Giustizia: il "garantismo" non mi piace, ma è l'arte dei sognatori di Vincenzo Vitale Il Garantista, 4 agosto 2015 Nel suo eccellente articolo di domenica scorsa, il mio amico Salvatore Claudio Sgroi, presentando in modo veloce ma convincente alcune delle 1.630 parole italiane che i dizionari registrano con il suffisso "ismo", ha appena accennato all'aspetto semantico della questione, limitandosi a notare, di sfuggita, che non sempre tali termini assumono a causa del suffisso una connotazione di carattere negativo. È vero. Tuttavia, dal momento che sono stato invitato a trattare brevemente del "garantismo", non potrò esimermi da incursioni nel campo semantico non solo perché è quello che maggiormente mi interessa, ma anche perché soltanto prendendo le mosse dal significato del termine è possibile lumeggiarne convenientemente l'uso che oggi ne vien fatto e le perplessità che sia capace di suscitare. Ebbene, dico subito che il termine garantismo - e chiedo venia all'amico Piero Sansonetti che mi ospita su queste pagine - non mi piace. Non si tratta ovviamente di una critica estetica, ma concettuale e, in definitiva, logica. Preliminarmente, va notato come i termini di carattere politico/giuridico (in senso ampio) dotati del suffisso "ismo", almeno a partire dal secolo scorso - che è il secolo di loro fioritura - designano sempre o quasi sempre una dimensione in sé positiva, ma che viene invece colta nel suo momento di distorsione ideologica, di eccesso ultimativo e tendenzialmente refrattario ad ogni dialettica con la realtà. Si pensi, per esempio, al popolo, l'attenzione amplificata per il quale degenera in populismo; agli animali, l'amore eccessivo per i quali piega verso l'animalismo; all'ambiente, la cura smodata del quale dà vita all'ambientalismo; alla famiglia, i cui legami parossistici non si fatica a designare familismo. Si potrebbe evidentemente continuare, ma tanto basta per intendere come il garantismo non sia in grado di sfuggire a questa predestinazione semantica, la quale, come si vedrà, non è affatto indolore. Infatti, se un'accusa viene mossa dagli odierni fautori del "giustizialismo" (ancora un termine, questo, che mette in mostra la dinamica sopra segnalata) a chi la pensi diversamente da loro nell'ambito dell'amministrazione della giustizia, ebbene, essa è proprio quella di farsi vittime di un pernicioso garantismo, che spesso viene poi aggiuntivamente qualificato come "peloso", forse a indicare qualcosa di lubrico, di sgradevole perfino al tatto e cioè un inconfessabile interesse personale (per se o per gli amici o per gli amici degli amici) che sarebbe ben diverso da quello della corretta amministrazione giudiziaria. Ne viene di filato che chi coltivi il garantismo viene subito definito garantista, che è esattamente il termine che dà titolo a questo giornale. Tuttavia, anche se chi vi scrive e chi vi lavora sa bene che così non è, il messaggio generalizzato che trascorre in pubblico è che il garantista, portatore non sano di garantismo, è segnato inevitabilmente da un'alternativa. Secondo la prima ipotesi, moralmente deprecabile, il garantista è persona opportunista e tornacontista che non esita a tirare in ballo i sommi principi dello Stato di diritto, ma soltanto per farsene scudo allo scopo di portare acqua al mulino di chi si trovi sottoposto ad un procedimento penale: insomma, un ipocrita che strumentalizza i principi del diritto per bieche finalità personali (accusa ricorrente, infatti, contro Berlusconi). Secondo invece una diversa possibile lettura, moralmente neutra, il garantista è una specie di sognatore, un utopista sociale e politico che, mentre difende i principi dello Stato di diritto, impegnato in astratte disquisizioni teoriche e filosofiche, non si accorge che nel frattempo la società viene attraversata pericolosamente da gravissimi illeciti di vario tipo ai quali egli non si premura di fornire attenzione alcuna: insomma, una sorta di poeta del nulla, di incapace sociale endemico. Nell'un caso e nell'altro, garantismo e garantista ne escono con le ossa rotte, per il semplice motivo che quell'"ismo" ha definitivamente negato ogni possibilità di ridurre l'orizzonte semantico di quei lemmi al sostantivo dal quale esso sono stati generati: garanzia, che invece in se è cosa buona e lodevole per tutti, anche per i critici del garantismo. Potrà mai invertirsi questo modo certo errato, ma assai diffuso di intendere il garantismo? Non lo so, ma credo ci vorranno molto tempo e molta fatica. Si pensi in proposito che già Luigi Capuana, in un aureo libriccino edito nel 1898 a Catania da Giannotta - editore oggi purtroppo non più sul mercato - e dal significativo titolo " Gli ismi contemporanei", stigmatizzava il simbolismo, il cosmopolitismo, il verismo e l'idealismo quali forme deteriori dell'espressività letteraria: e non a caso principiava dagli "ismi", per condannarle severamente. Come dimenticare poi la pagina, sapida e divertente, nella quale Alberto Savinio, condannando senza appello il "pompierismo" - cioè l'ostinata e ridicola convinzione che non sia possibile vivere la vita in modo originale, dovendosi sempre invece riprodurre modelli precedenti - si meraviglia che "nella storia del nazismo, un popolo di settanta milioni di anime abbia affidato il proprio destino a un uomo che ha dipinto i quadri che ha dipinto Adolf Hitler"? (Sorte dell'Europa, Milano, Adelphi, 2005, pag. 32, in corsivo nell'originale). Dicevo che non so come se ne potrà uscire da questa predatoria ed equivoca assuefazione agli "ismi". Ciò che invece so è che, a prescindere dai tratti semanticamente negativi sopra accennati e che potrebbero suonare esistenzialmente indifferenti per un esprit fort, il garantismo è destinato a vivere una sorta di interna contraddizione proprio in quanto si misuri con le verità di cui vorrebbe farsi necessario tramite. In altri termini, il rischio che inavvertitamente viene corso è quello di fare del garantismo qualcosa di diverso, di sovrapposto o di sovrapponibile al diritto ed ai suoi principi razionali, quasi che si potesse essere garantisti o non garantisti, indipendentemente dalla fedeltà al dato giuridico, a prescindere cioè dalla cura inesausta delle esigenze di giustizia espresse dal coesistere degli uomini attraverso la mediazione del diritto. Sicché frequentemente, proprio quale effetto di un tale estraniamento fra garantismo e diritto, la contesa sociale e il dibattito pubblico sull'amministrazione della giustizia si esauriscono nel confronto polemico e a volte assai astioso fra garantisti e giustizialisti: ma in questo modo si disperde il senso stesso del diritto e, con esso, il significato genuino del garantismo. La verità delle cose è ben diversa e di più esigente essenzialità. La verità delle cose è che la vera contrapposizione non è fra garantismo e giustizialismo - terminologie peraltro ormai da tempo sovraccariche di ineludibili stratificazioni ideologiche - ma, più radicalmente, fra chi abbia a cuore le ragioni del diritto e chi invece le dimentica o addirittura le disprezza. Prova ne sia che ad essere abbandonata da chi vien definito giustizialista (n opposizione a garantista) è la dimensione più significativa di cui è portatore il diritto, vale a dire il senso del limite. Si tratta probabilmente della più antica intuizione che da oltre due millenni sia presente allo spirito umano che abbia voluto riflettere - a partire dal Filebo platonico - sulla realtà del diritto. Il diritto viene appunto scoperto quale limite (peras), vale a dire quale orizzonte di senso senza il quale la convivenza e l'agire degli uomini sarebbero impossibili, confinati nella brutalità della pura violenza. Non a caso, tutta l'epica dell'Iliade e in minor misura dell'Odissea, oltre naturalmente all'ispirazione profonda della tragediografia attica, prende le mosse dalla consapevolezza di come a nessun uomo sia lecito varcare la soglia di quel limite, oltre il quale si consuma la ybris che gli Dei, senza tardare, saranno tenuti a punire. Tale consapevolezza, articolandosi in diverse forme storicamente determinate, trapassa nella coscienza giuridica propria dello Stato di diritto, il quale rappresenta probabilmente la sintesi più compiuta di tutte le forme giuridiche positive - cioè poste dagli enti che producono norme giuridiche - che concretizzano istituzionalmente il limite ed il rispetto per il limite anche da parte dello Stato medesimo, che perciò deve essere pronto a riconoscere i propri torti. Conviene a questo punto esemplificare, per eludere ogni possibile fraintendimento. Quando si denuncia da più parti un uso eccessivo e addirittura un abuso della custodia cautelare - il che ha condotto l'Italia ad annoverare un numero esorbitante di detenuti in attesa di giudizio - la vera e drammatica contrapposizione è fra chi, per un verso, intende rettamente, applicandole in modo conseguente, le norme che il codice contiene in tema di custodia cautelare e chi, per altro verso, ne piega il senso giuridico a finalità non giuridiche: di volta in volta, la sicurezza dello Stato, l'ordine pubblico, la lotta alla mafia e via di questo passo. Che accade in casi del genere? Accade che o si sta dalla parte del diritto e, in definitiva, della giustizia, cosa che da un certo punto di vista non è difficile, essendo il senso del limite, che entrambi li accomuna, percepibile anche da chi sia privo di specifica cultura giuridica; oppure, si sta dalla parte di tutte le altre cose che diritto non sono e che ad esso potenzialmente si oppongono in modo più o meno evidente: lo Stato, la pubblica difesa, l'organizzazione sociale, la lotta contro un fenomeno criminale. Qui, perciò, non è questione di garantismo o di giustizialismo: molto più radicalmente il dilemma autentico è invece stare con o contro il diritto, propiziare l'epifania della giustizia oppure ostacolarne l'apparizione: in sostanza, se permettere la coesistenza umana libera e consapevole oppure se impedirla, perché il diritto - e non altro - è in se stesso garanzia e, reciprocamente, non v'è garanzia umana e istituzionale se non nel diritto. Ecco dunque cosa dovrebbe oggi individuarsi quale compito specifico del giurista fedele alla propria vocazione e di ogni uomo di buona volontà: difendere la giustizia come valore necessario alla convivenza umana allo scopo di espellere definitivamente la violenza e la sopraffazione. Né si tratta di compito accessibile solo agli intellettuali, tutti potendo intenderne il senso e l'importanza. Si ricordi, in proposito, quanto accadde nel 1987, nel pieno dello svolgimento della campagna elettorale sul referendum circa la responsabilità civile dei magistrati. Norberto Bobbio, criticando la difficoltà tecnica e linguistica dei quesiti posti agli elettori, si era schierato nettamente contro la proposta referendaria protesa ad allargare quella responsabilità; ma Leonardo Sciascia osservò, coniando una felice metafora, che anche un contadino comprende bene se ha ai piedi un paio di scarpe strette: e sa bene che deve cambiarle. Il contadino, nella fantasia di Sciascia è, ovviamente, semianalfabeta e perciò non sa neppure cosa sia il garantismo: ma è quanto basta per schierarsi dalla parte della giustizia. Giustizia: Dap; 15mila volontari prestano loro aiuto ai detenuti, un supporto insostituibile Ansa, 4 agosto 2015 I 15 mila volontari che prestano il loro aiuto ai detenuti in carcere offrono un "supporto insostituibile" alle persone recluse. Lo sottolinea il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria che, in una nota, segnala alcuni dati sul volontariato negli istituti penitenziari riferiti al primo semestre 2015. "L'opera dei volontari, svolta sia in forma individuale che come appartenenti ad associazioni e organizzazioni, assicura un insostituibile supporto alle persone detenute, cui viene offerto non solo sostegno morale e materiale, ma attività stabili e strutturate di carattere trattamentale. Il rilevamento è stato eseguito dalla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento nei 198 istituti penitenziari, con la collaborazione delle Direzioni e dei Provveditorati Regionali dell'Amministrazione Penitenziaria", spiega la nota del Dap. Quanto alle iniziative più rilevanti, il Dap, sottolinea che "sono circa 15.000 i volontari ex art. 17 OP e ex art. 78 OP presenti nelle carceri italiane; circa la metà dei detenuti partecipa alle attività organizzate da organismi, associazioni e singoli volontari. Le attività culturali censite sono 353 a cui partecipano circa 10.700 detenuti. In tale tipologia di iniziative sono compresi: laboratori di scrittura, gruppi di lettura, redazione di giornali interni, laboratori linguistici, biblioteche e attività correlate, seminari letterari e incontri tematici. Quelle in materia di arti visive, cinema e teatro sono 244 e sono seguite da 4.450 detenuti. Inoltre, 110 sono le attività a carattere sportivo (calcio, rugby, pallavolo, basket ma anche corsi di yoga e altre discipline orientali) nelle quali sono coinvolti circa 2.300 detenuti". "Le circa 60 attività di animazione, giochi da tavolo, tornei e spettacoli di vario genere coinvolgono 3.800 detenuti. Al tema della genitorialità sono dedicati 67 progetti che vanno dalle attività di animazione per i bambini, svolte nelle ludoteche in occasione dei colloqui, e gruppi di riflessione. Si stanno diffondendo le iniziative in materia di pet therapy e di sensibilizzazione alla cura e al rispetto per gli animali. Si rilevano 15 iniziative che coinvolgono 215 detenuti. Sono stati realizzati 137 laboratori formativi (cucito, grafica, informatica, legatoria, falegnameria, cucina e creazione di manufatti artigianali) frequentati da 1200 detenuti. I detenuti possono fruire della consulenza legale, amministrativa e previdenziale fornita da 48 sportelli attivi gestiti da patronati. Sono 250 le iniziative di sostegno morale e materiale alla persona realizzate attraverso gruppi di ascolto e orientamento, fornitura di indumenti e sussidi economici agli indigenti", conclude il Dap. Giustizia: Orlando "l'immunità va rivista, basta voti sugli arresti, decida la Consulta" di Liana Milella La Repubblica, 4 agosto 2015 "Oggi la valutazione è sovraccaricata di peso politico", dice il ministro della Giustizia. E sul caso Azzollini: "Non sono d'accordo con la Serracchiani". "Non voglio certo rimettere in piedi l'immunità per i parlamentari, ma bisogna prendere atto di una realtà. L'autorizzazione all'arresto ormai ha cambiato pelle, è diventata un'anticipazione di giudizio di colpevolezza o di innocenza, comunque una valutazione politica. Quindi, forse, è arrivato il tempo di riflettere su come ristrutturarla". Andrea Orlando, il ministro della Giustizia del Pd, rompe un tabù. Tocca il controverso tema dell'immunità, esploso dopo il caso Azzollini. Ma mette anche le mani avanti e dice: "È tema di discussione, ma non certo da affrontare adesso nel pacchetto riforme perché le rallenterebbe". Ministro Orlando, che le viene in mente? Vuole cambiare le regole dell'autorizzazione all'arresto magari per dare un "aiutino" ai suoi colleghi politici? "Un attimo, fermi. Non voglio cambiare le regole dell'immunità, né tantomeno aumentare le protezioni parlamentari. L'attuale meccanismo è giusto e fondato. Ma credo sia opportuno cambiare chi ne valuta i presupposti". É una complessa questione di metodo. Per una ragione molto semplice: bisogna evitare che le iniziative della magistratura possano ledere l'autonoma valutazione del Parlamento. Renzi ha spiegato bene, con un espressione forte, le distinte prerogative di Parlamento e magistratura. La riflessione dovrebbe essere sulla congruità delle misure decise dalla magistratura se sono funzionali o denotano volontà persecutoria, ma dovrebbe farle un soggetto terzo". Quindi resta in piedi la richiesta di autorizzazione dei pm per un arresto o per un'intercettazione? "Trovo giusta la schermatura rispetto ad atti del magistrato che possono anche essere abnormi. L'ha prevista l'Assemblea costituente, è sopravvissuta alla bufera di Tangentopoli. È tuttora l'indirizzo giusto". Scusi, è allora che cosa c'è che non va? Qualche polemica dura della sinistra Pd sul caso Azzollini? "Adesso, ed è sotto gli occhi di tutti, si scatenano delle campagne con tesi contrapposte sull'innocenza o sulla colpevolezza di un parlamentare raggiunto da una richiesta di autorizzazione. La questione si carica di un enorme peso politico. Anche se io non avrei mai pronunciato la frase della Serracchiani, quel chiedere scusa. Semplicemente credo sia meglio rimettere il giudizio a un soggetto terzo, che sia più libero di dire dei sì e dei no e sia meno sottoposto alla contingenza". A chi sta pensando? "Sicuramente a un soggetto estremamente autorevole. Penso alla Corte costituzionale. Un soggetto che non si trovi, come adesso il Parlamento, sotto la pressione mediatica di essere sottoposto comunque a una scelta politica". La politica fa un passo indietro? "No, assolutamente. Ma in questa situazione la decisione