Giustizia: immunità parlamentare, la politica non può abdicare al suo molo di Cesare Mirabelli Il Messaggero, 5 agosto 2015 Secondo opinione diffusa le immunità parlamentari sarebbero un privilegio. Esse costituirebbero un inammissibile privilegio di casta. Limiterebbero l'azione della magistratura che procede all'accertamento di reati commessi da deputati o senatori; li difenderebbe dal processo e nel processo. Certamente non la pensava così Costantino Mortati, costituzionalista di straordinario livello culturale per nulla incline alla difesa di privilegi ed alla protezione di politici malfattori, quando in Assemblea costituente, quale relatore in questa materia, propose che "i deputati, durante l'esercizio del mandato non possono essere arrestati se non in flagranza di reato e non possono essere sottoposti a procedimento penale senza autorizzazione della Camera". Questa formula discussa, accettata nella sostanza e modificata nella forma, fu tradotta nell'articolo 68 della Costituzione. L'istituto cardine divenne "l'autorizzazione a procedere", che consentiva di sterilizzare il processo penale, che rimaneva sospeso se il Parlamento negava l'autorizzazione o rimaneva inerte di fronte alla richiesta della magistratura. Ed eguale autorizzazione era necessaria "per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile". Nella sua originaria e limpida impostazione questa disciplina rispondeva all'esigenza di garantire il libero esercizio della più elevata funzione politica rappresentativa, ponendo il parlamentare al riparo da incursioni giudiziarie, non tanto nel suo interesse, quanto piuttosto in quello della Camera di appartenenza, chiamata a deliberate sull'autorizzazione, assumendo una responsabilità politica. L'uso distorto di questa disciplina, spesso utilizzata per bloccare anche i più minuti processi per reati comuni, la diffusione della corruzione politica e la legittima reazione dell'opinione pubblica, hanno portato nel 1993 a modificare l'articolo 68 della costituzione. Nessuna autorizzazione è ora richiesta per processare un parlamentare, e nessun ostacolo esiste per eseguire una sentenza definitiva di condanna che comporti la carcerazione. L'autorizzazione della Camera di appartenenza è richiesta solamente per la esecuzione di misure cautelari che, nel corso delle indagini e prima del giudizio, possono limitare la libertà personale. C'è da chiedersi come mai è divenuta così acuta l'attenzione per questo scampolo di immunità parlamentare, tanto da prefigurare nuove modifiche alla Costituzione e l'attribuzione alla Corte costituzionale del compito di decidere sulla richiesta della magistratura di arresto di un parlamentare. Una soluzione che priverebbe il Parlamento di una storica prerogativa e finirebbe con l'attribuire alla Corte costituzionale un compito remoto dalle sue funzioni: non di arbitro in un possibile conflitto insorto tra Parlamento e magistratura, ma di preventivo controllo dei mandati di arresto in base a criteri di valutazione largamente politici. Se si vuole contrastare la logica di schieramento, che sarebbe alla base di molte decisioni parlamentari, o di voti dati con un obiettivo politico diverso dalla legittima tutela delle prerogative parlamentari, il rimedio dovrebbe essere altro. I regolamenti della Camera e del Senato potrebbero rafforzare il ruolo della Giunta per le immunità o le autorizzazioni, rendendo la composizione meno legata alla rappresentanza proporzionale dei gruppi politici. Le determinazioni della Giunta potrebbero divenire definitive, o le sue proposte meno soggette alla episodica e sommaria valutazione nelle votazioni in Assemblea, ad esempio mediante il rinvio in Giunta se non accolte. Tuttavia il principale rimedio è costituito dal corretto e tempestivo funzionamento della giurisdizione. Il processo penale ha il suo culmine nelle indagini, che hanno immediato impatto sull'opinione pubblica, e non, come dovrebbe essere, nel giudizio che valuta le prove e accerta il reato. La custodia cautelare è spesso vista come anticipazione di una pena, quasi a bilanciare l'attesa di una condanna che verrà tardi o mai, anche per effetto della prescrizione del reato. Il malfunzionamento della giustizia induce a distorcere le stesse regole processuali. Non sarebbe certo inappropriato se processi che vedono come imputato chi esercita funzioni politiche rappresentative venissero istruiti e celebrati, come è certamente possibile con la concentrazione degli atti da compiere, con assoluta rapidità. Molto spesso i ritardi sono dovuti non alle norme, ma alla inerzia ed alla disorganizzazione. L'una e l'altra non possono avere giustificazione quando mettono a rischio la credibilità delle istituzioni. Giustizia: le manette in parlamento non smettono di tintinnare di Marco Bertoncini Italia Oggi, 5 agosto 2015 Pierferdinando Casini auspica che la proposta di Andrea Orlando (con soddisfazioni della stampa manettara e di singoli esponenti Pd) per riscrivere l'immunità parlamentare si risolva in un "dibattito estivo". In effetti non pare sussistano oggi le condizioni politiche per sottrarre al Parlamento la competenza sulle richieste della magistratura per privare della libertà o intercettare o perquisire deputati e senatori. Certo, è grave che sia lo stesso titolare della Giustizia ad asserire, sia pure in forma ipotetica e badando bene a tenere sul piano personale la tesi espressa, che dovrebbe essere la Corte costituzionale a deliberare in merito. L'articolo 68 della Carta risponde a una tradizione plurisecolare che fornisce ai parlamentari tutele e privilegi per esercitare il mandato. È senz'altro vero che i partiti approfittarono spudoratamente dell'immunità, fino alla revisione costituzionale imposta nel 1993 sotto Tangentopoli, quando il clima popolare era rovente e trovava alimento in partiti e organi d'informazione che solo troppo tardi si resero conto dei pericoli celati nell'andazzo. È però altrettanto vero che la rigorosa divisione dei poteri inibisce di assegnare alla Corte costituzionale una funzione totalmente estranea alle competenze espresse nella Carta. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che soltanto eccezioni rilevanti, o meglio estreme, potrebbero privare una Camera di un proprio membro. Sarebbe bene aver presente la sconcertante e squalificante (per chi la votò) autorizzazione all'arresto concessa contro il deputato Alfonso Papa a seguito di un'ordinanza poi annullata dalla Cassazione. Bisognerebbe, soprattutto, tenere sempre fermo il principio della completezza dell'organo legislativo. Giustizia: sull'immunità Orlando divide Fi e Casini. No alla riforma, la sinistra apre di Alberto Custodero La Repubblica, 5 agosto 2015 Chiti: "Era un nostro emendamento, lo ripresentiamo" Papa: va abolita. Tedesco: il nodo è la custodia cautelare. La proposta del ministro della Giustizia Orlando di far decidere alla Consulta sulle richieste di arresto dei parlamentari, e non più alle Camere, divide la politica. C'è chi, come la minoranza Pd, rivendica di aver proposto un identico passaggio dei poteri in un emendamento, che fu bocciato, al ddl costituzionale sul Senato. L'emendamento, assicura ora il senatore Vannino Chiti, sarà ripresentato, ma questo fa entrare la sinistra dem in conflitto con il Guardasigilli che ritiene che sia difficile ora inserire la modifica nel testo della riforma costituzionale. Posizione, questa, condivisa dalla senatrice del Pd Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari Costituzionali. Ma c'è anche chi boccia la proposta, a cominciare da Forza Italia, per la quale "Renzi così tenta di rabbonire i pm" e dal senatore centrista Casini (Area popolare), contrario a "invasioni di campo". "Ciascuno continui a fare il proprio dovere - dice il presidente della Commissione Affari esteri - l'intromissione della Consulta sull'immunità sarebbe impropria". C'è poi chine prende le distanze, come Giuseppe Tesauro, presidente emerito della Corte, secondo il quale "la Consulta viene tirata per la giacchetta un po' troppe volte, è come il prezzemolino nella minestra". Sull'argomento è tornato lo stesso ministro della Giustizia. "È solo una riflessione - ha precisato - non una proposta. Non ha nessun imprimatur ministeriale e non impegna il governo, ma vuole solo approfondire un tema". La precisazione, tuttavia, ha alimentato le polemiche, in particolare all'interno del Pd. "Mi dispiace questa puntualizzazione del Guardasigilli - ha replicato Chiti - perché se una cosa è positiva e utile non ha senso annunciarla e poi rimandarla, ma la si approva quanto prima, per esempio nelle riforme". Replica al Guardasigilli anche il Presidente della Giunta delle Elezioni e Immunità del Senato, Dario Stefàno, eletto con Sel. "La soluzione - ha detto - non sta nella previsione di un organismo terzo, ma semmai nell'individuazione di parametri oggettivi che guidino il corretto esercizio della discrezionalità delle decisioni". A favore della proposta, anche due ex parlamentari sulle cui vicende giudiziarie si erano pronunciate le camere. Alfonso Papa, ex Pdl, finì in carcere dopo che Montecitorio aveva votato a favore dell'arresto. "Perfettamente d'accordo con Orlando - commenta Papa - ma penso che questo istituto dell'immunità non abbia più nessuna ragione di esistere. Cosi com'è strutturato, è diventato non un privilegio, ma una forma di ricatto". Alberto Tedesco, Pd (ma poi si dimise), invece, fu beneficiato dal voto dei colleghi. "Penso a un ente terzo che giudichi queste richieste - dice Tedesco - ma non certo alla Consulta". Per Tedesco, "il vero problema è la riforma della custodia cautelare: "Così com'è, è gestito in maniera "impropria". Giustizia: riformare l'immunità parlamentare? ripristinarla come la vollero i padri di Sergio Soave Il Foglio, 5 agosto 2015 La sortita del ministro della Giustizia su un'eventuale riforma delle residue immunità parlamentari, ridotte a una verifica dell'esistenza di una volontà distorta delle procure che chiedono l'arresto di un parlamentare, è probabilmente solo un espediente per smarcarsi dalle polemiche suscitate dal caso Azzollini, ma non per questo è meno grave. Afferma egli stesso che "l'attuale meccanismo è giusto e fondato", ma poi si preoccupa del fatto che le deliberazioni parlamentari su questa materia assumano un carattere politico. Il fatto è che è proprio la natura politica della difesa dell'autonomia del Parlamento da un uso strumentale delle indagini e soprattutto della custodia cautelare che esprime il senso del dettato costituzionale. In base al principio della divisione dei poteri i costituenti avevano stabilito una autotutela del potere legislativo da interventi considerati esorbitanti dell'ordine giudiziario. La storia ha dimostrato quanto fossero stati lungimiranti, e quanto è stato miope e subalterno il Parlamento che ha così profondamente mutilato questo principio basilare. Se si dovesse intervenire nuovamente sul testo costituzionale bisognerebbe farlo per rafforzare le immunità e affidarle all'autonoma deliberazione della Camera di appartenenza dell'inquisito. Tutte le pretestuose polemiche che trasformano l'immunità in impunità dovrebbero, caso mai, essere indirizzate a esaminare l'impunità delle magistrature che intervengono a modificare la composizione della rappresentanza nazionale stabilita dalla sovranità popolare, spesso per procedimenti che poi finiscono in una bolla di sapone. L'idea di sottrarre al Parlamento l'autotutela da intromissioni giudiziarie viziate da faziosità, per affidarla a un altro organismo di tipo giurisdizionale, come la stessa Corte costituzionale, nega la radice della divisione dei poteri e rende ancora più esplicita la subalternità della rappresentanza nazionale all'ordine giudiziario, di un potere elettivo a una funzione professionale, della cui indipendenza, peraltro, si può ben dubitare. L'idea che la politica, cioè in democrazia l'esercizio del mandato elettorale liberamente espresso dal popolo sovrano, sia un difetto che rende dubbia qualsiasi decisione, mentre l'esercizio della giurisdizione (anche quando usa in modo malizioso e artato la lettera della legge tradendone la sostanza logica) sia sempre commendevole, è più che una sciocchezza, è una dimissione dalla propria funzione di chi esercita un ruolo politico essenziale come quello ricoperto da Andrea Orlando. Non se ne farà nulla con tutta probabilità, lo stesso Orlando chiarisce che questa eventuale riforma costituzionale non può entrare nel pacchetto di quelle ora in discussione, il che significa che almeno in questa legislatura non c'è spazio per esaminarla. Questo però non basta a tranquillizzare chi crede in un equilibrio dei poteri che deve essere caso mai restaurato, non certo essere piegato ancora di più nella direzione antidemocratica del giustizialismo imperante. Alle polemiche sull'uso di un meccanismo di autotutela "giusto e fondato" si risponde rivendicando il diritto e il dovere politico del Parlamento di tutelarsi da intromissioni anomale, non con una specie di malcelata vergogna completamente fuori luogo. Giustizia: Conso e la cattiva illusione che fece un favore a Totò Riina di Salvatore Sechi ilsussidiario.net, 5 agosto 2015 Con gli attentati a Roma, Firenze e Roma la strategia di usare il terrore e le stragi di Cosa nostra diventa continentale. La mafia sfida lo Stato, trascinandolo in una guerra che aveva come posta il gioco la stessa sopravvivenza della democrazia nel nostro paese. Ministro della Giustizia era un docente universitario di rango come Giovanni Conso, che si è spento ieri a Roma all'età di 93 anni. Resterà come una ferita non suturabile la sua decisione di non rinnovare il carcere duro a circa 300 boss mafiosi. Non aveva, questo torinese segaligno, immerso nel diritto, prestato davvero alla politica, nessuna ragione di scambio con gli esponenti della criminalità organizzata. Insistette nel dire che il provvedimento con cui allentava la durezza