva al Media center dell’Expo con passo da maratoneta. Ha la pettorina gialla come tutti i detenuti che lavorano qui, bermuda e una bottiglietta d’acqua in tasca. Ha 45 anni, ne ha trascorsi 18 in carcere per omicidio. Ha ucciso un venditore ambulante con due colpi di pistola alla testa. Una faida calabrese consumata in Lombardia, primi segnali di una migrazione al Nord della criminalità organizzata che poi a Milano e dintorni ha messo solide radici. Salvatore deve scontare ancora tre anni, ma ha cominciato ad avere permessi e occasioni per socializzare. Quei due colpi di pistola gli hanno stravolto la vita. Adesso ha voglia di parlare del futuro e gli occhi verdi si illuminano. "In carcere ho frequentato la scuola di ragioneria, ho lavorato come cuoco e ho letto molto, in particolare libri di Storia antica e filosofia. Mi sono appassionato alla concretezza di Aristotele". Salvatore è uno dei 100 detenuti all’Expo: vengono dalle carceri di Opera, Busto Arstizio, Monza e Bollate. Lui arriva da Opera. La sua giornata inizia alle 07.30. All’Expo arriva in pullman e si occupa del primo soccorso e dell’accoglienza: se qualcuno si sente male lui interviene in attesa dell’ambulanza. "Il lavoro che sto facendo qui mi fa sentire realizzato. Dopo 18 anni di carcere, trovarmi in mezzo alle persone è una sensazione fantastica". Primo di 8 figli, Salvatore nasce a Guardavalle, in provincia di Catanzaro. A 11 anni si trasferisce a Milano dove studia in collegio. A 17 anni diventa padre, nasce Barbara. Adesso Salvatore ha tre figli. "Otto mesi fa sono uscito per la prima volta dal carcere e ho trovato il mondo cambiato. Quando sono finito dentro tante cose non esistevano. Tutta questa tecnologia... Non ci capisco niente. Piano piano però sto ricominciando a vivere, a riprendermi le cose che non avevo più". In cella ha mantenuto i contatti con la famiglia, ha scritto lunghe lettere a una sua amica d’infanzia. "Proprio così, in questi anni, lontano da tutto e da tutti, ho trovato l’amore. A forza di scriverci ci siamo innamorati. Lei mi ha dato una grande forza". "Durante il processo mi è stato chiesto di collaborare, ho sempre rifiutato. Mi hanno detto che sarei uscito da vecchio, ho risposto: pazienza, sconterò la pena fino in fondo. E così è stato. Adesso non riesco a guardare indietro, non voglio guardare indietro. Ho davanti una nuova vita. Lo capisco lavorando qui all’Expo dove incontro tanta gente e non mi stanco mai di parlare, di ascoltare. Proprio una bella sensazione". Padova: guardia penitenziaria ammalata per il lavoro, ma va a giocare a calcio di Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 8 agosto 2015 Denunciato e perquisito un agente: lo stesso giorno è sceso in campo proprio al Due Palazzi. La mattina ha mandato un certificato medico perché indisposto, il pomeriggio stesso è andato a giocare a calcio. Uno si immagina, chissà dove è andato a tirare calci ad un pallone, dalla parte opposta della città rispetto al luogo di lavoro, dove non avrebbe potuto vederlo nessuno. Troppo scontato, troppo facile. L’agente di Polizia penitenziaria in servizio al carcere Due Palazzi è andato a giocare all’interno della struttura penitenziaria. L’uomo abita a Forcellini ed è finito nella già ampia inchiesta del pubblico ministero Sergio Dini: per lui si ipotizza la truffa ai danni dell’amministrazione pubblica. Al Due Palazzi dopo le varie inchieste che hanno riguardato l’istituto sono diventati molto guardinghi. E quando è arrivato il certificato medico di una guardia sono scattati degli accertamenti interni. Le voci corrono ed è quindi emerso che nel pomeriggio la stessa persona stava calcando il campo da calcio poco distante dalle celle. Si potrà dire che la patologia del mattino consentiva alla guardia di giocare la partitella tra amici al pomeriggio? La nota è stata trasmessa in procura. Sono scattati una serie di accertamenti sull’agente penitenziario che è risultato avere, certificati medici alla mano, una salute alquanto cagionevole: negli ultimi tre anni ha lavorato all’incirca la metà del tempo. Il resto dei giorni figura ammalato. L’altro