Giustizia: l'immunità e il coraggio che manca alla politica di Carlo Nordio Il Messaggero, 6 agosto 2015 Il ministro della Giustizia ha detto che i tempi sono maturi per una modifica della legge sull'immunità parlamentare. Lo ha fatto prospettando la devoluzione a un organo terzo - la Corte costituzionale - della competenza a decidere sull'eventuale arresto di un membro delle Camere. Giustamente si è replicato che tale soluzione non solo conferirebbe alla Consulta un'attribuzione impropria, ma rappresenterebbe una sorta di vereconda e timida ritirata della politica davanti ai suoi compiti supremi. A parte ciò, il ministro ha fatto bene a porre il problema. Ancor meglio ha fatto Renzi a dire chiaro e tondo che il Senato non può fare il passacarte delle Procure. Credo che, per comprendere la serietà del problema, sia utile qualche considerazione retrospettiva. Noi non sappiamo se siano i tempi a forgiare gli uomini, o viceversa gli uomini a determinare i destini dei tempi. Tuttavia la storia ci insegna che gli intelletti più robusti e le energie più vigorose si manifestano nei momenti difficili: guerre, carestie, rovine. La pace e il benessere hanno un costo salato: deprimono le intelligenze e placano le volontà. Ciononostante è meglio tenerci la pace, il benessere e i politici che abbiamo, piuttosto che auguraci la guerra, la povertà e i politici di una volta. Anche se quelli di una volta erano cervelli fini. Si chiamavano De Gasperi e Togliatti, Nenni e Saragat, Terracini e Calamandrei. Sono i padri della Repubblica. Sono i padri della Costituzione. Benché idealisti - nel senso che erano innamorati delle loro idee - avevano un forte senso pratico. E fu questo senso pratico a convincerli della necessità della cosiddetta immunità parlamentare. Vale a dire il principio che nessun membro eletto dal popolo potesse essere incriminato o giudicato senza l'autorizzazione dell'Assemblea di appartenenza. Proprio perché avevano conquistato la libertà politica attraverso il carcere e la lotta, sapevano bene quanto essa fosse (e sia) vulnerabile ed esposta a pericoli. Anche quelli meno cruenti del manganello o dell'olio di ricino, ma non per questo meno insidiosi. Per esempio quello delle toghe. Non si facevano illusioni. Sapevano perfettamente che dietro questo paravento ideale si sarebbero riparati ladruncoli e truffatori, contrabbandieri e falsari, pirati della strada e forse violentatori di bambini. Ma ne accettarono il rischio perché la contropartita sarebbe stata ancora più inaccettabile. La contropartita sarebbe stata quella di lasciare a qualche magistrato, magari prevenuto, politicizzato o impazzito, il potere di condizionare il parlamento inquisendo o arrestando qualche suo componente. Fu così che nacque l'articolo 68 della Costituzione. Di esso si è fatto uso e abuso, talvolta ai limiti della vergogna. Ma, visto retrospettivamente, fu una buona salvaguardia della volontà popolare. I nostri padri costituenti avevano visto giusto. Avevano avuto ragione. L'immunità parlamentare fu soppressa nel 1993, in piena tangentopoli, quando la politica fu investita da una bufera giudiziaria che invece di farla riflettere la fece dissolvere. Fu una "degringolade" improvvisa e inattesa, paragonabile a quella, di cui peraltro era figlia, del muro di Berlino. Aggravata dalla frenesia emotiva di una catarsi palingenetica, che ispirò alle menti più deboli l'idea suicida di una espiatoria rassegnazione. I parlamentari rinunciarono alle proprie immunità senza domandarsi nemmeno se ne avessero avuto il diritto. Se cioè quelle immunità fossero state concesse, come i beni indisponibili, non a favore delle loro rispettabili persone, ma a tutela della volontà popolare di cui erano espressione. Volontà che meritava di essere garantita anche contro le inchieste di un motivato procuratore. Oggi i tempi sono maturi, ha detto il ministro, per una riflessione. Bene. Rifletta e inviti a riflettere le anime belle del giustizialismo giacobino sulla saggezza dei nostri padri costituenti. Giustizia: la subalternità della politica ai magistrati di Vincenzo Vitale Il Garantista, 6 agosto 2015 La notizia è che il ministro della giustizia Orlando ritiene opportuno, in un'ottica generale di riforma istituzionale, che la decisione sulla autorizzazione agli arresti preventivi richiesti a carico di un parlamentare da una Procura sia demandata alla Corte Costituzionale e non più, come oggi avviene, alla Camera di appartenenza. Si tratterebbe, a ben guardare, di una riforma esiziale per i principi cardine dello Stato di diritto: spieghiamo perché. Infatti, se a giudicare della fondatezza di una richiesta di custodia cautelare di un parlamentare fosse la Consulta, cioè un altro organo giudicante, oltre che sulle leggi essa diverrebbe anche un giudice delle persone - i parlamentari - alterando in modo inammissibile l'equilibrio dei poteri costituzionali come disegnati dalla nostra carta fondamentale. La Corte Costituzionale, infatti, non è nata né è stata pensata dai costituenti per giudicare i comportamenti delle persone - chiunque essi siano - ma soltanto per sindacare le norme di legge sotto il profilo della loro legittimità costituzionale. È vero che la Corte è chiamata anche oggi a giudicare il capo dello Stato per i delitti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione, ma appunto si tratta di una eccezione che conferma la regola secondo la quale la Corte non giudica i fatti commessi dai cittadini : il capo dello Stato non è infatti un semplice cittadino, ma il garante dell'unità nazionale e poi ce n'è uno soltanto. Si ricordi per inciso che un'altra potestà giurisdizionale che la Corte conservava - quella a giudicare i ministri per i fatti commessi usando delle loro attribuzioni - le è stata opportunamente sottratta, per affidarla ad un apposito Tribunale dei Ministri. Il che, fra l'altro, è stato un bene anche per gli eventuali imputati : come dimenticare il giudizio su Gui e Tanassi, accusati tre decenni or sono per l'affare Loocked, che vide il primo assolto (dopo essere stato difeso da Moro in Parlamento) ed il secondo condannato dalla Consulta (dopo essere stato abbandonato da tutti in Parlamento) e quest'ultimo senza appello? Infatti, per quei giudizi davanti alla Corte non era previsto un grado d'appello, anche perché non ci sarebbe stato a quale organo affidarlo. Da questo punto di vista, il movimento della storia, per dir così, va nel senso di sottrarre alla Corte il potere di giudicare le persone, non di ampliarlo. E massimamente quando si tratti poi di valutare l'esistenza dei requisiti previsti dalla legge per emettere provvedimenti di custodia cautelare, sui quali c'è sempre da discutere parecchio. Da un secondo punto di vista, sottrarre alla Camera di appartenenza il potere di decidere sulla richiesta di arresto di un suo componente significa né più né meno che abdicare al ruolo che la ragion politica assegna alle assemblee parlamentari, lasciando che la loro identità lentamente si dissolva e che con essa scompaia anche il senso stesso dell'azione politica. Oggi, invece, se c'è davvero un bisogno urgente è quello di recuperare l'identità politica degli organi che debbono esercitare un ruolo politico, i quali rischiano di perderlo, abdicando a favore della magistratura: oggi di quella costituzionale. Se ciò avvenisse sarebbe anche gravemente compromesso il principio della divisione dei poteri, che già da tempo peraltro in Italia suscita gravi perplessità per come viene negato e stravolto. Qui, infatti, c'è un problema enorme sul quale Orlando dovrebbe riflettere seriamente, perché ogni potere dello Stato accentra "tutto" il potere, impedendo sì l'ingerenza degli altri, meno che alla magistratura. Intendo dire che mentre il potere legislativo e quello esecutivo hanno ben poveri poteri e smussate armi per operare un controllo sul potere giurisdizionale (che poi potere in senso proprio non è, trattandosi soltanto di un ordine), questo, al contrario, gode di poteri amplissimi e di enormi facoltà di controllo sull'operato degli altrui due. In altri termini, la divisione dei poteri in Italia è totalmente sbilanciata a favore di quello giudiziario e contro quello esecutivo e quello legislativo. Tutto ciò che il sistema normativo vigente consente a quest'ultimo è costituire una commissione d'inchiesta per verificare un qualche aspetto di una vicenda giudiziaria particolare che abbia dato luogo a perplessità, ma sempre nei limiti rigorosi del rispetto del segreto investigativo e della autonomia della magistratura. Se poi pensiamo al potere esecutivo, la facoltà del ministro di grazia e giustizia di verificare attraverso propri ispettori l'operato degli uffici giudiziari è ridotta quasi a zero: essi infatti si vedranno sempre opporre il segreto e l'autonomia dei magistrati operanti. Per altro verso, invece, le Procure possono tutto. Possono investigare, indagare, interrogare, sequestrare, perquisire, arrestare, ascoltare, intercettare, trascinare in giudizio chiunque e per qualunque motivo. Come si vede, lo squilibrio è lampante, ma è anche esiziale, e merita di essere preso molto sul serio. Sicché, bisognerebbe muoversi in senso opposto a quello affermato da Orlando, cercando cioè di riorganizzare l'assetto complessivo dei poteri dello Stato. Invece, se la proposta di Orlando venisse accolta, si amplificherebbe a dismisura lo squilibrio già segnalato, peggiorando le cose invece di migliorarle. In definitiva, si spera che il ministro Orlando si faccia meglio consigliare e che alla fine rinunci a spogliare le Camere di una potestà che tutte le Costituzioni liberali riconoscono ai Parlamenti. Ed infine, sarebbe davvero ora di finirla con questa storia dell'autonomia della magistratura, la quale invece in uno Stato di diritto, semmai, è eteronoma, vale dire subordinata alla legge. Troppo spesso, infatti, le interpretazioni offerte da certi uffici giudiziari sembrano dettate più dal desiderio di ottenere un risultato, qualunque esso sia, che da quello di dare esecuzione al dettato della norma di legge. E non si tratta soltanto di stigmatizzare un certo protagonismo: si tratta di tutelare il senso del diritto e dello Stato di diritto. Giustizia: richieste di arresto per i parlamentari, Orlando prende paura di se stesso di Domenico Cacopardo Italia Oggi, 6 agosto 2015 Aveva proposto di attribuire alla Consulta l'analisi delle richieste di arresto per i parlamentari. Andrea Orlando se n'è uscito con una proposta non peregrina: affidare alla Corte costituzionale la decisione sulle richieste di arresto avanzate nei confronti di parlamentari. Una simile idea risponde a un'esigenza sempre più stringente: quella di sottrarre il ceto politico alla sua sistematica colpevolizzazione per effetto di iniziative giudiziarie (nelle quali lo "sputtanamento" della politica è "scope of the work" non secondario) supportate da una parte non marginale dei media, si tratti di televisioni (in primo piano La7 di Mentana) si tratti di carta stampata (Il Fatto Quotidiano). Anche se le norme sull'immunità parlamentare fanno parte della civiltà giuridica di tutto il mondo democratico, il degrado della politica italiana, soprattutto, ma non solo, nel Mezzogiorno, ha comportato che, anche quando il rifiuto di autorizzazione è ben giustificato dalla insufficiente qualità e quantità dei documenti giudiziari di supporto, nell'opinione generale si tratta dell'esercizio di un ingiusto privilegio Nel sistema democratico e dello Stato di diritto, la tutela della libertà di pensiero e di voto di un parlamentare rende necessario un sistema di tutela dell'esercizio non vincolato delle sue facoltà. E, corollario imprescindibile, è la libertà di mandato, cioè la libera espressione di voto, non vincolata giuridicamente né a un partito né alle promesse formulate all'elettorato. A gente senza cultura istituzionale né democratica come, per esempio, i 5 Stelle, sembra un'affermazione sbagliata e insostenibile, mentre è la loro posizione (di vincolare il parlamentare al mandato) a essere inaccettabile per tutti i sistemi fondati sulla libertà del cittadino. Il vincolo di mandato, infatti, trasforma il Parlamento in un votificio nel quale i componenti votano solo formalmente, visto che il voto vero è delegato ai loro mandanti. Per i 5 Stelle al duo Grillo & Casaleggio. Tuttavia, l'intelligenza dei dirigenti della politica nazionale potrebbe esplorare la proposta di Orlando, come strumento per sottrarre il Parlamento dalla pressione di alcune procure, da un lato, e dalle cordate di rappresentanti del popolo dall'altro. Stupiscono, però, alcune reazioni. Per esempio quella di Rodolfo Sabelli, presidente dell'Anm, applicato alla direzione antimafia. Interrogato da Liana Milella (Repubblica) dichiara: "La terzietà della Consulta è fuori discussione e va preservata … per questo sarei contrario ad attribuire alla Corte l'autorizzazione all'arresto dei parlamentari". Un'affermazione freudiana, giacché presuppone che la Corte costituzionale, investita di un'autorizzazione all'arresto, perderebbe la propria terzietà. In realtà, se il delicato compito fosse trasferito alla Corte, questa dovrebbe, volta per volta, decidere accettando o rifiutando le richieste di arresto. Se la Corte gode di una considerazione sociale di terzietà, ogni volta che respingerà una richiesta non darà nelle mani del pubblico ministero e del Gip procedenti l'arma di quello che abbiamo chiamato lo "sputtanamento" della politica. Anzi potrebbe verificarsi il caso opposto: di fronte alla decisione di un organo giurisdizionale, il massimo, superiore alla stessa Corte di cassazione, sarebbero "sputtanato" il pubblico ministero e il Gip autori della richiesta infondata. E questo, per il presidente del sindacato dei giudici, è certamente difficile da digerire. Insomma, la questione uscirebbe dall'agenda politica per entrare in quella esclusivamente giudiziaria. Un bel passo avanti per disintossicare i rapporti tra Parlamento e ordine giudiziario e restituire il Paese alla normalità dei rapporti istituzionali. Certo, ci sono dei seri problemi costituzionali da risolvere, visto che la prerogativa parlamentare di non essere sottoposti "sic et simpliciter" a una decisione giudiziaria di privazione della libertà, dovrebbe essere modificata trasferendo il compito di autorizzarlo dall'assemblea elettiva alla quale l'interessato appartiene a un organo terzo come la Corte. Ma l'importanza del risultato meriterebbe uno sforzo da parte di entrambe le camere. Magari, limitando l'operazione sotto il profilo della sperimentalità: una norma (costituzionale) che, per tutta la prossima legislatura, attribuirebbe alla Corte questa facoltà, in modo da permettere un bilancio provvisorio della misura. Nel caotico processo di riforma del Paese che, in modo contraddittorio e un po' dilettantistico, sta andando avanti, una norma di rasserenamento delle tensioni che, con frequenza inaccettabile, infiammano il