del 41bis non venne concordato con nessuno, fu preso all'insaputa dei suoi più stretti collaboratori e dello stesso capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro. Quest'uomo delle istituzioni pensò di servirle introducendo un momento di sosta, un periodo di distensione nella resistenza delle istituzioni repubblicane contro la mafia. Con Moro si era agito diversamente, sacrificandolo in nome di una concezione dello Stato assunto come valore assoluto, bene supremo da preservare. Dietro Conso ci fu una trama di consensi. Del capo della polizia, di alti funzionari dei dipartimento degli affari penitenziari, di ministri come Mancino (tale è l'imputazione che i processi in corso debbono riuscire a convalidare). Era presente una parte del mondo cattolico impegnato nelle carceri e non solo sulla base di una concezione della pena e della rieducazione dei reclusi che noi laici non possiamo disprezzare. Lo stesso Oscar Luigi Scalfaro sembrò fare da regista di questo disegno di alleviare le sofferenze di centinaia di uomini di Cosa nostra, in cambio della fine della guerra di sterminio che ormai aveva come teatro l'intero territorio nazionale. A soccombere fu un'altra concezione dello Stato. A impersonarla fu un ministro socialista, il Guardasigilli Claudio Martelli, in collaborazione col ministro dell'Interno, il democristiano Enzo Scotti, e lo stesso presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Appena Giovanni Falcone e la sua scorta vennero travolti da un attentato micidiale, i due titolari dei principali dicasteri della sicurezza e della giustizia misero a punto una strategia diversa dalla cautela di Conso, cioè di limitazione dei poteri, dei collegamenti, della stessa influenza dei boss, ai quali vennero applicata la legislazione repressiva messa a punto per le Brigate rosse. Vennero riaperte le carceri speciali di Pianosa e dell'Asinara. Furono varate le norme per creare i collaboratori di giustizia, cioè per alimentare il pentitismo. Si mutuarono dagli Stati Uniti strutture investigative come la Cia. Ma il Parlamento non si identificò nelle posizioni di Martelli. Anche i comunisti presero le distanze, e le misure contro Cosa nostra saranno varate solo dopo la morte di Paolo Borsellino. La più potente organizzazione criminale della nostra storia poteva essere severamente indebolita, se non distrutta. Ma questa concezione liberale dello Stato, che deve essere forte con i forti, venne sconfitta. Martelli e Scotti vennero esclusi dai governi successivi. Fu il trionfo della trattativa, dello Stato che si arrendeva alla violenza criminale. Conso alimentò una terribile illusione, cioè che con Riina e i suoi sodali si potesse aprire un dialogo, trovare un'intesa. Si potrebbe discutere se e in che misura i sentimenti dell'opinione pubblica fossero, o siano, in sintonia con la volontà rappresentata dall'autorevole giurista torinese, di evitare contrapposizioni radicali, spaccare il paese, coinvolgerlo in una lunga guerra civile. Fatto sta che la linea politica e culturale di Martelli, e dello stesso Scotti, parve essere troppo giacobina. E sono stati puniti. Ha vinto non lo stato di diritto, ma lo Stato caritatevole. Giustizia: Mafia Capitale. Buzzi accusa "da Zingaretti a Marino, soldi a tutti i politici" di Carlo Bonini e Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 5 agosto 2015 I nuovi verbali del capo dell'organizzazione: "Tangenti su metà del valore delle gare". "Il patto di spartizione era stato fatto da Storace con Zingaretti, poi noi abbiamo messo in campo Gramazio". "A Panzironi diedi un milione ma Alemanno non sapeva". Dopo sei mesi di detenzione in quel di Nuoro, a Badu e Carros, il 23 e 24 giugno, nel carcere di Cagliari, Salvatore Buzzi, signore della coop "29 giugno" e uomo chiave di "Mafia Capitale", ha risposto alle domande del Procuratore aggiunto Michele Prestipino e del sostituto Paolo Ielo. Per un interrogatorio che Buzzi ha sollecitato per mesi e che, nelle sue intenzioni e in quelle del suo avvocato, Alessandro Diddi, dovrebbe capovolgerne la posizione processuale. Da carnefice in vittima. Da corruttore, in concusso dalla Politica e i suoi appetiti. Buzzi - come documentano i verbali - ammette tutto ciò cui lo inchiodano le intercettazioni telefoniche, risparmia l'ex sindaco Alemanno ("Non sapeva delle tangenti"), definisce la geografia della corruzione nel gruppo consiliare Pd che ha sostenuto la giunta Marino, muove accuse al governatore della Regione Nicola Zingaretti e al suo entourage ("Hanno preso soldi"). Anche se spesso non è in grado di distinguere tra fatti e circostanze apprese in prima persona e voci raccolte da terzi o semplici deduzioni. Ci sono due sindaci (Alemanno e Marino) e un Presidente di Regione (Zingaretti) di cui Buzzi ha intenzione di parlare. Ed è sul governatore che muove con maggior decisione. A cominciare dalla gara da poco meno di 1 miliardo di euro bandita nel 2014 per il centro unico di prenotazioni ospedaliere, di cui Buzzi vincerà un lotto (prima che la gara venga annullata). "La gara era in quattro lotti. Tre andavano alla maggioranza e una all'opposizione. Era l'accordo che Storace aveva fatto con Zingaretti. Poi, al posto di Storace, noi mettiamo in pista Gramazio (Luca, arrestato lo scorso giugno, ndr). E Zingaretti dice: "Non ti preoccupare, fai questa cosa con Venafro (ex capo di gabinetto del governatore, ora indagato, ndr), ci penso io con lui". Da quel momento in poi, si parla solo con Venafro. Fatto l'accordo politico a monte con il Presidente, poi parli con il capo di gabinetto. Il capo di gabinetto fa l'accordo con Gramazio, il quale, per essere sicuro che venga rispettato, chiede un membro in commissione aggiudicatrice di gara". C'è dell'altro. Buzzi indica un uomo chiave nell'entourage di Nicola Zingaretti. Peppe Cionci. "Gravita intorno a Zingaretti. È l'uomo dei soldi. Quando abbiamo fatto la campagna elettorale per lui, siamo andati da Cionci". Se dalla Regione ci si sposta al consiglio Comunale, sostiene Buzzi che con la giunta Marino fossero cambiate le regole. "Con Alemanno - spiega - comandavano gli assessori. Con Marino, i dirigenti dei dipartimenti". Mentre l'aula consiliare Giulio Cesare era diventata un suk dove la facevano da padrone i due capi-bastone del Pd, l'allora presidente dell'Assemblea Mirko Coratti e l'allora capogruppo Francesco D'Ausilio (a quest'ultimo, Buzzi sostiene di aver fatto arrivare, attraverso il suo capo segreteria Salvatore Nucera, una tangente da 6.500 euro per una gara per la pulizia delle spiagge di Ostia). "La regola era che si pagava la tangente sul valore del 50 per cento dei lotti di gara. E che, un lotto era indicato dalla politica. Era la politica che decideva a chi doveva essere assegnato". "Pagavate quanto?", chiede Ielo. "Il 3, 4, 5 per cento", risponde Buzzi. Giustizia: sicurezza a Roma, sotto gli arresti niente… qui è sempre "droga capitale" di Nello Trocchia Il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2015 L'Amnesia arriva nel fine settimana, venerdì fino all'una di notte la trovi da noi. Qui ci sta, è pure bona". L'amnesia è la droga dello sballo, una qualità particolare di marijuana. In questi giorni è diventata famosa perché, in quel caso trattata forse con metadone o eroina, ha provocato danni a tre ragazzini di Napoli che l'avevano fumata. Ma questa volta Napoli non c'entra, anche se l'organizzazione è simile alle piazze di spaccio di Gomorra. Non c'è la saga dei Savastano, nessuna finzione, ma un'organizzazione con decine di unità assoldate dall'esercito di droga capitale, che paga spese legali per i detenuti e fornisce personale di ricambio in caso di arresti. Siamo a San Basilio, a 20 minuti dal Colosseo, quando arrivo nel quadrilatero delle case popolari, le vedette sono in ogni dove, scrutano auto, controllano targhe e prendono le richieste. Devono anche avvisare in caso di blitz delle forze dell'ordine: fischiano e rumoreggiano. L'ultima retata, di polizia e carabinieri, solo pochi giorni fa, ha portato sei persone in manette. Gli affari ruotavano attorno alla famiglia Primavera, il padre Guerino e i figli Daniele e Fabrizio ora sono latitanti. A San Basilio gestivano una piazza di spaccio, ma non solo. Guerino Primavera, grazie ai suoi contatti, era anche riuscito a truccare una gara d'appalto indetta dall'azienda ospedaliera Sant'Andrea. Una vicenda che ha portato ai domiciliari Egisto Bianconi, al momento dell'arresto direttore generale del Sant'Andrea, ora sospeso dalla Regione. Il grande affare è la droga, ma per fare soldi servono anche i canali e gli amici giusti. Il poliziotto chiamava: domani piove forte! Tra gli indagati anche Diego Cardella, agente della Polizia di Stato, finito in carcere per usura aggravata, ma soprattutto rivelazione di segreti d'ufficio. Quando c'erano retate, Cardella, in servizio al commissariato Viminale, spifferava tutto ai sociali, in una circostanza Cardella avverte Guerino Primavera che al figlio scrive: "Stanotte piove de brutto pare che dà i fulmini stanotte", ottenendo dal figlio una risposta: "Frega un cazzo tanto scappo". Questa volta sono scappati davvero. Quando arrivo in mezzo a questi palazzoni, groviglio di cemento e disagio sociale, la vedetta mi chiede cosa voglio. "Fumo? Fai il giro". Dobbiamo fare inversione e parcheggiare, bisogna aspettare. L'organizzazione ora mostra il suo acme di perfezione. La vedetta mi fa scendere, rampa di scale da percorrere, sotto l'androne di un palazzo trovo un altro complice: il facilitatore. Non sarà lui a venderci lo stupefacente ma riceve l'ordine, fa l'accoglienza. Mostriamo curiosità e il complice spiega: "Devi aspettare per la roba, zio ora viene. Comunque l'Amnesia la trovi nel fine settimana, da venerdì. La nostra non viene da giù, arriva dalla Spagna, quello è il canale. Però stai sicuro, è bona". Chiediamo se possiamo acquistare e andare via, ma pecchiamo di ingenuità. "La droga te la vende zio, è un vecchietto, dà via un poco di fumo". Pochi minuti e un anziano signore scende la scale e richiama la nostra attenzione. Riprende l'ordine e mi dice di aspettare: "Ma vuoi solo fumo, guarda che abbiamo pure la coca". Avanza pochi metri e preleva lo stupefacente. Il gioco è sempre lo stesso, piazzare la droga in contatori del gas o dell'acqua per evitare il problema dei blitz, ma anche l'età del pusher è un ottimo antidoto per abbassare il rischio penale. Vado via, ma una vedetta mi chiede un passaggio. Ha una mano fasciata e mette tutto in chiaro: "Non spaccio, ma do una mano all'organizzazione che mi aiuta". Il welfare del crimine. Decine in manette, il quartiere non cambia. San Basilio non cambia mai, ogni volta le forze dell'ordine ne arrestano decine, ma senza un intervento strutturale e continuo, questo resterà sempre il quadrilatero dello spaccio, viavai di cacciatori di sogni effimeri e crocevia di affari. Il grande business, nonostante le retate, riparte sempre. Ma il bazar di droghe a Roma è sempre aperto e l'offerta è ricca. Basta fare un giro a San Lorenzo, quartiere universitario. Ciclicamente i cittadini protestano, arrivano puntuali le promesse di intervento, poi tutto torna come prima. Arrivo in piazza Immacolata, pieno centro, poco prima del tramonto, un pusher sta vendendo erba, un suo sodale scorge la mia curiosità e mi segue fin dentro un bar. Non sfugge nulla alle decine di ragazzi che controllano il territorio trasformandolo in un grande mercato di stupefacenti. Al Pigneto, altro quartiere di Roma, poco distante da San Lorenzo, invece, l'occupazione del territorio è spaventosa. Ricevo decine di proposte in pochi minuti. Nell'area pedonale gli spacciatori sono ovunque. "Fumo? Erba?". L'offerta è continua. A un certo punto, due pusher si spintonano per accaparrarsi il cliente, me. Nell'area adiacente, quella pedonale, le stradine sono controllate in ogni angolo. Lo scorso anno furono installate telecamere per controllare il quartiere: tutto uguale. Giorni fa i carabinieri hanno braccato due pusher, ma sono stati circondati da una quarantina di spacciatori extracomunitari. È partita una guerriglia, sette feriti. Incontro Paolo, nome di fantasia, 27 anni e dieci di stupefacenti. Ora riscrive la sua vita al Sert di Villa Maraini: "Prima canne, poi cocaina, ecstasy anche dieci a sera. Ho voluto tagliare perché stavo perdendo tutto. Reperire sostanze? In discoteca o in strada, una passeggiata". A Roma la droga resta un affare capitale. Giustizia: oggi al Senato il voto definitivo sulla riforma fallimentare di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2015 Con il voto di fiducia dell'Aula del Senato - chiesto ieri dal ministro per i rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi - si conclude oggi a mezzogiorno il percorso di conversione del decreto legge 83/2015 "Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria" che, salvo (improbabili) sorprese, diventerà definitivamente legge. Il testo uscito dal veloce dibattito assembleare di Palazzo Madama è identico a quello licenziato dalla Camera la scorsa settimana, nonostante le aspre polemiche delle opposizioni che ancora ieri hanno caratterizzato la discussione. Discussione che, dopo l'introduzione del relatore Felice Casson, ha subito archiviato cinque questioni pregiudiziali di costituzionalità (Stefani, Buccarella, Caliendo, De Petris, Bruni) a temi molto ampi, ma soprattutto centrate sui presupposti di necessità e urgenza della decretazione e - in particolare - sulla vasta eterogeneità dei temi coinvolti - dai fallimenti al processo esecutivo e telematico, dalle banche all'organizzazione giudiziaria e fino alla continuità delle imprese indagate per reati ambientali. A queste il senatore D'Alì ha aggiunto l'articolo 22, della legge - copertura finanziaria - "rimasto immutato rispetto al provvedimento iniziale, nonostante le numerosissime aggiunte, alcune costose, che sono state introdotte dalla Camera dei deputati" (tra cui il credito d'imposta di 250 euro per gli avvocati). "Frustrazione" è stata espressa dal collega Orellana (Commissione giustizia) per un testo "passato troppo rapidamente senza poter approfondire adeguatamente i contenuti e le implicazioni, nonostante il nostro intento migliorativo". Secondo Orellana peraltro "i tempi tecnici per una terza lettura alla Camera dei deputati ci sarebbero stati, in quanto il dl va convertito entro il 26 agosto". Drastico Puglia (M5S) secondo cui "finalmente esaminiamo un provvedimento che tratta di fallimenti, anche se a mio avviso l'unico fallimento è questo governo". Caliendo è tornato infine sui magistrati tributari e la "norma vergognosa sul ricambio generazionale dei cinquantenni. Nella magistratura onoraria l'esperienza, la professionalità, l'età contribuiscono a un equilibrato giudizio, specialmente in quelli che non sono professionalmente giudici". Giustizia: Patrizia Moretti "Mauro Guerra ucciso come mio figlio Federico" di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 5 agosto 2015 Una fiaccolata con il sindaco Mauro Sbicego, fra le centinaia di persone che hanno sfilato, in silenzio, da Carmignano a Sant'Urbano. Un'inchiesta a Rovigo con il procuratore capo Carmelo Ruberto che segue da vicino il lavoro del sostituto Fabrizio Suriano. E il funerale di domani pomeriggio che rimetterà quest'angolo del Padovano al confine con il Polesine sotto i riflettori nazionali. Mauro Guerra, 32 anni, grande e grosso, una laurea in economia e la passione per la grafica e il culturismo, era senza dubbio borderline. Ma è morto in mezzo ai campi, inseguito dai carabinieri chiamati a placarlo anche con un ricovero coatto. Il trentenne era riuscito a "fuggire". Un militare lo aveva placcato, ma stava avendo la peggio nella violenta colluttazione. Il maresciallo Marco Pegoraro ha estratto la Beretta d'ordinanza: due colpi in aria e poi ha preso la mira su Mauro. È rimasto un cadavere coperto da un lenzuolo in mezzo alla campagna bruciata dall'afa. Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, ha levato la sua voce a sostegno della famiglia Guerra e di chi ora pretende massima trasparenza. "Mauro l'hanno dipinto come un mostro, come avevano fatto con mio figlio dieci anni fa", dichiara al Corriere Veneto. "C'è una versione ufficiale carica di lati oscuri, i carabinieri che indagano su se stessi e una vittima che viene criminalizzata". Patrizia dà voce pubblica a tanti altri: "Continuano a sparare senza pensarci due volte, come se fosse assimilato un senso di impunità consolidata. Sarà sempre peggio. Perché tutto questo accanimento fino a uccidere? Serve un freno, forse una formazione adeguata, una cultura diversa. E la fine dell'impunità, la possibilità di essere spogliati di quella divisa con cui commettono questi abusi". La morte di Mauro Guerra è destinata ad aggiungersi alla sequenza di analoghi casi. Per ora, la famiglia ha scelto di affidarsi agli avvocati. Ma c'è sempre da stabilire se mercoledì era stata davvero attivata la procedura del Trattamento sanitario obbligatorio. L'Usl 17 della Bassa padovana, i medici e il servizio 118, il municipio di Sant'Urbano e l'Arma sono i soggetti chiamati a certificare se per Mauro era in corso un Tso oppure no. Un "caso" ancora aperto, quindi. Tant'è che nei social c'è chi chiede: "Mauro Guerra, fuori la verità". Come pure si è mobilitata la curva degli ultrà del Calcio Padova con uno striscione in sintonia con il Dna politico. Domani alle 16:30 nella parrocchiale della frazione di Carmignano l'ultimo saluto a Mauro Guerra. L'epigrafe è sintomatica: riproduce il Cristo che aveva disegnato recentemente. E alla fine della cerimonia religiosa è prevista una canzone di Vasco Rossi: "Gli angeli", le ultime note che Mauro aveva affidato al suo profilo Fb. Ma anche in pieno agosto l'eco della tragedia di Carmignano farà fatica a stemperarsi nell'indifferenza vacanziera. In questi giorni, sono riaffiorati particolari sulla personalità del trentenne. Condannato per stalking, noto in paese da tempo per le sue bizzarrie, buttafuori nei locali notturni, con una vena artistica che confonde fede e violenza. Ma resta il fatto che, dentro l'abitazione di famiglia in via Roma e durante l'inseguimento a Mauro in mutande, la sicurezza di tutti è clamorosamente saltata. E alla fine un intervento (Tso o meno) di routine è sfociato in un dramma inspiegabile. L'accertamento delle responsabilità diventa il minimo. È agli atti l'autopsia effettuata per conto della procura dal medico legale Lorenzo Marinelli. Hanno assistito i consulenti Luca Massaro (per il carabiniere) e Giovanni Cecchetto, per la famiglia Guerra. Un solo proiettile ha causato la morte per emorragia interna. Risale, invece, ad un paio di mesi fa il decesso durante un Tso di Massimiliano Malzone, 39 anni di Agnone nel Cilento. Indaga la procura di Lagonegro in Puglia, soprattutto dopo il clamoroso caso di Francesco Mastrogiovanni, il maestro di Castelnuovo Cilento morto il 4 agosto 2009 nel servizio psichiatrico di Vallo della Lucania. Giustizia: Sottosegretario Ferro "sì alla grazia per l'imprenditore che uccise un bandito" di Massimiliano Lenzi Il Tempo, 5 agosto 2015 È compito del Ministro della Giustizia esprimere un parere sulla grazia. Personalmente credo che dal punto di vista tecnico-giuridico nel caso di Antonio Monella ci possano essere i presupposti per esprimere un parere favorevole alla concessione della grazia. Infatti lo stesso Magistrato di sorveglianza di Brescia ha accolto la richiesta di differimento dell'esecuzione sulla prognosi della "non improbabile concessione del richiesto provvedimento clemenziale", rimarcando come il delitto fosse maturato in "circostanze del tutto particolari". Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia del Governo Renzi, in questa intervista scuote l'inazione della politica sulla grazia ad Antonio Monella, in carcere dall'8 settembre 2014. Adesso la palla passa al Ministro della Giustizia, Andrea Orlando: se è favorevole alla grazia batta un colpo. Otto anni di processi, tre condanne, un pellegrinaggio in carcere dei politici per andarlo a trovare ma lui resta dentro. Perché la grazia non arriva? "La grazia è un istituto delicato: la sua applicazione richiede un'attenta analisi della vicenda che riguarda il soggetto che eventualmente ne beneficerà. Credo che sia fondamentale partire da una ricostruzione fedele della vicenda giudiziaria che riguarda Monella, esaminando tutti gli elementi. C'è una sentenza della Corte di Assise di Appello di Brescia, divenuta irrevocabile, che lo condanna a una pena di circa sei anni per aver ucciso, con un fucile posseduto regolarmente, un cittadino albanese, a seguito del furto della sua auto e a un tentativo di furto nella propria abitazione. Altro elemento è il fatto che Monella sta scontando la pena in carcere dall'8 settembre del 2014, ben otto anni dopo aver commesso il fatto. Ribadisco, credo ci siano i presupposti per la grazia. L'autorità giudiziaria ha sottolineato che a spingere Monella a compiere il gesto abbiano concorso l'ansia scaturita dal furto all'interno della propria abitazione e l'allarme per gli episodi di rapine e furti che si erano verificati nella zona. Inoltre il Monella era incensurato e la Corte d'Assise di Appello di Brescia ha ridotto la pena di primo grado concedendo il massimo dello sconto previsto. Va poi aggiunto che Monella si è messo in campo in prima persona per risarcire i familiari delle vittime con una rilevante somma di denaro. Questi sono tutti elementi oggettivi da valutare". Oggi si fa un gran parlare di immigrazione e gli italiani, purtroppo, son convinti che a pagare siano sempre gli onesti. Lei cosa dice? "È innegabile che negli ultimi anni il bergamasco e i territori limitrofi siano stati interessati da innumerevoli furti, che hanno riguardato abitazioni e negozi, spesso sfociando in episodi di violenza a danno dei cittadini. Per rispondere a questi episodi e per garantire maggiormente sicurezza e certezza della pena, il Governo ha presentato emendamenti al disegno di legge per la riforma del processo penale che prevedono l'innalzamento delle sanzioni per furto e rapina in abitazione, reati che destano preoccupazione nei singoli e un senso di allarme nella collettività. I cittadini devono sentirsi sicuri e questa è una priorità per il Governo. Io punterei sul perfezionamento del Testo unico sull'immigrazione, agendo sull'istituto dell'espulsione dell'immigrato colpevole di reato come sanzione sostitutiva della pena, ampliandone l'ambito di applicazione nei presupposti normativi ed agevolandone le modalità attuative". Legittima difesa: non crede sia arrivato il momento in Italia di seguire la legislazione degli Stati Uniti, poche regole e chiare? "La legittima difesa esiste da sempre nel nostro ordinamento. Per contrastare il dilagante fenomeno dei furti e delle rapine nelle abitazioni private e negli esercizi commerciali il legislatore ha già modernizzato la norma, legittimando l'uso dell'arma detenuta legalmente per difendere la propria incolumità o i beni propri o altrui nei casi di delitti commessi con violazione di domicilio". Alle sezioni unite il contrasto sulla sanzione per abuso dei contratti a termine nella Pa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2015 Corte di cassazione - Ordinanza 16363 del 4 agosto 2015. Saranno le Sezioni unite a scegliere il criterio di risarcimento da riconoscere al lavoratore quando la Pa abusa dei contratti a termine. La Sezione lavoro della Corte di cassazione, con l'ordinanza interlocutoria 16363 depositata ieri, ammette il contrasto sul tema e passa la parola alle sezioni unite. L'occasione per chiedere lumi arriva da un ricorso con il quale un'azienda ospedaliera contestava la posizione della Corte d'appello che, in linea con il Tribunale, aveva ritenuto adeguato il solo criterio forfettizzato dettato dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Il datore era stato condannato a pagare 20 mensilità: cinque come misura minima per il licenziamento non valido e 15 in sostituzione della reintegra. Un verdetto, a parere della Corte d'appello, in linea con le indicazioni fornite dalla Corte di giustizia Ue in seguito alla domanda pregiudiziale proposta proprio dal Tribunale di primo grado. I giudici di Lussemburgo (Causa C-53/04), pur affermando che la norma statale(articolo 36 del Dlgs 165/2001, modificato dal Dl 112/08) la quale esclude per i dipendenti pubblici la trasformazione del contratto a tempo indeterminato in conseguenza dei rinnovi illegittimi non entra in rotta di collisione con la direttiva comunitaria in materia (1999/70) chiariscono che il "gap" rispetto al lavoro privato deve essere colmato con misure adeguate e garanzie equivalenti. Per essere in armonia con il diritto comunitario il danno risarcito deve avere: un'efficacia dissuasiva, non produrre conseguenze di minor favore di quelle previste per i privati e non rendere troppo difficile la tutela contro il ricorso eccessivo ai rinnovi. Secondo i giudici di merito la liquidazione equitativa è garantita dalla disciplina dell'articolo 18, che avrebbe anche un potere dissuasivo. La tesi, però, non è condivisa dai giudici di legittimità che si "spaccano" indicando altre leggi come utili sia a porre rimedio al danno sia a prevenirlo. Secondo la Cassazione 19371 del 2013, in caso di violazione della legge imperativa sui rinnovi, ferma restando la preclusione alla trasformazione del rapporto in tempo indeterminato ritenuta legittima anche dalla Consulta (sentenza 98 del 2003), resta solo la strada del ristoro dei danni subiti. La legge da applicare, d'ufficio e anche in sede di legittimità, sarebbe la 183 del 2010 che, con l'articolo 32, prevede un'indennità omnicomprensiva la quale spazia tra un minimo di 2,5 mensilità a un massimo di 12. Una norma da applicare a prescindere dalla costituzione in mora del datore e dalla prova concreta del danno. La scelta non è però condivisa dai colleghi della stessa sezione che, con la sentenza 27481 del 2014, pur mantenendo fermo il paletto dell'impossibilità di costituire rapporti a tempo indeterminato, prendono come parametro per il risarcimento il "danno comunitario" configurabile come sanzione per legge a carico del datore. Per liquidare il danno comunitario va applicato il criterio indicato dalla legge 604/1966, articolo 8, che fissa un risarcimento che varia dalle 2,5 alle 6 mensilità che possono "lievitare" fino a 14 in virtù dell'anzianità. Mentre sarebbe sbagliata sia la scelta dell'articolo 18, perché privo di qualunque attinenza, sia quella della misura omnicomprensiva dettato dalle legge 183/2010. Sulla stessa linea si è mossa anche la Cassazione 13655 del 3 luglio scorso. Per i giudici è il caso di correre ai ripari prima che la "confusione" sulle sanzioni da applicare alla Pa aumenti. Lavoro dipendente, la retribuzione non può mai essere ridotta di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2015 Tribunale di Milano - Sezione lavoro - Sentenza 18 febbraio 2015 n. 440. Il datore di lavoro non può ridurre la retribuzione assegnata al dipendente al momento dell'assunzione neppure a seguito di uno specifico accordo. Lo ha stabilito la Sezione lavoro del Tribunale di Milano, sentenza 18 febbraio 2015 n. 440, richiamando il principio dell'"irriducibilità della retribuzione", dettato dall'articolo 2103 del codice civile. La vicenda - L'ultimo giorno prima della scadenza del periodo di prova, un neoassunto con mansioni di "capo ricevimento" presso una struttura alberghiera aveva assentito alla proposta di riduzione dello stipendio per trecento euro al mese. Dopo qualche tempo il datore aveva ridotto ulteriormente gli emolumenti del dipendente e infine lo aveva licenziato "per giustificato motivo oggettivo" consistente, a suo dire, nella "diversificazione dell'organizzazione all'interno del reparto e insostenibilità dei costi, con impossibilità di adibizione ad altre