ieri i carabinieri della sezione di polizia giudiziaria della procura gli hanno perquisito l’abitazione, controllando il computer e il telefonino e le eventuali fotografie scattate. Hanno controllato anche gli originali dei certificati medici firmati dal suo dottore o da specialisti. Non è escluso che l’inchiesta che lo riguarda possa interessare anche altre persone. In altre inchieste che riguardano sempre il Due Palazzi risultano indagati anche 4 medici di base con ambulatori in città e provincia e una decina di agenti di polizia penitenziaria in servizio alla Casa di reclusione padovana. Da intercettazioni telefoniche e indagini su personale in servizio e assenze era infatti emerso che troppi agenti erano spesso malati e per troppo tempo. Una fatalità? Forse. Indagando infatti era emerso un numero incongruo di certificati medici fatti più o meno dagli stessi dottori che non erano i medici di base delle guardie. Una procedura che di per sè non è irregolare, anomala sì. Ma perché non farsi certificare la malattia con relativi giorni di indisponibilità dal proprio medico di base? Per certi addirittura si arriva a 100 giorni di malattia in un anno, spesso ricadenti in ponti o vicino a domeniche e festivi. Un agente, parlando al telefono con un collega che non sapeva come giustificare la sua assenza dal lavoro, l’aveva consigliato di rivolgersi a quel particolare medico. Spiegandogli la situazione non ci sarebbe stato problema ad avere un certificato da spedire alla direzione del carcere. Ovviamente ignoravano di essere intercettati. La procura sospetta che i medici indagati fossero compiacenti e staccassero certificati di malattia con troppa facilità. Perché, eventualmente, lo facessero, resta ancora un mistero. Ora si aggiunge questo ulteriore caso, che seppur riguardi un solo giorno di malattia è alquanto indicativo. Non è escluso che il magistrato voglia ora analizzare anche i molti mesi nei quali l’agente sorpreso a giocare a pallone lo stesso giorno della malattia è rimasto assente. Sorge spontaneo il dubbio, era veramente ammalato. Fare la guardia in carcere non è sicuramente un lavoro facile, ma i malati sembrano davvero troppi. Reggio Emilia: teatro in carcere, laboratorio sul lavoro che non c’è Redattore Sociale, 8 agosto 2015 Sedici detenuti, italiani e stranieri, di diverse età e con diverse pene stanno lavorando con i volontari di Giolli Coop per realizzare uno spettacolo con il metodo del teatro dell’oppresso. La cooperativa cerca un volontario disponibile a seguire il progetto. Mazzini: "Vogliamo far comunicare il dentro e il fuori". Il lavoro che non c’è è il tema del laboratorio di teatro partito lo scorso giugno all’interno del carcere di Reggio Emilia. A tenerlo Roberto Mazzini della cooperativa sociale Giolli di Parma, che dal 1995 lavora con i detenuti, insieme ad altri 3 o 4 volontari. Dopo l’inizio nel carcere di Piacenza e alcune esperienze nelle Marche, in Emilia e nel Veneto, dal 2008 la cooperativa ha un rapporto continuativo con la casa circondariale di Reggio Emilia. "Usiamo il teatro dell’oppresso - spiega Mazzini - , metodo che utilizza il teatro per analizzare situazioni problematiche e che trasforma lo spettatore in spett-attore che interviene sulla scena per trovare una risposta alla domanda posta dai detenuti, per cercare una soluzione al problema". Al laboratorio, che prevede 2 incontri alla settimana, partecipano 16 detenuti, italiani e stranieri, maschi, giovani e meno giovani e con pene diverse (alcuni definitivi, altri con condanne lunghe). Tra di loro, pochi quelli che lavorano all’interno del carcere in cucina, lavanderia o in lavori di manutenzione, a rotazione. "Obiettivo è portare in scena lo spettacolo, basato su testi, scene e improvvisazioni dei detenuti, a fine settembre, inizio ottobre - racconta Mazzini -. Vogliamo invitare esperti di lavoro, della Cna, dei sindacati per capire, insieme a loro, come mai non c’è lavoro all’interno del carcere nonostante la legge preveda che tutti devono lavorare". Per sostenere l’attività del laboratorio, la cooperativa sta cercando un volontario disponibile a