su un arresto finisce per essere tirata per la giacca dalla politica". E con la Consulta sarebbe tutta un'altra musica? "Considerata la sua autonomia certo, nessuno potrebbe dire che sta decidendo sotto la spinta di un'ondata mediatiche". Questa sua riflessione nasce dal caso Azzollini no? "Chi critica la decisione presa sul suo arresto, negato in questo caso, lo fa sulla base di valutazioni di opportunità politica. Lo ripeto, così siamo fuori dal terreno tracciato dal costituente. Il quale ipotizzava che il voto del Parlamento dovesse tutelare il deputato o senatore, invece ora è diventato un'anticipazione di giudizio, sulla colpevolezza o innocenza". Di questa sua idea ha parlato con il premier Renzi? "Guardi, questa è una mia riflessione e valutazione personale, frutto delle reazioni al caso Azzollini". Si sentirebbe di proporre l'inserimento di questa novità, autorizzazioni decise dalla Consulta, nel pacchetto delle riforme costituzionali ora all'esame del Parlamento? "Nelle riforme? No, direi proprio di no. Perché significherebbe bloccarne il cammino. È impossibile, in questo momento, e considerando dov'è arrivata la futura legge. La mia idea è un'altra: apriamo la discussione, e poi si vede. Non voglio certo essere accusato di rallentare riforme". Giustizia: Manconi "la Consulta è una soluzione, però non fermerà i giustizialisti" di Alberto Custodero La Repubblica, 4 agosto 2015 "La competenza alla Consulta? Ben venga l'idea di un altra autorità che non siano i membri della Camera di appartenenza a decidere sulla congruità delle richieste della magistratura". Luigi Manconi, senatore della minoranza Pd (ha polemizzato anche all'interno del suo partito per essersi schierato a favore dei garantisti sul caso Azzollini), accoglie con favore la proposta del ministro della Giustizia. Favorevole senza riserve? "Non sono contrario, la vedo come una delle possibili soluzioni. Ma deve restare rigorosissima la tutela della insindacabilità dei voti e delle opinioni espresse dai parlamentari". Togliere alle Camere la facoltà di decidere sulle questioni di giustizia di deputati e senatori calmerebbe giustizialismo e antipolitica? "No. Credo che l'ostilità nei confronti della classe politica accusata di non voler giudicare i propri membri si sposterebbe nei confronti della Corte Costituzionale (o di un qualunque altro organismo) nel momento in cui valutasse che non va data autorizzazione". Anche lei come Orlando pensa che così com'è adesso la valutazione del Parlamento possa prestarsi a strumentalizzazioni politiche. "Su questioni come la privazione della libertà, ci deve essere sempre e comunque il libero convincimento". Però il suo voto contro la richiesta di arresto di Azzollini ha provocato polemiche nel Pd. "Non ho apprezzato che prima un vicesegretario abbia detto "dobbiamo chiedere scusa". E che poi un altro sottosegretario abbia dovuto correggere". Anche la minoranza dem, tuttavia, sul tema delle libertà personali, non pare compatta. "Non ho potuto sopportare l'idea che si trasmettesse il messaggio secondo cui la minoranza Pd (in quanto sinistra del partito) fosse naturaliter a favore dell'arresto. Quasi che l'arresto fosse di sinistra". Perché ha votato contro? "L'attuale norma prevede che il Parlamento valuti l'esistenza o meno del fumus persecutionis. Ma si tratta di un concetto labile, che genera contrasto, contraddizione, ambiguità". Perché? "Si pretenderebbe di giudicare l'esistenza o meno del fumus evitando totalmente qualunque giudizio su come l'autorità giudiziaria sia arrivata a chiedere l'arresto. È impossibile. E il caso Azzolini ne è una prova". In che senso? "Per valutare il fumus io devo comunque giudicare le prove portate dalla magistratura". Cosa l'ha indotta a schierarsi coi garantisti? "La frase attribuita ad Azzollini "ti piscio in bocca" riferito alle suore. Non era una intercettazione ma una frase riportata da un testimone che l'ha sentita da un'altra stanza. E non ha saputo dire in che anno sarebbe stata pronunciata". Giustizia: è morto Giovanni Conso, il giurista che cercava le vie d'uscita politiche di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 4 agosto 2015 È stato un maestro del Diritto il professor Giovanni Conso, morto ieri all'età di 93 anni; imo studioso che ha attraversato le università, le commissioni di riforma dei codici, l'Accademia dei Lincei e le più alte istituzioni: il Consiglio superiore della magistratura, del quale fu anche vice-presidente, e la Corte costituzionale, di cui fu eletto presidente. Una vita spesa per una procedura penale efficiente e garantista insieme, come ricorda l'ex capo dello Stato Giorgio Napolitano: "Ha lasciato un segno elevato e duraturo per la nobiltà e disinteressata dedizione all'interesse generale del Paese e alla causa della democrazia costituzionale". Ma in una carriera così lunga e intensa, è l'anno da Guardasigilli, dal febbraio 1993 al maggio 1994, ad aver segnato più di ogni altra attività la sua immagine pubblica. Una breve parentesi in un periodo, la transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica, segnato da eventi clamorosi e drammatici: da Mani Pulite allo stragismo mafioso. Di entrambi i passaggi il ministro Conso è stato protagonista, sul momento e in seguito, fino a ritrovarsi indagato per "false comunicazioni al pubblico ministero" nell'inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia. È la storia ormai nota degli oltre 300 decreti di "carcere duro" non prorogati ad altrettanti detenuti, a novembre 2013. Un segnale della disponibilità dello Stato ad arretrare di fronte al ricatto mafioso - secondo l'accusa, per fermare le bombe e porre le basi di un nuovo patto di convivenza con i boss. A tutto questo l'ex ministro Conso s'è sempre dichiarato estraneo, sostenendo che fu una sua decisione presa "in solitudine", senza alcun mercanteggiamento: "L'idea di una vicinanza mafiosa mi offende nel profondo. Dopo tutta una vita dedicata al diritto, sentirmi sospettato di aver trattato... Ma nemmeno lontanamente, abbiate pazienza!", sbottò davanti alla corte d'assise di Firenze. Lo scorso 3 febbraio doveva comparire al processo di Palermo, ma le condizioni di salute già critiche glielo impedirono. Nella ricostruzione di Conso sono rimasti passaggi poco chiari e interrogativi senza risposta (non solo da parte sua), ed è probabile che nella sua concezione di ministro responsabile dei propri atti ci fosse l'idea di trovare soluzioni mediate (oltre che meditate) che potessero garantire la tenuta delle istituzioni; indipendentemente da minacce o altro. Come tentò di fare con l'altra grande emergenza di quella tormentata stagione: il decreto per una "uscita politica" da Tangentopoli, con la depenalizzazione retroattiva del finanziamento illecito dei partiti. Una mossa bloccata dopo che i magistrati di Mani Pulite presero le distanze è il presidente della Repubblica Scalfaro pose il proprio veto. Da non politico, il professor Conso cercava vie d'uscite politiche alle crisi che si trovò a fronteggiare, finendo per rimanere impigliato in polemiche che - rivestiti i panni dello studioso - a tanti anni di distanza faticava persino a comprendere. E come lui tanti giuristi, magistrati, allievi e estimatori che da ieri lo piangono con commozione e gratitudine. Giustizia: Giovanni Conso un giurista insigne, custode della Carta di Guido Compagna Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2015 Giovanni Conso morto ieri all'età di 93 è anni è stato certamente uno dei più prestigiosi giuristi che hanno onorato la cultura italiana: ma la sua presenza ha anche caratterizzato la storia delle istituzioni e della politica italiana. Ma se la sua figura di studioso e di rappresentante delle istituzioni (ha guidato l'accademia dei Lincei ha avuto incarichi prestigiosi nel mondo universitario è stato membro, indicato dal capo dello Stato Pertini, e vicepresidente del Csm, nonché giudice costituzionale e presidente della Corte dall'ottobre 90 al febbraio 91) è fuori discussione, sulla sua attività politica e di governo (due volte ministro della Giustizia) non sono mancati interrogativi e polemiche. I fatti controversi sono soprattutto due: il primo riguarda il cosiddetto colpo di spugna nei confronti di alcuni reati che avevano caratterizzato la stagione di Tangentopoli. Conso era stato chiamato come ministro della Giustizia nel governo Amato. Si era nel 1993 e in precedenza (durante l'elezione del presidente della Repubblica) che portò Scalfaro al Quirinale il Pds aveva sostenuto proprio Conso (ebbe 253 voti) come proprio candidato nelle prime votazioni. Conso si trovò a dover ritirare il decreto (che fu addirittura chiamato "salva ladri" dinanzi alla durissima reazione della Procura di Milano con Di Pietro in prima linea minacciare l'uscita dalla magistratura. Questo nonostante il presidente del Consiglio Amato avesse definito l'iniziativa di Conso come "soluzione politica necessaria". Ma se sul cosiddetto colpo di spugna i pareri possono essere diversi e contrastanti, e, comunque da inquadrare nel clima politico-giudiziario di quei mesi, più perplessità suscita il mancato rinnovo nel marzo del 1943 regime di 41 bis a carico di circa 300 detenuti mafiosi sottoposti al carcere duro. Nè sono particolarmente convincenti le dichiarazioni (appaiono soprattutto un peccato di ingenuità) che lo stesso Conso diede ai magistrati di Palermo, ai quali spiegò di essersi regolato in questo modo per indurre Cosa nostra a smetterla con gli attentati e le stragi. Una tesi questa che l'ex Guardasigilli aveva confermato in una più recente intervista a "Repubblica", nella quale aveva anche aggiunto di non essere mai stato al corrente di una trattativa tra lo Stato e la mafia e di non essere mai stato partecipe di una cosa del genere". Nello scorso febbraio Conso era stato chiamato a deporre al processo sulla cosiddetta trattativa, ma l'aggravarsi delle sue condizioni di salute non gli avevano consentito di testimoniare. Se certamente la sua partecipazione alla vita politica del Paese è stata, è, e continuerà ad essere oggetto di controverse valutazioni, sono fuori discussione il suo assoluto disinteresse nel servire lo Stato e le istituzioni e la sua grande cultura giuridica, della quale testimoniano il suo percorso accademico, e le sue opere. A cominciare dagli editoriali, che in tempi difficili scriveva sul quotidiano di Torino. Giustizia: Conso, il guardasigilli che sfidò il potere dei giudici… e perse di Tiziana Maiolo Il Garantista, 4 agosto 2015 Quel che è certo è che le mani su Giovanni Conso nessun magistrato di Palermo potrà più metterle. Se ne è andato dopo una lunga vita di persona per bene, di bravo giurista, di vero riformatore, di persona che, con la sua determinata mitezza, cercava le soluzioni. La carriera politica non è stata per lui la cosa più importante della vita, ma forse la più dolorosa. Quella per la quale, purtroppo, qualche giornalaccio vorrà ricordarlo in negativo: per quel decreto che avrebbe cambiato la storia di Tangentopoli e d'Italia senza il voltafaccia di Scalfari), e per la riduzione del numero di detenuti sottratti alla tortura del 41bis. Due iniziative doverose e giuste, invece. Degne del Giovanni Conso che abbiamo sempre apprezzato. Certo è forse più "noioso" ricordare che Giovanni Conso è stato docente ordinario di procedura penale in diverse università italiane, Presidente dell'Accademia dei Lincei e poi vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura e Presidente della Corte Costituzionale, Ma questa è stata la sua vita, E avrebbe potuto correre su questi binari fino alla fine, se nel 1992 il Pds dì D'Alema e Occhetto non avesse usato il suo nome e il suo prestigio per una finta candidatura alla Presidenza della Repubblica, dopo le dimissioni forzate di Francesco Cossiga, Conso prese 253 voti e poi fu eletto Scalfaro. Quasi a compensazione (di certo non richiesta) gli fu offerto nel 1993 da parte del presidente del consiglio Giuliano Amato il ruolo di ministro Guardasigilli. Posso testimoniare personalmente di aver conosciuto, mentre ero deputato di opposizione al governo e vicepresidente della Commissione giustizia dulia camera, un ministro corretto, sempre disponibile all'ascolto, attento alle garanzie e ai diritti del singolo individuo. Il 1992 e il 1993 non sono stati anni facili. Da più parti, compresi alcuni settori della magistratura, si cercavano soluzioni politiche o giuridiche per uscire da Tangentopoli in modo equo e possibilmente non troppo doloroso. Tutti i partiti di governo e il maggior partito dì opposizione (il Pci-Pds) si erano finanziati in modo irregolare o illegale, come denunciò lo stesso Bettino Craxi in due famosi discorsi alla Camera, Il ministro Conso, in accordo con il Presidente Scalfaro, preparò un decreto per depenalizzare il reato di finanziamento illecito ai partiti, con vincoli stretti sulla restituzione del denaro e allontanamento per un certo periodo dalla vita pubblica delle persone responsabili. Un provvedimento sensato, che piaceva a tutti. O quasi. Anche i principali quotidiani italiani - ì cui direttori e caporedattori si accordavano la sera precedente sull'uscita del giorno dopo - si stavano allineando su un giudizio positivo. Tanto che l'Unità, organo del Pci-Pds, aveva preparato un titolo accattivante, "Non è un colpo dì spugna, sull'editoriale del senatore Cesare Salvi. Ma governo, Parlamento e sistema dell'informazione, pur tutti messi insieme, erano più deboli dei cinque uomini che, dal quarto piano del palazzo di giustizia dì Milano, avevano in pugno l'opinione pubblica e di conseguenza l'interno Paese. Ci fu una telefonata tra Scalfaro e il Procuratore Borrelli? Probabile. Fatto sta che il Presidente della repubblica all'ultimo momento ritirò la firma dal decreto e il governo, che pure avrebbe potuto (la firma del Capo dello Stato non è vincolante), non ebbe il coraggio di ripresentare comunque il provvedimento alle Camere. Il grottesco fu anche che l'Unità con una bella capriola titolò l'editoriale di Salvi "È un colpo di spugna" e così il Corriere dì Paolo Mieli e tutti ì più importanti quotidiani. Di Pietro aveva vinto e il ministro Conso, dopo Martelli, ma prima di Mancuso, Flick e Mastella, entra nella galleria dei ministri di giustizia colpiti e affondati dalla magistratura. Anche perché, due mesi dopo la vicenda del decreto, e mentre la mafia, che l'anno prima aveva compiuto un vero sterminio culminato nell'assassinio dei giudici Falcone e Borsellino, aveva intensificato la sua attività criminale, un'altra iniziativa del ministro ne determinò in modo irrevocabile la fine dell'attività politica. Da un anno, dopo la morte di Falcone, esistevano nel nostro ordinamento alcune leggi speciali (in particolare il famoso "decreto Scotti-Martelli) che avevano introdotto l'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario, applicato in alcuni casi, come nelle carceri di Pianosa e Asinara, come vera tortura, non solo nei confronti dei mafiosi. E ancora bruciava quella sentenza del maxiprocesso in cui non era stato del tutto rispettato il nuovo codice di procedura penale, che pure avrebbe dovuto essere applicato da oltre due anni. Conso, anche su suggerimento dì alcuni giudici di sorveglianza, pensò di alleggerire il clima ormai irrespirabile, non prorogando il sistema di carcere duro a circa 300 imputati di reati minori nelle inchieste dì mafia. Nessun capobastone rientrava in quel gruppo, pure il ministro fu messo in croce e in seguito interrogato dai magistrati della Procura dì Palermo, quelli in particolare che portano i nomi di De Matteo (quello del "caso Scarantino") e Antonio Ingroja (che cercò di far fruttare la propria popolarità con una perdente candidatura alle elezioni), i quali misero in piedi il famoso processo, infinito nei tempi quanto fragile nell'accusa, sulla "trattativa Stato-mafia", Invano Giovanni Conso avanzò le sue ragioni, spiegando il senso della sua iniziativa e dicendo indignato che lui mai avrebbe trattato con la mafia. Non fu creduto e addirittura indagato per falsa testimonianza. È questa la storia del giurista Conso? Questa è la parte dolorosa. Ma a noi piace ricordare l'altra, quella di un insigne giurista e un grande galantuomo. Smercio di stupefacenti con punibilità ampia di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2015 Corte di Cassazione - Sezione I penale - Sentenza del 3 agosto 2015, n. 33928. Punibilità ampia con soglie molto anticipate per lo smercio di sostanze stupefacenti. A ribadire i confini dell'articolo 73 del Dpr 309/90 è la Prima penale della Cassazione, con la sentenza 33928/15 depositata ieri in cancelleria. A innescare la decisione era stato l'imputato in un procedimento della Procura di Lecce, che contestava l'applicazione della custodia cautelare in assenza di elementi sulla partecipazione al sodalizio e anche circa il commercio di alcune partite di stupefacente di tipo cocaina. Sul primo punto la Corte ha avallato l'interpretazione dei giudici