mansioni". A questo punto l'impiegato si è rivolto al tribunale del lavoro. Il principio - La sentenza, in primis, affronta la questione della riduzione degli emolumenti, ritenendo fondata "la domanda di pagamento delle somme non corrisposte, rispetto alla paga base contrattuale, in virtù dell'accordo di riduzione dello stipendio e della successiva unilaterale riduzione operata dalla parte datoriale". Infatti, rifacendosi ad un precedente di Cassazione (n. 11362/2008), spiega che "il principio dell'irriducibilità della retribuzione, dettato dall'articolo 2103 c.c. implica che la retribuzione concordata al momento dell'assunzione non è riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore di lavoro e il prestatore di lavoro e ogni patto contrario è nullo in ogni caso in cui il compenso pattuito anche in sede di contratto individuale venga ridotto". Unicamente in caso di esercizio dello "ius variandi", prosegue, "la garanzia dell'irriducibilità della retribuzione si estende alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti della retribuzione che siano erogate per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa". Ciò detto, non risultando alcun esercizio dello ius variandi, "la retribuzione contrattuale dovrà essere corrisposta per intero, risultando nulli i patti conclusi in corso di causa ai sensi dell'art. 2103 c.c. e2113 c.c.". Inoltre, prosegue il tribunale, anche il licenziamento va dichiarato illegittimo in quanto le allegazioni della società "appaiono di tale genericità da non consentire alcuna verifica giudiziale", non avendo indicato "alcun dettaglio in ordine alla consistenza ed insostenibilità dei costi, ai tratti caratteristici della diversificazione dell'organizzazione interna ed all'impossibilità di adibizione del ricorrente ad altre mansioni". Se è vero infatti che nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, rientra anche "l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione" (Cass. n. 11465/2012), che può essere deciso autonomamente ed insindacabilmente dall'imprenditore (articolo 41 della Costituzione), va anche detto che per il datore non è sufficiente evocare una "incontrovertibile crisi aziendale" senza documentarla in alcun modo. Il sindaco non può requisire una casa per destinarla agli sfrattati di Gianni Trovati Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2015 La sentenza 1779/2015 del Tar Campania - Salerno. Un sindaco ha requisito un appartamento privato per destinarlo a una famiglia sfrattata per morosità, imponendole di versare alla proprietaria la somma mensile di 220 euro. La proprietaria dell' appartamento ha impugnato davanti al Tar il decreto di requisizione, ed i giudici (Tar Campania - Salerno, sezione II, n. 1779/2015) hanno accolto il ricorso ed annullato il provvedimento. Il provvedimento del sindaco si basava sull' articolo 7 dell'antica legge del 1865, n. 2248, allegato E, che stabiliva la possibilità per "l' autorità amministrativa di disporre della proprietà privata", ma "per grave necessità pubblica", ed il sindaco poteva quindi esercitare questo potere soltanto se vi erano "eccezionali motivi di necessità ed urgenza", "tali da non consentire l'intervento del Prefetto". Nel caso di specie, non vi erano ragioni di grave ed urgente necessità pubblica che giustificavano un atto restrittivo della proprietà privata. Il provvedimento è stato emanato unicamente al fine di rimediare al disagio abitativo di una famiglia colpita da provvedimento di sfratto. La sentenza ha applicato esattamente quest'antica (e vigente) legge, e deve essere condivisa. In contrario a quanto esposto si potrebbe obiettare che la legge del 1865 non deve oggi essere interpretata secondo i criteri e i valori esistenti all' epoca, ma alla luce delle norme costituzionali che stabiliscono (articolo 2) i "doveri di solidarietà politica, economica e sociale". Ma l' obiezione non sarebbe persuasiva. Infatti, questa legge deve essere interpretata anche sulla base del principio costituzionale del riconoscimento e della garanzia della proprietà privata (articolo 42), che "nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo" può essere " espropriata per motivi di interesse generale". Non è prevista l' occupazione della proprietà privata da parte di un atto dell' autorità amministrativa, anche se esso può avere la finalità della solidarietà sociale, ed il Sindaco non può imporre il pagamento di un "affitto" mensile. Obbligatorietà della lingua italiana per gli atti processuali in senso proprio Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2015 Contenzioso tributario - Produzione di documenti redatti in lingua straniera - Nomina di un traduttore - Obbligo o discrezionalità del giudice - Condizioni - Omessa valutazione di documento prodotto in lingua straniera - Esclusione. Nel processo tributario, come in quello civile, la lingua italiana è obbligatoria per gli atti processuali in senso proprio e non anche per i documenti prodotti dalle parti, relativamente ai quali il giudice ha, pertanto, la facoltà, e non l'obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore ex articolo 123 cod. proc. civ., di cui si può fare a meno allorché non vi siano contestazioni sul contenuto del documento o sulla traduzione giurata allegata dalla parte e ritenuta idonea dal giudice, mentre, al di fuori di queste ipotesi, è necessario procedere alla nomina di un traduttore, non potendosi ritenere non acquisiti i documenti prodotti in lingua straniera. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 17 giugno 2015 n. 12525. Procedimento civile - Prescrizione dell'uso della lingua italiana - Ambito applicativo - Produzione di documenti redatti in lingua straniera - Nomina di un traduttore - Obbligo del giudice -Esclusione - Discrezionalità - Sussistenza - Condizioni. Il principio della obbligatorietà della lingua italiana, previsto dall'articolo 122 cod. proc. civ., si riferisce agli atti processuali in senso proprio e non anche ai documenti esibiti dalle parti, sicché, quando siffatti documenti risultino redatti in lingua straniera, il giudice, ai sensi dell'articolo 123 cod. proc. civ., ha la facoltà, e non l'obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, di cui può farsi a meno allorché trattasi di un testo di facile comprensibilità, sia da parte dello stesso giudice che dei difensori. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 12 marzo 2013 n. 6093. Procedimento civile - Principio dell'obbligatorietà della lingua italiana - Ambito - Produzione di documenti redatti in lingua straniera - Nomina di un traduttore - Obbligo del giudice - Esclusione. Il principio dell'obbligatorietà della lingua italiana, previsto dall'articolo 122 cod. proc. civ., si riferisce agli atti processuali in senso proprio e non anche ai documenti esibiti dalle parti. Ne consegue che qualora siffatti documenti siano redatti in lingua straniera, il giudice, ai sensi dell'articolo 123 cod. proc. civ., ha la facoltà, e non l'obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, della quale può farsi a meno allorché le medesime parti siano concordi sul significato delle espressioni contenute nel documento prodotto ovvero esso sia accompagnato da una traduzione che, allegata dalla parte e ritenuta idonea dal giudice, non sia stata oggetto di specifiche contestazioni della parte avversa. Pertanto, se il giudice abbia in un primo tempo disposto la predetta traduzione, senza poi ricorrervi in prosieguo, detto ordine può essere ritenuto come implicitamente revocato, senza che ciò dia luogo ad alcuna violazione di legge, tanto più quando non vi sia contrasto sulla comprensione di detto atto. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 16 giugno 2011 n. 13249. Procedimento civile - Produzione di documenti redatti in lingua straniera - Nomina di un traduttore - Obbligo del giudice - Esclusione - Facoltà discrezionale - Sussistenza. Il principio dell'obbligatorietà della lingua italiana, previsto dall'articolo 122 cod. proc. civ., si riferisce agli atti processuali in senso proprio (tra i quali, i provvedimenti del giudice e gli atti dei suoi ausiliari, gli atti introduttivi del giudizio, le comparse e le istanze difensive, i verbali di causa) e non anche ai documenti esibiti dalle parti, onde, quando siffatti documenti risultino redatti in lingua straniera, il giudice stesso, ai sensi dell'articolo 123 cod. proc. civ., ha la facoltà, e non l'obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, della quale, può farsi a meno allorché le medesime parti siano concordi sul significato delle espressioni contenute nel documento prodotto ovvero tale documento sia accompagnato da una traduzione che, allegata dalla parte e ritenuta idonea dal giudice, non sia stata oggetto di specifiche contestazioni della parte avversa. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 28 dicembre 2006 n. 27593. Lettere: ecco perché gli Opg sono ancora aperti di Franco Scarpa* Ristretti Orizzonti, 5 agosto 2015 Prima di tutto grazie a Stefano Cecconi perché ha avuto il coraggio e l'onestà di venire a vedere con i propri occhi quello che molti ignorano, o fanno finta di ignorare: davvero gli Opg ci sono ancora. Ma è proprio possibile? Dopo il grande clamore mediatico del 31 marzo 2015, "la chiusura degli Opg", sembrava che tutto si fosse risolto e l'obiettivo centrato al 100%. Invece gli Opg sono ancora al loro posto: quello di Montelupo è ancora qui, chiuso come ingresso di nuove persone, ma purtroppo ancora in funzione per "rinchiudere" molte persone al suo interno. Certo i numeri delle presenze sono ridotti (da 115 a 80 nel giro di 4 mesi) ma, per una serie di fattori che a fatica riusciamo a comprendere, riesce difficile prevedere il giorno della definitiva chiusura, intendendo per "chiusura" il letterale svuotamento della struttura. Perché questo sta accadendo? Elenco le motivazioni che si sentono rammentare continuamente a spiegazione della persistenza di tale struttura: a) i ritardi delle Regioni, non tutte ma ancora troppe, nell'allestire le Residenza previste dal D.M. Salute del 1-10-2012; b) l'insufficienza dei posti delle medesime Residenze per accogliere sia quelli che sono negli Opg che le nuove misure di sicurezza che nel frattempo continuano ad essere applicate; c) l'insufficiente risposta dei Servizi territoriali che non offrono, e forse "non si offrono per", soluzioni sostitutive che consentano l'applicazione delle misure di sicurezza non detentive come prevede la Legge 81 del 30 maggio2014; d) il persistere, nonostante tale Legge, di criteri comunque "stringenti" alla base del giudizio di pericolosità sociale per cui la Magistratura applica ancora le misure di sicurezza in strutture detentive qualora le "diverse misure", cioè la libertà vigilata, non siano in grado di "far fronte" alla pericolosità sociale; e) in alcuni casi le difficoltà, o anche il rifiuto, da parte delle nuove strutture di farsi carico di pazienti con particolari problemi comportamentali, che siano sostenuti da assetti psicopatologici o meno; f) il ruolo ancora dei periti, o Consulenti Tecnici d'Ufficio, che non dialogano adeguatamente con i Servizi territoriali, e forse avviene anche al contrario, per definire e condividere un progetto che dia un adeguata soluzione per far fronte alla pericolosità sociale relativa residua (quasi nessuno si esprime in termini di pericolosità assoluta); g) i ritardi nella erogazione delle risorse finanziarie; h) problemi locali per i rifiuti delle Amministrazioni locali di ospitare le residenze; i) procedure complicate per assumere personale necessario a far funzionare le nuove strutture; j) difficoltà per allestire le strutture pubbliche previste dalla Legge e dal D.M. 01-10-2012, per cui in molti casi si ricorre a convenzioni con privati che siano in grado di accogliere le misure di sicurezza. Forse le ragioni sono, equamente o meno, spalmate un po' tra tutti questi punti elencati ma quello che sta accadendo appare per molti versi sconcertante: il numero di persone ancora negli Opg è superiore ai 300, sicuramente in netta diminuzione (non contiamo in tale numero le persone ancora a Castiglione delle Stiviere, classificato ormai come complesso di Residenze e non più come Opg). Per molti aspetti negli altri Opg cominciamo ad affrontare la categoria dei pazienti più difficili, per non adoperare il pessimo termine di "indimissibili". Contestualmente il numero di nuovi utenti è altrettanto elevato: si calcola che siano almeno 30-35 al mese le nuove misure, provvisorie o definitive, applicate. Siamo ormai di fronte ad un "bivio etico deontologico", quasi impensabile all'inizio del percorso di chiusura, ed alla comparsa di meccanismi di "escalation" della domanda che possono sfuggire ad ogni forma di controllo se dettato solo dalla buona volontà, contenuta nello spirito della Legge 81-2014, e tale da indurre una crescita dell'incidenza "epidemiologica" superiore alle previsioni iniziali. Infatti i pochi posti nelle Residenze attualmente attivate non sono sufficienti ad accogliere le nuove misure applicate, e per questo non riescono a far fronte anche all'esigenza di accogliere le persone che sono in Opg. Di conseguenza: a) bisogna lasciare a lungo, chissà fino a quando, le persone ancora in Opg in una condizione "orrenda, appena degna di un Paese civile", non più prorogata dalla Legge ma prorogata, di fatto, dalla pratica (o meglio direi da una "malpratice"?); b) in alternativa, decidere di far uscire tutti i pazienti dagli attuali Opg ma inviare le persone con nuove misure nei Servizi territoriali (Spdc, Residenze territoriali ordinarie o dove altro) o lasciarle in attesa altrove (Carcere?). Nel frattempo utilizziamo le attuali risorse per finanziare inserimenti in strutture che hanno ormai costi sempre più "lievitanti", senza alcuna verifica concreta dell'appropriatezza, dell'efficacia, dell'efficienza. Il costo medio giornaliero di una giornata nelle