seguire il progetto. Mettere in comunicazione il dentro e il fuori per superare la visione stereotipata del carcere. È questo uno degli obiettivi dell’attività che la cooperativa sociale Giolli realizza con i detenuti. "All’inizio abbiamo lavorato sul fuori, chiedendo ai detenuti quali potevano essere le oppressioni all’esterno - continua Mazzini - Hanno parlato di pregiudizi, della mancanza di lavoro, del rapporto difficile con la famiglia e dei problemi di socializzazione". Lo spettacolo è stato portato in scena 7 volte, fuori dal carcere con un pubblico diverso a seconda del tema, dagli studenti agli immigrati fino alle cooperative sociali. "Abbiamo fatto incontri umani significativi - dice Mazzini -. Alcuni degli spettatori erano molto scettici, come gli studenti, avevano un’immagine stereotipata dei detenuti, ma poi si sono ricreduti". Un tema quello degli sterotipi nei confronti dei detenuti su cui la cooperativa ha continuato a lavorare anche negli anni successivi, anche se non è più riuscita a portare fuori gli spettacoli. In genere, i laboratori della cooperativa coinvolgono una cinquantina di detenuti, anche se poi quelli che partecipano effettivamente e che arrivano alla fine sono 10/15. I laboratori si svolgono da settembre ad aprile/maggio e sono aperti, anche perché i detenuti vengono liberati o trasferiti e il gruppo varia. In autunno, la cooperativa sociale Giolli parteciperà a un percorso su un progetto del Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna (di cui fa parte e con cui nel 2014 ha partecipato a un laboratorio comune sulla Gerusalemme Liberata) con un gruppo di semiliberi sul tema "Ubu Roi" di Jarry che, come spiega Mazzini, "verrà preso come pretesto per interagire con le tematiche proprie dei detenuti". Il lavoro si svolgerà in parte in carcere e in parte fuori. Anche per questo laboratorio, la cooperativa sta cercando un volontario (incontri due volte alla settimana, lunedì e mercoledì pomeriggio). I migranti torturati dagli scafisti. Il Papa: respingerli è un atto di guerra di Valeria Arnaldi Il Messaggero, 8 agosto 2015 I racconti choc degli scampati alla strage al largo della Libia "Marchiati sulla testa con i coltelli e picchiati con le cinture". Gli africani marchiati sulla testa con i coltelli per punirli della mancata obbedienza. Gli arabi picchiati con cinture. Gli uomini sposati aggrediti a calci e pugni. Tutti costretti a rimanere fermi, immobili, dove stabilito dagli scafisti, pena altre sevizie. E perfino la morte. Senza dimenticare le violenze psicologiche subite o vissute di riflesso per le atrocità viste. È un vero vademecum degli orrori quello ricostruito dagli agenti della Squadra mobile di Palermo, attraverso le testimonianze dei sopravvissuti al naufragio di mercoledì scorso al largo della Libia. Sono racconti di torture e sevizie effettuate dai trafficanti di esseri umani a seconda delle etnie, che, pur riferiti a un viaggio specifico, sembrerebbero non documentare un’eccezione ma la misura delle "regole" di gestione dei barconi. I cinque scafisti, due algerini e tre libici sono stati arrestati con le accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e omicidio plurimo: solo 400 persone tra i 650 imbarcati sono stati salvati. Finora i corpi recuperati sono 58. Secondo i testimoni gli scafisti si erano divisi i compiti: uno al comando, con altri due, i rimanenti impegnati nel controllo dei migranti per impedire loro, con la forza, di muoversi. Anche quando dal "movimento" poteva dipendere la vita. Dopo circa tre ore di viaggio, secondo i racconti, la stiva, in cui erano sistemati gli africani destinati a rimanere lì per tre giorni, avrebbe iniziato a imbarcare acqua. I trafficanti avrebbero ordinato a chi era dentro di buttarla fuori con i secchi. Dopo alcuni tentativi, uomini, donne e bimbi avrebbero cercato una via di fuga. Gli scafisti li avrebbero respinti con coltelli e bastoni, per poi chiudere la botola di accesso e "sigillarla" con il peso di altri imbarcati, costretti a sedersi sopra di essa, con l’ordine di lasciarli morire. Una conseguenza dello "sconto": avere pagato meno - il trasporto in stiva costa la metà della traversata - nell’ottica dei trafficanti, ha tolto loro il "lusso" della vita. Così quando, all’arrivo dei soccorsi, i migranti si sono spostati su un lato dell’imbarcazione, provocandone il capovolgimento, chi era sul ponte si è salvato, chi era nella stiva non ha avuto scampo. Nel 2015, fino a oggi, secondo l’Unhcr, in Europa sono sbarcati 225mila migranti o richiedenti asilo. Poco meno di 50mila -49.550 - in Grecia solo a luglio: erano stati 41.700 nell’intero 2014. Mentre politica e società si interrogano sui flussi in aumento, Papa Francesco lancia il suo appello. "Respingere i migranti è guerra", ha detto ieri parlando ai ragazzi del Movimento Eucaristico Giovanile, nel centenario della fondazione. Riferendosi ai Rohingya, respinti da Birmania, Malesia, Tailandia, Indonesia, Bergoglio ha sottolineato: "Pensiamo a quei nostri fratelli cacciati da un Paese e poi da un altro. Vanno sul mare, quando arrivano a un porto gli danno un po’ d’acqua e poi li cacciano ancora. Questo è un conflitto non risolto. Si chiama guerra, violenza, uccidere". Intanto a confermare la prassi delle sevìzie sui barconi è pure il rapporto "Fuggire o Morire" di Medici per i diritti umani, basato sui primi sei mesi del progetto "Stop alla tortura dei rifugiati lungo le rotte migratorie dei paesi sub-sahariani verso il Nord Africa", cofinanziato da Ue e Open Society Foundations. Tutti i migranti sentiti hanno confessato di essere stati vittima di torture. Alcuni hanno parlato di violenze e percosse. Altri sono stati legati e rinchiusi. Il 97% è stato privato di acqua e cibo. Alle cicatrici fisiche si aggiungono quelle psicologiche. Un "incubo" per cui si richiede un biglietto salato. Il costo del viaggio si aggirerebbe tra 1200 e 1800 dollari a persona. Bisognerebbe aggiungere tra 35 e 70 dinari libici - ossia da 25 a 50 euro circa - per un giubbotto di salvataggio. Migranti condannati a morte nella stiva di Adriana Pollice Il Manifesto, 8 agosto 2015 Le testimonianze dei superstiti della strage al largo della Libia: "Picchiati e torturati dagli scafisti in base all’etnia". I 373 sopravvissuti sbarcati a Palermo raccontano le drammatiche fasi prima del salvataggio. Sotto accusa i cinque presunti scafisti arrestati. Le testimonianze dei superstiti della strage al largo della Libia: "Picchiati e torturati dagli scafisti in base all’etnia". In duecento sarebbero stati chiusi a chiave i nel sottobordo del motopeschereccio poi affondato. Giovedì erano stati fermati dalla polizia di Palermo, ieri è arrivato l’arresto dei cinque presunti scafisti (due algerini, due libici e un tunisino, tutti ventenni) che sarebbero stati al timone del motopeschereccio che si è rovesciato mercoledì al largo della Libia, quindici miglia a nord di Al Zwara, provocando la morte di centinaia di persone. Sono accusati di immigrazione clandestina e omicidio. Gli inquirenti li hanno individuati grazie ai racconti dei sopravvissuti, arrivati nel porto palermitano dopo essere stati soccorsi dalla nave militare irlandese Le Niamh. A sbarcare anche le 26 salme che i militari sono riusciti a recuperare dal mare (tre di bambini): picchetto d’onore e fiori bianchi per ognuna delle bare. I parenti delle vittime, una decina, sono rimasti a Palermo mentre gli altri sono stati avviati nelle strutture di accoglienza fuori regione. Le testimonianze rilasciare alla polizia e ai mediatori culturali stanno delineando un quadro agghiacciante di violenze brutali, somministrate in gradi diversi su base etnica e su quanto viene pagato a chi organizza il traffico. Ogni scafista avrebbe avuto un compito: uno comandava l’imbarcazione, due davano una mano al timone, gli altri due si occupavano di controllare i migranti impedendo loro, con la violenza, di muoversi. Sono accusati di omicidio plurimo per aver provocato la morte accertata di 26 migranti più quella presunta di circa 200 persone che mancherebbero all’appello. Sul barcone sarebbero state stipate intorno ai 650 passeggeri: dopo appena tre ore di viaggio, hanno raccontato, dal vano motore è cominciata a entrare acqua