dell'indagine e del riesame, ritenendo sufficienti le numerose intercettazioni ambientali e telefoniche per giungere al coinvolgimento diretto nella "consorteria" dedita al traffico di droga (tra l'altro "l'apprezzamento sull'interpretazione e la valutazione del contenuto delle intercettazioni telefoniche non può essere sindacato in sede di legittimità, se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza", da ultimo n. 35181/13). Quanto alla vendita di cocaina, la Prima sezione ha invece accolto l'istanza del ricorrente, incentrata sul momento "consumativo" della cessione di cui non c'è traccia nell'ordinanza - peraltro la Corte non ravvisa qui neppure i presupposti tecnici del "tentativo". Un errore di strategia investigativa, evidentemente, considerato che il Dpr 309/90 prevede una progressione criminale complessa e "a salire" che parte dalla coltivazione, produzione, estrazione e cosi via fino al trasporto, al procurare e che giunge fino alla semplice detenzione, a fini di spaccio ovviamente. Ognuna di queste ipotesi è in sé completa, scrive la Corte: "Come per tutte le fattispecie a schema plurimo che si riferiscono a condotte tra loro legate e funzionali l'una alla realizzazione della successiva, in relazione all'articolo 73 del Dpr 309/90 il momento "consumativo" coincide sotto ogni profilo con il perfezionamento della condotta anticipata sanzionata in via sussidiaria ove non si realizzi l'approfondimento dell'offesa disegnato dalle ipotesi successive". Pertanto, in materia di cessione e acquisto di sostanza stupefacente, è sufficiente che si sia formato il consenso tra le parti "non occorrendo per la consumazione di tale ipotesi che la droga sia materialmente consegnata all'acquirente e cioè che siano realizzate anche le distinte ipotesi della consegna e della detenzione". Preso questo abbrivio, è evidente che per l'"offerta" e per la "messa in vendita" di sostanza non è necessaria l'accettazione per integrare il delitto consumato, perché se così fosse, con il "consenso" si ricadrebbe nella ipotesi ulteriore della cessione o della vendita. Unica condizione, ovviamente, che l'offerta sia legata a una "effettiva disponibilità", anche se non immediata, della droga stessa. Sentenza di estinzione del reato del Gdp inappellabile per riquantificare la cifra di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezioni unite penali - Sentenza 31 luglio 2015 n. 33864. La sentenza di estinzione del reato pronunciata dal giudice di pace non può essere oggetto di impugnazione da parte della parte offesa. Questo l'interessante principio di diritto pronunciato dalle Sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 33864/2015. Alla base della pronuncia una vicenda in cui l'imputato aveva depositato un assegno circolare di circa mille euro nei confronti della moglie per frasi offensive con una limitata capacità di intimidazione. A seguito di questa riparazione economica il giudice di pace in base a quanto previsto dall'articolo 35 del Dlgs 274/2000 aveva dichiarato estinto il reato. Ricorso della parte offesa - Tuttavia la parte offesa - non soddisfatta - dell'importo liquidatole aveva proposto appello alla quinta sezione penale che con sentenza del 3 aprile 2012 qualificava il ricorso come appello, disponendo la trasmissione degli atti al tribunale di Udine. Quest'ultimo confermava pienamente la sentenza del giudice di pace rilevando come la somma offerta dall'imputato fosse addirittura eccedente il danno realmente subito dal coniuge, visto che dall'istruttoria era emerso che le gravi conseguenza sofferenze lamentate dal querelante erano in realtà riconducibili più che alle violenze subite, alla crisi del rapporto coniugale. Si sarebbe trattato così di fatti episodici tra loro slegati e improduttivi di lesioni fisiche ma che si erano risolti in minacce di morte qualificate da una limitata capacità di intimidazione. Contro tale sentenza la parte offesa costituita parte civile ha proposto ricorso per Cassazione. La quinta sezione penale, cui il ricorso era stato tabellarmente assegnato con ordinanza 16 gennaio 2015 ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite, rilevando l'esistenza di un contrasto giurisdizionale sulla questione preliminare inerente la sussistenza o meno dell'interesse per la parte civile a proporre impugnazione anche ai soli effetti civili contro la sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie prevista dall'articolo 35 del Dlgs 274/2000. I due differenti orientamenti - E in effetti gli Ermellini hanno precisato come nella giurisprudenza fosse evidente il contrasto tra due tesi opposte. Secondo, infatti, certa parte della giurisprudenza in tema di reati di competenza del giudice di pace doveva ritenersi sussistere l'interesse della parte civile a impugnare la sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato per intervenuto risarcimento dei danni, atteso che questa pronuncia, contenesse valutazioni incidenti nel merito della pretesa civilistica e potenzialmente pregiudizievoli per gli interessi della parte provata (Cassazione, sentenza n. 23527/20008). Secondo altra parte della giurisprudenza, invece, la parte civile non ha alcun interesse anche ai soli fini civili a impugnare la sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato per intervenuta condotta riparatoria, in quanto tale pronuncia, limitandosi ad accertare la congruità del risarcimento offerto ai soli fini dell'estinzione del reato, non riveste autorità di giudicato nel giudizio civile per restituzioni o per il risarcimento del danno e non produce pertanto alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile (sentenza n. 27392/2008). Le sezioni Unite hanno fatto prevalere il secondo orientamento con un ragionamento assolutamente lineare. La parte civile, infatti, qualora non trovi adeguato il risarcimento offerto per quanto riguarda l'estinzione del reato, potrà adire comunque il giudice civile rispetto alla decisione e in quella circostanza contestare l'entità di quanto ricevuto. Se non fosse stato deciso in questo senso si sarebbe creato un pericoloso equivoco inerente ai poteri del giudice di pace. Conclusioni - Quest'ultimo, infatti, non solo si sarebbe dovuto pronunciare sulla congruità o meno della cifra offerta dall'imputato ai fini penali, ma avrebbe poi dovuto subito dopo indossare i panni del giudice civile e arrivare a dare un secondo giudizio sulla quantificazione della somma offerta. Di qui il principio di diritto enunciato dalle sezioni Unite secondo cui "in tema di reati di competenza del giudice di pace non sussiste l'interesse per la parte civile a impugnare la sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato ai sensi dell'articolo 35 del Dlgs 274/2000". "Non sapeva di essere imputato", la sentenza di condanna al latitante va annullata di Andrea Ossino Il Tempo, 4 agosto 2015 "L'intrinseca debolezza delle presunzioni di conoscenza non è idonea a dimostrare l'effettiva conoscenza del procedimento". Con queste motivazioni la Cassazione ha annullato la sentenza del Tribunale di Udine che condannava a due anni di reclusione Hamdo Dacic, detenuto montenegrino evaso dal penitenziario del Friuli. In altre parole, non essendo provato che l'evaso fosse a conoscenza dell'inizio di un procedimento nei suoi confronti, quest'ultimo non è processabile e la sentenza va annullata. Hamdo era stato arrestato nel 1999 perché trovato in possesso di 13 chili di coca. Stava scontando 8 anni nel penitenziario di Udine quando, la notte di capodanno del 2000, mentre i secondini brindavano al nuovo anno, era evaso insieme ad altri 4 detenuti segando le sbarre della finestra e scendendo grazie a 5 lenzuola legate tra loro. Hamdo aveva fatto perdere le sue tracce, ma nel 2002 era stato fermato in Bosnia. Dopo 3 mesi di detenzione, visto che l'Italia non aveva risposto alle richieste della corte di Sarajevo che desiderava approfondire le pendenze giudiziarie del montenegrino, l'evaso era stato scarcerato. Era riuscito a godersi la sudata libertà fino al febbraio del 2014 quando, arrestato al confine con la Serbia, era stato estradato in Italia dove nel frattempo era stato condannato, ma in sua assenza. Tanto è bastato ai penalisti Federico e Salvatore Sciullo per presentare un'istanza in cui si sostiene la violazione delle normative sulla latitanza e la reperibilità dell'imputato. Il tribunale però respinge l'istanza: "Nel caso in esame - affermerà dopo la Cassazione - il tribunale di Udine con motivazione congetturale ha ritenuto irrilevante fornire la prova positiva di questa conoscenza (del procedimento ndr) e ha respinto l'istanza sul presupposto che il condannato non poteva ignorare che la condotta di evasione avrebbe comportato la sottoposizione a un procedimento penale". Dopo la decisione del tribunale di Udine, Hamdo, appoggiato dai penalisti, si rivolge alla Suprema Corte, sottolineando irregolarità come l'omessa traduzione degli atti e l'impossibilità di desumere l'esistenza di un procedimento dal mero status di evaso, tanto più se il proprio difensore è stato nominato d'ufficio. Insomma, come poteva supporre il narcotrafficante evaso che quella scappatella avrebbe avuto conseguenze giuridiche? Non poteva, secondo gli ermellini. Il latitante evaso non è processabile perché, guarda un po', non è rintracciabile. La Corte dà quindi ragione ai penalisti che difendono Dacic, spiegando "la diversità di natura e sostanza del rapporto che intercorre tra l'imputato e il difensore di fiducia da un lato e quello d'ufficio dall'altro". La sentenza viene annullata. Udine si adegua. "Abbiamo atteso la Cassazione affinché fosse fatta la giusta chiarezza in termini giuridici - affermano Federico e Salvatore Sciullo - consentendo al nostro assistito, qualunque sia titolo di reato contestato, di potersi difendere nel rispetto delle regole processuali". Circolare con l'auto sotto sequestro non è reato ma illecito amministrativo di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 3 agosto 2015 n. 33999. Mettere in circolazione il proprio mezzo sottoposto a sequestro amministrativo fa scattare solo la sanzione amministrativa senza alcuna ripercussione penale. Lo precisa la Cassazione con lasentenza n. 33999/2015. Non viene commesso pertanto il reato previsto dall'articolo 334 del codice penale per chi, disinteressandosi della misura cautelare reale, metta in moto l'auto e ci giri. Si legge nella sentenza che apparentemente la condotta potrebbe integrare l'ipotesi delittuosa in quanto viene elusa la finalità sanzionatoria che è rappresentata dallo stop del mezzo. Tuttavia nel caso la legge speciale, rappresentata dall'articolo 213 del codice della strada, viene fatta prevalere su quella generale dettata come ricordato dall'articolo 334 del codice penale. Le Sezioni unite del 2010 - Per comprendere meglio il perché della scelta seguita dalla Corte è opportuno dare uno sguardo al passato ed esaminare velocemente quanto detto dalle sezioni Unite penali con la sentenza 21 gennaio 2010 n. 1963. Gli Ermellini allora avevano evidenziato come in campo ci fossero due orientamenti. Secondo il primo minoritario la condotta del soggetto sorpreso alla guida di un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo rispondeva soltanto dell'illecito amministrativo previsto dall'articolo 213 del Cds; secondo, invece, altro orientamento maggioritario chi veniva sorpreso a guidare l'auto da tenere in custodia incappava nell'ipotesi di reato prevista dall'articolo 334, comma 2, del cp. Le sezioni Unite avevano chiarito a tal proposito che perché si potesse parlare di reato occorreva la presenza di due condizioni: la circolazione abusiva e la sottrazione del mezzo. A tal proposito era stato evidenziato come la circolazione abusiva costituisse un fatto ben distinto dal deterioramento così come previsto dal codice penale. "Deterioramento che può costituire una conseguenza indiretta della condotta illecita anche perché l'usura che può conseguire alla circolazione non è equiparabile al deterioramento e la circolazione addirittura può servire a evitare il deterioramento del veicolo". A proposito, poi, di sottrazione la Cassazione aveva fornito una versione decisamente a favore del proprietario. Il concetto di sottrazione - E questo perché si legge nella sentenza del 2010 è vero che la sola amotio del veicolo può realizzare la sottrazione e che quest'ultima non implica necessariamente l'impossessamento della cosa, potendosi realizzare con la semplice elusione del vincolo cui il bene è sottoposto, ma secondo i giudici "doveva trattarsi di una condotta effettivamente caratterizzata da offensività che valesse a far ritenere esistente una reale sottrazione, eventualmente anche temporanea, non soltanto alla disponibilità del bene ma anche all'esercizio dei poteri di controllo esercitati dall'autorità giudiziaria o amministrativa (non deve dunque trattarsi del semplice spostamento del veicolo da un luogo ad un altro senza che lo stesso venga sottratto alla possibilità di esercizio di questi poteri, ma si deve trattare di uso incompatibile con le finalità del sequestro". Conclusioni - Ritornando alla recente sentenza del 3 agosto 2015 che di fatto ha richiamato i principi enunciati in passato dalla sezioni Unite è stato riconosciuto come nella fattispecie ricorressero i presupposti dell'illecito amministrativo, dovendosi al contrario escludere la configurabilità del reato contestato. Vietato prorogare l'efficacia di norme incostituzionali di Nino Scripelliti Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2015 Sembra ovvio, ma così evidentemente non era per il Governo che con il decreto legge 47/2014 prorogò, dopo che era stato dichiarato incostituzionale, gli effetti dell'articolo 3, commi 8 e 9, del Dlgs 23/2011 che, nell'occasione della istituzione della cedolare secca sui canoni di locazione, aveva disposto alcune gravi sanzioni per il locatore per il caso di mancata registrazione del contratto nel termine di legge (30 giorni), come la durata quadriennale del rapporto di locazione a partire dalla registrazione e la riduzione del canone al triplo della rendita catastale. Questi effetti punitivi per i locatori, oltre che non previsti dalla legge delega, erano manifestamente sproporzionati ed iniqui, e mossi dal pregiudizio di una diffusa evasione nell'ambito delle locazioni, anche se la mancata registrazione del contratto di locazione non implica affatto che il canone non venga dichiarato agli effetti dell'imposta sul reddito, senza, tuttavia, evitare le sanzioni. A questa disciplina pose rimedio la Corte costituzionale che, con sentenza 50/2014 dichiarò illegittimo l'articolo 3, commi 8 e 9, del Dlgs 23/2011. Non passarono tuttavia 15 giorni, che il Parlamento, con prontezza certamente degna di miglior causa, introdusse nel decreto legge 47/2014 convertito con legge 80/2014, l'articolo 5, comma 1-ter, che disponeva che sarebbero stati mantenuti, fino alla data del 31 dicembre 2015, "gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti" sulla base dei contratti di locazione registrati ai sensi dell'articolo 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 23/2011. In sostanza, il provvedimento disapplicava, o rinviava l'efficacia, apparentemente fino al 31 dicembre 2015, della sentenza della Corte costituzionale 50/2014. Ed è su quest'ultimo decreto-legge che nuovamente, e si spera definitivamente, è intervenuta la Corte costituzionale con la recentissima sentenza 169 del 16 luglio 2015, dichiarandone l'incostituzionalità. Infatti, ha motivato la Corte, è vietato al legislatore (e quindi anche al Governo in via d'urgenza) prorogare l'efficacia di norme incostituzionali, le quali non possono essere applicate "dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione". A questa non edificante alternanza tra leggi e dichiarazioni di incostituzionalità, sopravvivono tuttavia alcune questioni. Infatti della, speriamo definitiva, rimozione dell'art. 3, commi 8 e 9, del Dlgs 23/2011, non potranno beneficiare i locatori quando vi sia stata sentenza passata in giudicato in favore del conduttore; e nemmeno potranno beneficiare i conduttori che non abbiano esercitato il loro diritto durante il vigore della legge dichiarata incostituzionale o quando vi sia stata risoluzione consensuale del contratto, o rilascio dell'immobile per scadenza del termine. Inoltre, considerato che l'articolo 5, comma 1-ter del decreto legge 47/2014, si limitava a prorogare fino al 31 dicembre 2015 "gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dei contratti di locazione registrati ai sensi dell'articolo 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo n. 23/2011", ci si chiede se eventuali contratti non registrati ma successivi alla proroga incostituzionale, siano potuti cadere sotto le maglie del Dlgs 23/2011, che pure non istituiva nuove sanzioni a carico dei locatori, ma prorogava l'efficacia di quelle previste nel decreto legislativo 23/2011. Infine, eventuali accordi stragiudiziali tra inquilino e locatore