Residenze, aperte a tale scopo, supera abbondantemente i 300 euro al giorno e forse saliranno ancora di più: non è certo un male di per sé e ci allinea ai costi degli altri Paesi Europei ma rischia di essere un fenomeno lievitante se non regolato e monitorato. La soluzione che più spesso si sente proporre sta in una parola che ormai assume quasi un significato magico: "commissariamento", cioè espropriazione delle competenze e capacità decisionali delle Regioni "inadempienti" per affidarle ad un Commissario nominato ad hoc. È difficile capire cosa potrà fare un Commissario: se le ragioni elencate in precedenza sono, anche minimamente, davvero alla base dei ritardi per chiudere gli Opg dovremmo sperare in un "superuomo" dotato di poteri speciali in grado di agire sui numerosi punti elencati che investono ognuno un potere decisionale, spesso anche vincolante gli altri. Oppure bisogna pensare al Commissario come persona dotata della "Volontà" di attuare la Legge mentre finora, a quanto si vorrebbe sospettare, le Regioni inadempienti, ma anche tutti gli altri coinvolti, non avrebbero voluto. Difficile pensare che sia solo una questione di volontà: troppo mortificante per il Paese e per la capacità delle Regioni di amministrare. La questione si risolve a mio parere in una più semplice e chiara decisione: gli Opg sono inadeguati, il matrimonio Carcere-Salute Mentale non offre più soluzioni credibili. L'unica proposta credibile è quella di emanare un Decreto Legge, e le ragioni per l'urgenza ci sono tutte, che consenta alle Regioni, in collaborazione con il Ministero della Giustizia di sgomberare/sfrattare/svuotare/evacuare le attuali strutture, requisire pochi reparti ospedalieri, nel patrimonio delle tante strutture pubbliche inutilizzate, dove collocare i pazienti e prevedere una straordinaria collaborazione, limitata nel tempo, del Ministero della Giustizia per fornire il piantonamento degli internati. Basta poco. Questo auspico che accada al più presto. Un ultima cosa: Stefano Cecconi nell'assistere alla terza delle iniziative organizzata nell'Opg di Montelupo ha parlato di "umanità" degli operatori (per inciso molti e non tutti e non so perché, ed in base a quali informazioni, possa pensare che non tutti lo siano) ma forse avrebbe potuto cogliere un elemento molto più importante dell'umanità: la professionalità degli operatori. La relazione con le persone, la cura della salute mentale, la riabilitazione non si basano solo sul senso di umanità, che ha sicuramente utilità ed offre un margine migliore per ottenere risultati, ma è fortemente basata sulla competenza e professionalità degli operatori sanitari che si dedicano a tale compito. Un compito che rende poco in qualità di immagine, ma lascia una traccia davvero importante negli operatori stessi e negli utenti/pazienti. Quella professionalità che è richiesta alle strutture che dovranno, fuori dalle rigidità del Carcere, far fare il salto di qualità tra cura, rinchiusa nella custodia, e cura espressa nella libertà organizzativa e gestionale. Caro Stefano, arrivederci a Settembre, come promesso, per rompere, e non simbolicamente, il muro che continua a "rinchiudere" le persone in Opg. *Psichiatra Direttore Unità Operativa Complessa Salute in Carcere USL 11 Toscana Montelupo Fiorentino Augusta (Sr): Sappe; sedata una rivolta dei detenuti del carcere per mancanza d'acqua siracusanews.it, 5 agosto 2015 Tensione nella giornata del 3 agosto nel carcere di Augusta, dove pare sia stata sedata una rivolta dei detenuti per mancanza d'acqua. E ora c'è il pericolo di nuove tensioni dietro le sbarre. La situazione resta, infatti, molto difficile per via dell'emergenza idrica che coinvolge il carcere di Augusta da anni, a cui si aggiunge il problema di zanzare e insetti con poliziotti che hanno fatto ricorso alle cure mediche. Lo comunica il vice segretario provinciale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Salvatore Gagliani. "La mancanza d'acqua sarebbe la causa scatenante e sicuramente i detenuti fautori della protesta non hanno perso l'occasione per creare confusione e solo grazie al tempestivo intervento della Polizia Penitenziaria si è potuto assicurare l'ordine e la sicurezza - sottolinea - Ci auguriamo un immediato intervento da parte delle autorità dirigente, nell'auspicio che saranno presi provvedimenti seri e risolutivi che garantiscano le minime condizioni igieniche mancanti. Nel contempo valuteremo se fare intervenire l'Asp competente se non addirittura una denuncia alla Procura della Repubblica per scarsa igiene e rischio malattie a cui è sottoposta sia l'utenza che la Polizia Penitenziaria". Firenze: progetto dell'Asl 10, i detenuti insegnano come attivare la carta sanitaria firenzetoday.it, 5 agosto 2015 Nel maggio e nel giugno di quest'anno in 11 farmacie comunali c'è stato un aumento del 68% rispetto agli stessi mesi dell'anno precedente di persone che hanno attivato la Carta sanitaria, per poter usufruire dei servizi telematici del sito internet della Regione e di quello della Asl 10. Lo afferma la cooperativa sociale Ulisse che, per conto dell'Azienda sanitaria di Firenze, sta promuovendo le opportunità offerte dall'attivazione della Carta sanitaria di cui ognuno è in possesso. Promozione che, dal 13 aprile scorso, avviene facendo telefonare a casa dei cittadini di Firenze 3 detenuti in regime di semilibertà negli istituti penitenziari Gozzini e Sollicciano, che usufruiscono cioè di misure alternative alla pena, seguiti costantemente da un tutor professionale della cooperativa. Finora sono state contattate 5.823 persone, il 30% delle quali, 1.770 per la precisione, ha risposto alle telefonate. Quelli che si sono dichiarati interessati sono 1.694 e di questi 566, il 9,7% delle persone contattate, ha già attivato la Carta sanitaria, il 19,3 ha promesso di farlo al più presto e solo l'1,3% dei casi (76) ha dichiarato di non essere interessato. Percentuali di poco più basse se si raffronta il numero di tessere attivate in quelle farmacie nei due mesi presi in esame rispetto ai due mesi precedenti: il 54%. "Non è la prova diretta dell'efficacia del servizio di promozione telefonica - dicono alla cooperativa Ulisse -, però è quantomeno un indicatore interessante in tal senso". L'aumento delle carte sanitarie attivate in definitiva è solo l'obiettivo secondario di questo progetto che si chiama Panacea, è finanziato dalla Regione Toscana, durerà un anno, con una pausa in agosto ed una a Natale, prevedendo 17-18 mila telefonate. L'obiettivo primario è invece quello del recupero e del reinserimento lavorativo dei detenuti. La cooperativa sociale Ulisse, infatti, fra le varie sue attività dal 2000 gestisce nel carcere di Sollicciano l'officina di riparazione di biciclette "PiedeLibero", dal 2014 un vivaio per la coltivazione di rose in collaborazione con una ditta specializzata di Pistoia e dal 2015, presso il carcere di Prato, un laboratorio di lavorazione dei libri per conto di una importante casa editrice che impiega 3 detenuti. La cooperativa è nata a Firenze nel 1998 da un progetto congiunto tra Asl 10, Arca cooperativa sociale, associazionismo e terzo settore, al fine di creare e sviluppare servizi per la comunità con l'ausilio di personale svantaggiato proveniente da diverse aree di disagio. Attualmente occupa 48 persone di cui 23 con handicap o pazienti della salute mentale o in cura nei servizi per le dipendenze o, appunto, detenuti. Ma anche l'attivazione e l'uso concreto della carta sanitaria elettronica, per tanti ancora poco conosciuto, in particolare fra i giovani è un obiettivo di rilievo. La Carta infatti fornisce il codice fiscale e dà accesso alle prestazioni sanitarie nazionali e all'assistenza medica in ambito comunitario. Se inserita in un computer dotato di lettore smart card, fornito presso gli sportelli della Asl, si può anche accedere al sito della Regione Toscana per verificare l'archivio dei propri dati sanitari personali, come per esempio i referti degli esami o l'acquisto di farmaci, per consultare il fascicolo sanitario elettronico, per compilare l'autocertificazione della propria posizione economica e l'eventuale esenzione dal ticket. Entrando nel sito internet della Asl 10, si può inoltre prenotare o disdire esami, visite ed anche cambiare on line il proprio medico di base. Attualmente su un numero complessivo di assistiti dall'Azienda sanitaria fiorentina di quasi 838 mila unità, sono 407.115, il 48,6%, quelli che hanno attivato la Carta per poter usufruire dei servizi on line. Novara: profughi e detenuti al lavoro con Assa per la pulizia ambientale, bilancio positivo di Massimo Delzoppo oknovara.it, 5 agosto 2015 Tempo di bilanci per i vari progetti "sociali" di Assa, S.p.A., società del Comune di Novara per i servizi di igiene ambientale, che da tempo è, come si definisce "parte attiva e propulsiva" del progetto di "recupero del patrimonio ambientale" della città e del suo territorio mediante l'impiego di detenuti della Casa Circondariale di Novara in servizi di pubblica utilità e di altri progetti che hanno visto e vedono coinvolti soggetti sottoposti a "misure restrittive di libertà". Assa, tramite il presidente, avvocato Marcello Marzo, ed il responsabile del progetto, Riccardo Basile, nel 2014, facendosi promotrice del progetto, ricorda di aver dato "forte impulso a questa iniziativa che ha il pregio di veicolare l'idea del lavoro di pubblica utilità come occasione di riscatto per i condannati che hanno fruito di un permesso premio raggiungendo l'ambizioso obiettivo di rinforzare le diverse iniziative che si sono realizzate nel territorio novarese, rendendo sempre più sistematica una idea progettuale che vede coinvolte le diverse istituzioni che si occupano del reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti". I soggetti coinvolti sono: Comune di Novara, con i suoi Servizi socioassistenziali ed educativi; Ministero della Giustizia con Casa Circondariale di Novara, Magistratura di Sorveglianza di Novara, Uepe Ufficio esecuzioni penali esterne di Novara; Assa S.p.A. Assa ricorda inoltre che "come sottolineato più volte anche dal Magistrato di Sorveglianza, grazie alle sinergie e alla collaborazione istituzionale che hanno distinto negli anni tutti gli interventi, in tempi difficili e di crisi in tutti i settori, gli interventi svolti da Assa in favore della popolazione detenuta (sempre in situazione di criticità per la condizione detentiva e per le cause che l'hanno determinata) oltre agli indubbi vantaggi per i singoli detenuti, hanno prodotto benefici per il Comune di Novara e quindi per i cittadini novaresi. Tutto questo può rappresentare, in estrema sintesi, un modello funzionante di riferimento a livello regionale e anche nazionale, che ha prodotto risultati concreti positivi, coniugando l'interesse dei singoli detenuti e di tutti gli operatori, che con loro e per loro lavorano, con quello della collettività". Assa S.p.A.è anche in prima linea, a fianco di Prefettura e Comune di Novara, nel ‘Progetto Profughi' per il coinvolgimento, in servizi volontari di pubblica utilità, di alcuni tra i richiedenti asilo ospitati in città. "È una iniziativa che all'indubbio valore sociale unisce significativi benefici per la città - sottolinea l'avvocato Marcello Marzo, presidente di Assa Otto volontari, quindi a costo zero per la cittadinanza, rinforzeranno il servizio di spazzamento manuale che diversamente non avremmo potuto realizzare. Si muovono con due risciò acquistati con la sponsorizzazione di due aziende private che ringraziamo". Dopo una settimana di preparazione e istruzione, i profughi in forza ad Assa, da lunedì 20 luglio, sono a tutti gli effetti operativi. "Divisi in due turni di lavoro - spiega l'avvocato Marzo ogni giorno, dal lunedì al venerdì, di mattina e di pomeriggio, puliscono e presiedono la fascia dei Baluardi, delle ciclabili e di tutte le aree verdi annesse. Dopo la preselezione e l'adesione al progetto, mediata dalla Prefettura, Assa ha proceduto, il 18 giugno, ai colloqui diretti, con la supervisione del personale della Prefettura, per l'individuazione dei candidati. Assa mette a disposizione coordinamento, progettazione, dispositivi di protezione individuale, formazione e abbigliamento". Catanzaro: Coldiretti Calabria; il Premio "Green Oscar 2015" al carcere di Siano di Antonino Lugarà ntacalabria.it, 5 agosto 2015 L'Arcivescovo di Catanzaro-Squillace mons. Vincenzo Bertolone ha partecipato con molto entusiasmo alla settimana organizzata dalla Coldiretti Calabria a Expo Milano. Mons. Bertolone dopo aver visitato il padiglione della Coldiretti si è espresso positivamente riguardo a ciò che di buono può portare l'industria agroalimentare in Calabria. L'Arcivescovo, ha commentato che questo "è il volto e il cuore bello della Calabria perché la terra parla di noi attraverso la sincerità dei suoi frutti e del lavoro dell'uomo e racconta il nostro cuore di uomini in cammino". Durante l'incontro tematico sull'agricoltura è stato firmato un protocollo d'intesa tra l'Istituto Penitenziario Ugo Caridi di Siano (Catanzaro), la Coldiretti Calabria, Giovani Impresa Calabria e Fondazione Campagna Amica Calabria, che stabilisce l'organizzazione di programmi di orticoltura, che producono valore, senza grossi investimenti. Lo scopo è di offrire ai detenuti una buona preparazione nel campo dell'agricoltura e di utilizzare i prodotti del territorio calabro per la mensa del carcere di Siano risparmiando sulle spese. Secondo l'Arcivescovo, l'agricoltura è utile a reintegrare il detenuto nella società offrendogli la possibilità di imparare tecniche e pratiche agricole che una volta scontata la pena gli torneranno utili nel mondo del lavoro. Il tipo di agricoltura che porta avanti la Coldiretti è "multifunzionale", poiché realizza percorsi terapeutici, riabilitativi e di integrazione dei soggetti interessati. Grazie a questa iniziativa il carcere di Siano ha ricevuto il premio Oscar