nella stiva, dove erano chiusi gli africani che avevano pagato metà prezzo per la traversata. Secondo i trafficanti sarebbe stato possibile tenerli chiusi sottobordo anche per tre giorni. Il costo del viaggio, dicono i sopravvissuti, varia da 1.200 a 1.800 dollari ciascuno. Per avere un giubbotto di salvataggio si pagherebbe una cifra supplementare che varia da 35 a 70 dinari libici, cioè da 25 a 50 euro circa. Quando hanno cominciato a imbarcare acqua, gli scafisti hanno ordinato ai migranti di provare a buttarla fuori con alcuni secchi, impresa impossibile. Uomini, donne e bambini hanno cercato una via di fuga: i cinque al comando prima li hanno ricacciati dentro colpendoli con coltelli e bastoni quindi hanno chiuso l’uscita, costringendo inoltre gli altri passeggeri a sedersi sulla porta della stiva, condannandoli così alla morte. Per ottenere obbedienza avrebbero marchiato con i coltelli la testa di coloro che non rispettavano gli ordini, soprattutto quelli centroafricani e sub-sahariani. Gli arabi, invece, sarebbero stati picchiati con le cinture e gli uomini sposati con calci e pugni al viso davanti alle mogli. Solo in 373 sono sopravvissuti, grazie all’Sos lanciato con il telefono satellitare. "Sono stati momenti terribili - ha raccontato dopo lo sbarco a Palermo Abdi Abdala, somalo di 21 - pensavamo di annegare tutti con l’acqua che saliva dentro l’imbarcazione. Da dentro la stiva venivano fuori urla strazianti. Chiedevano di uscire. Ma sono stati lasciati lì a morire. Appena abbiamo visto la grande nave grigia molti si sono spostati. È iniziato l’inferno". La Le Niamh si è fermata a circa un miglio dal barcone per calare le scialuppe, i migranti terrorizzati si sono spostati tutti verso la nave militare provocando il ribaltamento e l’affondamento del peschereccio, sono bastati pochi minuti vista l’acqua che aveva già imbarcato. Per chi era chiuso sottobordo non c’è stato niente da fare. "È stata una visione orrenda, le persone si aggrappavano disperatamente ai giubbotti di salvataggio, alle barche e a qualunque cosa potessero trovare per salvare le loro vite, mentre altre persone affondavano e altre erano già morte" ha raccontato Juan Matias, il coordinatore di Medici senza frontiere a bordo della Dignity One, l’altra nave che ha raggiunto il motopeschereccio, dopo aver salvato 94 migranti stipati su un gommone non lontano. "Il fatto che noi fossimo stati chiamati per primi per assistere questa barca - conclude - e dopo poco mandati verso un’altra imbarcazione, mette in evidenza le serie mancanze di risorse disponibili per le operazioni di soccorso". Stati Uniti: le colpe di Obama e quelle dei detenuti di Giuseppe Cassini Il Manifesto, 8 agosto 2015 A metà luglio i media internazionali erano talmente focalizzati sulla doppietta di vittorie diplomatiche conseguite da Obama (Iran e Cuba), da non accorgersi del gesto che gli farebbe meritare per davvero il Nobel "preventivo" conferitogli nel 2009. Una foto emozionante lo mostra intento a percorrere da solo il corridoio che immette nelle celle del carcere federale di El Reno in Oklahoma. Mai prima un presidente americano si era spinto a visitare un istituto di pena. Eppure le prigioni degli Stati Uniti vantano un primato mondiale: ospitano un quinto dei carcerati del pianeta, ossia 2.200.000 detenuti, vale a dire quasi 750 ogni 100.000 abitanti (in Cina la media è di 120 detenuti ogni 100.000 abitanti, in Germania e in Svezia 70, in Giappone 63). Se in Italia si registrasse la stessa percentuale rispetto alla popolazione, i reclusi sarebbero dieci volte tanto i 53.000 attualmente ospitati nelle nostre prigioni. Fino agli anni Ottanta i reclusi in America erano un sesto di quelli odierni. Poi le celle si sono riempite di condannati (60% dei quali neri o ispanici) per reati meno gravi, soprattutto per droga, e anche di minorenni e di malati mentali. Già, perché i penitenziari suppliscono alla carenza di istituti psichiatrici, di riformatori e di centri di recupero per tossico-dipendenti. I minorenni vengono giudicati alla stregua di adulti: la Florida ha condannato all’ergastolo Joe Sullivan