non potranno essere ridiscussi o contestati, poiché la transazione, di regola ed in mancanza di specifiche riserve, copre in via tombale la controversia, al riparo di qualunque possibile contestazione. Per contro, la pronuncia di incostituzionalità avrà immediato effetto nelle cause in corso o in quelle nelle quali la eventuale sentenza sfavorevole per il locatore non fosse ancora passata in giudicato (ma sarà necessario proporre appello), poiché la norma annullata non dovrà più essere applicata. In conclusione, un maggior senso di misura nella vicenda non avrebbe pregiudicato il principio della certezza del diritto. Risarcimento del danno, la condanna non può superare la domanda di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2015 Corte d'Appello di Palermo - Sezione II - Sentenza 25 febbraio 2015 n. 288. Quando l'attore abbia indicato "esattamente e senza incertezze" la somma richiesta a titolo di risarcimento del danno, il giudice di merito non può pronunciare condanna per un importo superiore. Lo ha stabilito la Corte d'Appello di Palermo, sentenza del 25 febbraio 2015 n. 288, accogliendo l'appello di un comune siciliano e chiarendo che la condanna ad una somma maggiore da parte del Tribunale viola il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (articolo 112 del Cpc). La vicenda - In primo grado, il comune di Partinico era stato condannato al pagamento di 9.134,49 euro, a titolo di risarcimento per il danno subito da un privato all'interno del proprio fondo, a causa di infiltrazioni d'acqua provenienti da una canale di scolo realizzato dall'ente. Il municipio però aveva proposto appello lamentando il vizio di ultra-petizione per via della condanna "al pagamento di una somma (euro 9.134,39) superiore a quella specificamente indicata dall'attore (euro 5.012,00)". Termini di impugnazione - Il proprietario del terreno, in primis, ha eccepito l'inammissibilità dell'impugnazione per il decorso dei termini ma la Corte di secondo grado, rifacendosi ad un precedente di Cassazione, ha bocciato il motivo chiarendo che "non è idonea a far decorrere il termine breve per l'impugnazione la notifica della sentenza effettuata al comune, parte in causa, in persona del sindaco e presso la casa comunale, ove l'organo è domiciliato per la carica, in assenza di qualunque richiamo al procuratore dell'ente, anch'egli domiciliato presso la casa comunale, in quanto la sola identità di domiciliazione non assicura che la sentenza giunga a conoscenza della parte tramite il suo rappresentante processuale, professionalmente qualificato a vagliare l'opportunità dell'impugnazione" (Cass. n. 9843/2014). La motivazione - Sul punto specifico, invece, la Corte ha ricordato che la somma richiesta dall'attore in primo grado, era stata confermata anche a seguito dell'espletamento della Ctu. Per cui, argomenta la sentenza, non è pertinente il richiamo a quella giurisprudenza che consente la condanna di un importo maggiore rispetto a quello domandato, "sempre che l'attore abbia fatto riferimento ad un eventuale accertamento in tal senso, poi verificatosi all'esito dell'attività istruttoria". E, conclude, neppure ricorre la diversa ipotesi, in cui l'importo maggiore sia stato richiesto dall'attore all'esito dell'attività istruttoria. Per cui, in riforma della sentenza, la Corte ha ridotto a 5.012 euro l'importo da corrispondere. Lettere: dietro le sbarre al di là della colpa di Lella Costa (attrice e scrittrice) L'Unità, 4 agosto 2015 "Certezza della pena vuol dire punizione, ma anche sofferenza". Di cosa parliamo quando parliamo di certezza della pena? Possibile che chi la invoca a gran voce non sia consapevole del doppio significato che questa parola - pena - ha per tutti noi nel comune sentire, nel linguaggio quotidiano? Punizione, certo. Ma anche, e prima, dolore, sofferenza. Dunque è questo che in tanti esigono: che chi ha agito contro o al di fuori della legge venga privato non soltanto della libertà, ma anche della dignità. Che debba soffrire, patire. Penare, appunto. Che il carcere non si limiti ad amputare gli aspetti sociali della vita dei detenuti, ma annulli completamente anche quelli più intimi: gli affetti, i sentimenti, le relazioni, l'amore, il sesso, la tenerezza. Recentemente, a Rebibbia, ho letto un testo molto ironico e straordinariamente pertinente in cui si chiedeva a chi ne ha il potere di passare dalla "sicurezza dei diritti" al "diritto alla sicurezza". L'ha scritto una detenuta. Qualche anno fa, alla messa di Natale di San Vittore, ho sentito affermare che "nessun essere umano può mai essere ridotto soltanto alla propria colpa, qualunque essa sia". L'ha detto un arcivescovo. Lettere: Trani contro tutti, storia incredibile ma vera di una procura all'arrembaggio di Maurizio Stefanini Il Foglio, 4 agosto 2015 Silvio Berlusconi è stato vittima di un golpe. Silvio Berlusconi è stato responsabile di un golpe. Qualcuno voleva uccidere Gianfranco Fini. Il vaccino contro il morbillo provoca l'autismo e il diabete. I dirigenti della Banca d'Italia e del ministero dell'Economia praticano usura. Chi le ha dette? La Procura di Trani. E non le ha solo dette: su ognuna delle citate accuse, ci ha pure aperto un'indagine. Non solo il caso Azzollini, dunque. "I senatori non sono passacarte della procura di Trani", ha detto Matteo Renzi a commento di quest'ultima vicenda. Un contributo che si aggiunge a un già ricco florilegio. "Competenza territoriale che sembra diventata un optional", "protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di bene", era stato ad esempio il giudizio del procuratore capo di Milano Edoardo Bruti Liberati, quando tra i colleghi di Roma, Milano e Siena la Procura di Trani si era inserita con un tuffo carpiato sul caso Mps. E sì che come vicepresidente, presidente e segretario dell'Associazione nazionale magistrati, Bruti Liberati non si era mai distinto come un frenatore di protagonismi. Ma quella volta sbottò sulla "gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile". Mentre il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, parlava di "iniziativa estemporanea, dettata più dall'esigenza di inseguire la notorietà che da un coerente e responsabile esercizio dell'azione penale". Eppure, Azzolini e Mps sono in fondo storie minore, rispetto a certi massimali su cui il protagonismo della procura di Trani si è arrampicata. Su Wikipedia, il "Tranigate" per eccellenza è infatti considerato la vicenda per cui nel marzo del 2010, a partire da un'inchiesta su un giro di carte di credito illegali, finì sul Fatto quotidiano il contenuto di intercettazioni che vedevano Berlusconi chiedere la chiusura di "Anno zero" di Michele Santoro. La faccenda finì per competenza alla procura di Roma, che nel gennaio 2013 avrebbe archiviato. In realtà, l'indagine di portata più planetaria dovrebbe essere considerata quella in cui fu invece Berlusconi a essere descritto come la vittima di un complotto di Standard & Poor's e Fitch. Nel settembre 2011 i magistrati di Trani chiesero addirittura di visionare un rapporto che Barack Obama aveva inviato al dipartimento di Giustizia, per criticare la decisione del mese precedente di Standard & Poor's di declassare il rating sovrano Usa. Dopo due anni di indagini, nel novembre del 2012 Trani chiese infine il rinvio a giudizio di cinque dirigenti dell'agenzia e di due manager di Fitch. "In una intercettazione ci avevano paragonato a un piccolo paesino dell'Oklahoma", commentò trionfante il pm Carlo Maria Capri-sto. "Abbiamo risposto con i fatti, portando a termine un autentico inedito nel panorama investigativo nazionale e internazionale. Anche gli Usa ci hanno chiesto gli atti". Gli apologeti esaltano la "genialità" del pm Michelle Ruggiero, che avrebbe imperniato il caso su un'accusa di manipolazione del mercato attraverso false informazioni sull'affidabilità dell'Italia come creditore, appunto per aggirare l'esclusiva della procura di Roma in materia di atti eversivi contro la personalità dello stato. Curiosamente, però, più ancora che la battaglia contro le agenzie, sulle reti sociali ha spopolato quella del 2014 con cui Michele Ruggiero aprì un'inchiesta per "accertare l'esistenza di un nesso di causalità tra la somministrazione del vaccino anti morbillo, parotite e rosolia e reazioni avverse gravi, quali l'autismo o il diabete mellito", su denuncia dei genitori di due bambini ai quali era stata diagnosticata una sindrome autistica a insorgenza post vaccinale. Ipotesi di reato: lesioni colpose gravissime a carico di ignoti. I carabinieri del Nas acquisirono il piano nazionale vaccinazioni con il calendario di quelle obbligatorie e facoltative per l'età evolutiva, per indagare sulla composizione dei vaccini e sui loro produttori. Poi ci sono state le indagini sul tasso Euribor, sulle accuse di usura a Bankitalia e ministero dell'Economia, sulla Divina Provvidenza. Ci vorrebbe un libro, più che un articolo. Per associazione geografica, un irriverente parallelo nasce però con Mariano da Trani: terribile guerriero che appariva nel "Soldato di Ventura" con Bud Spencer, vecchio film in cui la Disfida di Barletta era trattata come uno spaghetti western. Mariano metteva paura a tutto il mondo, ma poi si rivelava un bluff. Gonfiato a arte dai versi che Ariosto e Tasso gli avevano dedicato su commissione. Lettere: l'idea perbenista di sballare col permesso del questore di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 4 agosto 2015 Siamo riusciti a vietare le sigarette nei locali pubblici. Tutto il resto circola liberamente, e ogni tanto uccide. Lamberto Lucaccioni, 16 anni, è stato stroncato da una overdose di ecstasy (Mdma) al Cocoricò di Riccione. Il Questore di Rimini, Maurizio Improta, ha ordinato la chiusura del locale per quattro mesi, elencando dettagliatamente tutti gli interventi delle forze dell'ordine negli ultimi due anni, compresi quelli del 118. "Chiudere le discoteche per lo sballo è come chiudere le strade per gli incidenti", sostiene il nuotatore Simone Sabbioni, 18 anni, di Riccione. C'è una differenza che forse sfugge, al giovanotto e a tutti coloro che, in queste ore, dicono cose del genere. Sulle strade, gli incidenti sono l'eccezione, e tutti cercano di evitarli. In molte discoteche lo sballo è la regola, tutti lo sanno, ma si fa finta di niente. I piagnistei dei gestori dei locali notturni li conosciamo bene: noi tentiamo! Noi controlliamo! Noi interveniamo! Cosa possiamo fare se i ragazzini bevono fino a rischiare il coma etilico e s'impasticcano? Se le ragazzine si prostituiscono per una banconota? Se giovanissimi italiani e coetanei immigrati si picchiano come ebeti nei parcheggi, tirandosi calci e bottiglie? Si potrebbe rispondere ai virginali disco-imprenditori: quanti minorenni con la vodka nel bicchiere avete allontanato? Quanti controlli avete condotto, quante pastiglie avete sequestrato? Quante denunce sono partite da voi, utili a identificare gli spacciatori? La verità, come spesso capita, è banale. Le discoteche, come gli stadi di calcio, sono diventati luoghi extraterritoriali. Posti dove sono consentiti comportamenti che, altrove, porterebbero a una denuncia o a un arresto. I luoghi dello sballo sono diventati discariche sociali che fingiamo di non vedere. Papà e mamme preferiscono non sapere. Finché un giorno capiscono - magari dopo una telefonata notturna dei carabinieri - che là dentro ci stanno i propri figli e i propri nipoti. E rischiano di non tornare a casa. Nessuno vuole "criminalizzare l'industria del divertimento", come recita il coro (interessato) dei professionisti del ramo. Ma qualcuno - la maggioranza degli italiani, almeno - vorrebbe evitare che quest'industria ospiti, tolleri e incoraggi comportamenti criminali. L'educazione e la prevenzione, evocate dalla politica in queste ore, non bastano. Davanti all'incoscienza e alla sfacciataggine di certi comportamenti - come quelli raccontati da Fabrizio Roncone giorni fa - c'è solo una strada: la repressione. Parola sgradevole, ma inevitabile. La strategia dello struzzo - testa sotto la sabbia, sperando che passi - nasconde quasi sempre l'ignavia. Per anni abbiamo tollerato gli ubriachi alla guida e le strade notturne trasformate in anticamere dei campisanti. Tragedie, dolore, invocazioni, prediche, campagna di sensibilizzazione: nessun risultato. È bastato introdurre norme chiare nel codice della strada (compresa la "tolleranza zero" per i neopatentati) e intensificare i controlli: i risultati sono subito arrivati. Lo stesso dovremmo fare con le discoteche. È inutile chiedere, pregare, auspicare. Bisogna intervenire. Intendono collaborare, gestori e titolari? Beppe Riboli, uno dei più noti progettisti di locali notturni, spiegava al Corriere nel 2012: "Le discoteche sono arredate anche per il tipo di stupefacenti che si consumano. Gli enormi stanzoni neri per l'ecstasy hanno lasciato il posto ai privè della cocaina, con pista da ballo piccolissima e tanto colore bianco". Oggi dice, a proposito del Cocoricò: "Se fai un club così (enorme, psichedelico, zero arredi), se offri musica così (hard core, techno, trance), se la mandi a 120 decibel (un aereo al decollo), se hai un parco-luci così (strobo da 5.000 watt, teste mobili, accecatori, videoled) non c'è verso: per essere normale devi essere sballato". Una novità, per gli addetti ai lavori? Qualcuno, leggendo, dirà: non fate gli ipocriti, voi giornalisti, voi genitori, voi educatori, voi adulti! Cosa credete che girasse ai vostri tempi, nei concerti rock o nelle cantine del punk? Incensi e camomilla? Risposta: giravano alcol e droghe anche allora, ma in quantità e con modalità diverse. Chi ne faceva uso aveva le sue colpe, spesso pagate a caro prezzo; ma almeno ci risparmiava il perbenismo della trasgressione. I nuovi, giovanissimi trasgressori vogliono sballare col permesso del Questore: francamente, è troppo. Piemonte: migliora sovraffollamento delle carceri, ma restano carenze di organico Adnkronos, 4 agosto 2015 Se il sovraffollamento è stato almeno temporaneamente risolto, negli istituti di detenzione del Piemonte permangono molti problemi: carenza di organico della polizia penitenziaria, scarsa possibilità di lavoro, strutture inadeguate. Il sovraffollamento non segna più negativamente le carceri piemontesi, come avvenuto per molto tempo. Ma se questo problema è di fatto risolto soprattutto grazie a interventi normativi, tra cui indulti e la modifica di una parte della legge Bossi-Fini sul reato di immigrazione, altri ne restano: ad incominciare dalla carenza di personale nei ranghi della polizia penitenziaria, fino all'assenza di attività lavorative e di reinserimento per i detenuti in alcuni istituti di pena. È il quadro che emerge dalle visite ispettive condotte dall'associazione radicale Adelaide Aglietta in collaborazione con i consiglieri regionali Gabriele Molinari (Pd) e Marco Grimaldi di Sel, i cui risultati sono stati presentati oggi in una conferenza a Palazzo Lascaris. "Più luci che ombre" è la sintesi della situazione carceraria in Piemonte data da chi, nei mesi scorsi - come avviene da decenni ad opera dei radicali - ha visitato gli istituti di pena e raccolto dati. Numeri che raccontano di una popolazione carceraria, al 30 giugno scorso, di 3686 detenuti nei 13 istituti distribuiti nel territorio regionale, di cui 1532 stranieri, 127 donne e 2715 condannati in via definitiva. Di questo ben un terzo sono rinchiusi alle Vallette di Torino. E proprio dal carcere "Lorusso e Cotugno" del capoluogo arrivano notizie positive, non solo per la fine di un sovraffollamento che ha distinto questo come gli altri istituti detentivi per anni, ma anche per quelle attività che portano una trentina di carcerati a lavorare alla manutenzione dei giardini torinesi, così come l'apertura dell'Icam che consente un regime di custodia attenuata per le detenute con i loro bambini. A fronte di questi aspetti positivi, alla Vallette permangono problemi strutturali, tra cui la necessità di interventi nel settore docce al fine, come osservano gli autori del rapporto, "di renderli almeno decenti". Dove, invece, i detenuti non hanno alcuna possibilità di svolgere alcun lavoro, neppure all'interno del carcere, è a Cuneo. "Una situazione anomala rispetto al resto degli istituti e che merita una rapida inversione di tendenza", osservano radicali e consiglieri, dalla cui relazione emerge anche come la diffusa carenza di personale di custodia raggiunga livelli pesanti a Quarto d'Asti dove oltre all'insufficienza di organico anche quella di formazione per gestire detenuti sottoposti al regime di alta sicurezza rappresentano aspetti molto problematici. Situazione altrettanto critica al carcere minorile Ferrante Aporti. Qui, in seguito all'allungamento dell'età dei detenuti - da 21 a 25 anni - si è creata una situazione che divide di fatto l'istituto in due blocchi distinti (uno per i ragazzi fino a 18 anni e l'altro per quelli dai 18 ai 25) che, pur a fronte di una trentina di detenuti in totale, rende insufficiente