mondo della politica e quello del diritto, sarebbe opportuna e molto utile. L'esangue Orlando che, un minuto dopo avere lanciato l'idea, ha fatto marcia indietro dicendo che non vuole trasformarla in vera proposta di legge, perché non vuole interrompere il processo riformista, farebbe bene, invece, a insistere, spiegando al suo primo ministro quali sarebbero i vantaggi politici che potrebbe lucrare nei confronti di tutti i partiti e, molto più importante, dell'elettorato. Giustizia: l'ipocrisia di chi aveva messo Giovanni Conso nella lista nera di Beniamino Migliucci (Presidente dell'Unione Camere Penali) Il Garantista, 6 agosto 2015 Ora tutti ricordano e compiangono il grande giurista, il suo "spirito di indipendenza", la sua "passione civica", il suo "rigore personale", il suo "intenso impegno al servizio dello Stato", la sua "lucida ed appassionata dedizione alla scienza del diritto", riconoscendo in Giovanni Conso "uno dei migliori studiosi del diritto e della procedura penale, punto di riferimento per più di una generazione di giuristi". Noi lo ricordiamo come un esempio, anche per il coraggio con il quale, nel 2009 a Torino, a un importante Congresso dell'Ucpi, con la sua logica rigorosa, dimostrò l'inevitabilità della separazione delle carriere, per la realizzazione del giusto processo, affermando più volte, contro il monocorde coro dei luoghi comuni, la necessità della separazione delle carriere come vera e propria precondizione che è costituita dalla terzietà del giudice. Piacerebbe anche a un cattolico che della sua laicità aveva fatto un vessillo, vedere evocato questo pensiero insieme al suo ricordo, in un momento in cui molti dimenticano l'arroganza con la quale, fino a pochi mesi prima della sua morte, Giovanni Conso veniva messo alla gogna. Vi è difatti un'idea arrogante e illiberale di modernità, vincitrice ma non vincente, che in questi anni si è impossessata del Paese, sostituendosi al dialogo, alla democrazia, all'equilibrio delle forze e delle istituzioni, un'idea di giustizia e dunque di giurisdizione, implicitamente violenta, che fa del processo un rimedio al male, uno strumento di vendetta sociale. Un'idea di giustizia e di processo che Giovanni Conso certo non amava e che con la sua vita e con il suo insegnamento, con il suo impegno per i diritti civili in campo nazionale e internazionale (non a caso era stato nominato Presidente della Commissione Onu per la redazione dello Statuto della Corte Penale Internazionale permanente), aveva sempre combattuto, pensando a un processo penale nel quale - come ricorda oggi il Presidente Napolitano - "l'efficienza non fosse disgiunta dalle garanzie". È capitato a un grande giurista del livello di Giovanni Conso, che non casualmente ha ricoperto il ruolo di Presidente della Corte Costituzionale e di Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, di essere anche chiamato a ricoprire la carica di Guardasigilli in un momento storico di grandi cambiamenti epocali e di grave crisi per la nostra storia democratica, lo stragismo mafioso, Tangentopoli, il crollo del sistema partitico della prima Repubblica (ed in quel medesimo contesto, il varo e la crisi del nuovo codice di procedura penale). Quella presunta idea di modernità, manichea ed inquisitoria, si rifiuta di leggere la storia con gli strumenti della ragione e della laicità e la costruisce a sua immagine e somiglianza, come uno scontro impari fra marchingegni criminali e idea platonica della giustizia, ignorando il tessuto reale di cui sono fatti l'impegno civile, ignorando quanto sia difficile realizzare in concreto, ed in concreto interpretare, il senso dello Stato e delle Istituzioni. E non dovette essere facile esercitarlo in quell'annus horribilis che durò dal febbraio del 1992 al maggio del 1994. È difficile credere che a Giovanni Conso, in quanto cattolico, e perché laico e, soprattutto, perché giurista di grande levatura, l'ignominia del carcere duro, la frode inumana, la tortura legalizzata del 41 bis, potessero sembrare un legittimo istituto giuridico, un sano strumento di riaffermazione della legalità. Qualcuno ha creduto - come ricorda Giovanni Bianconi - che si trattasse di "un segnale della disponibilità dello Stato ad arretrare di fronte al ricatto mafioso". La mancata proroga degli oltre trecento 41 bis, che significava e significò di fatto la cancellazione di altrettante ignominiose ingiustizie, era e resta un gesto coraggioso ed alto di civiltà, di umanità e di giustizia, attuato in una "solitudine" fatta soprattutto di responsabilità, e comunque intriso al tempo stesso di sensibilità laica, di umanesimo cattolico e di autentico senso dello Stato. Noi sappiamo bene, per averlo sperimentato nelle nostre battaglie per la libertà, la legalità e la giustizia, cosa significhi essere accusati o sospettati di "contiguità mafiosa", solo per aver osato difendere i più ovvi principi dell'umanità e del diritto contro la "tortura di Stato", o essere accusati di collusione con il partito dei corrotti, per aver denunziato le dilaganti prassi distorsive di "mani pulite". Quello sulla cosiddetta "trattativa" non è - come qualcuno ha scritto - un processo "lunare", ma la terrena e mondanissima attuazione di una strategia in virtù della quale i processi diventano meri strumenti di potere. Noi continuiamo a credere che la Storia non la debbano scrivere i processi e che il nobile compito della magistratura sia altro. Ed è per questo che interpretiamo l'idea di legalità come difesa dei diritti degli "ultimi", ed il processo penale come indeclinabile garanzia, contro il coro monocorde di ogni pensiero unico imperante, di quel pensiero che, forse, avrebbe voluto mandare Giovanni Conso al 41 bis. Giustizia: "concorso esterno", la replica della Cassazione ai giudici di Strasburgo Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2015 Nella sentenza "Infinito" i magistrati ribadiscono la correttezza del reato. Roma contro Strasburgo. Sul concorso esterno in associazione mafiosa la Cassazione smentisce la Corte europea dei diritti dell'uomo. Emerge dalle motivazioni della sentenza "Infinito" depositate martedì, quella sentenza che il 21 aprile scorso ha confermato l'esistenza di cellule autonome della ‘ndrangheta in Lombardia e che ha condannato gli affiliati alle locali di Milano e alcuni loro fiancheggiatori, questi ultimi accusati - appunto - di concorso esterno. Sono Carlo Chiriaco, ex politico Dc ed ex direttore dell'Asl di Pavia, e l'imprenditore Ivano Perego, a capo della holding dell'edilizia "Perego". I loro legali avevano sollevato una questione di legittimità costituzionale sull'accusa basandosi sulla sentenza della Cedu relativa al caso di Bruno Contrada. Secondo la Corte di Strasburgo non era corretta la condanna subita dall'ex dirigente del Sisde per concorso esterno in associazione mafiosa per i favori offerti alla criminalità tra il 1979 e il 1988 perché all'epoca il reato non era chiaro. Secondo la seconda sezione penale della Cassazione, presieduta dal giudice Antonio Esposito, la richiesta dei difensori è "manifestamente infondata" perché il "concorso esterno" non è una creazione della giurisprudenza, ma è dato dall'unione di due articoli del codice penale, il 416 bis sull'associazione a delinquere di stampo mafioso, e sull'articolo 110, sul concorso di più persone in un reato e che colpisce anche chi "abbia fornito un contributo atipico, causalmente rilevante e consapevole". "La giurisprudenza - si legge nel documento - è ormai ferma nell'ammettere la configurabilità del concorso esterno nei reati associativi, con riguardo alle condotte consapevolmente volte a vantaggio dell'associazione, ma poste in essere da soggetto che non è, e non vuole essere, organico ad essa". Una lettura ormai data per assodata dalla Cassazione. Così la condanna a tredici anni di carcere di Perego è stata confermata, e pure quella a dodici anni di Chiaraco (mentre è stata mandata alla Corte d'appello di Milano la parte relativa alle confische). Giustizia: l'Antimafia accusa gli editori "collusi" con le cosche e l'Ordine non vede nulla di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2015 I numeri sono da brivido, con un picco negativo negli ultimi dieci mesi del 2014: "421 atti di violenza o di intimidazione, quasi tre ogni due giorni" nei confronti dei giornalisti in Italia. Il dato è emerso dopo un lavoro di un anno coordinato dal relatore Claudio Fava, vicepresidente della commissione Antimafia e figlio del direttore de I Siciliani, Pippo Fava, ucciso a Catania nell'84. Ieri, la relazione su mafia e informazione è stata approvata all'unanimità. Dal 2006 a oggi sono 2060, gli episodi di minaccia nei confronti di cronisti che si occupano di criminalità organizzata. Al Sud come al Nord, passando per il Centro. Perché Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra, non hanno confini. Questo documento non si limita a registrare le testimonianze dei giornalisti minacciati, ma punta il dito sui quotidiani "opachi" che hanno isolato i loro redattori in pericolo o addirittura uccisi, perché di proprietà di editori compiacenti o peggio, collusi. "Esiste un reticolo di interessi criminali -si legge nella relazione Fava - che ha trovato in alcuni mezzi d'informazione e in alcuni editori un punto di saldatura e di reciproca tutela. Ci sono sacche di informazione reticente e di editori attenti a pretendere il silenzio delle loro redazioni su fatti o nomi innominabili", una realtà sulla quale "l'Ordine dei giornalisti ha ormai abdicato a esercitare una funzione di fattivo controllo, avendolo dovuto delegare per legge ai cosiddetti consigli di disciplina che fino a oggi hanno funzionato poco o nulla". La Sicilia di Catania, con il Mafia, giornali "opachi" troppi cronisti isolati L'Antimafia accusa gli editori "collusi" con le cosche. E l'Ordine non vede nulla suo editore-direttore Mario Ciancio, membro del Cda dell'Ansa, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa, ha negato la pubblicazione a pagamento del necrologio della famiglia del commissario Beppe Montana, ucciso a Palermo nell'85. Ma ha pubblicato una lettera di Vincenzo Santapaola, pur essendo al carcere duro come il padre, il capomafia Nitto Santapaola. Da 18 anni paga, perché costretto da una sentenza, il giornalista Franco Castaldo senza farlo scrivere, perché nel 1995 l'allora corrispondente di Agrigento osò riportare le accuse nei confronti del potente imprenditore locale, Filippo Salamone. Il Giornale di Sicilia negli anni 70 isolò un cronista di rango, Mario Francese, assassinato da Cosa Nostra. "L'editore Ardizzone - racconta alla Commissione il giornalista dell'Espresso, sotto scorta, Lirio Abbate - era amico del capomafia Michele Greco". Ma ce n'è anche per la gestione di quotidiani campani e calabresi. La Gazzetta di Caserta, che si onora di avere come fan il boss, allora latitante, Francesco Schiavone, e mette i suoi complimenti in prima pagina, Calabria Ora di Reggio Calabria che licenzia, mentre è in ferie, un suo cronista minacciato, Lucio Musolino. Dalla relazione emerge l'impunità: quasi mai vengono scoperti gli autori degli atti intimidatori. "Sono pochissimi gli episodi in cui gli autori sono stati identificati, giudicati e condannati". Non ci sono solo le minacce esplicite: "Uno strumento di pressione per evitare inchieste scomode" è l'uso "spregiudicato e intimidatorio" di querele temerarie e di azioni civili per indurre i giornalisti "a comportamenti e scritture più rispettosi". Durante la sua audizione, Milena Gabanelli ha raccontato di aver ricevuto citazioni in giudizio per oltre 250 milioni di euro (137 milioni richiesti da una multinazionale della telefonia). Di quelle cause ne ha persa solo una da 30 mila euro. Un risultato che "fa cogliere bene l'elemento pretestuoso di quelle azioni". Nel documento si denuncia la "violenza più subdola, ma non meno dolente, che si manifesta attraverso le condizioni di estrema precarietà contrattuale ed economica di quasi tutti i giornalisti minacciati". Tanti di loro, ascoltati dalla Commissione, "h an n o ammesso di essere costretti a lavorare per pochi euro ad articolo, spesso senza contratti e con editori raramente disponibili ad andare oltre una solidarietà di penna e di facciata". È il caso, per esempio di Ester Castano, freelance che ha contribuito con i suoi articoli a far sciogliere per mafia il primo comune in Lombardia, Sedriano. Fino alla primavera di quest'anno ha dovuto lavorare in un fast food per mantenersi. "È una lacuna grave, scrive la Commissione, alla quale dovrà essere posto rimedio al più presto, non aver ancora normato contrattualmente la figura dei freelance, che è di fatto l'ossatura dell'intero sistema informativo italiano". Attualmente sono 20 i giornalisti sotto scorta, 11 sono stati i giornalisti uccisi dalle mafie e dal terrorismo dal dopoguerra, 8 solo in Sicilia. E le zone dove è più difficile fare informazione libera sono la Calabria e la Sicilia. Giustizia: Mafia Capitale; Buzzi ai magistrati "finte assunzioni per soddisfare i politici" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 6 agosto 2015 Accordi tra imprenditori e politici per spartirsi gli appalti, assunzioni a raffica per accontentare le richieste di assessori, consiglieri e funzionari. Nel tentativo di accreditarsi come collaboratore e scrollarsi di dosso l'accusa di aver organizzato un'associazione mafiosa per sostenere di essere un imprenditore concusso, Salvatore Buzzi fa ai magistrati decine di nomi di persone che avrebbe cercato di compiacere con soldi e favori. Si mostra loquace, sostiene di conoscere moltissimi dettagli anche inediti delle trattative segrete per dividersi le commesse pubbliche. Ma, almeno nei primi due incontri con i pubblici ministeri, dimostra di essere reticente sia per quanto riguarda i suoi rapporti con l'ex sindaco Gianni Alemanno, sia quando si tratta di raccontare i rapporti con gli esponenti del centrodestra. Come Luca Gramazio, finito in carcere con le stesse pesanti contestazioni di corruzione e associazione, oppure i manager che proprio quell'amministrazione aveva sistemato ai vertici delle municipalizzate. "Dimostreremo che siamo stati costretti a pagare per non far fallire le cooperative", insiste il suo avvocato Alessandro Diddi. "Nieri chiamava". E allora Buzzi riparte dall'elenco delle persone "che ho dovuto far lavorare". Li chiama "i bisognosi". Dice che anche per il Cara di Mineo, il centro di accoglienza per i rifugiati, il sottosegretario Giuseppe Castiglione "c'aveva, un ruolo insomma di mediatore politico, mette insieme nove Comuni, per destinà 400 assunzioni a 9 Comuni, lì sò 400 persone che lavorano". Castiglione è indagato dalla Procura di Catania e adesso è possibile che gli sarà chiesto conto anche di questo. Il primo politico della Capitale di cui parla è l'ex vicesindaco Luigi Nieri "quattro persone, le abbiamo messe nell'ambito dei vari servizi perché erano proprio