Green 2015. Immigrazione: nei primi sette mesi dell'anno più di 2.000 morti nel Mediterraneo di Luca Fazio Il Manifesto, 5 agosto 2015 L'Organizzazione Mondiale per l'Immigrazione (Oim) ha diffuso i nuovi dati dell'ecatombe che si consuma ogni giorno al largo delle nostre coste. "È inaccettabile", ha dichiarato il direttore generale William Lacy Swing. I numeri che aiutano a decifrare un fenomeno di solito non si discutono. In questo caso, di fronte agli oltre 2.000 esseri umani morti nel mediterraneo in poco più di sette mesi, è necessario aggiungere qualche considerazione. Il macabro conteggio, oltre a non scandalizzare l'opinione pubblica, né chi ha la responsabilità di informarla, andrebbe aggiornato di ora in ora visto che quasi non passa giorno senza una nuova tragedia dell'immigrazione. Quindi i morti sono "oltre" 2.000 (ma oltre quanto?), ma solo fino al 4 agosto, perché oggi è già un altro giorno. La maggior parte di queste persone sono annegate nei primi quattro mesi dell'anno, tra gennaio e aprile, proprio quando il governo ha sospeso l'operazione Mare Nostrum. Inoltre non è dato sapere quanti siano i migranti che quest'anno sono scomparsi al largo della Sicilia senza lasciare traccia. Statisticamente, invece, si potrebbero anche abbozzare agghiaccianti previsioni sul saldo finale di morti (censite) nel mar Mediterraneo in questo 2015 che verrà ricordato come uno dei più disastrosi nella storia dell'Unione europea, soprattutto per quanto riguarda la gestione criminale dei fenomeni migratori: alla fine potrebbero essere più di 3 mila, un'ecatombe. Queste e altre considerazioni suggeriscono i nuovi dati forniti ieri dall'Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). Nello stesso periodo dello scorso anno, per esempio, i decessi in mare fino alla fine di luglio sono stati 1.607, cifra quasi raddoppiata nei cinque mesi successivi. Significa che il peggio, come sempre, anche quest'anno potrebbe arrivare dopo l'estate. "È inaccettabile che nel XXI secolo le persone in fuga da conflitti, persecuzioni, miseria e degrado ambientale debbano patire tali terribili esperienze nei loro paesi, per non dire di quello che sopportano durante il viaggio per poi morire alle porte dell'Europa", ha detto il direttore generale dell'Oim William Lacy Swing. Quasi tutti i migranti scomparsi hanno perso la vita nel canale di Sicilia, in quel braccio di mare che separa la Libia dall'Italia, il percorso di gran lunga più pericoloso per raggiungere l'Europa. "Nonostante l'Italia e la Grecia siano entrambe interessate da flussi migratori molto significativi (rispettivamente circa 97.000 e 90.500) - si legge nel rapporto Oim - i tassi di mortalità sono molto diversi: sono stati circa 1.930 i migranti morti nel tentativo di arrivare in Italia, mentre sono stati circa 60 i migranti morti sulla rotta verso la Grecia". Solo nell'ultima settimana, infatti, il mare ha restituito 19 corpi senza vita. 14 salme sono state ripescate in acque internazionali da una nave della marina irlandese e sono arrivate il 29 luglio a Messina (morti di sete e stanchezza); lunedì c'erano cinque morti sulla nave di Medici Senza Frontiere arrivata a Palermo. Potrebbe andare peggio? Paradossalmente sì. Lo scrive l'Oim riconoscendo la validità del lavoro delle forze navali che ogni giorno salvano vite in mezzo al mare. "Il numero dei decessi è diminuito in maniera significativa negli ultimi mesi e ciò è dovuto in gran parte al potenziamento dell'operazione Triton: il Mediterraneo è ora perlustrato da un maggior numero di imbarcazioni che si possono spingere fino a dove partono le richieste di soccorso". Sono altre cifre, più consolanti. In questi primi sette mesi dell'anno sono quasi 188 mila i migranti salvati nel Mediterraneo. I principali paesi di origine degli stranieri arrivati in Italia quest'anno sono l'Eritrea, la Nigeria, la Somalia, la Siria, il Gambia e il Sudan. Sono dati sicuramente significativi e non trascurabili che comunque, sottolinea l'Oim, nulla hanno a che fare con la cosiddetta "emergenza" o "invasione" visto che i cittadini europei sono più di 500 milioni (il Libano, che conta una popolazione di 4 milioni di abitanti, ospita 1 milione e mezzo di profughi siriani). Secondo l'Oim, che si augura un rafforzamento delle operazioni di salvataggio, nei prossimi mesi i flussi migratori verso l'Italia sono destinati a crescere, "e la soglia dei 200 mila sarà raggiunta molto presto". E molto presto - anche questa è una certezza - in assenza di un progetto di accoglienza proseguirà la conta dei morti. "La chiusura non è una risposta - ha detto monsignor Giancarlo Perego, direttore della fondazione Migrantes della Cei - perché la chiusura non farà altro che aumentare queste tragedie, come nell'Eurotunnel della Manica e come abbiamo visto ultimamente nel Mediterraneo. Fortunatamente non è stato il caso degli ultimi due sbarchi. Ieri, a Messina, sul molo Marconi, una unità militare della Guardia costiera ha messo in salvo 305 migranti (tra cui 38 donne). Sempre ieri, nel porto di Vibo Valentia, è arrivata una nave della marina svedese con 427 migranti provenienti dall'Africa sub sahariana (336 uomini, 83 donne e 8 minori). Immigrazione: in Gran Bretagna niente welfare per chi non ottiene l'asilo politico di Emma Pradella Il Manifesto, 5 agosto 2015 I migranti avranno 28 giorni per andarsene. Londra risparmia oltre 70 milioni di euro. Almeno 10mila persone dovranno lasciare il paese. Il governo conservatore di David Cameron ha annunciato dei provvedimenti volti a scoraggiare l'immigrazione illegale in Gran Bretagna. Ieri il ministero dell'Interno ha infatti illustrato il piano che prevede lo stop al welfare per coloro ai quali verrà respinta la richiesta d'asilo. Il documento ufficiale, datato 4 agosto, afferma che il governo sta prendendo in considerazione di attuare i provvedimenti dal prossimo luglio 2016: a partire dall'estate prossima, saranno oltre 10.000 le persone che dovranno lasciare il paese. Per farlo avranno a disposizione, si fa per dire, 28 giorni. La mossa del governo permetterà di risparmiare alle casse dello stato circa 49 milioni di sterline (70 milioni). Il documento chiarisce inoltre - nel caso ce ne fosse bisogno - che questi provvedimenti legislativi permetteranno alle autorità locali di non essere in alcun modo obbligate ad aiutare i richiedenti d'asilo e le loro famiglie che dovranno lasciare l'Inghilterra. Le proposte avanzate dal governo sono motivate dalla volontà di dimostrare a chi cerca di arrivare in Gran Bretagna che quest'ultima non è "la terra del latte e miele" e finiranno per integrare due categorie di sostegni offerti fino ad oggi, al fine - dice il governo - di rendere più rigoroso il processo decisionale caso per caso, anziché garantire il diritto al sostegno statale in modo automatico. La prima categoria, conosciuta come "section 95 support", garantisce il welfare a poco più di 10mila richiedenti asilo (le cui richieste sono state respinte) che non riescono a far fronte al carovita. Le famiglie alle quali è stato dato un alloggio "no-choice" (senza scelta) in zone periferiche di Londra riceveranno infatti, a partire dal 10 Agosto, 50 euro per ogni adulto o bambino, e alcune di loro vedranno il proprio sostegno diminuire di circa il 30%. La seconda categoria, nota invece come "section 4.2 support", include tutte le famiglie a cui è stato assicurato un alloggio "no-choice", sempre nella periferia della capitale, ma che non ricevono assegni. I circa 4.000 singoli richiedenti circoscritti in questa categoria ricevono una carta prepagata Azure, contenente 40 euro circa settimanali e utilizzabile solo in alcuni rivenditori per comprare generi alimentari o prodotti di prima necessità. Fonti vicine al governo britannico negano però la completa sparizione del sostegno economico verso i più bisognosi. Il sussidio statale verrà infatti erogato a coloro per i quali lasciare il paese rappresenta un vero e proprio ostacolo; secondo una ricerca eseguita dalla Camera dei Comuni, più di 3.600 individui inclusi nella "section 4.2" hanno vissuto con il sostegno per più di un anno; si tratta di una cifra alta che sta ad indicare che molti di loro hanno reali difficoltà a tornare nel paese d'origine, o perché c'è una guerra, o per il rifiuto del paese stesso a rilasciare i documenti validi ad un nuovo espatrio. "David Cameron invece di utilizzare la retorica anti immigrazione, dovrebbe spiegare al popolo inglese che questa è gente disperata proveniente da paesi in guerra o che non rispettano i diritti umani", aveva dichiarato Natalie Bennett, leader del Green Party. Secondo il Ministero degli Interni inglese, i provvedimenti cercheranno di porre i bambini come categoria da proteggere: il progetto "cercherà il modo migliore per far espatriare le famiglie a cui è stato negato l'asilo, garantendo nel frattempo che ci siano meccanismi per assicurare la protezione dei bambini". "Questa dura proposta sembra essere basata sulla logica secondo la quale lasciare le famiglie al margine della miseria le costringerà ad andare via da questo paese. Il governo ha il dovere di tutelare tutti i bambini in questo paese e anche governi precedenti hanno ritenuto moralmente riprovevole togliere il supporto a famiglie con bambini" ha specificato Lucy Doyle dal Consiglio per i Rifugiati. Immigrazione: Medici per i Diritti Umani "fuggire o morire, il bivio dei migranti forzati" di Duccio Facchini altreconomia.it, 5 agosto 2015 Torture, violenze, sequestri di persona e pesanti ricadute psicologiche. I drammatici racconti di chi ha percorso le rotte migratorie dai Paesi sub-sahariani all'Europa raccolti in un documentato rapporto dall'organizzazione umanitaria "Medici per i diritti umani" pubblicato a fine luglio. Dal Niger alla Libia, lungo la "strada dell'inferno". Chi intraprende le rotte migratorie tra i Paesi sub-sahariani e l'Europa non ha scelta: "fuggire o morire". Un bivio drammatico che ha dato il titolo a un rapporto curato dall'organizzazione umanitaria Medici per i diritti umani (Medu), pubblicato a fine luglio. Il lavoro -frutto dei primi sei mesi di attività del progetto "On to: Stopping the torture of refugees from Sub-Saharan countries along the migratory route to Northern Africa" (Stop alla tortura dei rifugiati lungo le rotte migratorie dai paesi sub-sahariani verso il Nord Africa), co-finanziato dall'Unione Europea e da Open Society Foundations, e che verrà ultimato nel mese di settembre - ha visto al centro le testimonianze dei migranti giunti in Italia e ospitati presso il Centro di accoglienza straordinaria (Cas) di Ragusa, il Centro di accoglienza per i richiedenti asilo (Cara) di Mineo e in alcuni "insediamenti informali" di Roma (edifici occupati, stazioni). Aree dove Medu opera a partire dal giugno e dal novembre 2014. E dove ha compreso una volta di più la brutalità di chi paventa una "invasione". "Affermazioni come ‘aiutiamoli a casa loro' o la sua variante più xenofoba ‘se ne restino a casa loro' oppure ancora ‘accogliamo i rifugiati ma i clandestini devono essere respinti' -sostengono da Medu - sono spesso patrimonio di molti politici oltre che del luogo comune". Ai gruppi di ricerca e ascolto dell'organizzazione -i cui risultati sono stati raccolti e tradotti dagli autori Alberto Barbieri, Giuseppe Cannella, Laura Deotti e Mariarita Peca, oltre 150 migranti hanno fornito "testimonianze approfondite" sulle rotte migratorie seguite, sul traffico di esseri umani incontrato e patito, sulle ragioni delle partenze (persecuzione politica, religiosa, coscrizione militare obbligatoria), sul tipo di violenze e torture subite e, infine, sulle conseguenze psicologiche del "percorso" effettuato. Tra le rotte descritte ne spiccano due: quella dell'Africa occidentale - che dal Niger porta alla Libia (vedi immagine sotto)- e quella dell'Africa orientale - dove il Sudan è il punto di passaggio, sempre verso la Libia. La prima, e più battuta dagli intervistati di Medu, dura in media "22 mesi". "In media -si legge in Fuggire o morire - i richiedenti asilo hanno trascorso 13 mesi in Libia", prima di partire dalle coste diretti in Italia attraverso il Mediterraneo. "La rete del traffico è una catena a maglie lente, in cui anche un singolo individuo può inserirsi e sfruttare i migranti vulnerabili, attraverso sequestri, lavoro forzato o estorsione di denaro". Le fonti di Medu - indicate con le iniziali, l'età, la nazionalità e il luogo dell'intervista- ricostruiscono la tela delle rotte, i diversi tipi di trafficanti. Ce ne sono due, di norma: quello che si preoccupa di organizzare la tratta da Agadez (Niger) verso la Libia e chi quella in mare. E.C. ha 19 anni e arriva dalla Nigeria. Racconta della "strada per l'inferno" che attraversa il deserto tra Agadez e Gatron o Sabah (in Libia). Un deserto "pieno di tombe", dove E. C. ha visto "tanti corpi morti", anche di "persone cadute dal veicolo" usato dai trafficanti. O. K., ventenne ivoriano, ha lavorato un anno in Libia senza essere pagato. La realtà lo costringeva ad esser schiavo di chi avrebbe potuto accordargli la partenza. "Tutti i 100 richiedenti asilo intervistati da MEDU in Sicilia e tutti i 400 intervistati a Roma hanno riferito di essere stati vittime di qualche tipo di trattamento crudele, inumano o degradante (Cidt), soprattutto in Libia", si legge nel rapporto. C'è chi è stato rinchiuso, legato, bendato, carcerato o sequestrato. Chi ha subito aggressioni, violenze e percosse. Al 97% degli intervistati è stata sottratta acqua e cibo. S. K. ha 67 anni ed è giunta dall'Eritrea fino al Centro di accoglienza informale di Roma Baobab. Ha pagato 2.400 dollari per arrivare dal Sudan alla Libia. È stata in carcere a Tripoli per quattro mesi, senza motivo. Ha visto le proprie nipoti nelle mani dei guardiani, una delle quali è finita ostaggio. "In prigione eravamo 70-80 persone con un solo bagno". Vietato ammalarsi, come racconta A. M., gambiano di 26 