l'organico del personale che ammonta a circa venti unità e risulta di fatto dimezzato rispetto al previsto. Alle quali non possono concorrere i nove che prestano servizio nella struttura attigua destinata ad accogliere i pochi giovani in regime temporaneo di custodia attenuata. "Basterebbe poter utilizzare parte di questo personale per compensare la carenza di quello in servizio nell'istituto" osservano i radicali. Nel corso della presentazione del rapporto, cui hanno preso parte, assieme al consigliere Molinari,Marco Del Ciello dell'Associazione Aglietta, Federico Dolce dell'Associazione torinese "È possibile" e la deputata Eleonora Bechis, ex M5s ora di Alternativa libera, è stata ribadita la necessità, oltre che di colmare la carenza di organico del personale di polizia penitenziaria, anche di creare occasioni d'inserimento nel mondo dell'istruzione e del lavoro a fini rieducativi e per abbattere i rischi di recidiva. Sardegna: Caligaris (Sdr); un solo direttore per quattro carceri, occorre subito concorso alguer.it, 4 agosto 2015 La denuncia è di Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", all'indomani della nuova organizzazione tra i carceri isolani per il periodo di ferie: il direttore di Isili (Cagliari) e Lanusei (Nuoro) Marco Porcu sostituirà per il periodo delle ferie la collega Carla Ciavarella a Tempio-Nuchis e Badu e Carros. Analoga situazione per la direttrice di Alghero Elisa Milanesi "In Sardegna c'è un Direttore che "si fa in quattro". Attualmente infatti regge quattro Istituti Penitenziari su dieci e ricopre un incarico perfino al Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria. È l'effetto derivante dalla assenza nei quadri dirigenti isolani delle figure dei Vicedirettori e consegue alla necessaria pausa feriale a rotazione tra i colleghi. Per l'ennesima volta si ripete una condizione inaccettabile per la situazione delle carceri nell'isola con una persona costretta a fare il pendolare in località distanti e non facilmente raggiungibili". La denuncia è di Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", all'indomani della nuova organizzazione tra i carceri isolani per il periodi di ferie: il direttore di Isili (Cagliari) e Lanusei (Nuoro) Marco Porcu sostituirà per il periodo delle ferie la collega Carla Ciavarella a Tempio-Nuchis e Badu e Carros. Analoga situazione per la direttrice di Alghero Elisa Milanesi che, mentre la collega titolare Patrizia Incollu fruisce delle ferie, dovrà curare Sassari-Bancali, con i "41bis" e la Colonia Penale di Mamone-Lodè. "È assurdo che il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria continuino a ignorare - sottolinea Caligaris - le gravi conseguenze per i cittadini privati della libertà dell'assegnazione di più Istituti ad una sola persona. Non si vuole comprendere che il rapporto tra la Dirigenza e i ristretti è fondamentale per l'equilibrio dell'intero sistema peraltro particolarmente delicato in questo specifico momento caratterizzato da notevoli cambiamenti connessi con l'entrata a regime dei nuovi Istituti, dalla presenza di un consistente numero di detenuti in alta sicurezza, dalle difficoltà oggettive derivanti da un'estate torrida". "Il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria dovrebbe seriamente promuovere - rileva la presidente di Sdr - l'indizione di un concorso per Direttori. L'ultimo infatti si è perso nella memoria collettiva essendo ormai trascorsi oltre tre lustri. È impensabile che i Direttori degli Istituti Penitenziari sardi per consentire a un collega qualche giorno di riposo debbano sobbarcarsi centinaia di chilometri in più di quelli che fanno abitualmente dal momento che sono comunque sei per dieci Istituti". "Se poi si considera che anche il Provveditore regionale delle carceri ha l'incarico in Triveneto, il quadro risulta sconcertante. Aldilà delle distanze e delle peculiarità di ogni realtà complessiva e di ciascun singolo detenuto lasciano perplessi le circolari del Dap che raccomandano la vicinanza ai ristretti. Evitare la moltiplicazione degli incarichi significa - conclude Caligaris - avere a cuore la rieducazione e il reinserimento sociale dei detenuti e rispettare il lavoro di chi con senso di responsabilità è impegnato a rendere accettabile e dignitosa la vita dentro gli Istituti Penitenziari". Parma: la Garante Bruno "alla Rems accoglienza adeguata non possono essere mini-Opg" Ristretti Orizzonti, 4 agosto 2015 Dieci ospiti complessivi, ambienti ampi e climatizzati per le attività cliniche e ricreative. Gestione interna affidata esclusivamente a personale sanitario, come previsto dalla normativa sul superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, la vigilanza a una guardia giurata con videosorveglianza h24. Desi Bruno: "Ora auspico la presa in carico degli internati da parte dei territori di riferimento" Venerdì scorso, la Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, ha visitato la Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Casale di Mezzani, in provincia di Parma, alla presenza della direttrice del distretto dell'Ausl di Parma, Giuseppina Ciotti, del direttore del Dipartimento di Salute mentale e dipendenze patologiche dell'Ausl di Parma, Pietro Pellegrini, e della direttrice della Rems, Giuseppina Paulillo. Come noto, questa struttura, insieme a quella di Bologna, è provvisoria, in attesa di quella definitiva prevista su Reggio Emilia, e ospita quegli internati dimessi dall'Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, rispetto ai quali la magistratura di sorveglianza ha ritenuto permanere la necessità dell'applicazione della misura di sicurezza detentiva, residenti nel territorio emiliano (anche se, allo stato, la struttura ospita anche qualche internato romagnolo, in quanto, la Rems di Bologna risultava al completo). Al momento della visita, su 10 ospiti complessivi (di cui 3 in applicazione provvisoria della misura di sicurezza) ne erano presenti 5, in quanto un gruppo di 5 internati, nell'ambito del programma delle attività riabilitative e risocializzanti, stava effettuando un'escursione con pranzo al sacco sull'appenino parmense. L'edificio è un'ex scuola di inizio secolo, che già era stata destinata a struttura psichiatrica, ora convertita in residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza, che "appare in grado di accogliere adeguatamente gli internati". È disposta su due piani, sottolinea l'Ufficio del Garante, "con ambienti ampi e climatizzati per le attività cliniche e ricreative". È prevista una capienza di 10 persone, "che hanno a disposizione 5 camere da letto da uno-due posti letto con bagno interno, e una sola camera tripla". È a disposizione anche "un'area esterna con giardino". La gestione interna della struttura "è affidata a personale esclusivamente sanitario, come previsto dalla normativa sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, mentre la vigilanza a una guardia giurata che si avvale di un sistema di videosorveglianza h24 collocato a piano terra. Esiste la possibilità, con un apposito collegamento, di sollecitare l'intervento delle Forze dell'ordine, in caso di necessità. La struttura è delimitata da una recinzione alta tre metri. Ad oggi- chiarisce la Garante- non si sono verificati episodi critici legati alla sicurezza". Da subito, l'Ausl di Parma ha previsto per gli internati un ampliamento della possibilità di effettuare colloqui e telefonate rispetto al regime vigente nell'ospedale psichiatrico giudiziario: particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni con la famiglia e/o persone significative, se coerenti con il percorso di cura, e anche cercando di favorire, laddove possibile, licenze giornaliere (autorizzate esclusivamente dalla magistratura di sorveglianza). Come riportato nel documento, elaborato dal Dipartimento di Salute mentale e dipendenze patologiche dell'Ausl di Parma "Contributo alla definizione del modello operativo delle Rems", il modello di funzionamento di queste strutture "non può essere quello dell'Opg o della sanità penitenziaria e nemmeno quello di una comune residenza psichiatrica, con l'obiettivo di delineare il mandato di cura, evitando che prevalgano le logiche custodiali che trasformerebbero le Rems in mini-Opg". Come anche sottolineato nel corso della visita dal direttore del Dipartimento Salute mentale e dipendenze patologiche dell'Ausl di Parma, Pellegrini, "la maggiore sicurezza deriva da percorsi sanitari e cure corretti e appropriati". Esiste poi un regolamento interno della struttura che, tra le altre cose, enuncia regole di comportamento per la convivenza con gli altri ospiti, per l'utilizzo di denaro, effetti personali e sigarette, per gli impegni quotidiani e gli orari da rispettare dal paziente. La programmazione delle attività, prosegue il resoconto dell'Ufficio della Garante, "già finanziate per 50.000 euro, prevede attività di teatro, escursioni, cura e coltivazione del giardino e dell'orto, attività sportiva, massaggi. È prevista, inoltre, attività di pet therapy, a cura di una volontaria locale". Il giudizio di Desi Bruno sulla struttura di Casale di Mezzani è "positivo" e auspica che, "così come è nello spirito della Legge 81/2014, gli internamenti possano avere carattere residuale rispetto alle prese in carico da parte dei servizi territoriali, e possano essere individuate in tempi rapidi le migliori prassi per quanto attiene ai rapporti con la magistratura di cognizione, per quanto riguarda l'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza (che rappresenta una criticità segnalata nel corso della visita), e alla presa in carico da parte dei territori di riferimento al fine di favorire la risocializzazione dell'internato". Catanzaro: l'impegno della Provincia per sostenere la Casa circondariale di Siano soveratiamo.com, 4 agosto 2015 "Il recupero dei detenuti passa per il lavoro. Garantire un adeguato livello di dignità a queste persone è un dovere morale e un principio sancito dalla nostra Costituzione. Le istituzioni hanno il dovere civico di affiancare i vertici e gli operatori della Casa circondariale di Siano nell'impegno prioritario del recupero dell'autonomia e di una qualità di vita accettabile per i detenuti e per le loro famiglie. Detenuti recuperati diventeranno cittadini integrati, chiamati a costruire insieme a noi una società migliore". È quanto ha affermato il presidente della Provincia di Catanzaro, Enzo Bruno, che ha preso parte alla conferenza stampa di presentazione dell'iniziativa dell'associazione "Amici con il Cuore" alla Santa Fe Beach, che si è tenuta questa mattina nella sala Mendini nella sede dell'amministrazione provinciale. Presenti alla conferenza stampa, oltre al presidente Bruno, la direttrice della Casa circondariale Angela Paravati, la presidente dell'associazione "Amici con il cuore" Antonietta Mannarino, il presidente del Csv Luigi Cuomo, il direttore del Csv Franco Morena, l'architetto Aurelio Tucci. Grazie al progetto "Carcere recupera", domani sera, sfileranno le creazioni realizzate con carta riciclata dai detenuti della Casa circondariale "Ugo Caridi" di Siano. L'intreccio - come ha spiegato Antonietta Mannarino, che ha raccontato con commozione la toccante esperienza nell'attività di volontariato con i detenuti - verrà proposto in chiave fashion con borse, collane e cappelli. La direttrice della Casa circondariale, Angela Paravati, nei giorni scorsi ha ospitato il presidente della Provincia in una intensa visita alla struttura di visita al carcere di Siano. Durante la visita, il presidente Bruno ha avuto modo di conoscere l'impegno quotidiano per il recupero dei detenuti condotto dalla direttrice, dalla Polizia penitenziaria, dagli operatori e dai volontari in particolare attraverso l'attività formativa nei riusciti laboratori di ceramica, falegnameria, pasticceria, cui si aggiunge la recente esperienza dell'orto urbano, che ha avuto un importante riconoscimento nazionale. Come il presidente Bruno ha apprezzato le qualità e la passione di tutti gli operatori della casa circondariale, la direttrice Paravati si è detta particolarmente colpita dalla sensibilità e dalla concretezza del presidente della Provincia che non si è limitato alla "solita passerella svolta dai politici che spesso visitano il Carcere un giorno all'anno per poi sparire dopo la foto e il comunicato di rito. Due giorni dopo dalla sua visita, l'impegno ad essere vicino alla nostra istituzione e ai detenuti si è concretizzato con l'autorizzazione alla consegna delle piante di ulivo cipressino che avevamo richiesto. Abbiamo bisogno di non essere lasciati soli - ha detto ancora la dottoressa Paravati - di gesti concreti come questo, che si affianca all'importante lavoro delle associazioni di volontariato come la "Amici con il cuore". Il presidente Bruno ha anticipato che la vicinanza alla Casa circondariale si intensificherà con una serie di fattive collaborazioni, rappresentate da alcuni rapporti concreti con i laboratori di lavoro a cui partecipano i detenuti. In particolare, la Provincia commissionerà dei vasi da allocare nel Parco della Biodiversità, mentre i bravissimi "pasticceri" del laboratorio della Casa circondariale saranno chiamati a realizzare i dolci del buffet che sarà allestito in occasione dell'inaugurazione del Parco delle Idee e della legalità che sarà intitolato al magistrato Federico Bisceglia. Torino: lavori di pubblica utilità in aree verdi per trenta detenuti Ansa, 4 agosto 2015 Primo giorno di lavoro per una trentina di detenuti del carcere di Torino. Per sette settimane affiancheranno gli operatori ecologici dell'Amiat nella pulizia di alcune aree verdi e strade della città. L'iniziativa è il risultato dell'intesa tra la Città di Torino, Amiat e la casa circondariale Lorusso e Cutugno. Ed è stata definita un "piccolo grande esempio" di reinserimento dei detenuti nella società dal radicale Igor Boni, che questa mattina ha fatto il punto sulle visite ispettive nelle carceri regionali dell'Associazione radicale Adelaide Aglietta. Dalle visite ispettive dei mesi scorsi emerge un quadro delle carceri piemontesi di "luci e ombre". Le criticità principali ad Asti, dove è emersa una "rilevante carenza di organico", con il "personale abbandonato al proprio buon senso per la carenza di formazione e di personale graduato". Su 22 ispettori previsti dalla pianta organica, ce ne sono in servizio soltanto sei. Al Lorusso e Cutugno sono attualmente detenute 1.270 persone. "Un numero in lieve aumento - ha spiegato Boni - ma ancora gestibile. Bene la sezione per le mamme detenute con bimbi fino a tre anni, si registrano invece problemi strutturali, per i quali sono necessari importanti investimenti già sollecitati dal direttore della casa circondariale". Gravi carenze di organico vengono segnalate anche al Ferrante Aporti, con gli agenti che "non fanno le ferie dal 2013 - denuncia il vicesegretario generale dell'Osapp, Gerardo Romano - e il ricorso a turni di lavoro massacranti, che possono arrivare fino a 19 ore al giorno". Sotto accusa, in particolare, la presenza di nove agenti nel vicino centro di prima accoglienza che, dall'inizio dell'anno, ha ricevuto appena 57 detenuti. Risorse che, reimpiegate al Ferrante Aporti, potrebbero ridurre i disagi del personale. Alla conferenza stampa era presente anche Eleonora Bechis, che ha annunciato una interrogazione parlamentare sulle criticità rilevate nella casa circondariale di Asti. Lecce: Sappe; ambulatorio di fisioterapia ed ecografo in carcere, intervenga la Regione lecceprima.it, 4 agosto 2015 Il portavoce del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, ha chiesto l'intervento del presidente della Regione Puglia. Da oltre un anno, i finanziamenti giù stanziati per l'acquisto della strumentazione e l'allestimento di un ambulatorio nel carcere leccese non sono ancora stati spesi. Un ambulatorio di fisioterapia all'interno del carcere di Lecce, come previsto dai fondi stanziati. Questa la richiesta avanzata dalla segreteria nazionale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria. L'organizzazione sindacale, infatti, è venuta a conoscenza della disponibilità di circa 500mila euro di fondi europei, già stanziati dalla Regione Puglia. I finanziamenti, pronti da circa una anno, non sono ancora spesi dalla Asl di Lecce per l'allestimento di un ambulatorio di fisioterapia all'interno del carcere dell'istituto penitenziario, né per l'acquisto di un ecografo. I portavoce del Sappe hanno evidenziato che la mancanza di tale ambulatorio o di un ecografo, costringe il personale di polizia penitenziaria in servizio presso il carcere leccese a decine di movimenti di detenuti. Tra questi ultimi anche ergastolani, che vengono accompagnati in strutture sanitarie in predeterminati orari e per parecchi giorni di continuo, nonostante la grave carenza di personale. Oltre che uno spreco enorme di risorse umane e di mezzi, crea enorme pericolo sia per le scorte che viaggiano sotto organico, sia per la popolazione cittadina in caso di