pressanti, perché un conto se lei me lo segnala io se c'ho posto ce lo infilo, un conto che lei ogni giorno mi chiama per tre, quattro persone... ma non è che tu me devi chiamà ogni giorno per sistemà una persona. Noi ricevevamo tantissime segnalazioni, sfigati, non sfigati, io se c'ho bisogno poi ne prendo quando c'ho bisogno. Se invece lei me chiama e me dice: "Me la devi prendè, allora diventa una cosa diversa". Poi si concentra su Mirco Coratti, uno degli indagati e racconta: "Abbiamo assunto per sei, sette mesi, non mi ricordo per quanto tempo, un consigliere municipale indicato da Coratti che non è nemmeno mai venuto in cooperativa. L'abbiamo pagato per sei, sette mesi, non mi riesco a ricordare il nome". E quando il procuratore aggiunto Michele Prestipino lo incalza: stipendio senza controprestazione lavorativa? Buzzi risponde: "Esatto". Poi si concentra sul presidente del consiglio regionale del Lazio, Daniele Leodori: "Mi chiamò, diciamo che siamo già nella seconda metà del 2014, per assumere una persona...me lo ricordo perché questo tizio venne pure con l'aria strafottente che non c'aveva tempo per venire a lavorare subito, doveva venì a lavorà dopo, doveva pià 6 mila euro al mese se no non veniva a lavorà, al che di fronte ad un atteggiamento del genere non procedemmo all'assunzione". I lotti Ama. Un capitolo che i magistrati vogliono approfondire riguarda gli appalti dell'Ama. "Ci interessa", insiste il pubblico ministero Paolo Ielo e Buzzi sostiene di poterlo accontentare di fatto ammettendo di aver compiuto una turbativa d'asta. "Con la nuova giunta di Marino - dice Buzzi - praticamente Ama cammina da sola. Infatti nella delibera si ridefiniscono i lotti e siccome sono approssimativi i lotti non coincidono più con quelli uscenti. Quando esce la gara Carlo ed Emanuela, li avete incriminati tutti, poverini, cominciano a fare i raffronti per vedere quali erano i lotti nostri e i lotti di Edera e i lotti di Serviplus. Era un guazzabuglio, non se ne veniva più fuori. Che succede? Cancelli (una delle coop in corsa ndr) forte del cambiamento che c'era stato, che l'assessore all'Ambiente del Comune di Roma è Estella Marino, fa parte della componente diciamo vicina a Patanè... la filiera sarebbe Patanè, Atos De Luca e Estella Marino. Stanno tutti con Renzi. Quindi Cancelli ha questo punto di riferimento e pensa "io c'ho Patanè, c'ho l'assessore che è mio, comando io" e allora lui praticamente non vuole arrivare ad un accordo e dice: "io voglio il primo e il secondo lotto", mò non mi ricordo bene. Io sarei andato francamente allo scontro perché me ne sarei fregato, interviene Serviplus e va a chiedere l'intervento dei suoi referenti politici, che in questo caso era la componente di Astorre, che è un deputato del Pd nel consiglio regionale. Consigliere di riferimento è il presidente Leodori. Allora praticamente questi di Serviplus vanno da Leodori e gli dicono: "guarda che ci sta Cancelli che non vuole fare un accordo, non vuole rispettare gli impegni che aveva preso a suo tempo e siamo costretti a fare la gara". Io presumo che Leodori interviene con Patanè, Patanè chiama Cancelli, Cancelli mi chiama al telefono a me: "ci accordiamo". Ielo insiste: Vi mettete d'accordo tra di voi per fare le offerte? Create l'accordo e poi va bene tutto? Buzzi risponde sicuro: "Succede che, a febbraio, la gara viene aggiudicata". La tangente per Atac. Dichiara Buzzi: "Noi come Cns (il Consorzio delle cooperative) avevamo l'appalto di Atac per le pulizie degli automezzi, poi lo perdemmo perché ci fu un'offerta abbastanza strana, veramente strana. Poi dopo noi vinciamo questa gara nel 2012, 2013, 10 milioni di euro di pulizia degli automezzi. Credo sia pulizia degli automezzi, però non ricordo bene. La nostra quota come cooperativa "29 giugno" è il 10 per cento dei 10 milioni, quindi un milione. Pino Cinquanta ci dice che dovevamo conferire questo 1 per cento della commessa a Carlini, che era il consigliere d'amministrazione in quota Pd. Noi abbiamo provveduto ai 10.000 euro nostri per parte nostra direttamente perché io c'avevo una conoscenza diretta con Carlini. Non mi ricordo se glieli abbiamo dati in mano a Carlini o gli abbiamo pagato qualcosa, però abbiamo pagato". Zingaretti attacca: "Fango per colpire il nostro buon governo" La reazione del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti - dopo le dichiarazioni e le accuse di Salvatore Buzzi - non si è fatta attendere. "Non posso più accettare di essere vittima della macchina del fango messa in moto da Buzzi - ha scritto ieri il governatore sul suo profilo Facebook in un lungo post. Non posso più accettare menzogne e bugie che tentano di delegittimarmi pubblicamente. Ne va del mio nome e soprattutto dell'enorme lavoro di pulizia, trasparenza e buon governo che in meno di tre anni siamo riusciti a realizzare alla Regione Lazio. E che forse dà fastidio a molti". Giustizia: Mafia Capitale; nella Coop 29 Giugno "ai raccomandati i lavori più leggeri" di Lorenzo D'Alberigo La Repubblica, 6 agosto 2015 Parlano i dipendenti della società di Buzzi. Gli ex detenuti: "A noi il lavoro per strada, agli sponsorizzati i posti migliori". I cassetti dell'ufficio del personale della cooperativa 29 giugno oggi sono vuoti. Le vecchie carte sono sparite dagli schedari di via Pomona, portate di peso in procura dai carabinieri del Ros. E con loro si è volatilizzata anche la lista di Buzzi, l'elenco degli assunti a chiamata. Accanto a ogni nome, come spiega il ras delle coop al procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia Michele Prestipino e al sostituto Paolo Ielo nell'interrogatorio, ci sarebbe quello del politico collegato. "Dovete chiedere in tribunale, non qui", taglia corto la segretaria della sede di Pietralata. Il nuovo presidente della coop commissariata fa sapere di non avere nulla da dire. Nei mesi scorsi, spiegano in segreteria, i dipendenti della 29 giugno sono stati fin troppo sotto i riflettori: "È meglio lasciarli in pace ora". Adesso che il vecchio capo, Salvatore Buzzi, indagato per associazione a delinquere di stampo mafioso ha deciso di indossare le vesti del grande accusatore e tirare fuori la storia dell'elenco. "Meglio chiamarla lista della vergogna", attacca uno degli ex detenuti che, invece, sembra avere davvero voglia di parlare. Ora siamo fuori dagli uffici, sotto il sole spietato di agosto e di fronte ai murales tratteggiati da un writer notturno: "Guardie infami", "viscidi". "Chissà a chi è riferita la seconda scritta", scherza il dipendente. In tuta arancione, ha appena staccato. "Famo che me chiamo Roberto - dice ridacchiando - e che sto qui dal 2001, da quando sono uscito. La lista? Te la posso scrivere io. Tanto qui ci sono finiti dentro tutti. Quelli come noi, che vengono dal carcere, hanno fatto sempre il lavoro per strada. Gli altri, i raccomandati, si ficcavano dentro. Seduti, belli comodi. Pareva un ufficio collocamento". Un ragionamento che sembra ricalcare quello regalato da Buzzi ai pm nel carcere di Uta, a Cagliari. Sfogliando i verbali, ci si imbatte nella domanda del pm Paolo Ielo: "C'erano giudici che le chiedevano assunzioni?". Buzzi risponde secco: "Come alternativa alla pena detentiva". Poi prende fiato e spiega: "Questa è una cosa giusta. Quindi ce ne avevamo tanti, però c'erano quelli che... lei deve distinguere due categorie, dottore, perché se distingue queste due categorie capisce dove è la cosa brutta e dove non è la cosa brutta. Se lei trova l'assunzione di un detenuto, un portatore di handicap, uno svantaggiato, tutto è lecito, chiunque me le consiglia. Se invece lei trova ragazzi di bella presenza... insomma, lì c'è qualcosa che non va". In via Pomona il ragionamento sembra creare qualche imbarazzo a chi varca il cancello al civico 63 equipaggiato di 24 ore. "La lista? Sì, avevo sentito qualcosa - si lascia scappare un uomo che si presenta come consulente della cooperativa - ma lasciamo perdere". Ma i controlli sono comunque serrati. Un camioncino si ferma davanti al cancello automatico. Suona una, due volte. Deve spegnere il motore e attendere: "Ma mica era così prima di Mafia Capitale - spiega il conducente, anche lui in tuta arancione - prima avevamo accesso libero, ora ci sono regole più rigide. Peccato che negli uffici c'erano tanti di quelli che poi sono finiti in carcere, mica noi che lavoriamo tutto il giorno". Giustizia: Mafia Capitale, più tempo per la relazione di Alfano di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2015 L'intervento sul Campidoglio allo studio del ministero dell'Interno non giungerà al Consiglio dei ministri di oggi, come pure era in programma. Valutazioni di opportunità politica hanno indotto il governo a far slittare la decisione alla ripresa dei lavori dopo la pausa estiva. La questione è particolarmente delicata perché coinvolge tutti i massimi livelli istituzionali. Ma uno schema di massima è stato già definito dal ministro dell'Interno. Il ministro chiederà al prefetto di Roma, Franco Gabrielli, di definire un piano articolato di misure sull'amministrazione comunale. È uno schema calibrato, visto che Gabrielli gode della fiducia del ministro e del premier Matteo Renzi. L'obiettivo, scontato, è risanare i settori del Comune più compromessi e infiltrati con l'organizzazione mafiosa. Così come è emerso, con toni drammatici, dalla commissione d'accesso agli atti guidata dal prefetto Marilisa Magno e, con colori più sfumati, dal documento del prefetto di Roma. Il ruolo ipotizzato del prefetto di Roma è di intervento sulle linee di amministrazione del Campidoglio: devono essere ripristinate tutte le condizioni di legalità, di buona amministrazione, di trasparenza e di efficienza. Se fossero confermate o comunque rimanessero le irregolarità riscontrate dalla commissione di accesso agli atti, guidata dal prefetto Marilisa Magno, sul piano delle norme potrebbero scattare, in teoria, i presupposti per applicare l'articolo 141 del Testo unico enti locali, comma 1, lettera a). Fuori dal gergo giuridico, significa lo scioglimento del Campidoglio per gravi e persistenti violazioni di legge. Un'ipotesi (si veda Il Sole-24 Ore del 13 giugno, ndr) rimasta fin dall'inizio aleggiante sulla vicenda visto che quella più tragica, lo scioglimento per infiltrazione mafiosa, non ha mai avuto prospettive concrete. Al Viminale, tuttavia, occorreva innanzitutto uscire dalla trappola dell'impossibilità, dettata da fin troppi motivi, di sciogliere il Campidoglio per infiltrazione mafiosa, benché le carte parlassero chiaro. Scrive la commissione d'accesso: "I gravi fenomeni di condizionamento della vita politico-istituzionale dell'ente (il Comune, ndr) hanno indebolito i presidi di legalità di Roma". C'è un altro passaggio grave della relazione Magno: quando osserva che "la mancanza di percezione del "contagio mafioso" secondo i commissari "non ha risparmiato neanche l'azione del sindaco Ignazio Marino, che non sempre è riuscito a opporsi al condizionamento del sodalizio". Sotto accusa nel documento prefettizio finisce anche l'audizione del sindaco di Roma davanti alla commissione Antimafia il 17 dicembre scorso: in particolare il passaggio su Daniele Ozzimo, ex assessore poi dimessosi e coinvolto nell'inchiesta della procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone. "Lo stesso sindaco, nel precisare che Ozzimo "è indagato per corruzione, non per reati di associazione mafiosa" ha aggiunto di averlo conosciuto "come una persona che ha agito a difesa della legalità". (...) Il Sindaco pare qui dimenticare, molto probabilmente, che il reato di corruzione (già di per sé incompatibile con lo status di "persona che ha agito a difesa della legalità") per cui è indagato Ozzimo, era stato commesso al fine di favorire Buzzi". E ancora: "Ignazio Marino dimostra di aver commesso l'errore, più volte denunciato come grave dagli organi chiamati alla repressione della criminalità mafiosa, di sottovalutare la corruzione e non identificarla per quello che è: un veicolo del contagio mafioso". Nonostante tutto questo quadro c'è comunque una giustificazione tecnica, e di conseguenza politica, alla scelta di non sciogliere Roma per infiltrazione mafiosa. Perché il Campidoglio è una macchina amministrativa gigantesca: 30 tra macro aree e dipartimenti più 15 municipi. Se dopo un lavoro di sei mesi in 900 pagine sono stati scandagliati e descritti tre dipartimenti del Campidoglio, figuriamoci cosa sarebbe stato necessario, in tempi e risorse, per una ricognizione completa ed esauriente. Considerato, dunque, che i rilievi riguardano uno spaccato limitato del Comune, la "misura dissolutoria", come si dice in gergo, dello scioglimento per infiltrazione mafiosa, fa un passo indietro davanti al diritto costituzionale di elettorato. Con il mantenimento, per ora, degli organi consiliari democraticamente eletti. Giustizia: "delega fiscale", sconti e meno carcere per chi evade le tasse fino a 150mila euro di Liana Milella La Repubblica, 6 agosto 2015 Nuova norma nella delega fiscale del governo. Protesta l'opposizione e l'Anm. Il pm Greco: "Quanti processi saltano?". Un favore agli evasori. "Graziati" dall'inchiesta penale. Con il rischio che la nuova norma più vantaggiosa sulla dichiarazione infedele contenuta nella delega fiscale faccia saltare i processi in corso. Quando succederà il governo non potrà neppure dire "nessuno ce l'aveva detto" visto che il 27 luglio alla Camera l'ha espressamente dichiarato, di fronte a una folta platea, Francesco Greco, procuratore aggiunto a Milano e coordinatore del dipartimento dell'economia: "Sarebbe interessante sapere quanti processi saltano con questa norma, cosa allo stato non verificata". Dopo la tempesta di Natale sulla soglia del 3%, il decreto sulla delega fiscale finisce di nuovo nelle polemiche. Politicamente, nelle commissioni Finanze e Giustizia della Camera e del Senato che hanno appena licenziato i pareri, protestano sia M5S che la sinistra del Pd. Con toni durissimi. "La manina di Natale torna a Ferragosto", dice Alfonso Bonafede, avvocato grillino che ha protestato alla Camera. "Un ulteriore regalino agli evasori" insiste al Senato Lucrezia Ricchiuti, di Rete Dem. Ma contro la nuova dichiarazione infedele, che riscrive il testo del marzo 2000, protestano magistrati come Greco e la stessa Anm. Vediamo subito cosa dice l'articolo 4 della delega fiscale. Innanzitutto fissa nuove soglie che "salvano" dal processo chi evade. Si passa da 50mila a 150mila euro per l'imposta evasa. Mentre l'ammontare complessivo "degli elementi attivi sottratti all'imposizione" passa a sua volta da due a tre milioni di euro. Ma è il terzo comma quello che solleva le maggiori polemiche. Laddove è scritto che "non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati indicati nel bilancio o in altra documentazione rilevante ai fini fiscali". Ricompare anche qui, proprio com'è avvenuto per il falso in bilancio, l'esclusione della punibilità quando