per uno stupro commesso all’età di 13 anni. Come nel Medio Evo. Non stupisce che ogni anno si verifichino in cella 80.000 casi d’abusi sessuali. Infine - pochi ne parlano - 75.000 condannati giacciono in solitary confinement, ossia in totale isolamento per 23 ore al giorno: una forma di tortura, l’ha definita l’Onu. Ogni anno le forze dell’ordine arrestano 15 milioni di persone, aggravando costi e sovraffollamento carcerario: senza la scorciatoia dei patteggiamenti la macchina processuale si gripperebbe. E senza costosi appalti privati l’Amministrazione non ce la farebbe a sostenere la domanda di nuovi istituti di pena (qualcuno ironizza che sia questo l’unico piano nazionale di edilizia popolare), mentre nel nord Europa si stanno chiudendo carceri per mancanza di "inquilini". In Germania e in Olanda, infatti, il tempo medio di reclusione è di un anno rispetto ai tre anni negli Usa. Per capire meglio il fenomeno, una delegazione americana ha visitato nel 2013 l’Europa e ha scoperto - guarda caso - che da noi si mira a reintegrare i detenuti nella società più che a punirli. E che alla fine si spende meno. Se un giorno la popolazione carceraria diminuirà anche in America, sarà per motivi di risparmio. Perché comporta un salasso insostenibile: costava 10 miliardi quaranta anni fa, costa 80 miliardi oggi. Per ogni recluso l’erario spende all’incirca come studiare in una buona università. Certo, i costi calerebbero se si creassero servizi rieducativi di stampo svedese (o brasiliano: il governo di Brasilia concede ora sconti di pena a chi legge libri e dimostra di trarne giovamento). Negli Usa non si è ancora a questo punto. Ma a luglio Obama è riuscito nel miracolo di convincere democratici e repubblicani a rivedere la barbarie del solitary confinement e a cambiare le norme che prevedono pene eccessive, visto che prolungate detenzioni non scoraggiano affatto la delinquenza. Ci è riuscito andando a visitare i carcerati dell’Oklahoma, il 16 luglio, e a confessare uscendo: "Nel raccontarmi la loro infanzia e la loro gioventù mi è parso capire che questi reclusi hanno commesso errori non tanto diversi da quelli commessi da me". Filippine: scagionato dai minori che accusano di aver abusato, che fine ha fatto Bosio? di Gianni Di Capua Il Tempo, 8 agosto 2015 Che fine ha fatto Daniele Bosio, l’ambasciatore italiano arrestato nelle Filippine per traffico e abuso di minori? Arrestato nell’aprile di un anno fa, il diplomatico aveva conquistato l’attenzione di buona parte dei media, poi la sua storia è finita lentamente nel dimenticatoio. Eppure Bosio è ancora a Manila. In seguito a una lunga serie di vicende giudiziarie e a una detenzione ai limiti della sopportabilità umana, il processo è appena iniziato. A 15 mesi dall’arresto e quasi un anno dopo la chiamata in giudizio, l’accusa non ha ancora terminato di presentare le testimonianze e le prove in proprio favore. Ed è proprio questo il punto: colpevole o innocente il cittadino italiano Daniele Bosio ha diritto, come tutti, a un giusto processo perché solo attraverso un giusto processo si può sperare di giungere alla verità. E il processo di Bosio, per adesso, ha attestato soltanto che le presunte vittime, i bambini, che sono uno dopo l’altro sfilati davanti al giudice, hanno smentito di aver subito abusi. Hanno solo ricordato di aver avuto in dono da Bosio una giornata felice in un parco acquatico frequentato da centinaia di famiglie. Eppure Bosio, vent’anni di immacolata attività di volontariato in favore dei bambini in Italia e nel mondo, è da mesi sottoposto alla gogna mediatica e giudiziaria. Tra abusi, questi sì, da lui subiti fin dall’inizio. Prima di essere arrestato, infatti, l’ambasciatore si reca volontariamente in commissariato per chiarire la situazione. In commissariato, in violazione della legge, viene detenuto e interrogato senza essere informato dei propri diritti. Gli vengono sequestrati tutti gli effetti personali. Non gli viene concesso di essere assistito da un avvocato. Proprio perché senza un avvocato, Bosio firma inconsapevolmente (del resto non potrebbe essere altrimenti) una