eventi critici posti in essere da complici dei detenuti, per aiutarli ad evadere. Il sindacato ha chiesto l'intervento del presidente dell'ente regionale, Michele Emiliano, affinché agisca al più presto. Imperia: Sappe; carceri senza direttore e problemi con i detenuti al Pronto Soccorso sanremonews.it, 4 agosto 2015 "Abbiamo appreso dell'inaugurazione del nuovo Pronto Soccorso di Sanremo - ha detto Michele Lorenzo - ed auspichiamo che le promesse fatte sull'individuazione di un locale dove stazionarie con detenuti pericolosi, vengano mantenute. Non vogliamo passare davanti al cittadino comune ma un eventuale detenuto con problemi psichiatrici non può stare con la gente comune". Torna alla carica il sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe, per i problemi dei carceri di Sanremo ed Imperia. Lo fa con un nuovo intervento su due problemi di attualità. Il primo relativo alle ferie del direttore delle due case circondariali della nostra provincia e del suo sostituto, che è il direttore del carcere di Pontedecimo: "Come può gestire le criticità - ha detto il Segretario, Michele Lorenzo - da oltre 150 km di distanza? Con questo non vogliamo dire che il Dott. Frontirrè non abbia diritto alle vacanze, ci mancherebbe, ma non possiamo tollerare che i due istituti possano essere gestiti da così lontano! Ci vuole un direttore presente almeno due giorni la settimana". Il sindacato chiede anche al direttore che prepari al più presto una nuova organizzazione del carcere di Sanremo: "Nulla è cambiato negli ultimi tempi - prosegue il segretario - ed i problemi collegati con i detenuti con problemi psichiatrici rimangono anche se sono diminuiti". Il Sappe ha anche messo sul piatto un altro problema, quello della vicinanza di detenuti con problemi psichiatrici ai pazienti comuni, quando vengono portati al pronto soccorso. Avellino: Osapp; ennesima rissa nel carcere di Ariano, urge incremento di organico di Pasquale Manganiello irpinianews.it, 4 agosto 2015 Ancora una rissa aizzatasi fra detenuti in Campania, nel penitenziario di Ariano Irpino all'interno del reparto detentivo denominato a regime aperto del nuovo padiglione. Diversi detenuti coinvolti, decisivo è stato l'intervento della Polizia Penitenziaria che ha evitato il peggio. Bilancio di tre feriti trasportati al pronto soccorso dell'ospedale Sant'Ottone Frangipane e difficoltà da parte degli agenti di polizia penitenziaria nel gestire la situazione. "Urge incremento dell'organico di Polizia in tutti i ruoli - dichiara - il Segretario Regionale OSAPP Campania Vincenzo Palmieri - perché il carcere di Ariano irpino ha un elevato sovraffollamento di detenuti e una consistente penuria di personale in tutti i ruoli del Corpo e in altre figure professionali operanti nelle altre aree dell'amministrazione penitenziaria. Modifiche legislative, sentenza europee - continua - commissioni, etc., dovevano creare presupposti per condizioni di migliore vivibilità per tutti di vita detentiva degni di un paese civile qual è l'Italia e nonostante gli sforzi compiuti dell'Amministrazione, continuano a ripetersi situazioni di criticità che colpiscono il sistema e pregiudicano la sicurezza, ovviamente, a farne le spese è sempre e solo la Polizia Penitenziaria. Noi dell'Osapp continueremo con ferma intenzione a richiedere immediate iniziative agli organi del Dap, per rendere in maggior misura, sicuro il sistema penitenziario Arianese e tutto ciò che è in esso, atteso la diversità di soggetti pericolosi ristretti, al fine di rendere più agibile il lavoro delle donne e uomini Polizia Penitenziaria, fin quando persisteranno i gravi rischi per gli operatori in un sistema obsoleto e desueto nella forma e nella sostanza. Al personale tutto della CC di Ariano Irpino va la nostra vicinanza sia come segreteria Regionale che Generale" - conclude Palmieri. Prato: la Garante; due congelatori in comodato gratuito per il carcere della Dogaia Adnkronos, 4 agosto 2015 L'afa di questo periodo rende ancora più difficile e problematica la situazione detentiva e la vita all'interno delle celle del carcere della Dogaia: per questo il Garante per i diritti dei detenuti del Comune di Prato, Ione Toccafondi, nel sottolineare la gravità della situazione, intende evidenziare la sensibilità umana e lo spirito di solidarietà dimostrati dal signor Emiliano Festa, titolare della gelateria "il Tabata" di Pistoia e dal suo staff e dal signor Paolo Ardisson, titolare dell'omonima Impresa Mantenimento detenuti di Livorno, che hanno messo a disposizione dei detenuti 2 congelatori industriali ciascuno, a titolo di comodato gratuito, per evitare il deterioramento dei cibi ed alleviare le conseguenze delle pesanti condizioni climatiche. Il Garante auspica che altre ditte siano disponibili a fare altrettanto. Piacenza: si è tenuto un concerto speciale degli "Hungryheart" al carcere delle Novate ilpiacenza.it, 4 agosto 2015 L'iniziativa è stata organizzata da Asp "Città di Piacenza" e dal Comune di Piacenza in collaborazione con la Direzione dell'Amministrazione Penitenziaria, a dimostrazione ancora una volta che la musica può superare tutti i confini. Un pomeriggio musicale molto speciale al carcere delle Novate di Piacenza, quello di sabato 1 agosto. Davanti a una quarantina di persone detenute si sono esibiti gli Hungryheart, la band che ha presentato il suo ultimo album, appena uscito in distribuzione internazionale per l'etichetta Tanzan Music. Il tipo di musica - rock melodico - la capacità di coinvolgimento, la carica emotiva, la sicura professionalità dei musicisti hanno innescato la miscela giusta e il pubblico ha partecipato con entusiasmo. Il concerto musicale è risuonato non solo nella sala conferenze del nuovo padiglione delle Novate, ma per tutto il carcere. L'iniziativa è stata organizzata da Asp "Città di Piacenza" e dal Comune di Piacenza in collaborazione con la Direzione dell'Amministrazione Penitenziaria, a dimostrazione ancora una volta che la musica può superare tutti i confini, anche nel senso letterale di tale affermazione, visto che nel salone del carcere erano presenti diverse etnie e gli italiani erano una minoranza. Gli Hungryheart ovvero Josh Zighetti voce e chitarra, Mario Percudani, chitarra e seconda voce, Paolo Botteschi, percussioni e Stefano Scola, basso elettrico, hanno eseguito brani di loro composizione, tratti soprattutto dai loro album - quello nuovo si intitola "Dirty Italian Job"- e alcune cover tra le quali molto apprezzate "Man In The Mirror" di Michael Jackson e "Sweet Home Alabama" dei Lynyrd Skynyrd. Il tempo è volato, cosa che in carcere non succede quasi mai, e alla fine molti sono andati a complimentarsi con i componenti della band. Spoleto (Pg): volley in carcere, per liberare mente e fisico di Antonello Menconi Gazzetta dello Sport, 4 agosto 2015 L'obiettivo (anche se per ora lontano) è quello di fare partecipare la squadra dei reclusi a un torneo. Il direttore Sardella: "L'iniziativa sta suscitando grande interesse e le richieste di adesione continuano ad arrivare". La fattiva e determinante collaborazione del Coni umbro. L'amore per la pallavolo non svanisce nemmeno dietro le sbarre. Così a Spoleto, all'interno della casa circondariale è stata creata una vera e propria squadra, con una ventina di detenuti che si allenano sotto la guida di istruttori federali per poter arrivare entro la fine dell'anno a potersi confrontare contro delle squadre impegnate nei campionati agonistici. L'idea di portare lo sport in carcere è stata lanciata dal Coni dell'Umbria ed è stata raccolta dal direttore del carcere spoletino Luca Sardella. "Attraverso un sondaggio tra la nostra popolazione carceraria abbiamo scoperto che la voglia di pallavolo andava ben oltre quella per altre discipline - ammette Sardella - e così si è deciso di creare una squadra. Altri detenuti hanno invece optato per la pesistica e per gli scacchi. Avviare questo progetto è stato possibile grazie soprattutto all'intesa con il Coni, che ci ha messo a disposizione dei tecnici professionisti con i quali riusciamo a proporre allenamenti continuativi a cadenza settimanale o bisettimanale. L'iniziativa sta suscitando grande interesse e le richieste di adesione e partecipazione stanno continuando ad arrivare anche dopo aver avviato l'attività, che si sta dimostrando un importante fattore di aggregazione all'interno dell'istituto". Sono stati così individuati due allenatori abilitati dalla Fipav, Stefano Bernardini e Claudio Storri del Volley Spoleto, che ogni sabato varcano le porte del carcere per guidare l'allenamento della squadra. Due ore molto intense e differenziate, seppure non senza difficoltà, considerando che qualcuno sta apprendendo solo ora le basi della disciplina. "Per il momento il programma prevede che l'attività prosegua sino a dicembre - conferma Mauro Storri, presidente dello stesso Volley Spoleto - e in prospettiva c'è l'intento di organizzare a fine attività un torneo interno ed anche una o due partite contro delle squadre esterne. Nell'occasione cercheremo inoltre di avere con noi un campione o un personaggio che incontrando gli stessi detenuti della squadra li possa far avvicinare ancor di più alla pallavolo". Ma non è da escludere che se ci saranno le condizioni tecniche ideali il prossimo anno si vada anche oltre una semplice attività ricreativa. E allora potremo forse vedremo per la prima volta un sestetto formato unicamente da detenuti cimentarsi in un campionato di pallavolo? L'idea per ora è lontana, ma non è escluso che quella della casa circondariale di Spoleto diventi una squadra a tutti gli effetti, disputando le proprie gare nella palestra del carcere. Il progetto dello sport in carcere viene portato avanti sotto la visione del Coni, per l'orgoglio del presidente regionale Domenico Ignozza. "Dopo le analoghe iniziative a Perugia e Terni, siamo felici di poter dare la possibilità a tanti ospiti delle carceri dell'Umbria di fruire dei vantaggi che lo sport può dare loro - sottolinea - e il nostro auspicio è quello che l'impegno a favore della popolazione carceraria possa continuare ed essere incentivata anche in futuro, nella certezza che i benefici per i praticanti sono non solo fisici. Al tempo stesso le sedute di allenamento rappresentano un arricchimento ed un'esperienza formativa umana e tecnica per gli allenatori". Libri: lo scrittore Ugo De Santis "il volontariato mi ha aiutato a riscattarmi dal carcere" intervista a cura di Antonio De Pascale Città di Salerno, 4 agosto 2015 "Ho aiutato tanti nel terremoto dell'80, in altre tragedie e dietro le sbarre". Il 51enne Ugo De Santis di San Severino ha completato il suo secondo volume. Dal carcere duro, dove ha trascorso 18 anni di reclusione, a scrittore, operatore sociale e culturale. Protagonista del riscatto non solo personale è Ugo De Santis, 51 anni, di Mercato San Severino, pronto a mandare in stampa il suo secondo libro, "Stagioni di passioni 2. Rapporto con le Istituzioni e il volontariato", scritto a quattro mani con l'amico e professore Emilio Esposito. Un lungo viaggio nel mondo del volontariato, partendo dagli anni 70, con le esperienze giovanili vissute con il "Fronte della Gioventù", con le associazioni "Ava", "Soccorso amico", "Obiettivo Castello" con l'esperienza del periodo di leva militare, proseguito tra le mura dei carceri e poi, con la libertà riacquisita, nei centri terremotati dell'Emilia Romagna, con l'Osservatorio sul mondo giovanile, quindi, in Albania e al porto di Salerno per accogliere gli emigrati. Il volume è patrocinato anche dal comitato nazionale della Croce Rossa Italiana e dall'Ordine regionale dei giornalisti. Quali motivazioni l'hanno spinta a scrivere questo nuovo libro? "Essenzialmente l'esigenza, il desiderio di raccontare la mia lunga esperienza col mondo del volontariato. Fare volontariato sicuramente arricchisce non solo chi beneficia dell'assistenza ma anche chi opera come volontariato. Sicuramente, c'è più gioia nel dare che nel ricevere". Quali episodi racconta nel suo volume? "Parto dalla Mercato San Severino degli anni 70, quando militavo nel "Fronte della Gioventù", movimento politico di Destra, Avevamo confronti anche con chi la pensava diversamente da noi, come l'Arci, pur rimanendo sulle nostre posizioni. Seguirono le esperienze con le associazioni "Ava", per l'assistenza agli anziani, con "Soccorso amico", per l'assistenza sanitaria. Con "Obiettivo Castello", insieme al compianto Gino Noia e tanti altri, partecipavo alle prime campagne di scavo sul castello medievale dei Sanseverino. E poi arrivò il tremendo terremoto del 23 novembre 1980. Fu un'esperienza terribile. Ricordo che fui impegnato nei soccorsi alla popolazione. Non dimentico mai quando aiutai una mamma con la figlia piccola, in preda allo choc. L'ho incontrata quando sono uscito dal carcere: mi ha ringraziato ancora una volta. Credo che siano delle belle soddisfazioni. Poi partì per il servizio militare di leva nell'esercito. Fui assegnato al reparto dei paracadutisti, alla caserma di Livorno, un centro operativo. Erano gli anni di piombo, delle Brigate Rosse e la mia caserma era sempre in allerta. In quel periodo, ho vissuto un'altra esperienza importante in Toscana, con l'emergenza dello straripamento del fiume Arno. Anche in quel caso, aiutammo la popolazione. Poi, però, arriva la lunga detenzione in carcere". Com'era il suo rapporto di quel periodo con i volontari? "Nel carcere il volontariato è stato lo strumento per relazionarmi con l'esterno, nei limiti della legge. È grazie al volontariato, in particolare quello del mondo francescano, che ho potuto avere rapporti epistolari con personalità dello Stato. Il volontariato mi ha consentito di intrattenere rapporti con la società civile, nel limite del possibile. Inoltre, aiuta i reclusi sulla via del riscatto. Non dimenticherò mai che il mio avvocato, Michele Salvati, poi purtroppo deceduto 3 anni fa, fece da tramite con i frati francescani e che il sindaco, Giovanni Romano, mi consegnò, in comodato d'uso, un computer e una stampante, utili per studiare e scrivere. Ma, anche nei penitenziari, ho aiutato chi era nel bisogno". Come? "Ero volontario a servizio di altri detenuti. Avendo studiato, io leggevo ad altri carcerati le carte del processo, scrivevo per loro le lettere. Ho conosciuto detenuti condannati per mafia, ‘ndrangheta, terrorismo islamico. Ho capito una cosa, però: spesso, i delinquenti diventano tali perché hanno poca cultura. Alcuni, però, si sono riscattati: entrati in carcere con la terza elementare, ne sono usciti con la laurea". Com'è il rapporto tra volontariato e Istituzioni? "Le Istituzioni hanno bisogno dei volontari, soprattutto oggi, per sopperire al taglio dei servizi. Ma il volontario deve essere sempre formato professionalmente ed eticamente, a partire dalle relazioni con i cittadini". C'è una differenza tra il volontariato cattolico e quello del mondo laico? "Sì. Il mondo cattolico ha un metodo d'azione prestabilito, è più metodico. Quello del mondo laico lascia forse più libertà d'azione all'operatore". Una migrazione globale, ma le nostre strade non sono lastricate d'oro di Lanfranco Caminiti Il Garantista, 4 agosto 2015 Si era accroccato in una valigia. Lo aveva visto fare a un bambino ivoriano di otto anni, a maggio. Il padre del bambino vive in Spagna, ma non guadagna abbastanza per far entrare ufficialmente suo figlio. Così si inventa questa cosa della valigia. Il tragitto non è enorme, deve solo passare la frontiera a Ceuta. Ceuta è in Marocco, ma è già Spagna. Se arrivi a Ceuta sei già in Europa. Solo che le valige, le mettono sui nastri ai raggi X. E così lo vedono. E lo salvano. Le immagini della radiografia fanno il giro del mondo. E il mondo si indigna. Il bambino arriva tra le braccia del padre. Ufficialmente. È una storia a lieto fine. E così, il marocchino di 27 anni che viene da Melilla e vuole andare in Spagna, pensa che anche a lui può andare bene. E si accrocca pure lui in una valigia. Prega il fratello maggiore di caricarlo nel bagagliaio dell'auto che sale sul ferry per la Spagna. Non li fanno i controlli ai raggi X a Melilla. L'automobile sale sul traghetto, il fratello maggiore ha tutti i documenti in regola. Forse è fatta. Forse. Però qualcosa non torna. E quando prova a vedere se è tutto a posto - che stare accroccato in una valigia non dev'essere proprio una cosa facile, soprattutto se sei un uomo fatto di 27 anni - si accorge che non respira più. Allerta subito il personale del ferry, che prova a rianimarlo. Niente. È una storia che finisce male, questa. Il mondo non ha avuto il tempo di indignarsi, questa volta. Stanno arrivando da tutte le parti. Arrivano dal mare, arrivano dalla terra, arrivano dal cielo. Arrivano da sud, arrivano da est. Scavano con le mani sotto i tunnel, saltano i muri, i cancelli, le barriere, le reti. Si infilano in ogni anfratto, in ogni buco. Si muovono nel buio, si muovono nel sole più abbagliante. Si fermano, si accampano vicino ‘ le frontiere. Sugli scogli, sugli