in ballo ci sono delle "valutazioni", ossia il valore attribuito a un bene di cui si è proprietari. Ma non basta. Eccoci all'ultimo comma, quello delle soglie: "In ogni caso, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate differiscono in misura inferiore al 10% da quella corrente". Doppio vantaggio per chi evade, un tetto economico più alto e una soglia del 10% sulle valutazioni in difetto. Francesco Greco, considerato in Italia uno dei magistrati più esperti sui reati economici, nella sala del Mappamondo di Montecitorio, ha dichiarato: "Non ho capito se le valutazioni continuano a far parte della norma incriminatrice o meno. Se una norma crea un problema, se ci si chiede se ci sono o non ci sono le valutazioni, allora dev'essere chiarita meglio. Il problema delle valutazioni non è marginale, perché gran parte delle denunce per dichiarazione infedele fanno soprattutto riferimento alle valutazioni. Dall'80 al 50% in Lombardia i processi nascono proprio da questo articolo, per cui cambiarlo con un'incertezza di questo tipo non è accettabile". Poi la considerazione più preoccupante sui processi in corso: "Sarebbe interessante sapere quanti ne saltano con questa norma". Greco l'ha detto una settimana fa. Nello stesso seminario, un'altra considerazione pesante l'ha pronunciata il presidente dell'Anm Rodolfo Maria Sabelli: "Nel caso della dichiarazione infedele è stata aumentata la soglia di punibilità, che passa, quanto all'ammontare dell'imposta evasa, da 50mila a ben 150mila euro, ma non è stata aumentata anche la pena. Sono state depenalizzate le evasioni di fascia più bassa, ma al reato più grave non corrisponde una sanzione più grave. Le evasioni depenalizzate restano affidate alla sola sanzione tributaria, che può essere aggirata con l'artificio di trasferire l'amministrazione a un prestanome e spogliare la società dei suoi beni". A questo punto, tra Camera e Senato, sono stati M5S e sinistra Pd a contestare le scelte del governo. Voto contrario dai grillini. Dice Alfonso Bonafede: "Torna la manina di Natale. Dopo aver svuotato il reato di falso in bilancio, ora si stabilisce che non è punibile il cittadino disonesto che fa valutazioni "sbagliate" se l'errore è inferiore al 10%. Tale errore potrà comportare una sottrazione erariale pari a circa il 3% dell'imponibile, in alcuni casi si può paria-redi milioni di euro". Altrettanto polemica, al Senato, Lucrezia Ricchiuti che parla di "una nuova franchigia scandalosa" e fa un esempio: "Se nascondo al fisco non una casa, ma il suo vero valore, la faccio franca sul piano penale se questa valutazione non si scosta da quella corretta di più del 10%". Battaglie inutili perché ormai la delega fiscale è in dirittura di arrivo. Giustizia: il ministero ci ripensa, la sicurezza nei tribunali resta affidata ai Comuni di Giovanni Maria Jacobazzi Il Garantista, 6 agosto 2015 "Dal prossimo primo settembre, le spese necessarie per il funzionamento degli uffici giudiziari, attualmente in carico ai Comuni, saranno trasferite al ministero della Giustizia". Così, il 16 aprile scorso, il ministro della Giustizia Andrea Orlando dichiarò solennemente nel corso di un'informativa al Senato, all'indomani della strage avvenuta all'interno del Tribunale di Milano. Ricordando che tale misura era contenuta nella legge di stabilità approvata il 23 dicembre 2014, Orlando si spinse anche oltre: "La prospettiva dell'attribuzione al ministero della Giustizia della competenza diretta sulle spese di funzionamento di tutti gli uffici giudiziari costituisce una sfida di eccezionale difficoltà, ma che può consentire, se vinta, di orientare il modello di sicurezza del futuro secondo canoni di trasparenza, efficienza, partecipazione, condivisione, uniformità, ragionevolezza". Bene, oggi possiamo dire che la sfida non è stata vinta perché il governo, a parte le frasi di circostanza, ha deciso di non scendere nemmeno in campo per giocare la partita. La Camera, l'altro giorno, ha approvato all'interno del ddl di conversione del decreto sulle "misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile" l'articolo 21quinquies che sconfessa il ministro Orlando e risolve "all'italiana" il problema. Cosa dice l'articolo in questione? Essenzialmente che in relazione al previsto passaggio dai Comuni allo Stato delle attività di manutenzione degli uffici giudiziari, gli uffici giudiziari, fino alla fine di quest'anno, possono continuare ad avvalersi del personale comunale, sulla base di specifici accordi da concludere con le amministrazioni locali, per le attività di custodia, telefonia, riparazione e manutenzione ordinaria. Sarà una convenzione quadro previamente stipulata tra il ministero e l'Anci a delineare i contorni della collaborazione. Poi, con il 2016, si vedrà. Della serie, abbiamo scherzato. Che il ministero della Giustizia potesse farsi carico della gestione e della manutenzione degli uffici giudiziari era subito apparso improbabile. I dirigenti degli uffici giudiziari d'Italia erano terrorizzati davanti ad una simile prospettiva. La burocrazia romana terrorizza anche i più scaltri e smaliziati procuratori. È più facile gestire processi di mafia con centinaia di imputati che avere a che fare con i burocrati di via Arenula per cambiare una lampadina bruciata. A Milano, addirittura, i vertici della locale sezione della Anm si erano apertamente esposti per difendere lo status quo: "La perdita della struttura del Comune - scriveva in un comunicato l'Anm milanese - comporterebbe, almeno nell'immediato, conseguenze imprevedibili, risultando impossibile creare ex novo una analoga struttura all'interno degli uffici giudiziari, composta di personale idoneo ad assolvere tali compiti (sicuramente estranei alla normale attività del personale giudiziario), con uno sforzo peraltro di selezione e contrattazione che, nell'attuale situazione di gravissima scopertura del personale, verrebbe a sottrarre altre risorse a quelle, già critiche, della giustizia milanese". L'Anm forniva anche la soluzione: "Realizzare una convenzione con il Comune di Milano, il quale continuerebbe a tenere a disposizione la struttura tecnica, consentendo agli uffici giudiziari di continuare a fruire di professionalità imprescindibili per la salvaguardia della sede giudiziaria milanese". E così è stato. Per tutta Italia. Giustizia: nuova legge sui fallimenti, la mossa giusta in attesa di una riforma organica di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2015 Dal diritto fallimentare alle misure sull'amministrazione giudiziaria, passando per il processo telematico e gli incentivi a negoziazioni e arbitrati. E, per non farsi mancare nulla, una norma salva Ilva che ha concentrato le più forti polemiche tra maggioranza e opposizione. Nel testo del decreto legge convertito ieri in legge dal Senato si trova un po' di tutto e non è facile individuare un filo conduttore, anche perché l'impressione, se non la certezza, è che a norme dettate sicuramente dall'urgenza, è il caso dell'Ilva, al di là del giudizio di merito, se ne affiancano altre più spiazzanti, anche se non meno attese. È il caso, per esempio, di tutto il nutrito pacchetto di riscrittura della legge fallimentare. Dove a sorprendere è più il metodo che il contenuto. Il Governo ha, infatti, deciso di intervenire in maniera incisiva, su alcuni fronti anche in maniera assai significativa, a correggere, tra l'altro, alcune distorsioni evidenti nell'utilizzo del concordato preventivo; scelta giustificata, ma forse un po' prematura, quando si è alla vigilia dell'approvazione da parte della commissione istituita dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, dei principi di delega cui ispirare una riforma dell'intera legge fallimentare. Insomma, l'intervento ha individuato nel concordato il "ventre molle" del nostro sistema fallimentare e ha corretto la rotta con due misure strutturali: da una parte l'introduzione, meglio la reintroduzione, di una percentuale minima di soddisfazione (il 20%) per i creditori più deboli (i chirografari) che dovrà essere prevista da futuri piani di concordato liquidatorio e, dall'altra, la soppressione del principio del silenzio assenso. Due norme già ora contestate da chi sottolinea che in questo modo cresceranno i fallimenti e i creditori non avranno nulla da guadagnare. Al ministero della Giustizia, però, si fa notare che in questo modo si eviteranno concordati che costano da sei a otto volte più di un fallimento, visto che intervengono quattro o cinque professionisti, a fronte dell'unico curatore fallimentare, e rendono molto di meno, vista la difficoltà di svolgere azioni dirette al recupero di beni ceduti in frode ai creditori. Con la cancellazione del silenzio assenso, il concordato potrà poi essere approvato solo se otterrà la maggioranza dei voti favorevoli, facendo venire meno quell'asimmetria informativa che ha sinora favorito soprattutto i creditori forti. Il combinato disposto di queste due norme dovrebbe contribuire in maniera determinante a restituire serietà a uno strumento fondamentale, ma utilizzato da tempo in maniera discutibile, se non spregiudicata, da quei soggetti che ne hanno fatto una leva anche di concorrenza sleale. Altre misure vanno nella direzione di tamponare difficoltà contingenti del sistema giustizia. È il caso della norma che limita l'emergenza, più volte messa in evidenza dal Csm, provocata dalla necessità di sostituire i vertici degli uffici giudiziari sopra i 70 anni di età. Oppure di quelle sul processo telematico che riscrivono alcuni dei problemi emersi in questo primo anno di applicazione su larga scala del giudizio digitale. O, ancora, del potenziamento degli organici della magistratura per fronteggiare l'emergenza immigrazione. Problemi reali certo, rispetto ai quali sarebbe adesso ingeneroso, nel segno di un malinteso "benaltrismo", sottolineare che servirebbero misure più incisive, calate in un disegno complessivo e in un quadro di investimenti più corposo. Per il disegno complessivo sarà, però, solo questione di tempo. Una svolta più incisiva si avrà, se alla ripresa dei lavori parlamentari le due riforme "di struttura" sulle quali scommette il ministero della Giustizia, le riforme dei due Codici di procedura, saranno chiamate a passi parlamentari decisivi. In caso contrario, queste iniziative saranno consegnate, triste ricorrenza delle ultime legislature, al limbo delle occasioni perdute. Giustizia: sì a decreto sui crisi d'impresa, il concordato paga i creditori almeno per il 20% di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2015 Si è chiuso in meno di due settimane l'iter parlamentare di conversione del decreto legge 83 del 27 giugno scorso, intervento-miscellanea dell'esecutivo sui problemi più acuti del pianeta giustizia e dintorni, dai fallimenti al recupero crediti. dalle perdite delle banche alla continuità dell'Ilva fino all'organizzazione dei tribunali, dei processi e dei magistrati. L'aula del Senato, vincolata dalla fiducia chiesta martedì dal ministro Boschi, ha liquidato in poche ore di dibattito - blindato - e in una votazione ad ampio scarto (149 sì, 104 no) la pratica di conversione. Ora per l'entrata in vigore delle norme - alcune di reale impatto economico - si deve solo attendere la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Nonostante la portata omnibus del provvedimento - che per questo aveva sollevato perplessità di ordine costituzionale in aula, respinte - il decreto nasce attorno al lifting dei fallimenti e delle procedure concorsuali. Con un punto di partenza chiaro: la liberalizzazione/privatizzazione del decennio scorso ha prodotto prevalentemente sprechi (costi ridondanti delle procedure), abusi del concordato (quasi sempre avvantaggiando imprenditori spregiudicati e irridendo creditori onesti), impotenza dei tribunali, ridotti a spettatori di frequenti scorrerie e di attestatori talvolta poco seri. La retromarcia è quindi iniziata sul concordato, che diventa una fase aperta a più proposte alternative, e sulla finanza di crisi, cioè la possibilità per le aziende salvabili di ricorrere più facilmente al credito bancario. Quanto alla tutela dei creditori, è stato corretto il concordato preventivo per evitare - cosa purtroppo frequente nella prassi - che i chirografari (cioè i "non privilegiati") escano a mani vuote dalle ristrutturazioni altrui: dall'entrata in vigore della legge - attesa tra una decina di giorni - la proposta di concordato, se non è di continuità aziendale, dovrà soddisfare almeno il 20% dell'ammontare chirografario. Tutta la documentazione concordataria, inoltre, dovrà finire periodicamente sulla scrivania del pubblico ministero per scoraggiare condotte fraudolente a danno dei creditori. Rafforzata esce anche la tutela sui beni che, spesso, prendono il volo durante la liquidazione dell'attivo, avendo la legge allungato l'azione revocatoria fino a 2 anni indietro anche sulle cessioni a titolo gratuito. L'intervento tocca pure i curatori fallimentari, con una stretta sulle incompatibilità (a partire dalla più banale: chi ha concorso nel dissesto, non può amministrarlo) e con una pubblicità dei ruoli e delle esperienze fatte (verrà istituito un albo nazionale ad aggiornamento continuo) anche per limitare i "massimalisti" della funzione. Non secondari, dal punto di vista procedurale, la corsia preferenziale istituita per i processi in cui è parte un fallimento o un concordato, ma anche i tempi certi per la liquidazione dell'attivo (massimo due anni per chiudere tutto) e l'obbligo, per il curatore, di appoggiarsi a società specializzate nella vendita dei beni della procedura. Basterà questo per dare efficienza al reparto di cura delle patologie d'impresa? Secondo gli esperti no, perché molto resta da fare sulla prevenzione (per esempio in tema di "alert") ma non bisogna dimenticare che alle porte ci sarebbe l'intera revisione della legge fallimentare - che, ricordiamolo, è del 1942. Per il ministro Orlando l'intervento di oggi "partiva dall'esigenza di dare più velocità e trasparenza al procedimento fallimentare. Abbiamo poi rafforzato l'efficienza del sistema giustizia, con il rafforzamento e la riqualificazione del numero del personale amministrativo", senza dimenticare "la negoziazione assistita, oltre agli interventi che danno una prospettiva ai tanti tirocinanti". Secondo il sottosegretario Cosimo Ferri "in maniera incisiva e tempestiva sono stati approntati una serie di interventi che hanno come denominatore comune quello di favorire le aziende in situazione di momentanea difficoltà, offrendo un sostegno concreto al sistema produttivo e all'occupazione". Per le discoteche niente "tenuità" con più violazioni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2015 Nessuna possibilità per i gestori delle discoteche di evitare la condanna grazie alla particolare tenuità del fatto se per più di una volta risultano non in regola con le norme sulla sicurezza. La Corte di cassazione, con