rinuncia scritta ai suoi diritti costituzionali. Bosio firma - in assenza di un legale - il cosiddetto "waiver" dell’articolo 125 del codice penale filippino e rinuncia volontariamente ai diritti di indagato e accetta di restare in detenzione fino alla conclusione delle indagini preliminari. Vale la pena ricordare che per la legge filippina se il "waiver" non viene firmato alla presenza del proprio avvocato, la rinuncia ai diritti da parte dell’indagato è da considerarsi nulla. Quindi Bosio sarebbe dovuto essere rimesso in libertà malgrado la firma del documento. Invece ha vissuto 40 giorni in una cella di 30 metri quadri con oltre 80 persone, prima di essere trasferito in ospedale per gravi problemi renali sopravvenuti durante la detenzione. Un magistrato locale ha poi accolto la sua richiesta di libertà su cauzione "per assenza di gravi indizi a carico" del diplomatico italiano. Da allora, comunque, il processo langue tra rinvii e ritardi prodotti dall’accusa. Le udienze preliminari vengono di volta in volta vengono rinviate. Una volta perché le attiviste della Ong chiedono la rimozione del pubblico ministero Agripino Baybay, un’altra perché le indagini preliminari vengono sospese. Lo stesso pubblico ministero prima si rifiuta di tenere in considerazione le dichiarazioni giurate sottoscritte dai genitori (e/o tutori) dei bambini, in cui si faceva esplicito riferimento al permesso accordato a Bosio per accompagnare i bambini al parco acquatico. Anche l’udienza fissata per il 16 aprile 2015 viene cancellata perché le accuse ("public e private prosecutors") dichiarano di non essere "preparate". Nella stessa occasione, il private prosecutor (rappresentante la ONG) sostenuto dal public prosecutor chiede l’arresto di Bosio con la motivazione che è "irrispettosa" nei confronti della Corte la sua scelta di non comparire all’udienza. Un’intimidazione fin troppo chiara. Nell’udienza del 17 aprile 2015, su istanza urgentissima dell’avvocato di Bosio, il mandato d’arresto è ritirato dallo stesso giudice che lo aveva emesso e che ne ha riconosciuto l’infondatezza. Questi sono solo alcuni dei momenti terribili vissuti dal nostro connazionale. Ripetiamo lo stesso interrogativo: innocente o colpevole, è vera giustizia? Pare proprio di no. Stati Uniti: sciopero della fame di un detenuto di Guantánamo spacca amministrazione Ansa, 8 agosto 2015 Lo sciopero della fame di uno dei prigionieri del carcere di Guantánamo divide l’amministrazione Obama. Il detenuto yemenita, Tariq Ba Odah, è in sciopero della fame dal febbraio 2007 e pesa ora meno di 34 chilogrammi. I suoi legali ne hanno chiesto il rilascio in seguito al "deterioramento" delle sue condizioni fisiche e psicofisiche. Il Dipartimento di Giustizia, per la terza volta, ha chiesto al giudice di estendere la scadenza per una decisione perché l’amministrazione ha bisogno di un’altra settimana "per valutare ulteriormente la sua risposta alla mozione". Il Dipartimento di Stato ritiene che l’amministrazione non dovrebbe opporsi al rilascio del detenuto, sia per le sue condizioni mediche, ma anche perché sarebbe un’incongruenza chiedere ad altri paesi di accogliere i detenuti quando l’amministrazione fa di tutto per prolungarne la detenzione. Il Dipartimento della Difesa, invece, ritiene che il rilascio potrebbe indurre altri detenuti a cominciare uno sciopero della fame. Medio Oriente: alimentazione forzata per detenuto a palestinese in digiuno da 55 giorni Agi, 8 agosto 2015 Sarà sottoposto ad alimentazione forzata l’attivista palestinese Mohammed Allaan, detenuto in Israele senza accuse formali dallo scorso novembre, che per protesta è in sciopero della fame da 55 giorni di fila: lo ha reso noto Jamil al-Khatib, difensore del prigioniero, cui la magistratura dello Stato ebraico ha comunicato la decisione dopo che venerdì il Comitato Internazionale della Croce Rossa aveva avvertito che la vita del detenuto è in "immediato pericolo". Khatib ha precisato di aver a sua volta informato il proprio assistito, un militante della Jihad Islamica, il quale però "non ha modificato l’intenzione di continuare a digiunare".