alberi, sull'asfalto. Provano a passare. Li acciuffano, li respingono. Ci sono le guardie, grosse, armate fino ai denti. Ci sono i cani, grossi, addestrati a mordere. Li mordono. Li picchiano. Li fermano. Un giorno, due, una settimana. Poi ricominciano, poi riprovano. Vengono ormai da dovunque. Dalla Cina adesso anche. Dall'India. Arrivano verso la Turchia, la Bulgaria, l'Ungheria, la Polonia. Da ogni parte dell'Africa. Arrivano fino all'Italia, alla Spagna, alla Francia. Sono arrivati fino a qua. Fino ai confini dell'Impero del Bene. Sono pronti a tutto. Niente li fermerà. A Calais è nata una città, fatta di plastica e cartone. Specie di tende. La chiamano The Jungle II, e quindi dev'esserci stata una The Jungle I. Qualcuno ha piantato una bandiera su un ramo. Sembra la tendopoli di Rosarno, quando è tempo di raccolta delle arance. Gli uomini del mondo che cercano di attraversare le frontiere stanno fondando nuove città ovunque. Forse ovunque le chiamano The Jungle, e la numerazione segue quella che la sapienza di ognuno passa agli altri. Forse c'è già una The Jungle III ai confini con la Germania. E una The Jungle IV ai confini con l'Ungheria. "Our streets are not paved with gold", le nostre strade non sono lastricate d'oro, hanno detto Theresa May e Bernard Cazeneuve, i ministri dell'Interno di Gran Bretagna e Francia. Sono mille anni che francesi e britannici si combattono, e non c'è mai una cosa che fa l'uno che vada bene all'altro. Eppure sui migranti fanno lingua in bocca. Dicono che questa è una migrazione globale. Dicono che le misure adottate finora non possono più funzionare. Dicono che l'anno scorso hanno speso dodici milioni di sterline, e poi ancora un milione e mezzo e altri sette milioni quest'anno, per garantire la sicurezza al passo di Calais. Dicono che le loro strade non sono lastricate d'oro, che i migranti sono stupidi, se lo pensano. Dicono che li ricacceranno tutti, uno per uno, che andranno a prenderli nelle case, se entreranno, e che metteranno in galera anche chi darà loro accoglienza, se entreranno. Theresa May e Bernard Cazeneuve hanno la faccia di culo di dire che se i migranti arrivano fino alle loro porte, qualcosa in Grecia, in Italia, in Spagna, non ha funzionato. Dicono che i migranti non possono pensare che siccome riescono a passare il Mediterraneo ormai è andata. Perché non vengono loro, i ministri dell'Interno di Gran Bretagna e Francia, qui? Perché non vengono loro, con i loro grossi cani addestrati a mordere e le loro grosse guardie armate fino ai denti, qua? Perché non vengono a piantare le loro reti di protezione in mozzo al Mediterraneo? Vogliamo essere chiari, dicono May e Cazeneuve: affrontare questa situazione è una priorità per entrambi i governi. "We are committed and determined to solve this, and to solve it together". Siamo impegnati e determinati a risolvere questa storia, e lo faremo insieme. Non c'è più l'Europa, per miss May e monsieur Cazeneuve. C'è la Francia e la Gran Bretagna. Loro hanno stretto una Santa Alleanza. Contro i migranti. Visto che gli filtri - i greci, gli spagnoli, gli italiani - non sono capaci, ci penseranno loro. A modo loro. Se qualcuno pensava che l'Europa fosse morta nello scontro fra la Germania dell'austerità e la Grecia del referendum, deve aggiornare le cose, L'Europa è morta - e da un pezzo - sulla migrazione. Le jour de gioire est arrivò! God Save The Queen. È vero, le nostre strade sono lastricate di merda. Migranti, ora Cameron sceglie la linea dura ma è lite con la Francia di Vincenzo Nigro la Repubblica, 4 agosto 2015 Carcere per chi ospita stranieri irregolari, tensioni alla frontiera. La Gran Bretagna ha lanciato la sua caccia ai migranti irregolari, ma il vero problema ce l'ha la Francia, che non riesce a gestire alcune migliaia di disperati al confine di Calais. A Londra il governo Cameron ha proposto una legge che verrà varata (forse) nei prossimi mesi: permette ai proprietari di casa di sfrattare senza attendere l'ordine del giudice gli inquilini clandestini, e punisce anche con 5 anni di carcere i proprietari di abitazioni che li ospitano consapevolmente. Una misura dura ma nei fatti inutile, perché i migranti, quando arrivano si presentano quasi sempre alle autorità per chiedere asilo ed essere assistiti secondo le leggi del Regno. E al massimo si fanno ospitare dai parenti che li attendono. Il vero problema in queste ore per il governo è invece la fila di migliaia di camion che occupano le strade verso l'Eurotunnel e verso i porti per la Francia, rallentati in dagli scioperi dei traghettatori francesi. Un imbuto che sta bloccando i traffici commerciali, ma che in pochi giorni molte linee di trasporti hanno bypassato scegliendo altri punti di imbarco. Tutti problemi amplificati dalla stampa popolare e di destra e dai politici xenofobi. Ieri il Daily Telegraph ha pubblicato un ampio servizio su alcuni immigrati spediti a un centro di assistenza a Londra in taxi al prezzo di 140 sterline "a spese del contribuente". E mentre altri giornali invocano l'utilizzo dei gurkha, i soldati asiatici dell'esercito britannico, il lavoro più concreto lo sta facendo la ministra dell'Interno Theresa May col suo collega francese: rafforzare le recinzioni alla partenza di Calais, raddoppiare il personale e gli strumenti di sorveglianza. Chi non ha imbarazzo a denunziare il clima di allarmismo esagerato è il ministro dell'Immigrazione svedese Morgan Johansson, uno dei paesi in Europa che ha dimostrato non solo apertura, ma anche la massima capacità di gestire e integrare in maniera ordinata gli immigrati. La Svezia accetta 1200 migranti alla settimana, ha detto il ministro, e voi siete in crisi per poche centinaia in un mese, "dovete fare molto di più per gestire il fenomeno". E la Germania proprio ieri ha fatto sapere che nel 2014 ha toccato il record di quasi 11 milioni di residenti con un passato "migratorio". Un problema collaterale, ma assai delicato, è il crescente clima di fastidio per gli stranieri. Partiti come l'Ukip e altri gruppi nazionalisti dopo aver fatto apertamente campagna contro polacchi e romeni adesso indicano tutti i "migranti" dell'Unione europea come pericolosi profittatori del welfare britannico. Nel frattempo si continua a morire per inseguire il sogno di una fuga dal proprio paese. Come è accaduto ieri a un giovane marocchino di 27 anni che ha tentato di entrare in Spagna chiuso in una valigia. Il ragazzo però è morto soffocato poco prima di arrivare sulla costa spagnola. L'allarme è stato lanciato dal fratello, arrestato dalla polizia. Manganelli e gas urticante, la "guerra" infinita tra poliziotti e disperati di Daniele Mastrogiacomo la Repubblica, 4 agosto 2015 Ha gli occhi rossi. Il viso pieno di macchie. Se le gratta. Ma gli amici, i connazionali, sudanesi e etiopi, lo rimproverano. "Lascia perdere, non ti toccare". Arriva una ragazza, Lucille, volontaria di una Ong. È un'infermiera. "Ecco, prendi questa. Passala sulla faccia". Salan, 30 anni, ingegnere informatico oggi immigrato, esegue l'ordine. Si spalma la crema sulle macchie che rischiano di diventare piaghe. Si calma, respira piano. "Gas - dice con un filo di voce - gas urticante. Ce lo sparano addosso". Chi gli sta attorno annuisce. Mehemet, 28 anni, commerciante del Darfur, rifugiato in attesa di un permesso che non arriva mai, ci mostra le mani: "Hanno colpito anche me. Ho alzato le braccia per proteggermi il viso. Lui non ci è riuscito". È tardo pomeriggio. Coquelles è un piccolo borgo che sorge tra i campi profughi, il porto di Calais e l'entrata dell'Eutotunnel. La gente non protesta. Assiste, seria e preoccupata, a quella che è diventata ormai una caccia all'uomo. La luce, a queste latitudini, d'estate è ancora forte. Ma tra qualche ora calerà il sole e la battaglia ricomincerà. Resistenza passiva, con improvvise fughe verso le reti metalliche alte dieci metri e sormontate da filo spinato. Alcuni tratti sono stati elettrificati. Chi li tocca rischia di morire. La scena si ripete da settimane. Ma è negli ultimi quattro giorni che la grande fuga verso l'Inghilterra ha assunto le forme di una guerriglia. Londra e Parigi hanno deciso la linea dura. Tolleranza zero nei confronti di chi cerca di passare clandestinamente le frontiere e per chi ospita uomini e donne senza documenti in regola. Ci hanno provato in 1.700 domenica, 1.200 sabato, 700 venerdì, 800 il giorno prima. I "flic", i poliziotti in tenuta antisommossa, li attendono ogni sera. "Con il buio facciamo le prime incursioni", racconta un agente che si riposa attorno ad un furgone assieme ai colleghi. "Servono a dissuadere i preparativi. Andiamo nei campi, controlliamo i documenti, li invitiamo a partire. Sappiamo anche che è inutile. In fondo li capisco: non hanno molta scelta. Ma la legge è legge e noi dobbiamo farla rispettare". La legge, nella guerra contro gli immigrati, significa usare ogni strumento per impedire l'assalto al tunnel della Manica. Accade ogni sera. Anche adesso. Gracchia la radio, c'è ordine di muoversi. L'atmosfera diventa improvvisamente tesa. I poliziotti si vestono. Indossano tute con le protezioni. Niente caschi, ci si muove più agili. Basta il manganello e una bomboletta spray. Di quelli urticanti. Sfilano lungo la rete di metallo che divide la foresta dall'ingresso verso il porto e la ferrovia. I migranti spuntano nel buio. Restano a distanza. Intonano canzoni: dolci melodie piene di tristezza. Più tardi, tra i feriti, ci diranno che raccontano storie di viaggi e di sogni infranti. Cantano e lanciano slogan. Poi, a turno, scandiscono dieci nomi: sono quelli degli uomini, delle donne e dei bambini rimasti uccisi dall'inizio dell'anno. Travolti dai camion nei quali cercavano di salire, dai treni merci su cui erano saltati in corsa, dalle macchine sull'autostrada A16 che li hanno falciati come fantasmi apparsi dal nulla. Di colpo, un urlo. Per farsi coraggio: a centinaia salgono la collina di terra e ghiaia, scivolano, si aggrappano con le mani, si spingono, si calpestano. Qualcuno cade, rotola in basso, si rialza, fa leva con le braccia, urla ancora per lo sforzo. Molti hanno saltato la rete, alcuni la sollevano per far passare i più deboli: i vecchi, le donne, i bambini. Dall'altra parte i poliziotti attendono l'ondata. Nervosi, tesi, il manganello in mano, la bomboletta nell'altra. Sembra di assistere a una partita di rugby: gli immigrati, snelli e veloci, che corrono a serpentina e con la forza d'urto sfondano il cordone di poliziotti. Gli agenti li bloccano, li placcano, finiscono a terra con le loro prede accecate dai gas urticanti. Solo una decina viene fermata. Gli altri si sparpagliano tra le rotaie, montano al volo sui treni, spariscono dentro e sotto i camion, si perdono in quel buco nero che vedo- no davanti a loro come una salvezza. Gli agenti sparano i gas lacrimogeni, la folla che si accanisce sulla rete arretra, si allontana, scivola sulla collina di ghiaia travolgendo chi c'è dietro. Ci sono migliaia di camion fermi da 12 ore. Una fila di 5 chilometri. Le operazioni di imbarco sono lunghe e complesse. Le telecamere a circuito chiuso, i sensori di calore, gli scanner, i cani: non passa uno spillo. Un gruppo di 50 immigrati blocca la grande arteria. Torna a cantare, a urlare i motivi della loro battaglia. Sono stanchi, stravolti, ma non demordono. All'alba arriva l'ordine di caricare. Sono presenti anche giovani dei centri sociali. La scaramuccia è veloce ma violenta. Un agente sanguina al capo, è stato colpito da un sasso. Un immigrato, un sudanese, viene fermato. Gli altri, un centinaio, sono già nel tunnel. Niente treno. Questa volta lo attraversano a piedi: 39 chilometri. Troppi. Li fermano, qualcuno si nasconde in qualche anfratto. Viene scoperto. Riportato indietro. Il traffico è interrotto. Ci vorrà l'intera giornata per smaltire la fila dei camion in attesa. Domani si ricomincia. Spagna, migrante muore soffocato nella valigia di Luca Fazio Il Manifesto, 4 agosto 2015 Fortezza Europa. Ancora morti nel disperato tentativo di varcare le frontiere del vecchio continente. A Palermo sbarca una nave di Medici Senza Frontiere con a bordo 529 migranti e cinque cadaveri. Altri sbarchi ieri a Crotone e a Reggio Calabria. La "fortezza Europa" non è inespugnabile ma tutti devono rendersi conto che ormai è diventata uno dei luoghi più inospitali della terra. Deve essere per questo che ogni giorno esibisce cadaveri nell'indifferenza generale, come accadeva nei secoli bui quando briganti e stranieri venivano impalati fuori dalle mura per scoraggiare assalti e scorribande. Alle frontiere o in mezzo al mare ogni giorno si continua a morire. Uomini e donne muoiono come sempre, annegati o distrutti per la fatica sui barconi, altre volte invece ci sono tragedie che colpiscono più del solito per le modalità con cui gli esseri umani perdono la vita nel tentativo di varcare una frontiera. Come è accaduto lunedì su un traghetto che collega Meilla, l'enclave spagnola in Marocco, ad Almeria, nella Spagna del sud. Un ragazzo marocchino di 27 anni è morto asfissiato. Era nascosto dentro una valigia sistemata nel bagagliaio dell'automobile del fratello. Lo ha annunciato ieri la Guardia Civil spagnola che ha arrestato il fratello maggiore con l'accusa di omicidio colposo. Il ragazzo, che aveva escogitato il doppio nascondiglio, si è accorto che il fratello non respirava ma quando è intervenuto l'equipaggio non c'era più niente da fare. L'episodio non può non riportare alla memoria la storia di Adou, il piccolo ivoriano di otto anno che lo scorso maggio è stato trovato nascosto in una valigia mentre cercava di oltrepassare il confine tra il Marocco e Ceuta, sempre nella Spagna del sud. La sua immagine ai raggi X - era nascosto in posizione fetale - ha fatto il giro del mondo e ha indignato i cittadini spagnoli. La sua storia si è risolta nel migliore dei modi. Oggi Adou vive con i suoi genitori. Era stato il padre ad escogitare il piano perché non aveva soldi a sufficienza per avviare le pratiche per il visto. Ma non si ferma qui l'infinita conta dei morti in questi primi giorni di agosto. Altri quattro migranti provenienti dalle zone subsahariane, ha comunicato il ministero degli Interni marocchino, domenica scorsa sono annegati tentando di raggiungere a nuoto le spiagge dell'enclave di Ceuta. Di "routine", invece, sono le tragedie che si consumano nel silenzio sulle coste italiane, anche quando i barconi vengono intercettati al largo della Libia prima che spariscano nel Mediterraneo. Ieri, sulla nave di Medici Senza Frontiere attraccata al molo Puntone di Palermo, sono sbarcati 529 migranti e cinque cadaveri. Sono tutti morti per disidratazione durante le tredici ore di viaggio prima del soccorso. Lo staff di Msf racconta di un'esperienza molto traumatica vissuta a bordo della nave dove è stata improvvisata una cerimonia funebre. I medici si sono presi cura di due bambini piccoli che hanno perso il padre e di altri tre che invece hanno visto morire la madre. Anche la situazione a terra è sconfortante. "Il sistema dell'accoglienza dei migranti al porto di Palermo che si fonda prevalentemente sul volontariato non andrà avanti per molto - spiega padre Sergio Mattaliano, direttore della Caritas di Palermo - solo per acquistare le scarpe ci vogliono diecimila euro a sbarco e la Caritas non ha risorse illimitate. I volontari crescono, gli aiuti del Comune e del Governo no. Anzi, sono niente". La Caritas palermitana, che da tre mesi ha deciso di non avere più centri convenzionati con la prefettura, punta il dito contro le istituzioni e la disorganizzazione. "Quello che riusciamo a fare - prosegue Mattaliano - è solo frutto della provvidenza. Abbiamo bisogno di tempo per organizzarci e in passato eravamo tra i primi ad essere ad essere avvertiti dagli sbarchi, oggi non più. Bisogna trovare risorse e mettere in campo tutto quello che serve. Negli ultimi sbarchi ho ricevuto notizie 24 ore prima, fino a che ce la faremo bene, ma non sarà sempre così". Dalla Sicilia alla Calabria la situazione è la medesima. Sempre ieri 86 migranti sono stati tratti in salvo al largo della costa di Crotone, erano a bordo di una imbarcazione di 15 metri partita da una località turca. Le operazioni di sbarco sono state complesse perché a bordo c'erano 27 bambini e 24 donne. Nel porto di Reggio Calabria, invece, è arrivata una nave della marina militare con 369 migranti (263 uomini, 88 donne e 45 minori). Droghe: caso Cocoricò, il piano del Viminale e la stretta sulla movida di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 4 agosto 2015 La direttiva per combattere spaccio e abusi nelle "piazze" del divertimento notturno: chiusura immediata in caso di irregolarità, più controlli antidroga dentro i locali. La linea tracciata dai vertici del Viminale è quella adottata a Rimini: di fronte a irregolarità dovrà scattare immediata la chiusura. Niente rinvii o ripensamenti perché in gioco c'è la vita dei giovani e dunque bisognerà agire con il massimo rigore. La direttiva