la sentenza 34208 depositata ieri, abbraccia la linea della tolleranza zero nei confronti dei gestori che consentono l'ingresso nei loro locali da ballo a un numero eccessivo di persone e non adottano le precauzioni per prevenire o fronteggiare gli incendi e il conseguente panico. Nel caso esaminato, al titolare della discoteca era stata contestata la violazione delle norme sulla sicurezza in occasione di due sopralluoghi avvenuti a circa due mesi e mezzo di distanza. Varia la gamma delle "irregolarità" riscontrate: il locale ospitava un numero eccessivo di persone, il cammino verso le uscite di sicurezza era ostruito da oggetti ingombranti e gli estintori non erano adeguati. Le contestazioni finali riguardavano la violazione dell'articolo 681 del Codice penale, che bolla come abusiva l'apertura dei locali non in linea con le prescrizioni sulla pubblica incolumità, e dell'articolo 46 del decreto legislativo 81/2008 in tema di prevenzioni degli incendi. Il gestore ha fatto inutilmente ricorso in Cassazione contro la condanna a sei giorni di arresto e 70 euro di multa per aver aperto le porte del locale a un numero di persone troppo elevato, uniti a nove giorni di arresto e 105 euro di multa per non aver garantito la fruibilità delle porte di emergenza. Va male anche sul fronte del riconoscimento della speciale tenuità del fatto. L'applicazione dell'articolo 131-bis del Codice penale che consente di cancellare la condanna penale, viene negata per due ragioni: la non offensività della condotta e il reato continuato. Relativamente al numero di accessi "l'imputato non risulta condannato alla pena minima edittale, il che significa che l'apprezzamento delle caratteristiche specifiche della vicenda ha giustificato la punizione a tale soglia superiore". Mentre la contestazione sulle uscite di emergenza intasate era stata era stata mossa in entrambi i sopralluoghi, portando i giudici ad affermare l'esistenza di una condotta antigiuridica "plurima e reiterata nel tempo". Una circostanza espressamente prevista come ostacolo per accedere al "beneficio" previsto dall'articolo 131-bis del Codice penale. Due soli controlli nei quali era stata riscontrata l'irregolarità erano bastati a far scattare il reato. L'azienda paga per le molestie sessuali del manager di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2015 Tribunale di Milano - Sezione lavoro - Sentenza 3 marzo 2015 n. 455. Il comportamento discriminatorio o molesto di un dipendente ai danni di un altro lavoratore dell'azienda, qualora sia riferibile "sia pure marginalmente o indirettamente" alle mansioni attribuitegli, comporta la responsabilità del datore. Applicando questo principio il Tribunale di Milano, sentenza 3 marzo 2015 n. 455, ha condannato una Spa a risarcire 5mila euro a titolo di "danno non patrimoniale" per le pesanti avances subite da una addetta alle pulizie (con contratto a tempo determinato) da parte di un manager della società. Il caso - Come ricostruito per testi, infatti, la donna era stato oggetto di atteggiamenti "discutibili ed equivoci" da parte di un responsabile di settore che le dava "baci sul collo, le toccava i fianchi, la chiamava amò, patata, tesò", ed almeno in una occasione, mentre si era chinata per consultare i turni su di un tabellone, le si era appoggiato da tergo spingendola verso il muro. Le norme - Dunque, per il giudice, "correttamente" la ricorrente ha richiamato le previsioni dell'articolo 26 Dlgs 198/2006 secondo cui "sono considerate come discriminazioni le molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo". Resta poi fermo l'obbligo, prosegue il tribunale, in capo al datore di lavoro, "di tutelare l'integrità psicofisica del dipendente secondo la clausola generale cui all'articolo 2087 c.c. e in ogni caso secondo le previsioni dell'articolo 2049 c.c.". La motivazione - Non ha pregio, dunque, la difesa dell'azienda secondo cui la condotta del proprio manager non poteva esserle imputata, "in quanto questi si sarebbe posto in una condizione del tutto estranea a quella lavorativa, venendo così meno il nesso di occasionalità necessaria tra detta condotta e la responsabilità del datore di lavoro, che non potrebbe essere ravvisata per il sol fatto che tale condotta sia stata posta in essere nell'ambiente lavorativo". Una tesi che non convince il tribunale, perché, come chiarito dalla Cassazione (n. 27706/2012), il datore va esente da responsabilità unicamente quando "la condotta sia frutto di un'iniziativa estemporanea e personale del tutto incoerente rispetto alle mansioni svolte (oltre che affidate)". Al contrario, nel caso specifico, le condotte moleste erano state poste in essere "senza dubbio giovandosi (o meglio, abusando) del ruolo di superiore gerarchico". Anzi, ad avviso del giudicante, "è evidente che proprio il ruolo ricoperto dal manager gli consentiva di reiterare nel tempo le condotte sopra accertate, giovandosi del fatto che l'autorità ad esso connessa consentisse di perpetrare nell'illecito nella convinzione che il sottoposto rimanesse passivamente vittima delle angherie senza nulla obiettare". Né può sostenersi che la ricorrente non abbia messo in pratica i modelli difensivi previsti dal regolamento aziendale immediatamente denunciando i comportamenti discriminatori, trattandosi di "scelte personali" non sindacabili. Così come nulla conta il fatto che sia passato un anno tra la cessazione del rapporto e l'inizio dell'azione legale. In definitiva, conclude la sentenza, l'azienda non ha tutelato la propria dipendente esponendola ad un "grave disagio" ed "imbarazzo" che va risarcito secondo il criterio ritenuto "equo" del pagamento di una ulteriore mensilità per ogni mese di vessazione subita, per un totale dunque di 5mila euro. Avvocati: il reddito dichiarato non incide sui presupposti per andare in pensione di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione lavoro - Sentenza 5 agosto 2015 n. 16469. L'avvocato va in pensione in base ai contributi versati senza che sia di impedimento il reddito professionale dichiarato ai fini Irpef. A fissare il significativo principio la Cassazione con la sentenza n. 16469/2015. Alla base della vicenda un avvocato che era entrato in contenzioso con la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense per fare valere l'iscrizione per gli anni 1997, 1999 e 2000. I due gradi di giudizio - La vicenda era finita prima presso il Tribunale di Benevento per poi essere decisa dalla Corte d'appello di Napoli. E i giudici partenopei hanno ritenuto che l'articolo 2 della legge n. 319/1975 che prevede che il Comitato dei delegati della Cassa determini i criteri per accertare quali siano gli iscritti che esercitino la libera professione con carattere di continuità ai fini dell'iscrizione alla Cassa stessa non prevede nessun criterio assoluto e una presunzione iuris et de iure, potendo l'interessato provare lo svolgimento continuativo dell'attività professionale. Nel caso in esame l'avvocato aveva assolto l'onere probatorio dimostrando come in quei tre anni avesse operato esibendo attestati delle cancellerie del tribunale di Benevento e del giudice di pace di Solopaca. Contro questa sentenza ha proposto appello la Cassa eccependo come ai fini dell'iscrizione sia necessario l'esercizio effettivo della professione secondo i criteri determinati dal Comitato dei delegati e in particolare considerando il reddito dichiarato, anche in considerazione della circostanza per cui il trattamento pensionistico erogato dalla cassa è commisurato, oltre ai contributi versati, anche dal reddito professionale dichiarato ai fini Irpef. Secca la bocciatura della tesi da parte della Cassazione. Secondo la Corte, infatti, i soli elementi costitutivi della continuità prevista dall'articolo 2 della legge 319/1975 sono il dato storico dell'iscrizione alla cassa e il concreto e protratto esercizio dell'attività professionale, mentre le deliberazioni del Comitato dei delegati forniscono attraverso il riferimento al reddito solo i criteri di determinazione dei contributi previdenziali. Quindi ciò che è prescritto è l'autenticità della situazione sottesa all'iscrizione e non la percezione di un reddito professionale minimo ai fini dell'Irpef o l'esistenza di un minimo volume d'affari ai fini dell'Iva (sul punto si veda anche la sentenza della Cassazione n. 3211/02). Le garanzie costituzionali - Gli Ermellini hanno poi precisato che la garanzia costituzionale (articoli 3 e 38 della Costituzione) si estende al legittimo affidamento che il lavoratore sia esso subordinato o autonomo ripone in ordine alla tutela previdenziale che gli compete e che rimarrebbe completamente frustrato "ove un avvocato iscritto alla Cassa e adempiente all'obbligo contributivo, possa trovarsi privo di pensione solo perché risulti ex post che in passato non erano stati integrati i presupposti specifici, reddituali o assimilati, dettati dalla normativa interna della Cassa". Emilia Romagna: caldo torrido, cresce l'allarme nelle carceri telestense.it, 6 agosto 2015 C'è anche Ferrara fra le città destinate ai picchi di caldo torrido, intanto cresce l'allarme per la situazione dei detenuti nelle carceri sovraffollate del Paese. Ci saranno ancora alcuni giorni di temperature torride, poi di nuovo arriveranno i temporali, che nel week end dovrebbero mitigare l'afa e il caldo al nord, si spera senza creare disastri di natura temporalesca. Ma mentre continuano gli appelli ai cittadini di tutte le età a ripararsi dal sole delle ore più calde, a bere, a proteggersi dai colpi di calore, si fa sempre più difficile la situazione nelle carceri, sovraffollate e prive nella maggior parte dei casi di sistemi di raffreddamento. L'afa di questo periodo - dichiara il garante per i diritti dei caldo1detenuti del Comune di Prato - rende ancora più difficile e problematica la situazione la vita all'interno delle celle, quindi ringrazia due imprese private che hanno messo a disposizione dei detenuti del carcere di Prato due congelatori industriali ciascuna, a titolo di comodato gratuito, per evitare il deterioramento dei cibi ed alleviare le conseguenze delle pesanti condizioni climatiche. Il caldo torrido di questi mesi estivi sta creando non pochi problemi, aggiunge Giulio Starnini, segretario Generale della Società Italiana di Medicina Penitenziaria, in molti casi, precisa il medico, i ventilatori meccanici non possono essere utilizzati e l'aria condizionata non è presente in molti dei penitenziari, rendendo la vita al loro interno molto difficilè. In questi giorni, proprio per contrastare questa emergenza, una circolare del ministero della Giustizia ha dato il via libera ad una distribuzione maggiore di acqua e consentito ai detenuti di fare più docce. Il sovraffollamento carcerario e le condizioni igienico-sanitarie precarie rendono la situazione insostenibile e la discussione su amnistia e indulto in corso in Commissione Giustizia al Senato tiene conto anche della gravità della situazione attuale. Continua la conta dei suicidi in carcere, il numero degli agenti penitenziari è sottorganico, sono i dati più vistosi del nono rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione "Senza Dignità" stilato dall'associazione Antigone: l'Italia è il Paese con le carceri più sovraffollate dell'Unione europea. Ci sono 140 detenuti ogni cento posti, mentre il tasso d'affollamento medio in Europa è del 99,6 per cento. In totale i detenuti negli istituti italiani sono 66.685. Ben 1.894 in più rispetto al gennaio 2010, quando fu decretato lo stato d'emergenza per il sovraffollamento carcerario". Firenze: allarme caldo, il Cappellano di Sollicciano ha segnalato malori tra i detenuti Ansa, 6 agosto 2015 Allarme caldo nelle carceri toscane: è quanto denuncia l'associazione radicale Andrea Tamburi di Firenze, che oggi ha tenuto una conferenza stampa insieme a don Vincenzo Russo, cappellano del carcere di Sollicciano, il quale ha segnalato come i detenuti vengano spesso colpiti da malore a causa del clima torrido di questi giorni e delle temperature elevate che si raggiungono sia all'interno delle strutture, sia negli spazi deputati all'ora d'aria, che si svolge comunque nella parte più calda della giornata. "In Toscana purtroppo l'emergenza è ordinaria", ha affermato Massimo Lensi, presidente dell'associazione, che ha chiesto l'istituzione di presidi sanitari all'interno degli istituti. Al 31 luglio il totale dei detenuti rientra nel limite regolamentare di capienza (3.223 su 3.432), con però situazioni di sovraffollamento in un terzo delle strutture, e soprattutto a Sollicciano, dove i detenuti sono 683 a fronte di un limite di 494. Modena: il Magistrato di Sorveglianza è incinta, detenuti senza giudice ancora per 1 anno di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 6 agosto 2015 Da un anno e mezzo l'ufficio del giudice che regola permessi, licenze e liberazioni resta "vacante": il Csm nomina un magistrato, ma resterà in maternità fino all'estate 2016. Intanto continua la rotazione di giudici impegnati in altre attività. La Camera penale di Modena: situazione che sta creando disagi gravissimi in carcere a Sant'Anna. Pd, Sel e Per Me Modena organizzano visita. Resta gravissima la situazione dell'Ufficio per il Magistrato di sorveglianza di Modena. A un anno e mezzo dal vuoto della poltrona - coperto in rotazione da giudici che svolgono questo impegno dopo l'attività ordinaria - ora arriva una notizia paradossale: il magistrato appena nominato dal Csm, una donna, è già entrata in congedo maternità. Prenderà servizio solo dal giugno 2016. Quindi per un altro anno l'Ufficio, anche se non vacante, resterà vuoto. Questa situazione ha gravi conseguenze sui detenuti e coloro che devono per i motivi più vari rivolgersi a quell'unico giudice per ottenere un documento che permetta di svolgere una vita regolare: permessi, provvedimenti provvisori, liberazioni anticipate e programmi di trattamento dipendono tutti da quella firma. Ma dal maggio 2014, quando è andato via l'ultimo giudice designato, Roberto Mazza, l'ufficio è rimasto vuoto. Dopo il giudice Mazza è stato nominato il giudice Sebastiano Bongiorno che, dopo una fugace comparsa nell'ufficio di via San Pietro, è andato in ferie e subito dopo in pensione. Il seguito è stato in susseguirsi di magistrati che a rotazione hanno cercato di supplire alla grave carenza di una nomina ufficiale. Li coordina l'Ufficio di Sorveglianza di Bologna, ma anche questo ufficio soffre di carenze di magistrati. Per cui è capitato che un giudice modenese per molti mesi ha dovuto seguire tutte le pratiche accumulate della Sorveglianza a Modena e Reggio dopo la giornata ordinaria nell'aula del tribunale. Questa situazione di confusione e lacune ha ripercussioni gravi sui detenuti in carcere: a Sant'Anna siamo al minimo storico con 310 detenuti ma di questi ben 200 (due su tre) sono stranieri. A questi si aggiungono anche persone che hanno disturbi mentali, come il 57enne