anni: "Non hai diritto di vedere un dottore -dice riferendosi alle carceri libiche- puoi solo morire e il tuo corpo viene buttato fuori". Nessuno degli intervistati ha deciso di sprofondare in quei gironi per potersi fermare nel nostro Paese: tutti sono in transito verso il nord Europa. A chi incrocia gli aguzzini senza nome (il più delle volte indossano o una divisa - agenti di polizia libica - o un'uniforme -militari-) non rimangono soltanto le cicatrici. Gli operatori di Medu si sono concentrati infatti sul "legame tra i trattamenti inumani e degradanti, la tortura e il disagio mentale". Disturbi d'ansia, episodi depressivi, disturbi da stress post traumatico o dell'umore e anche da incubi, insonnia. "Un anno e mezzo fa ho perso mio padre, ucciso davanti ai miei occhi da fondamentalisti islamici di Boko Haram che mi hanno tenuto prigioniero e mi hanno picchiato per circa quattro mesi - è la testimonianza di E.I., 30 anni, dalla Nigeria, intervistato al Cara di Mineo. Ho vissuto in Nigeria, non lontano da Benin City. Porto ancora i segni sulle gambe e sui piedi e non posso ancora camminare bene, forse per sempre. Penso a mio padre ucciso e alla mia famiglia e non so come andare avanti dal momento che sono ancora senza documenti e senza lavoro. Ho un nodo alla gola e mi fa male lo stomaco. La mattina, da molte settimane, non voglio alzarmi dal letto. Spesso mi capita di voler piangere nella mia stanza e il mio petto si stringe. Sarò in grado di trovare un lavoro?". Quella che il rapporto definisce come "ampiezza" e "pervasività" del traffico impone, per gli autori, di riconsiderare le etichette. "La tradizionale dicotomia tra rifugiati e migranti economici -si legge- sembra essere più un concetto astratto che uno strumento in grado di comprendere adeguatamente una realtà complessa". Sarebbe più opportuno quindi considerarli come "migranti forzati", che fuggono per salvarsi lungo rotte dominate dal "senso di insicurezza e vulnerabilità". Sono "bersagli mobili" cui il sistema di accoglienza nazionale risponde con modelli fondati su macro-strutture - il Cara di Mineo ne è un esempio, visto che ospita tra le 3mila e le 4mila persone-. Una risposta sbagliata secondo i rappresentanti di Medu, cui andrebbe preferita un'accoglienza basata su centri e strutture più ridotte, che favoriscano integrazione e -sempre che sia possibile- la seppur minima considerazione della storia di vita di chi ci finisce dentro. Immigrazione: i benefici dell'accoglienza dei migranti in un paese in crisi di Roberta Biasillo Il Manifesto, 5 agosto 2015 L'immigrazione come opportunità di rinascita sociale. Contro la retorica del corpo estraneo che utilizza le nostre tasse, un modello di inclusione diverso, lontano dai riflettori mediatici (che raccontano solo di tensioni e razzismo), al riparo dalla cattiva politica e dagli affaristi senza scrupoli. Fa riflettere il modo in cui i principali quotidiani del nostro Paese guardano all'immigrazione. Anche Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera del 2 agosto ("Sui migranti non servono sermoni"), pur tentando di rispondere alla critiche di chi protesta contro gli sbarchi e la nostra accoglienza, ritorna su un luogo comune, quello dei costi eccessivi della loro gestione, invocando addirittura il principio di uguaglianza tra migranti e italiani. Il ragionamento è: l'Italia ha un'elevata disoccupazione e un livello crescente di povertà, è giusto concedere, alcune provvidenze a rifugiati e richiedenti asilo piuttosto che aggiungerne altre agli italiani? La soluzione avanzata è quella di erogare agli enti che si occupano di questi migranti un ammontare di beni e servizi pari a quelli che spendono nell'integrazione. Tale erogazione, per sortire gli effetti migliori, dovrebbe concludersi in tempi brevi e dovrebbe essere gestita dal governo centrale. Riflettendo su questa visione qualcosa non torna. Siamo sicuri che la nostra disoccupazione e le politiche dell'accoglienza siano in contraddizione e non possano dialogare? È pensabile che i territori che attuano progetti di inclusione non siano ripagati, anche in termini economici, dalle attività che i progetti stessi vi pongono in essere? Non sono forse un investimento piuttosto che un onere? In realtà, guardando alle modalità attraverso le quali si struttura l'accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, quella più riuscita va in direzione opposta a quanto proposto da Galli Della Loggia e si ispira al principio di progettualità a medio o lungo termine e al protagonismo degli enti e delle associazioni locali. Che i migranti siano quel corpo estraneo che utilizza le nostre tasse è una retorica costruita da chi considera l'immigrazione una specie di zona rossa. Si veda quanto ha scritto su questo giornale il 30 luglio Alessandro Portelli. Esistono presunte zone rosse dell'accoglienza in Italia, si chiamano Cara, Cda, Cpsa e Sprar, i primi tre sono centri governativi e l'ultimo è una rete di progetti territoriali. Secondo i dati ministeriali aggiornati al 15 maggio 2015 gli stranieri inseriti nei circuiti italiani dell'accoglienza, volti quindi al riconoscimento dello status di rifugiato o del diritto di asilo, sono 73.705 e la spesa giornaliera ammonta a circa 2,6 milioni di euro. È difficile avere un'idea esatta dei costi che queste strutture assorbono per la varietà dei programmi e per il concorso di finanziamenti europei, locali e nazionali, ma si possono tentare stime più puntuali facendo riferimento al sistema Sprar, caratterizzato proprio dalla trasparenza della rendicontazione. Sempre secondo i dati del Ministero dell'Interno sul territorio nazionale sono attivi 428 progetti afferenti appunto al Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, ai migranti spettano 2-2,5 euro al giorno e il resto delle risorse, poco più di 30 euro al giorno per migrante, finanzia un indotto virtuoso. Sull'indotto virtuoso che questi interventi di accoglienza integrata riescono a mettere in moto vale la pena soffermarsi. Prima di tutto non sono una imposizione del Governo centrale, ma sono gli enti locali a richiedere su base volontaria di prendervi parte; in secondo luogo puntano alla promozione e allo sviluppo di reti e sinergie locali; infine si tratta generalmente di piccoli gruppi di migranti inseriti in piccoli centri e di percorsi di inserimento socio-economico il più possibile particolareggiati. Distogliamo un attimo la nostra mente dal percepire l'immigrazione come un fenomeno di massa drenante risorse pubbliche, come sacche di umanità parallela e guardiamo i numeri: circa 74.000 richiedenti accoglienza attualmente seguiti (stima per eccesso) su una popolazione di circa 60 milioni di persone (stima anche questa per eccesso); 8.092 comuni di cui il 70,5% con meno di 5.000 abitanti e con fenomeni di spopolamento, impoverimento e invecchiamento relativo della popolazione residente; tasso di disoccupazione nazionale pari al 12,7% e crollo della domanda di lavoro qualificato. Mettendo insieme questi elementi trovare un spazio condiviso e non conteso, una zona permeabile e non rossa è possibile e gli Sprar ne sono un esempio. Essi rappresentano nei piccoli centri una risposta alla crisi occupazionale e di modello insediativo ed economico, generando richiesta di lavoro altamente qualificato (mediatori culturali, insegnanti, istruttori, psicologi), portando vitalità in centri storici in semi-abbandono, riscoprendo attività legate al territorio e fornendo nuova manodopera per le botteghe artigiane. È nei piccoli centri che l'integrazione può tornare a dimostrare il suo essere una dinamica interpersonale naturale. Ad oggi è il Mezzogiorno - quello che lo Svimez ha appena descritto come esposto a un serio rischio di "sottosviluppo permanente" - a contribuire maggiormente con risorse, spirito di accoglienza e professionalità (vedi grafico)) e sono invece le grandi città e alcune Regioni del Nord, quali la Lombardia, la Liguria, il Veneto e la Val d'Aosta, a diffidare gli enti locali dal perseguire qualsivoglia pratica di inserimento. C'è una ulteriore riflessione da fare sul sistema di protezione in esame e riguarda la dimensione progettuale degli interventi. Questa va a minare un'altra retorica legata all'immigrazione, quella dell'emergenza. La pianificazione è universalmente riconosciuta come uno strumento economico importante, fondamentale nel guidare lo sviluppo territoriale ma in materia di immigrazione acquista anche altri risvolti per nulla secondari, quali la tutela delle procedure democratiche e la possibilità di controllo pubblico. Alcune esperienze mostrano come un modello di inclusione sociale diverso e legato alle vocazioni territoriali sia possibile e incrementabile, un modello lontano dai riflettori mediatici (che raccontano solo storie di tensioni e razzismo) e al riparo dalla corruzione della cattiva politica e dalla speculazione di affaristi senza scrupoli. L'immigrazione in Italia, fuori dalla solita retorica, può diventare una opportunità di rinascita sociale, di ridefinizione in positivo della geografia economica e di elaborazione di un discorso pubblico ispirato al rispetto della dignità umana e dei valori della Repubblica. Droghe: Cocoricò, lo sballo ideologico di Giovanni Stinco Il Manifesto, 5 agosto 2015 Baraonda di dichiarazioni dopo il decesso del sedicenne nella discoteca-marchio. Il ministro Alfano rispolvera la "tolleranza zero". E la Lega stavolta difende il locale. Un ragazzo che muore dopo aver preso una pasticca. Una discoteca simbolo del mondo della notte, il Cocoricò di Riccione, che viene chiusa per 4 mesi dal questore di Rimini. Un ministro dell'Interno che annuncia tolleranza zero "contro lo sballo". Cosa voglia dire esattamente non è dato sapere, ma le dichiarazioni fanno subito tornare alla mente la fallimentare linea dura sulla lotta alla droga. "Pronti a chiudere altri locali", ha infatti aggiunto Angelino Alfano invocando il pugno duro. A provare ad articolare un ragionamento sono in pochi, e la loro voce fatica a sovrastare il dibattito tutto concentrato sulla polemica legata alla chiusura. A voler affrontare davvero il tema sono gli esperti e gli operatori che si occupano di riduzione del danno, coloro che tutti i giorni incontrano i consumatori, e poi c'è Casa Madiba, occupazione riminese che si autodefinisce "laboratorio antirazzista cittadino per i nuovi diritti" e che per l'autunno vuole lanciare gli stati generali della riduzione del danno, perché "il proibizionismo ha fallito". Sulla chiusura per 120 giorni del Cocoricò la discussione impazza. Su twitter si susseguono i messaggi di sostegno al tempio del divertimento della riviera romagnola, sotto l'hashtag #iostocolcocoricò. "Chiudere il Cocoricò ha lo stesso senso che avrebbe avuto la chiusura dello Zoo di Berlino. Nessuno", scrive Masta. E via così. Poi ci sono le sorprese. Come la Lega che problematizza e invita a considera la complessità della questione, o il parlamentare dell'Ncd Pizzolante che vede un "linciaggio mediatico" contro la discoteca di Riccione, definita "simbolo negli eccessi" nel provvedimento di chiusura firmato dal questore di Rimini Improta. Non solo una discoteca in realtà, ma un marchio-ombrello sotto al quale si organizzano serate diverse, in riviera e non solo. Tra i tanti, l'evento organizzato l'anno scorso alla Festa dell'Unità del Pd di Bologna. "Uno spettacolo per tutta la famiglia", dicevano i dirigenti dem locali. Poco più di un anno dopo il Cocoricò, da progetto industriale con aspirazioni internazionali, è stato di colpo trasformato in una specie di inferno in terra a base di droga e sesso, dove la "pornografia" di cui si parla nel provvedimento di chiusura non è però nient'altro che un omaggio, con nudi artistici, ad un'ormai storica (era il 1977) performance di Marina Abramovic. In mezzo alla baraonda di dichiarazione e prese di posizioni, anche la controffensiva della discoteca, che annuncia il ricorso al Tar e lancia l'allarme fallimento causato dallo stop di 120 giorni. "Diamo lavoro a 200 persone", ricorda Fabrizio De Meis, ex general manager del locale dimessosi dopo la morte del giovane. "Chiudere il Cocoricò non risolve il problema della logica dello sballo", aggiunge. Le proposte di De Meis sono due: Daspo per chi commette reati in discoteca, e ad Alfano l'idea piace molto, e tampone per verificare se i clienti "hanno assunto stupefacenti e quindi vietare l'ingresso a chi è risultato positivo". Una misura, quella del tampone, che viene nettamente bocciata da tutti coloro che hanno qualche cognizione in tema di danno. Imporre il tampone nei locali non servirà a ridurre il consumo, ragionano gli esperti. "Se tengo fuori un ragazzo che ha preso una pastiglia, secondo voi dove finirà?", si chiede Salvatore Giancane, medico tossicologo del SerT di Bologna, autore di un volume sull'eroina, "è la merce perfetta, fidelizza per anni". "Finiranno nei rave illegali, dove c'è ancora meno tutela per la salute, soprattutto in Italia dove la consapevolezza dei consumatori non è come quella, per fare un esempio, che c'è in Olanda". "La cultura del tampone a tappeto mi evoca l'invasione del corpo degli altri - aggiunge Claudia Iormetti, che per la cooperativa bolognese Open Group si occupa di giovani e consumi - Chi lavora sulla prevenzione lavora sulla riappropriazione del corpo. Qui invece si sta dicendo: "Come tu usi il corpo per farti, così noi useremo il tuo corpo per beccarti". Non è un messaggio di benessere". Il ragionamento di chi conosce l'ambiente è semplice: il consumo di sostanze è ovunque, a scuola, nelle piazze, nei bar, sul lavoro. Possibile pretendere l'esistenza di isole drug-free, e per giunta identificarle nelle discoteche? C'è chi ci prova, così come c'è chi prova a demonizzare l'ecstasy. "Possiamo farlo certo, ma l'esperienza ha dimostrato che non funziona", spiega Giancane. Piuttosto serve informazione, prevenzione e, se c'è una scelta di consumo, allora deve