gravissimo in ospedale dopo aver tentato il suicidio. Fatti denunciati dal sindacato Sappe. E che ora stigmatizza anche l'avvocato Enrico Fontana per la Camera penale di Modena: "Non possiamo non denunciare con estrema durezza quanto accaduto quando il "detenuto n. 1" (i detenuti sono numeri ascritti a fredde statistiche) ha tentato il suicidio versando in fin di vita. Recluso in espiazione pena a Sant'Anna, il "detenuto n. 1" era attinto da evidenti problemi di salute mentale. Immediatamente dopo l'ingresso in carcere ha richiesto di poter usufruire della detenzione domiciliare per pene brevi, l'iter decisionale del quale dovrebbe essere di poche settimane. A quell'istanza, la risposta non è mai giunta in tempo per l'assenza per il secondo anno consecutivo di un magistrato di sorveglianza titolare. Di qui la disperazione". "Dopo i preoccupanti episodi degli ultimi giorni, opportuno comprendere quale sia la situazione del carcere modenese, anche attraverso una visita all'interno della struttura2, ha detto la vicecapogruppo Pd a Modena, Grazia Baracchi, prima firmataria dell'ordine del giorno sul carcere Sant'Anna depositato dal Gruppo Pd insieme ai consiglieri di Sel e Per Me Modena. Modena: la denuncia di Rita Bernardini e la lite con il Csm spinge Legnini a intervenire di Errico Novi Il Garantista, 6 agosto 2015 Un attacco durissimo, con cui Rita Bernardini quasi sperava di essere citata in giudizio dal Csm. E invece la nota della segretaria di Radicali italiani ha finito per aprire un caso che il vicepresidente del Consiglio Giovanni Legnini si è impegnato a risolvere. Tutto nasce per l'incredibile vicenda del Tribunale di Sorveglianza di Modena dove, come denunciava un comunicato diffuso da Bernardini ieri mattina, "quest'anno il Csm si è prodotto in un altro capolavoro: ha nominato un magistrato donna che si è messa subito in maternità e prenderà servizio a metà del 2016". Già l'anno scorso, attacca la leader radicale, "avevo denunciato il fatto che al Tribunale di Sorveglianza di Modena avessero nominato in un posto vacante da tempo mi tale che se ne era andato subito dopo in ferie e, dopo le ferie, in pensione". E questo, ricorda ancora Bernardini, "ha come conseguenza l'inosservanza per anni dei diritti dei detenuti che non ottengono risposte alle loro legittime istanze". Si tratta, a giudizio della segretaria di Radicali italiani, di disattenzioni così gravi da fa ritenere che "al Consiglio Superiore della Magistratura si comportino come "delinquenti abituali": attendo denuncia da parte dei vertici del Csm perché vorrei dimostrare in mia sede propria - un'aula di Tribunale - che questi comportamenti "buffoneschi" hanno come esito la violazione di diritti umani fondamentali". Invece della denuncia arriva nel pomeriggio ima telefonata, certo preoccupata, del vicepresidente Legnini. Che chiede più approfondite spiegazioni a Bernardini del perché di una presa di posizione così dura. E le assicura che, anziché alla lite personale, si dedicherà a risolvere l'emergenza nell'ufficio modenese e a cambiare verso a ima situazione effettivamente fuori controllo. Modena: carcere lontano da capienza massima, più della metà dei detenuti sono stranieri di Francesco Folloni modenatoday.it, 6 agosto 2015 Dei 373 posti disponibili i detenuti sono solo 330, un dato in controtendenza rispetto alle altre strutture di reclusione italiane. A colpire è l'elevata percentuale di stranieri che rappresentano più della metà delle unità presenti. La Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, ha incontrato la direttrice della casa circondariale di Modena, Rosa Alba Casella, ed effettuato colloqui con i detenuti del carcere emiliano. Ha potuto constatare il drastico abbattimento dei numeri relativi alle presenze. Infatti, si è davanti ai minimi storici con 330 persone detenute, di cui 19 donne, sulle 373 unità potenzialmente ospitabili. Dei 330 carcerati, ben 198 sono stranieri. Le sezioni risultano tutte "aperte", anche nella vecchia struttura, con i detenuti che passano più di otto ore al giorno fuori dalla cella. "La misura riguarda anche gli autori di reati sessuali - sottolinea l'Ufficio del Garante nel resoconto del sopralluogo- ora tutti collocati esclusivamente nello stesso ambiente. In termini di presenze, di essi si registra l'ormai stabile e forte caratterizzazione, mancando però puntuali progetti terapeutici in loro favore volti a prevenire il rischio di recidiva". Non mancano però le critiche, in particolare "la criticità relativa alla attuale mancanza del magistrato di sorveglianza - continua la Garante - che ha la titolarità della competenza territoriale sulla struttura, il cui ruolo viene temporaneamente affidato, in funzione di supplenza, ad altri magistrati di sorveglianza". Come noto, nelle settimane scorse si sono verificati tentativi suicidari da parte di detenuti, nonché plurime aggressioni da parte di detenuti in danno del personale della Polizia penitenziaria. Non bisogna, però, prendere questi casi come esplicatori generali delle condizioni del carcere, secondo il Garante si infatti davanti ad : "un'opportuna contestualizzazione degli episodi critici fa ritenere che non siano collegati alla piena operatività del regime cosiddetto aperto". Infatti, è bene sottolineare che tali episodi critici, secondo quanto riferito dalla direttrice, non si sono verificati nella sezione Ulisse, in cui la sperimentazione in essere consente a circa 50 detenuti di trascorrere dalle 8.30 alle 17.30 in ambienti comuni organizzati per la socializzazione, del tutto separati da quelli in cui ci sono le camere di pernottamento". La stessa Direzione si sta impegnando da tempo "nel senso di valutare opportunità che possano prevedere il coinvolgimento di imprese del territorio per portare lavorazioni all'interno del carcere senza avere, al momento, ancora ricevuto risposte concrete per la progettazione di attività volte al reinserimento dei detenuti". Asti: Osapp; Casa di Reclusione ospita mafiosi, organico ridotto e pericolo di infiltrazioni di Selma Chiosso La Stampa, 6 agosto 2015 È un carcere "polveriera", che ha cambiato pelle passando da Circondariale con detenuti in attesa di giudizio o con condanne inferiori ai 5 anni a Casa di reclusione con carcerati ad alta sicurezza, in prevalenza mafiosi, che devono scontare pene "massicce", 20, 30 anni, ergastoli. I detenuti sono 230. Il pericolo per chi lavora in carcere ma anche per la città è la nuova popolazione carceraria affidata ad un organico ridotto al lumicino e impreparato a questo impatto .Se ne è parlato in Regione. Interpellanza parlamento. Il primo passo adesso è una interrogazione parlamentare preparata da Domenico Favale, segretario provinciale Osapp (sindacato di polizia penitenziaria). La paura inizia dai numeri. Spiega Favale: "Sulla carta dovremo avere 3 commissari: una è in maternità; l'altra è distaccata al Sud; quella presente è in missione temporaneamente ad Asti. Gli ispettori dovrebbero essere 24, sono 4 ma solo sulla carta, perché 2 sono in ospedale militare in attesa di congedo quindi in servizio ne rimangono 2. I sovrintendenti sono 9 anziché 21. Gli agenti 140 anziché 180. Al problema di organico si aggiunge quello molto più grave del fatto che gli agenti sono giovani, molti di loro hanno solo 4 anni di servizio e sono impreparati a trattare con "gli alta sicurezza". Qui è stato cambiato il nome, sono stati trasferiti i detenuti, ma nessuno si è preoccupato di istruire il personale. Un conto è trattare con il piccolo spacciatore, un altro con un capo mafioso. Le istituzioni, le nostre per prime, devono rendersi conto della pericolosità di questa gente ma anche la città deve sapere a quale rischio è esposta. Ad esempio ogni volta che usciamo dal carcere con uno di questi detenuti, rischiamo che i famigliari vengano a riprenderselo". Aggiunge Gerardo Romano, vicesegretario nazionale Osapp: "La carenza di ispettori e sovraintendenti è pericolosissima. Sono loro il collante tra i detenuti e gli agenti. Mancando questo anello la nostra sorveglianza si indebolisce. Non ci si improvvisa con gli "alta sicurezza". Mancano sentinelle. Se questi evadono non lo fanno col lenzuolo, sparano. E sono unitissimi fra loro". La mancanza di fondi incancrenisce questa situazione. Favale: "I detenuti hanno il diritto di avere la televisione. I nostri apparecchi sono degli Anni 80, la qualità è pessima. Mancano materassi, i ventilatori, le celle andrebbero rinfrescate. Niente contro il nostro direttore Elena Lombardi Valluari che anzi si divide tra 3 istituti e Torino. Resta un controsenso però il fatto che un corpo di polizia debba essere diretto da un civile. Sono anni che combattiamo contro questa stortura". Gerardo Romano: "Mancano anche le divise, i ragazzi si "aggiustano" comprando ciò che più gli "somiglia" o scambiandosele. Ma è dignità questa?". Angela Motta, consigliera regionale, alla fiaccolata della polizia ha espresso solidarietà alla polizia penitenziaria: "Capisco le loro difficoltà. Il territorio astigiano va tutelato. Questi detenuti devono scontare lunghe pene e i loro famigliari potrebbero trasferirsi. Il rischio di infiltrazioni è altissimo". Palermo: estorsione tra boss in carcere, in manette anche moglie e figlia di un detenuto meridionews.it, 6 agosto 2015 Pietro Liga, arrestato nel maggio 2013 nell'operazione "Argo" e condannato, in via definitiva, per estorsione come esponente della famiglia mafiosa di Bagheria, avrebbe ritenuto lesive della sua dignità di uomo d'onore alcune dichiarazioni fatte dalla sua vittima e intercettate dagli investigatori. Come "risarcimento danni" le avrebbe chiesto 20mila euro. Estorsione tra boss per questioni d'onore. C'è anche questo nelle nuove dinamiche di Cosa nostra su cui i carabinieri della Compagnia di Bagheria (Palermo) hanno fatto luce. I militari hanno eseguito un'ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico di Pietro Liga, 49 anni, detenuto nel carcere di Tolmezzo (Udine) dopo il suo arresto nel maggio 2013 nell'ambito dell'operazione "Argo" e successivamente condannato, in via definitiva, a 10 anni e 6 mesi di reclusione per estorsione come esponente della famiglia mafiosa di Bagheria. Le manette sono scattate anche per la moglie Rosa Costantino, 52 anni, e la figlia Maria Liga, 25 anni, finite entrambe ai domiciliari. L'accusa per tutti è di tentata estorsione in concorso aggravata dal metodo mafioso. Le indagini, coordinate dai pm della Dda di Palermo, Francesca Mazzocco e Caterina Malagoli, e sviluppate attraverso complesse attività tecniche e servizi di osservazione a distanza, hanno permesso di far luce su "numerosi episodi estorsivi perpetrati, dal mese di agosto ad ottobre 2014", nei confronti di un detenuto per fatti di mafia nel braccio Libeccio del carcere Pagliarelli e della moglie. In particolare, è la ricostruzione degli investigatori dell'Arma, Liga si sarebbe risentito per alcune dichiarazioni fatte dalla vittima, arrestata nel 5 giugno del 2014 nell'ambito dell'operazione "Reset" con l'accusa, tra l'altro, di essere organica al mandamento mafioso di Bagheria. Le frasi erano state intercettate dagli inquirenti ed erano confluite negli atti dell'operazione. Liga ne era venuto a conoscenza e aveva avvicinato nella cappella del carcere palermitano l'altro mafioso, contestandogli quelle parole ritenute lesive della sua dignità di uomo d'onore. Così a titolo di risarcimento danno aveva chiesto alla sua vittima 20mila euro, minacciando in caso di resistenza ritorsioni contro i familiari. Come nel classico copione degli esattori del pizzo di Cosa nostra, la richiesta era poi scesa fino ad arrivare a 2.500 euro. Della riscossione della somma si sarebbero dovute occupare la moglie e la figlia di Liga, che avevano tentato di avvicinare la consorte della vittima ripetutamente all'uscita dai colloqui con il marito al carcere Pagliarelli. Pordenone: detenuto evade dall'Ospedale di Aviano dove era ricoverato da due giorni Messaggero Veneto, 6 agosto 2015 Lorenzo Kari, 52enne senza fissa dimora, formalmente residente a Frisanco, accusato di aver fatto parte della presunta banda che avrebbe messo a segno 23 colpi in 18 comuni fra le province di Pordenone e Udine, sarebbe dovuto rimanere nella struttura ospedaliera per essere sottoposto a cure. Oggi l'avrebbero dimesso. Ieri, però, verso le 12.30, Kari si è allontanato dal Cro di Aviano, dove si trovava in una stanza al quinto piano, senza piantone fuori dalla porta, e ha fatto perdere le proprie tracce. Subito è stato diramato un avviso di ricerca a tutte le forze dell'ordine. Interpellata, la Polizia Penitenziaria non ha rilasciato commenti sulla vicenda. "Ritornerà - ne è persuaso l'avvocato di Kari, Maurizio Mazzarella - credo che se ne sia andato solamente per sollevare il suo caso. Le condizioni di salute del mio cliente sono incompatibili con il carcere. Da due mesi stiamo portando avanti questa battaglia. Il mio cliente sta scontando una pena detentiva, a seguito di condanna definitiva emessa dal tribunale di Udine. Per il procedimento pendente a Pordenone, invece, il giudice Giorgio Cozzarini ha subito nominato un consulente medico, Giovanni Del Ben, per valutare le condizioni di salute del mio assistito. Per questa ragione gli erano stati concessi i domiciliari. Ma poi il giudice del tribunale di sorveglianza ha rigettato la richiesta perché i domicili da noi proposti non presentavano i requisiti ritenuti necessari. In particolare la prima soluzione è stata ritenuta pregiudizievole per la salute del mio cliente. L'ultima è stata bocciata perché in casa c'era un pregiudicato". È fissata al 17 settembre la prossima udienza del processo dianzi al giudice monocratico Cozzarini. A Kari, Omar Braidic, 30 anni e Gimmi Hudorovic, 26 anni, vengono contestati furti commessi a dicembre dell'anno scorso in abitazioni a Pordenone, San Quirino, Aiello, Ruda, Tarcento, Basiliano, Mortegliano, Fagagna, Tarcento, Magnano, Gemona, Faedis, Cividale del Friuliu, Cervignano, Fiumicello, Moggio Udinese, Sacile e Fontanafredda. Napoli: il pm non ha dubbi "prova certa, a processo l'avvocato del boss" di Luigi Nicolosi Roma, 6 agosto 2015 Il pubblico ministero non ha dubbi, la prova di colpevolezza è certa. Per Vittorio Trupiano la Procura chiede il giudizio immediato. La Procura di Napoli ha appena chiesto al gip di emettere un decreto di giudizio immediato per Vittorio Trupiano, l'avvocato finito in manette a inizio estate con l'accusa di concorso esterno in associazione camorristica. La contromossa non si è fatta però attendere. Antonio Cavallo, avvocato difensore del penalista, in attesa che gli scenari assumano contorni più definiti ha infatti proposto appello al Riesame al fine di ottenere la concessione di una misura cautelare alternativa al carcere. Trupiano è da tempo gravemente malato di cancro. È il 25 giugno quando la polizia giudiziaria bussa alla porta del noto penalista. Gli agenti dispongono di un mandato di arresto spiccato dalla Dda di Napoli e per lui scattano inesorabilmente le manette. L'accusa è di quelle che pesano come un macigno. Stando infatti ai riscontri investigativi raccolti dagli inquirenti, l'avvocato avrebbe fatto da "portavoce" al boss del Vomero Antonio Caiazzo, attualmente detenuto in regime di carcere duro e con alle spalle già una condanna per camorra. E i pm non hanno dubbi nel tratteggiare i rapporti intercorsi tra Trupiano e il ras del quartiere collinare. Il penalista, che di Caiazzo era l'avvocato difensore, si sarebbe fatto carico di trasmettere all'esterno del carcere alcuni messaggi. E il contenuto di quelle comunicazioni, secondo i pm, ma tutte da dimostrare, era tutt'altro che innocuo. In ballo c'era infatti la spartizione degli affari criminali tra il clan Caiazza e i Lo Russo di Miano. Materiale giudiziario quanto mai scottante e che è costato a Trupiano l'incriminazione per concorso esterno in associazione camorristica. Nella fattispecie c'era in ballo il controllo delle estorsioni sulla gestione degli appalti all'interno degli ospedali Cardarelli, Monaldi e Policlinico. Gare dal valore di svariati milioni di euro. Per la Procura ce n'è abbastanza. Forti di un impianto accusatorio imperniato sulla presunta inequivocabilità delle immagini riprese dalla videosorveglianza del carcere (nel corso di uno dei colloqui Caiazzo, rivolgendosi al proprio legale, mimava con le dita una pistola che faceva fuoco) e sulle successive intercettazioni ambientali, i pm hanno chiesto al gip di emettere un decreto di giudizio immediato. La concessione del rito speciale, a fronte della presunta assoluta evidenza delie prove, consentirebbe all'accusa di andare direttamente al processo senza dover passare per la fase dell'udienza preliminare. Intanto il legale di Trupiano, l'avvocato Antonio Cavallo, ha già proposto appello al Tribunale del Riesame per ottenere la concessione di una misura alternativa al carcere. Il penalista, sebbene si trovi ormai da quasi un mese e mezzo dietro le sbarre, deve infatti fare i conti non soltanto con la giustizia ma anche con la gravissima malattia che da tempo si porta dietro: due tumori in stadio avanzato che necessitano di cure costanti e invasive. Le condizioni di Trupiano sono precarie a tal punto che già nei giorni immediatamente successivi al suo arresto era a più riprese ventilata l'ipotesi di un imminente ricovero ospedaliero. Che però non è mai arrivato. In quell'occasione il penalista, dichiarandosi un "perseguitato politico", aveva anche inscenato una clamorosa protesta, con tanto di sciopero della fame e della sete. Cagliari: "La verità imperfetta" conclude ciclo "Letture caldissime" in casa circondariale Ristretti Orizzonti, 6 agosto 2015 È giunto all'appuntamento conclusivo "Letture caldissime", il ciclo di incontri organizzato dall'associazione "Socialismo Diritti Riforme" in collaborazione con l'Area Educativa della Casa Circondariale di Cagliari. Domani mattina, alle 9.30, nella Biblioteca dell'Istituto ubicato nel territorio di Uta, l'attenzione sarà rivolta al libro di Giorgio Pisano "La verità imperfetta". Tema di fondo quindi il rapporto problematico tra indagini, accertamenti, testimonianze e responsabilità derivanti dai gradi di un processo penale, laddove peraltro il fatto criminoso è oggettivamente riscontrabile, e la verità vera. Un omicidio, avvenuto negli anni Cinquanta e ricostruito dal giornalista-scrittore attingendo alle carte processuali, fornisce una nuova visione dell'evento tragico capovolgendo a sorpresa un finale scontato ma svelando anche i meccanismi dell'informazione e i suoi stereotipi. Sullo sfondo il diritto all'oblio e la necessità però della riabilitazione. Particolarmente partecipato, il precedente dibattito con la presenza del Direttore dell'Istituto Gianfranco Pala, della Comandante Alessandra Uscidda, del Capo Area Educativa Claudio Massa, della Consigliera regionale Anna Maria Busia, della Responsabile dell'Ufficio Esecuzione Penale Esterna Rossana Carta, del coordinatore dell'Area Sanitaria Antonio Piras e dell'operatore culturale di Belvì Bachis Cadau. A coordinare l'incontro con i detenuti, che ha avuto come riferimento il libro "Carezze di sangue" di Maria Francesca Chiappe, la presidente di SDR Maria Grazia Caligaris. Dalle problematiche interne per offrire risposte semplici e immediate ai bisogni dei singoli detenuti, specialmente a quelli più fragili, alla necessità di promuovere un'immagine dell'Istituto d'avanguardia. Tra questi estremi la quotidianità di una Casa Circondariale in cui convivono oltre 550 detenuti, molti tossicodipendenti, diverse persone con doppia diagnosi. Alcune significative testimonianze dei detenuti presenti hanno posto l'accento però sui disagi derivanti da normative talvolta contraddittorie o non del tutto chiare, sulle difficoltà a vivere l'esperienza genitoriale e affettiva. Non sono mancate considerazioni critiche in merito alla dislocazione dell'Istituto alla sua complessità e vastità. Dal positivo confronto è emersa la necessità di attivare delle Commissioni composte da cittadini privati della libertà per individuare i problemi più urgenti e individuare soddisfacenti risposte nell'ottica della prevenzione del disagio. Tra le proposte, oltre a un approfondimento sul sopravvitto in considerazione del costo e della qualità dei prodotti per i detenuti, quello di una serie di incontri con i funzionari dell'UEPE per far conoscere le opportunità per chi sta scontando la pena e per chi è ormai giunto alla fine del percorso con la finalità di abbattere la recidiva. Le uniche regole che mancano sono quelle sulle droghe di Lanfranco Caminiti Il Garantista, 6 agosto 2015 A Rimini c'è un questore. Si chiama Maurizio Improta ed è napoletano, laureato a Roma, lunga carriera qui e là in Italia, fino all'approdo a Rimini. Sposato, con due figli, il dottor Improta è l'uomo che ha firmato il decreto di chiusura "temporanea" per quattro mesi della discoteca Cocoricò di Riccione, dopo la morte del giovane Lamberto Lucaccioni di sedici anni. È una notizia sorprendente, il fatto che a Rimini ci sia un questore. Perché uno si poteva chiedere dove mai fosse un questore quando il 20 dicembre 2004 un diciannovenne marchigiano morì per abuso di metanfetamine, quando nell'agosto 2012 un ventenne fu ricoverato e si salvò per miracolo, quando lo stesso mese una coppia, lei di 20 lui 29 anni, finì in coma per una pasticca di Mdma, quando il 20 luglio 2013 una ragazza entrò già in stato comatoso nel locale, quando nel dicembre 2013 un ventunenne di Ancona fu ricoverato per droga e alcol, quando il 2 gennaio 2014 un napoletano di 32 anni fu trovato morto in hotel e le indagini appurarono che fu ucciso da droga e alcol, e che la sera prima era stato al Cocoricò. Scrive, il questore di Rimini, che il giovane Lucaccioni acquistò l'ecstasy "per consumarla in uno spazio emotivo ben definito perché il Cocoricò rappresentava il luogo perfetto dove assumerla. L'ha assunta per predisporsi psicofisicamente a trascorrere in maniera per lui appropriata l'agognata serata". Nella questurina prosa, traspare una certa pietas per il povero ragazzo, e come potrebbe essere altrimenti, per un padre di figli. Traspare pure il fatto che le due cose - l'acquisto dell'ecstasy e l'esistenza del Cocoricò - non siano proprio direttamente collegate. Non è l'esistenza del Cocoricò che ha provocato direttamente la morte di Lucaccioni - come potrebbe mai dire una cosa di queste, un uomo che conosce la legge come il dottor Improta. E allora, perché chiuderlo? Il "pusher" di Lamberto Lucaccioni si chiama Tommaso Calderini e ha diciannove anni. Tommaso è dello stesso posto di Lamberto, Città di Castello. Si conoscevano, come fai a non conoscerti a Città di Castello? Lamberto frequentava casa Calderini, con il figlio più piccolo alle elementari andavano insieme. Dal più grande, invece, ha comprato le pasticche. Verso le due di notte, gliene ne ha chiesto ancora. Tommaso gliel'ha ceduta. "Non è mai stato difficile trovare pasticche al Cocoricò", ha raccontato agli inquirenti. Tommaso è uno che a scuola va forte, qualcuno dice sia il primo della classe. Nella vita non vuole fare il pusher di mestiere. "Sono stato cinque volte al Cocoricò e per cinque volte ho acquistato droga", ha detto. Il fatto è che lui da circa un anno si cala le pasticche - almeno, così ha raccontato. Per rimediarle, le cede anche. Compra e vende, gli rimangono attaccate le sue, per il consumo suo, a gratis. Il suo avvocato ha spiegato: "Il ragazzo ha preso la stessa sostanza proveniente dalla stessa partita che hanno preso Lamberto e suoi due amici". Chissà quanti fanno come lui. È così che si allarga il giro. Il ministro Alfano gongola. Tolleranza zero, dice. Chiuderemo tutti i locali che non rispettano le regole, dice. Quali regole? I locali devono pagare le licenze, devono chiedere permessi, hanno misure di decibel, volumi e spazi da rispettare, le maniglione antincendio, i materiali ignifughi, sono sottoposti a controlli sanitari, fiscali, dell'ispettorato del lavoro. Queste sono le regole. Non è che ci sono regole per spacciare pasticche. Non è che sotto l'insegna dei locali, c'è scritto "Qui si spaccia". Ci fossero, le regole per le droghe. Magari si salverebbero tante vite. Di chi li assume e di chi le spaccia. Ora, certo a pensar male a volte uno azzecca, e è pure possibile che dietro i locali più famosi si organizzino malavite per lo spaccio di droga. Accade ormai in qualunque raduno occasionale di giovani, accade davanti e dentro le scuole, perché non potrebbe succedere anche dove il "cammino dello sballo" porta ormai ragazzi a valanghe? Ma che facciamo, chiudiamo gli stadi perché è ormai risaputo che gruppi organizzati di ultras alimentano la loro forza e la coesione degli adepti, e la guerra contro altre bande, utilizzando lo spaccio di roba? La "morale pubblica" non serve a nulla. Serve, come ormai le notizie ci hanno abituato a sapere, al fatto che a esempio dietro le associazioni antimafia a volte si celano brutti ceffi che profittano. È necessaria, piuttosto di proclami, una seria attività investigativa, la conoscenza del territorio, la comprensione di fenomeni sociali dentro i quali si annidano comportamenti criminali. Il crimine specula sui desideri delle persone - vale per la prostituzione, vale per il gioco d'azzardo, vale per le droghe. Sono 244 i parlamentari che hanno firmato la proposta di legge per la legalizzazione della cannabis: 204 deputati e 40 senatori. Il punto della trasversale iniziativa parlamentare, ha detto il senatore Benedetto Della Vedova, è che il problema "non è più dichiararsi favorevoli o contrari alla legalizzazione, ma regolare un mercato che è già libero". Qui non si tratta di essere tolleranti o meno, di essere garantisti o meno, di essere fricchettoni o bacchettoni. Qui si tratta di efficacia. In nessuna parte del mondo, dove sono state applicate con rigore - anche quello estremo, in Iran ti impiccano se assumi o spacci droghe - le regole della "tolleranza zero" hanno prodotto qualcosa di duraturo. Spese folli, investimenti deliranti, campagne promozionali, accordi internazionali, con risultato zero carbonella. Per chi ne ha fatto una ragione di carriera, si è trattato solo di una moderata applicazione: ci vuole ancora più rigore, ancora meno tolleranza. Per tutti gli altri, si fa strada l'idea che forse non è questo il metodo per combattere le mafie. E per salvare tanti giovani. Gran Bretagna: è allarme per la diffusione di droghe sintetiche nelle carceri di Anna Piccarda Lazzarin eastonline.eu, 6 agosto 2015 Da tempo, l'uso di droghe sintetiche ("legal highs") all'interno delle prigioni in Inghilterra e Galles è in aumento e sta creando numerosi problemi che rendono necessaria l'introduzione di nuove misure. Le legal highs, o "smart drugs", sono delle combinazioni di sostanze legali che imitano gli effetti delle droghe illegali più tradizionali. Prodotte in gran parte nel sud-est asiatico, sono generalmente inodori e vendute con frequentissime variazioni della struttura chimica in modo da renderle difficili da scoprire. Infatti, non esiste ancora un sistema di test in grado di rilevare l'uso di queste sostanze. Lo scorso gennaio il Ministero della Difesa ha rivelato che negli anni 2013-14 vi sono stati quasi 4.500 casi di legal highs assunte da detenuti, mentre nel corso degli anni 2010-11 ve ne erano stati poco meno di 3.800. Il ministero ha saggiamente deciso di mettere in luce i miglioramenti dei mezzi di rilevazione adottati invece di interpretare questi dati come un segno dell'inefficienza delle misure anti-droga del governo. I dati raccolti dal Centre for Social Justice (CSJ), rilasciati in uno studio lo scorso marzo, mostrano che mentre il numero di detenuti risultati positivi ai test anti-droga è diminuito negli ultimi quindici anni, ma almeno il 60% dei detenuti fa uso regolare di droghe sintetiche. Un consumo così diffuso suggerisce che introdurre sostanze illegali nelle prigioni non è poi cosa così difficile. Come scrive la reporter della BBC Emily Thomas, i visitatori sono il mezzo principale tramite il quale le droghe arrivano nelle prigioni. Il CSJ rivela che nel 2013 ci sono stati ben 300 casi di visitatori arrestati per aver tentato di consegnare droga ai detenuti. Vi sono poi altri metodi, anche più creativi. In una prigione scozzese, ad esempio, è stato trovato del valium in polvere nella pittura utilizzata da dei bambini nei lavoretti che spedivano ai propri parenti in prigione. Fra gli altri mezzi utilizzati vi sono membri dello staff corrotti, nuovi detenuti o detenuti che hanno già scontato una pena, cibi dal forte odore come patatine all'aceto e Marmite. Così come queste sostanze sono difficili da rilevare, i loro effetti sono difficili da prevedere. Mentre droghe come la cannabis hanno un effetto rilassante su chi ne fa uso, legalhighs come Spice o Black Mamba spesso generano violenza e psicosi. Il difensore civico per le carceri e la libertà vigilata Nigel Newcomen ha condotto un'investigazione ufficiale, resa pubblica a luglio, con lo scopo di richiamare l'attenzione sul problema dell'uso di droghe sintetiche in prigione. I risultati della ricerca hanno dimostrato che, fra l'aprile del 2012 e il settembre del 2014, l'uso di sostanze psicoattive è stato partecipe delle morti autoinflitte di almeno diciannove detenuti nelle prigioni inglesi e gallesi. In aggiunta al danno che queste sostanze infliggono alla salute mentale dei detenuti, il prezzo delle legal highs è tale che chi ne fa uso in prigione è spesso costretto a contrarre debiti e cade vittima di un ciclo di violenze e intimidazioni. L'aumento del consumo di queste sostanze è stato anche causa di un aumento di violenza all'interno delle carceri, rendendo, fra le altre cose, più difficile il lavoro delle guardie carcerarie. In seguito all'investigazione di Newcomen si è avviato il