entrare in gioco la riduzione del danno. "Dire alla persone di non farsi serve a poco - spiega Marco Battini del coordinamento regionale delle Unità di strada dell'Emilia-Romagna - Bisogna raggiungere i consumatori e creare un rapporto di fiducia per mettere in condizione le persone di sapere quel che fanno, e di farsi meno male". Chiudere il Cocoricò, così come qualsiasi altro locale, nell'ottica di chi fa riduzione del danno, informazione e prevenzione, non vuol dire altro che chiudere un potenziale spazio di intervento. "Il tampone e altre soluzioni simili renderanno sotterraneo il fenomeno delle sostanze, i consumatori diventeranno difficilmente intercettabili, e i danni cresceranno. Il messaggio del "no" alla droga - conclude Battini - ha creato diffidenze e paura, ha allontanato da noi i consumatori, e non ha certo tutelato la salute di queste persone, anzi". Casa Madiba, che a Rimini ha organizzato sul tema sostanze una partecipata assemblea, lancia infine l'idea degli stati generali della riduzione del danno e fa presente che Lamberto, il ragazzino morto dopo aver preso una pasticca di ecstasy, "non è stato salvato né dalla videosorveglianza né dai cani antidroga". Droghe: dolore per la morte di un ragazzo o speculazione proibizionista? di Claudio Cippitelli (Sociologo) Il Manifesto, 5 agosto 2015 La morte di Lamberto Lucaccioni, 16 anni, se veramente fosse stato un lutto doloroso per i tanti che ne hanno scritto, sarebbe potuta essere l'occasione, nel pieno rispetto della giovane vittima, per una riflessione sulle politiche e lo stato dei servizi dedicati al consumo di droghe. E scoprire, magari, il forte ridimensionamento di quelle attività di "prossimità" che, da quasi vent'anni, si occupano di informare, limitare i rischi e ridurre i danni di consumi che avvengono in ogni dove, dai condomini ai rave party. Il Cocoricò, il Pachà, l'Hollywood, il Divinae Follie, solo per citare alcune delle discoteche più note, non hanno aperto i battenti l'anno scorso: la loro storia inizia tra gli anni ‘80 e ‘90, quando la discoteca diviene il luogo più frequentato dai giovani, superando lo stadio di calcio, ed affollando le 6.232 sale da ballo censite dal Silb (Sindacato italiano locali da ballo) nell'autunno del 1996. Se l'emergenza discoteca ha oltre vent'anni, lo stesso si può dire dell'ecstasy. Bisogna tornare indietro al 1995, quando la Direzione Centrale per i Servizi Antidroga organizzava un Seminario sui derivati amfetaminici, uno dei primi dedicati ad un fenomeno in tumultuosa crescita che ancora non aveva trovato un suo nome mediatico (nuove droghe): nel 1991, sotto la voce "amfetaminici vari" risultavano sequestrate 5.913 pasticche; 1995 salgono a 134.000 e le operazioni di polizia passano dalle 74 del 1990 alle 1.052 del 1995. Allarme? Emergenza? Jannick Blesio, 19 anni, operaio, muore al Number One di Brescia nel novembre 1999. Sarebbero da ripubblicare i titoli dell'epoca; uno tra tanti, de La Repubblica del 5 novembre: "Ecstasy killer, lo spacciatore confessa". Per inciso, lo spacciatore era un amico di Jannick, di 20 anni. Sedici anni fa, e ricordo bene quello che mi dicevano, con ironia, i giovani che incontravamo in discoteca facendo il nostro lavoro: "Senti un po', ma se mezza pasticca ha ucciso il ragazzo morto al Number One, l'altra mezza chi ha ammazzato? Che fanno una pasticca alla volta? Quante cazzate". Si può immaginare quanta fatica si fa a spiegare, di fronte a queste considerazioni, che le pasticche vengono sintetizzate in laboratori di fortuna, spesso contengono tutt'altro rispetto a quello che ti dice chi le vende, che più sostanze prese insieme aumentano i rischi e i danni, che ballare per ore bevendo poco e mangiando ancora meno non va bene, ecc. No, non siamo di fronte ad un allarme sociale e i luoghi dello sballo non sono diventati "discariche sociali che fingiamo di non vedere", come scrive l'ineffabile Severgnini sul Corriere del 4 agosto. Le autentiche discariche sociali, semmai, sono diventati troppi quartieri periferici da cui provengono i ragazzi che affollano eventi del ballo notturno, sia commerciali sia autorganizzati. Se davvero si volesse ragionare intorno alla morte di Lamberto, non con un approccio morale ma di sanità pubblica (quello che spetta a uno stato laico), dovremmo chiederci: perché in Italia non si autorizza l'analisi delle sostanze (pill test) nei luoghi di consumo, come avviene in molti paesi europei? Si guardi il sito della Svizzera italiana danno?.ch e ci si renderà conto di come funziona un vero "allerta rapido", in grado di evitare tanti incidenti. Perché ci si ostina con campagne nazionali formalmente "dissuasive al consumo", ma che nella realtà servono solo a rassicurare gli adulti? Perché i servizi pubblici, i Ser.T., hanno una tale carenza di personale che gli consente solo di fronteggiare i bisogni delle persone dipendenti da oppiacei? Perché le pratiche di unità di strada, che in questi anni hanno dato prova di grande efficacia, sono ancora "progetti" e non programmi stabili e diffusi su tutto il territorio nazionale? Soprattutto, perché non ci si rende conto che l'unica vera tutela è diffondere una cultura sulle sostanze basata sulle evidenze scientifiche e non sugli approcci morali? Non è un caso che sono i consumatori più giovani e più inesperti quelli che rischiano di più. Se qualcuno al Governo è addolorato come lo siamo noi, provi a rispondere a queste domande. Resta una considerazione. Nel momento in cui il nostro Paese apre un dibattito su una nuova regolazione in merito ai cannabinoidi, anche in seguito ad una proposta firmata da 218 parlamentari che prevede la legalizzazione di tali sostanze, la stampa sembra di nuovo interessarsi al tema. Peccato che, prima la vicenda quanto mai fantasiosa della cannabis "corretta" con il metadone, l'amnesia (che si sta rivelando almeno sospetta), poi la tragica vicenda del Cocoricò, invece di contribuire nella società ad una riflessione sui consumi di sostanze psicotrope, sembrano essere utilizzate, spregiudicatamente, per sfornare il solito repertorio proibizionista e punizionista. Svizzera: tortura, la Confederazione considera sufficiente il proprio arsenale giuridico Corriere del Ticino, 5 agosto 2015 Sotto ispezione da parte dell'Onu, la Confederazione considera sufficiente il proprio arsenale giuridico. La Svizzera giudica il proprio arsenale giuridico sufficiente nella lotta contro la tortura. All'indomani delle domande degli esperti del Comitato dell'Onu, la Confederazione si è difesa su trattamento dei migranti, condizioni dei detenuti e violenza della polizia. Anche se non esiste una norma specifica contro la tortura, il Codice penale punisce i crimini elencati nella Convenzione Onu, ha indicato oggi la delegazione elvetica. Le pene sono sufficientemente severe e i termini di prescrizione abbastanza lunghi. La delegazione ha tenuto a sottolineare la preminenza del diritto internazionale su quello svizzero, basandosi su una decisione in proposito del Tribunale federale. Fra le varie risposte date sul tema dei richiedenti asilo, è stato sottolineato che la Svizzera dallo scorso luglio affida i minori che arrivano sul proprio territorio a persone di fiducia. I rappresentanti della Confederazione hanno ammesso che possono essere fatti miglioramenti per quel che riguarda la detenzione amministrativa. La costruzione di due appositi centri dovrebbe rimediare ai problemi. Inoltre, è stato chiarito che il numero di cittadini eritrei che ottiene lo status di rifugiato o un'ammissione provvisoria è comparabile a quello dell'Unione europea. Riguardo alle carceri, criticate da diverse Ong, la Svizzera risponde che i trattamenti medici sono garantiti per tutti, anche se la messa in pratica può differire fra i vari cantoni. La violenza delle forze dell'ordine "non è più un argomento tabù", ha detto la responsabile della polizia ginevrina Monica Bonfanti. Videocamere a bordo delle pattuglie sono ad esempio allo studio delle polizie cantonali. Bonfanti ha sottolineato che le derive violente vengono prese sul serio. Pakistan: uccise quando era minorenne, impiccato. La folle corsa del alla pena di morte di Giulia Mazza Avvenire, 5 agosto 2015 Shafqat Hussain aveva 14 anni quando venne condannato a morte per omicidio. Ieri, all'alba, è stato impiccato nel carcere di Karachi, in violazione della stessa legge pachistana, che proibisce di comminare la pena capitale ai minorenni. Del tutto inascoltati gli appelli della comunità internazionale e di molte Ong che avevano chiesto gli venisse salvata la vita. Secondo i suoi legali, la confessione venne estorta al giovane con la tortura. È solo l'ultimo episodio della "corsa alla forca" intrapresa recentemente da Islamabad: lo scorso dicembre, dopo un attentato taleban a Peshawar, il Pakistan ha revocato la moratoria. Da allora, ha messo a morte 200 detenuti. Per sette volte negli ultimi due anni un secondino gli ha ordinato di prepararsi alla sua esecuzione. Ieri, però, non ha avuto scampo: poco prima dell'alba, Shafqat Hussain è stato messo a morte in una prigione di Karachi, in Pakistan. Impiccato a 24 anni e condannato a morte a soli 14 con l'accusa di a-ver sequestrato e ucciso un bambino nel 2004. Torturato, secondo i suoi legali, per ottenere una confessione dell'omicidio. Il caso ricorda quello Aftab Bahadur Masih, cattolico messo a morte il 10 giugno scorso sempre a Karachi. Come Hussain, anche Masih è stato condannato quando aveva 15 anni, con una confessione estortagli sotto tortura. Per entrambi sono stati inutili gli appelli a fermare l'esecuzione per accertare la loro reale età. La legge pachistana, infatti, proibisce di comminare la pena di morte alle persone che hanno meno di 18 anni. Per Shafqat sono scesi in campo attivisti per i diritti u-mani, Ong locali e straniere, i governi delle province del Sindh e dell'Azad Kashmir, la Commissione per i diritti umani del Sindh (Shrc), ed esperti dell'Orni. Secondo Maya Foa, direttrice della sezione sulla pena di morte della britannica Re-prieve, sia l'esecuzione di Shafqat che quella di Aftab sono emblematiche della "corsa alla forca intrapresa dal Pakistan". "La decisione del governo di riprendere le esecuzioni, nonostante gli appelli a fermarle giunti dal Paese e da tutto il mondo, sembra essere più una dimostrazione di potere che qualcosa che ha a che fare con la giustizia. C'è da chiedersi come si possa credere alla tesi che la loro massiccia ripresa delle impiccagioni abbia a che fare con la sicurezza e la difesa della nazione", ha dichiarato ad Asia-News. Lo scorso dicembre Islamabad ha revocato la moratoria sulla pena di morte, dopo che un attentato taleban a una scuola militare di Peshawar ha ucciso più di 150 persone, la stragrande maggioranza studenti. Da allora, il Paese ha messo a morte quasi 200 detenuti: un ritmo che, se mantenuto, porterà presto il Pakistan al secondo posto nella lista delle nazioni "maglia nera" per numero di esecuzioni. Secondo l'ultimo rapporto di Nessuno Tocchi Caino, pubblicato pochi giorni fa, al momento il triste record spetta alla Cina, seguita dall'Iran e, appunto, dal Pakistan. Peraltro, il Pakistan è già il Paese con il più alto numero di detenuti nel braccio della morte: sono oltre 8mila le persone che aspettano di essere impiccate. Libia: Tripoli apre un'inchiesta sul video delle torture in prigione a Gheddafi Jr di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 5 agosto 2015 Saadi Gheddafi, figlio del defunto Colonnello Muammar, sarebbe stato torturato in un carcere delle milizie islamiste di Tripoli. Le immagini in un video diffuso sul web. La procura generale di Tripoli ha annunciato l'apertura di un'inchiesta dopo la pubblicazione di un video, diffuso da un sito di informazione libico, che mostra Saadi Gheddafi, figlio del defunto Colonnello Muammar, mentre viene torturato in un carcere delle milizie islamiste di Tripoli. Le immagini mostrano Saadi, ex calciatore, vestito con una tuta verde mentre bendato in una stanza del carcere di Hadba ascolta spaventato le urla di alcuni detenuti provenire da un'altra stanza. Poi viene schiaffeggiato e torturato con colpi sulle piante dei piedi. Gheddafi Jr sarebbe stato accusato di aver visto una partita di calcio in tivu. Nel video si vede che i piedi di Saadi Gheddafi vengono infilati in una sorta di cavalletto ed un uomo barbuto inizia a picchiarli con un bastone, mentre si ascoltano le grida del figlio di Gheddafi. La procura di Tripoli ha chiesto che vengano identificate le guardie che compaiono nel video per poter prendere tutte le misure necessarie. Saadi Gheddafi è detenuto in una prigione di Tripoli, dove si trovano anche altre figure di spicco del regime. Il video, di cui dà notizia il portale libico di notizie al-Wasat e la cui autenticità non può essere verificata, emerge a una settimana dalla condanna a morte per Saif al-Islam, secondogenito di Gheddafi, in relazione alla rivolta del 2011 in Libia contro il regime del colonnello. Insieme a Saif al-Islam sono stati condannati altri otto esponenti del passato regime. Saadi Gheddafi, fuggito dalla Libia nel 2011, è stato poi catturato ed estradato lo scorso anno dal Niger. È accusato, tra l'altro, dell'uccisione di un calciatore quando era a capo della Federazione libica di calcio nel 2005. In Italia Saadi ha un trascorso nei campionati di calcio di serie A e B. La missione Onu in Libia, tramite il suo portavoce, Samir Ghatas, ha espresso in ogni modo "sconcerto" per le immagini, aggiungendo che prenderà contatti con le autorità per fare luce su quanto accaduto. Su Saadi Gheddafi pesano gravi accuse: avere represso nel sangue i dissidenti del governo del Colonnello, essendo parte attiva nelle uccisioni dei manifestanti nelle proteste di fine 2011. Tripoli lo accusa anche di presunta appropriazione indebita tramite la forza e l'intimidazione armata quando era a capo della Federazione libica di calcio. Rischia la pena di morte.