processo finalizzato all'introduzione di nuove misure di sicurezza. Il Ministro degli Interni ha già presentato al parlamento una proposta di legge che renderebbe illegali tutte le legal highs in Inghilterra e Galles dall'aprile del 2016. La Segretaria di Stato per gli Affari Interni Teresa May è già stata messa in guardia da degli esperti che un divieto totale è impossibile da mettere in atto ed è probabile che la proposta di legge verrà modificata. Ciononostante, l'approccio del governo potrebbe avere delle conseguenze involontarie. Molti dei detenuti che fanno uso delle droghe sintetiche non hanno iniziato all'interno delle prigioni e si tratta di un problema che va ben oltre le sbarre di una cella. Lo studio presentato dal CSJ ha rivelato che il 60% di detenuti facenti uso di queste sostanze in prigione ne faceva già uso almeno nel mese precedente all'arresto. Delle misure troppo rigide hanno poca probabilità di riuscire a ridurre il consumo fra le mura delle carceri da sole. Potrebbero invece portare i detenuti, e i loro fornitori, a cercare delle nuove sostanze, più difficili da scoprire e potenzialmente più pericolose. Dopotutto, è stato questo il motivo per cui le droghe sintetiche sono iniziate a essere prodotte e consumate. Delle misure più aspre, come proibire ai detenuti di uscire dalla cella, ridurre le visite e aumentare le perquisizioni probabilmente, non solo non risolverebbero il problema della dipendenza nelle carceri, ma rinforzerebbero il bisogno di evadere, almeno con la mente, dalle celle e potrebbero quindi ostacolare il processo di riabilitazione. Pakistan: lotta al terrorismo, Corte suprema approva tribunali militari Aki, 6 agosto 2015 La Corte Suprema del Pakistan ha votato a maggioranza di rispettare l'istituzione di tribunali militari per giudicare sospetti terroristi. "Con questa decisione viene rafforzata la lotta al terrorismo", ha detto il primo ministro Nawaz Sharif riferendo all'Assemblea nazionale. "In circostanze eccezionali sono richieste misure eccezionali", ha aggiunto il premier pakistano. Sharif ha quindi detto che tutti i partiti politici hanno espresso riserve circa la creazione di tribunali militari, ma per sradicare il terrorismo dal Paese e per salvare la popolazione era necessario adottare questa misura. Dopo l'attentato del dicembre scorso contro una scuola di Peshawar, costata la vita a 150 persone, il Parlamento di Islamabad aveva approvato un emendamento della Costituzione per l'istituzione di tribunali militari per processare i detenuti sospettati di terrorismo. La decisione era stata duramente criticata dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani e contestata dall'Ordine degli avvocati. Arabia Saudita: eseguite per decapitazione altre 4 condanne a morte Aki, 6 agosto 2015 Quattro condanne a morte sono state eseguite per decapitazione in Arabia Saudita, dove da inizio anno sono più di cento i detenuti saliti sul patibolo. Il ministero dell'Interno di Riad ha reso noto che due etiopi, condannati per l'omicidio di un connazionale, sono stati decapitati nella città sudoccidentale di Jizan. Sempre a Jizan è stato decapitato un saudita accusato di aver ucciso un cittadino del regno durante una lite. Infine a Gedda è stato decapitato un pakistano accusato di traffico di droga. Omicidio, stupro, rapina a mano armata, apostasia e traffico di droga sono reati punibili con la pena di morte nella monarchia del Golfo. La decapitazione come metodo legale per eseguire sentenze capitali è un'esclusiva dell'Arabia Saudita, che - secondo l'ultimo rapporto sulla pena di morte nel mondo di Nessuno tocchi Caino - ha decapitato almeno 88 persone nel 2014 e almeno 102 persone nel 2015. Usa: la Commissione diritti umani chiede chiusura definitiva del carcere di Guantánamo Adnkronos, 6 agosto 2015 La Commissione Interamericana per i diritti umani (Cidh) ha esortato ancora una volta il governo degli Stati Uniti a chiudere definitivamente il centro di detenzione di Guantánamo. Nei 13 anni di esistenza del carcere, si legge in un rapporto, 779 detenuti sono passati per Guantánamo, solo l'8 per cento dei quali identificati come "combattenti" di Al Qaeda o dei Talebani. Ad oggi solo otto detenuti sono stati condannati da una commissione militare. A gennaio 2015, 122 prigionieri erano ancora sotto detenzione. Con sede a Washington, la Commissione Interamericana dei diritti umani è un organo giuridico autonomo dell'Organizzazione degli Stati Americani (OSA). Secondo la presidente della Commissione, Rose-Marie Belle Antoine, Guantánamo si è convertito in un "simbolo di abusi". In un rapporto, la commissione denuncia violazioni quali "la detenzione a tempo indefinito, trattamenti crudeli, disumani o degradanti, l'accesso limitato o nullo alla tutela giudiziaria e la difesa inadeguata". I motivi di sicurezza pubblica non possono servire come "pretesto per la detenzione a tempo indeterminato di persone senza la presentazione di accuse e senza sottoporle a giudizio", ha commentato il relatore Felipe Gonzalez. "Gli Stati Uniti devono liberare immediatamente tutti i detenuti che non saranno accusati o giudicati", ha affermato ancora chiedendo che i detenuti che vengono processati da commissioni militari siano giudicati davanti a corti federali. Brasile: Amnesty; in 5 anni la polizia di Rio ha ucciso 1.519 persone, per lo più poveri di Carlo Antonio Biscotto Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2015 Alle Olimpiadi di Rio manca circa un anno, ma già infuriano le polemiche. Non solo per il giro di appalti miliardari, di mazzette, di opere faraoniche e inutili, ma anche - a quanto riferisce Amnesty International - per l'incredibile brutalità della polizia di Rio de Janeiro. Negli ultimi cinque anni, secondo il rapporto di Amnesty, la polizia avrebbe ucciso 1.519 cittadini di Rio per lo più poveri, giovani, neri e abitanti delle favelas. Il rapporto le definisce vere e proprie esecuzioni senza processo. Amnesty International ha svolto una lunga e accurata indagine esaminando migliaia di rapporti di polizia e giungendo alla conclusione che un assassinio su sei è stato opera di agenti di polizia in servizio nel quadro di una "strategia del terrore" decisa a tavolino per scoraggiare la criminalità nelle favelas. Tra il 2010 e il 2013 oltre il 75% delle vittime risultano essere uomini neri di età compresa tra i 15 e i 29 anni. Nella maggior parte dei rapporti la morte viene descritta come "conseguenza del reato di resistenza a pubblico ufficiale" e, di conseguenza, nessun agente è mai stato citato dinanzi ad un tribunale civile per il risarcimento del danno e solo un agente è stato rinviato a giudizio dinanzi ad un tribunale penale. "A Rio convivono due città: quella glamour, tutta luci sfavillanti, negozi di lusso e grandi alberghi per impressionare il mondo e quella, ai più sconosciuta, dove la repressione poliziesca sta decimando una intera generazione di giovani neri e poveri", dice Atila Roque, direttore di Amnesty International in Controlli nella favela Mare Ansa Brasile. Le autorità di Rio si sono scagliate contro il rapporto definendolo "infondato e fuorviante" in quanto non riconosce alle forze di polizia il merito di aver abbattuto i livelli di criminalità dell'85% nelle favelas dove operano speciali unità "di pacificazione" il cui compito è quello di sottrarre agli spacciatori il controllo del territorio. Il rapporto di Amnesty, sempre secondo le autorità di Rio, dimentica di ricordare che le forze di polizia hanno già adottato volontariamente molte delle misure consigliate nel rapporto e ricorrono meno di prima all'uso delle armi. Il sindacato di polizia sostiene che il rapporto trascura il contesto generale del Paese. Il Brasile è il Paese al mondo con il record degli omicidi e gli agenti di polizia rischiano la vita ogni giorno in quella che è una vera e propria guerra contro i narcotrafficanti e i piccoli spacciatori. L'anno passato - ricorda il sindacato - a Rio sono stati uccisi oltre 100 agenti di polizia. Anche la magistratura è scesa in campo confutando alcune affermazioni contenute nel rapporto. "Negli ultimi 5 anni sono finiti sotto processo ben 587 agenti di polizia", fa sapere il portavoce della procura di Rio. "Il rapporto è generico, fazioso e non contribuisce in alcun modo alla soluzione dei problemi che affliggono la città". Può anche darsi che le statistiche sulla criminalità segnalino qualche progresso - replica Amnesty - ma il numero di cittadini uccisi a Rio dalla polizia è allarmante e il dato non è stato smentito. I poliziotti si sentono sotto accusa e la proliferazione di telecamere e dispositivi di sicurezza nelle strade impedisce in molti casi di insabbiare le cosiddette "morti accidentali" e gli episodi di brutalità che spesso finiscono in rete come il video di Eduardo Ferreira, 10 anni, ucciso lo scorso aprile mentre tentava di prendere il cellulare dalla tasca, e quello di Lucas Lima, 15 anni, colpito alla testa da un colpo d'arma da fuoco di un agente mentre tornava a casa dopo aver giocato a calcio con gli amici. Turchia: il premier Erdogan accusa 18 reporter, rischiano sette anni di carcere Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2015 In Turchia la libertà di stampa non riesce in alcun modo a trovare spazio. E il presidente Recep Tayyip Erdogan continua la sua crociata contro i giornalisti. L'ufficio del procuratore capo di Istanbul ha infatti aperto un atto d'accusa nei confronti di 18 giornalisti. Sono accusati di "propaganda a favore di un'organizzazione terroristica " e la richiesta della procura è che siano condannati a pene che prevedono anche sette anni e mezzo di carcere. Sì, perché secondo l'accusa, pubblicare la foto del procuratore Mehmet Selim Kiraz mentre era ostaggio dei terroristi, significherebbe ritrarre un'organizzazione terroristica come "forte e in grado di condurre qualsiasi azione". Kiraz, infatti, fu ucciso il 31 marzo scorso dopo aver trascorso otto ore in ostaggio di Safak Yayla e Bahtiyar Dogruyol, membri del Dhkp/c, il Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo (organizzazione turca di ispirazione marxista-leninista, considerata fuorilegge in Europa e negli Stati Uniti). E tra gli imputati c'è anche il direttore del quotidiano Cumhuriyet, Can Dundar, che in sua difesa ha dichiarato che il giornale "intendeva ritrarre il volto brutto e oscuro del terrorismo, non legittimarlo". Dietro queste decisioni c'è come sempre Erdogan, che ad aprile aveva accusato i media che avevano pubblicato le foto di Kiraz di essere "partner dei terroristi che hanno ucciso il procuratore" e che a giugno aveva chiesto l'ergastolo per lo stesso Cumhuriyet: il cronista aveva pubblicato foto che ritraevano camion dei servizi segreti turchi utilizzati per il trasporto di armi. E aveva ipotizzato che fossero destinate ai terroristi siriani. Ne era seguita una petizione firmata dai più grandi organi di stampa mondiali e il presidente aveva attaccato anche loro. Germania: chi è più liberticida, i giudici o il governo? Il Foglio, 6 agosto 2015 Il procuratore generale tedesco inciampa sul processo a due giornalisti. In Germania un processo contro due giornalisti è diventato un dibattito sui limiti della pubblicazione indiscriminata, poi una polemica di livello nazionale sulla libertà d'espressione, con proteste in tutto il paese, infine un conflitto tra poteri dello stato, che è costato la poltrona al procuratore generale tedesco Harald Range. Martedì sera il ministro della Giustizia Heiko Maas ha destituito dal suo incarico il procuratore Range dopo giorni di polemiche durissime, iniziate con l'apertura di un'indagine per tradimento contro due giornalisti del sito Netzpolitik, accusati dai servizi di aver pubblicato dei documenti d'intelligence classificati che costituiscono segreto di stato. L'accusa di tradimento è di una gravità inusuale, e ha provocato proteste in tutta la Germania contro il provvedimento "liberticida". Il governo ha reagito, e martedì il ministro Maas, dopo un giro di conferenze stampa davvero duro, ha mandato in prepensionamento il procuratore Range, che "non ha più la fiducia del governo". Ma anche il provvedimento di autorità dell'esecutivo ha suscitato proteste, il magistrato ha detto che l'attacco all'indipendenza del potere giudiziario è senza precedenti, e così in Germania si consuma una faida tra due compagini solitamente benpensanti, quella di chi professa la fine dei segreti e un uso indiscriminato della libertà di pubblicazione e quella degli ultrà dello stato di diritto. Tutti invischiati nella palude che si è formata intorno ai temi della privacy e della sicurezza, dove la carriera decennale del procuratore Range si è incagliata, a causa di un'accusa eccessiva e di un governo che, dopo il caso Snowden, su intelligence e segreti è ancora troppo titubante. Sudan: il presidente Bashir concede indulto a 101 detenuti egiziani Nova, 6 agosto 2015 Il presidente sudanese Omar al Bashir ha concesso l'indulto a 101 egiziani incarcerati nel paese saheliano con l'accusa di aver rubato delle riserve idriche. È quanto riferiscono i media statali egiziani che citano le parole del ministro di Stato sudanese, Taha Othman, secondo il quale Bashir ha voluto procedere con l'indulto in occasione dell'inaugurazione del nuovo tratto del Canale di Suez. Il capo dello stato sudanese parteciperà oggi alla cerimonia di inaugurazione su invito dell'omologo egiziano Abdul Fatah al Sisi. Proprio il presidente egiziano ha già disposto l'invio di un aereo militare in Sudan che si occuperà delle operazioni di rimpatrio dei cittadini egiziani che hanno ricevuto l'indulto. Usa: un drone consegna droga in un carcere dell'Ohio, pacchetto con eroina e marijuana Ansa, 6 agosto 2015 Nel cortile di un carcere dell'Ohio è all'improvviso scoppiata una rissa che ha coinvolto decine di detenuti. Le guardie della sicurezza sono intervenute utilizzando lo spray al peperoncino e sono riuscite a riportare l'ordine e poi, visionando i filmati delle telecamere di sorveglianza, sono riuscite a capire quale era il motivo del contendere: un drone aveva appena sorvolato il cortile lasciando cadere un pacchetto che conteneva droga. È accaduto la settimana scorsa nel Mansfield Correctional Institution di Mansfield, riferisce la Cnn, secondo cui nel corso della rissa il pacchetto è stato poi lanciato in un cortile contiguo, dove è stato recuperato dagli agenti. Conteneva 6,6 grammi di eroina, 65,4 grammi di marijuana e 144,5 grammi di tabacco. L'eroina rinvenuta, in particolare, equivale a oltre 140 dosi. Non è la prima volta che si verifica "un incidente" con un aereo senza pilota in una prigione dell'Ohio, secondo quanto hanno riferito le autorità carcerarie dello stato, senza però fornire dettagli, per motivi di sicurezza. "È qualcosa di cui siamo certamente consapevoli" e "stiamo prendendo un ampio approccio per aumentare la consapevolezza e la prontezza dello staff", ha detto una portavoce.