era stata imposta già alla fine di maggio, proprio in vista dell'estate, quando il capo della polizia Alessandro Pansa si era confrontato con i questori e aveva concordato con loro sulla necessità di intensificare i controlli in tutte quelle "piazze" del divertimento che troppo spesso si trasformano in luoghi di morte. Discoteche, ma anche luoghi dove si organizzano rave party, punti di ritrovo che troppo spesso vengono governati da spacciatori italiani e stranieri. Molta attenzione è puntata sul lavoro della Stradale con i controlli sperimentali che nel fine settimana vedono lavorare le pattuglie miste di agenti e ufficiali medici. L'obiettivo è evidente: impedire che possano guidare o comunque andare in giro persone sotto effetto di alcol o stupefacenti, o addirittura entrambi. Il primo accertamento si fa con l'etilometro, poi scattano le nuove verifiche. E allora la procedura prevede il prelievo di tre campioni di saliva. La prima analisi si fa sul posto, se c'è reazione alla presenza di droghe scatta il ritiro preventivo della patente. Il secondo campione viene sottoposto al test il giorno successivo: se il risultato è nuovamente positivo, la patente viene inviata in prefettura e scatta anche la sanzione. Il terzo, viene tenuto per eventuali contestazioni, ma anche per i provvedimenti che il prefetto può prendere se si tratta di consumatori abituali. La direttiva del prefetto Pansa non lascia equivoci rispetto alla necessità "di combattere il fenomeno dello spaccio che colpisce fortemente i cittadini e le loro famiglie". Non a caso viene sollecitata "la possibilità di incentivare tutte le modalità di acquisizione di elementi informativi da parte dei cittadini come la direttiva che nel settembre 2014 ha introdotto il servizio di sms telefonico, gratuito per i denuncianti, con il quale poter segnalare episodi di spaccio negli istituti scolastici e nelle adiacenze degli stessi". Quanto previsto per le scuole si applicherà dunque anche alle discoteche e a tutte le altre zone dove i giovani si incontrano. Perché, questo sottolinea Pansa "allo scopo di contribuire all'innalzamento degli standard di sicurezza della comunità è stata prevista la promozione di campagne di sensibilizzazione nei confronti dei cittadini che saranno invitati a fornire ogni informazione ritenuta utile ai fini preventivi e repressivi e a interloquire con le forze di polizia anche mediante gli strumenti informatici di cui le stesse dispongono". Si punta alla prevenzione, ma si agisce anche con la repressione. Sono stati pianificate attività in tutti i locali maggiormente frequentati dai ragazzi. Oltre alle verifiche amministrative sulle licenze, grande attenzione è stata raccomandata per la vendita di alcolici: chi consente ai minori di poter bere, rischia i sigilli immediati. Uguale provvedimento deve scattare se non si rispettano gli orari di chiusura. Non solo. Le discoteche dovranno garantire di poter contare su un servizio di vigilanza che impedisca l'ingresso e l'attività di chi vende droga, ma anche di chi organizza festini con minorenni o comunque agevola la prostituzione. A Rimini e Riccione, ma anche in altre zone della penisola dove maggiore è la concentrazione di discoteche, si è deciso di "predisporre un articolato sistema di controlli, che partendo dalle stazioni, dai caselli autostradali e dalle principali arterie stradali e arrivando sino ai locali di divertimento vigila sul percorso che i giovani normalmente attraversano nei fine settimana, garantendo loro sicurezza e incolumità". Colpire uno per educarne nessuno, il consumo di stupefacenti si trasferirà subito altrove di Bruno Leoni Italia Oggi, 4 agosto 2015 La chiusura per quattro mesi della discoteca Cocoricò non risolve alcun problema relativo alla droga. Quando accade una disgrazia, abbiamo bisogno di trovare un colpevole. A maggior ragione se la disgrazia dipende dal comportamento umano, se poteva essere evitata. Assumere droga non è restare vittime di un fenomeno incontrollabile. E invece l'esito di una serie di comportamenti e volizioni, da chi la fornisce a chi la assume. Il provvedimento del questore di Rimini che chiude per qualche mese il Cocoricò, la discoteca dove poco tempo fa è sciaguratamente deceduto un ragazzo per l'assunzione di droga, tranquillizza le coscienze, pubbliche e private, che si è fatto qualcosa per rispondere a un evento che non doveva accadere, che la reazione c'è stata, la pena si è consumata. Proibire un luogo non è però proibire una condotta, ammesso che proibirla sia utile a evitarla. Il Cocoricò è uno spazio. Non è certo un luogo di culto, ma una discoteca dove, sarebbe ingenuo negarlo, capita che si consumi anche la droga. Ma se non si consumasse lì, non sarebbe difficile, e difatti non lo è, farlo altrove. Chiudere per qualche mese una discoteca vuol dire soltanto spostare il consumo in altre discoteche e in altri luoghi. Se per assurdo si volesse credere che in quel luogo si concentra tutto l'uso di droga, ci si dovrebbe chiedere fin da ora che cosa accadrà il giorno dopo lo scadere dei quattro mesi. Il provvedimento non serve a tutelare i minorenni, come pretende il questore di Rimini. Per tutelarli, servono ahinoi sforzi molto più impegnativi e molto meno immediati di un pezzo di carta firmato dalle autorità di pubblica sicurezza. Serve l'educazione, servono le famiglie e le formazioni sociali capaci di persuadere i giovani ad apprezzare la vita e ad aiutarli a trovare stimoli migliori della droga. Serve certo anche il mantenimento dell'ordine pubblico, ma con una capacità di controllo che sarebbe troppo facile se si potesse esaurire nei sigilli temporanei a una (sola) discoteca. Il Cocoricò chiuso per quattro mesi non salverà qualche vita e non redimerà qualche testa. Volendo sperare che i fautori di tale provvedimento non lo ritengano davvero un serio tentativo di lotta alla droga, la sanzione alla nota discoteca non è tuttavia priva di motivazioni. Ne ha, anzi, almeno due, che hanno a che fare, più che con la lotta alla droga, con le consuete dinamiche tra chi governa e chi è governato. Il provvedimento riminese è un gesto dimostrativo, un pubblico proclama che, con una pena esemplare ad uno, ammonisce gli altri dal seguirne le orme, in oscuro lascito del motto, fatto proprio dalla Cina di Mao e poi dalle Brigate Rosse, "colpirne uno per educarne cento". Droghe: Alfano "chiuderemo tutti i locali notturni che non rispettano la legge" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 4 agosto 2015 Il ministro: ci si può divertire fino all'alba senza droga e alcol. Non vogliamo combattere le discoteche, puntiamo a collaborare con loro come con le famiglie e i cittadini. Ministro Angelino Alfano, lei crede davvero che chiudere le discoteche serva a fermare lo spaccio di stupefacenti? "Non si tratta di risolvere il problema dello spaccio, ma di impedire che i locali notturni diventino vere e proprie centrali per l'approvvigionamento di sostanze proibite". Dunque conferma la linea dura? "Continueremo a prendere provvedimenti severi in materia di prevenzione e repressione, ma su un punto voglio essere chiaro: non esiste linea dura contro le discoteche, ma contro la vendita e la cessione di droga nelle discoteche. Fino a che i locali rimangono luoghi di divertimento, i gestori possono contare sulla collaborazione delle forze dell'ordine. Ma contro lo sballo che uccide adotteremo la tolleranza zero. Non possiamo rimanere a guardare i ragazzi distruggersi il cervello e rischiare la vita. Se non addirittura perderla". Vuol dire che disporrete la chiusura di altri locali? "Agiremo contro coloro che non rispettano la legge". Il provvedimento di sequestro del Cocoricò è scattato dopo la morte di Lamberto Lucaccioni, un giovane di appena 16 anni. Non si poteva intervenire prima? "Questa sarà materia di ricorso". Lei parla di prevenzione. Che cosa state facendo? "Io ritengo che i controlli a tappeto nei locali dove più alto è il rischio di spaccio siano la strategia più efficace. Sono le questure a decidere le modalità operative. Ho emanato direttive affinché vengano effettuati il maggior numero di interventi per verificare le condizioni dei conducenti. Se vogliamo ottenere risultati, abbiamo bisogno della collaborazione di tutti". A chi si sta rivolgendo? "Ai cittadini, soprattutto ai genitori. Il numero verde attivato per le segnalazioni relative alle scuole ha avuto un successo inaspettato. Contiamo di poter raggiungere lo stesso obiettivo in questo settore". I gestori del Cocoricò lamentano un danno di oltre due milioni di euro causati dalla chiusura di quattro mesi. "Voglio essere chiaro nei confronti di chi fa impresa nel settore dell'intrattenimento: noi puntiamo alla collaborazione con loro perché riteniamo che la prevenzione aiuti il loro business. Credo che di fronte alla morte di un giovane di 16 anni per droga in una discoteca, oltre alla perdita per il Paese ci sia un grave danno proprio per l'immagine di chi gestisce i locali". Dicono che la sanzione è troppo severa. "Abbiamo il dovere di seguire la linea dura". Stati Uniti: la sedia elettrica compie 125 anni, "Old sparky" è ancora in uso lettera43.it, 4 agosto 2015 In America la chiamano confidenzialmente "Old sparky" ("La vecchia che fa scintille"), è stato il metodo preferito per le esecuzioni della pena capitale sino agli anni 80: ora la sedia elettrica marca un macabro anniversario, il 125esimo dalla prima condanna a morte. Il 6 agosto del 1890, nella prigione di Auburn, nello stato di New York - trent'anni prima che la stessa cittadina di Auburn fosse fondata - William Kemmler fu legato alla sedia, coperto di elettrodi collegati ad un generatore e messo a morte. Condannato per l'omicidio della sua fidanzata Matilda Ziegler, Kemmler impiegò oltre otto minuti a morire. Dopo un calo di tensione e la richiesta del medico presente al boia di "fare presto" a riattivare le scariche. L'autopsia sul cadavere rivelò poi che gli elettrodi sulla schiena avevano bruciato persino la colonna vertebrale. Dalla testa del condannato fu visto uscire del fumo. Ma l'uomo che per primo suggerì alla commissione dello stato di New York incaricata di trovare un metodo per le esecuzioni "più umano della forca", il dentista Albert Southwick, esaltò il nuovo metodo di esecuzione affermando: "Viviamo in una civiltà più evoluta da oggi in poi". Uno degli innovatori dell'energia elettrica, George Westinghwhouse, osservò gelido: "Avrebbero fatto un lavoro migliore con un'ascia". Un giornalista presente riportò: "È stato uno spettacolo orripilante, ben peggiore dell'impiccagione". La realizzazione delle sedia elettrica fu resa possibile grazie alla scoperta dell'elettricità da parte di Thomas Edison, ma a portarne avanti il primo progetto su richiesta dello Stato di New York furono due sue associati, Harold Brown e Arthur Kennelly. La prima sedia elettrica vera e propria, quella usata a Auburn, fu poi disegnata, completata e brevettata dagli elettricisti del penitenziario, Edwin Davis e Harry Tyler. Dal 1976, quando la Corte Suprema americana ridiede il via libera alle esecuzioni, si calcola che 158 siano state condotte con "old sparky", un quinto di queste in Virginia. L'ultimo condannato a morte giustiziato con questo strumento fu nel 2013 Robert Glason, che decise lui stesso il metodo. Al momento, l'opzione di usarla in alternativa alle iniezioni esiste nei seguenti Stati americani: Alabama, Florida, South Carolina, Virgina, Kentucky. Nonché in Oklahoma e Arkansas in situazioni particolari. Ma la carenza di farmaci per le iniezioni letali, soprattutto dopo il rifiuto delle aziende farmaceutiche europee a rifornire gli Stati Uniti a questo scopo, ha riaperto il dibattito sul possibile macabro utilizzo di "old sparky". Kazakistan: lo stato dell'ingiustizia di Domenico Letizia L'Opinione, 4 agosto 2015 Il 30 maggio dello scorso anno, il Senato del Kazakistan ha approvato un nuovo progetto di Codice Penale, aumentando il numero di reati passabili dalla pena capitale. Il Rapporto "Nessuno tocchi Caino" 2014 riporta il Kazakistan tra i sette paesi abolizionisti solo per i crimini ordinari. Nel nuovo Codice Penale sono 18 i reati punibili con la pena di morte, compresi omicidio premeditato, sabotaggio e atti terroristici con effetti letali. La pena di morte è prevista anche per tradimento in tempo di guerra e per altri sette reati militari. Grazie al lavoro di "Nessuno Tocchi Caino" siamo a conoscenza che dal 1990 al 2003 sono state 536 le esecuzioni effettuate nel Paese. Nel dicembre del 2002, la pena di morte è stata abolita per i minori, le donne e gli uomini di età superiore ai 65 anni. Un ulteriore passo verso l'abolizione è stato l'introduzione dell'ergastolo come alternativa alla pena di morte. A partire dal 1 Gennaio 2004, nonostante le poche buone notizie pertinenti specificamente lo stato della pena di morte, molte sono le problematiche presenti nel paese riguardanti sia lo stato della giustizia, l'esercizio della tortura, sia lo stato di imparzialità del governo della magistratura. Il Comitato delle Nazioni Unite contro la Tortura ha sottolineato l'utilizzo sistematico della tortura come arma di persuasione, per estorcere confessioni da parte della autorità del Kazakistan. I rapporti della Fondazione "Open Dialog" riportano che le vittime di tortura e i difensori dei diritti umani devono esercitare notevoli sforzi al fine di indurre gli uffici delle procure ad aprire procedimenti penali contro i rappresentanti delle forze dell'ordine. Nella maggior parte dei casi, i giudici riconoscono testimonianze ottenute, dalle forze dell'ordine, attraverso l'esercizio della tortura. Il 21 ottobre del 2014, una Corte del Kazakistan ha rifiutato di rispettare la decisione del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura in relazione al caso di Oleg Yevloyev. Sul finire del 2013, Oleg Yevloyev è stato oggetto di dura tortura esercitata dalla polizia di Astana. Il Comitato delle Nazioni Unite ha chiesto al Kazakistan di condurre delle indagini serie e imparziali, al fine di individuare i responsabili delle azioni criminali nei confronti di Yevloyev. Nell'ottobre del 2014, la Corte Distrettuale di Astana ha rifiutato di conformarsi alla decisione del Comitato delle Nazioni Unite. Il numero di testimonianze e dichiarazioni, per quanto riguarda l'utilizzo della tortura nelle stazioni di polizia e nelle carceri del paese è in crescita, anche nel corso del 2015. Rapporti di Ong sull'utilizzo sistematico della tortura, come ha riscontrato la Fondazione "Open Dialog", evidenziano che continuano ad essere presenti tali violazioni e risulta aumentata la percentuale di coloro che non hanno fiducia nei confronti della polizia. Nel 2011, in Kazakistan sono state segnalate 52 denunce per esercitata tortura, nel 2012 sono state segnalate 602 denunce per tortura e nel 2013, la coalizione delle Ong del Kazakistan, ha ricevuto 410 segnalazioni di utilizzo da parte delle istituzioni della tortura. Le pene detentive per i condannati per l'esercizio della tortura sono inesistenti o relativamente brevi. Nel 2013, 31 persone sono state condannate: 3 hanno ricevuto una pena ad un anno di reclusione, 22 persone una condanna detentiva da 1 a 3 anni, 5 persone hanno ricevuto una condanna da 3 a 5 anni e una persona è stata condannata al pagamento di una multa. Preoccupanti sono i risultati dei rapporti delle Ong riguardanti l'utilizzo del trattamento psichiatrico come metodo di pressione esercitato sui detenuti perseguitati per motivi politici. Il 2 luglio 2014, l'avvocato e attivista per i diritti umani Zinaida Mukhortova è stato coercitivamente isolato in un ospedale psichiatrico per la quarta volta, nonostante, le sentenze opposte dei tribunali anche nel corso dei casi precedenti. Solo uno sforzo unitario e internazionale da parte dell'Unione europea, dell'Osce e delle Nazioni Unite può indurre ad un cambiamento nel paese nel rispetto della dignità umana e migliorare la sorte dei prigionieri politici. Svizzera: "tortura", al vaglio dell'Onu rimpatrio dei migranti e condizioni delle carceri Corriere del Ticino, 4 agosto 2015 A Ginevra, davanti a dieci esperti del comitato Onu contro la tortura, la Svizzera da oggi viene passata al vaglio: al centro delle questioni vi sono il rimpatrio di immigrati, il sovraffollamento e la qualità delle cure nelle carceri, ma anche il trattamento dei minori. Diversi esperti hanno messo in luce l'impegno della Svizzera nell'ambito dei diritti umani e l'applicazione della Convenzione dell'Onu contro la tortura. Il rapporto presentato dalla delegazione elvetica, guidata dal vicedirettore dell'ufficio federale della giustizia Bernardo Stadelmann, è stato definito "un modello" per altri Paesi. Ma gli esperti si sono anche fatti portavoce delle raccomandazioni di varie Organizzazioni non governative (Ong). Quale prima obiezione, nel Codice penale la Svizzera deve definire la tortura con il proprio nome, in modo esplicito, ha sottolineato il presidente del comitato. Inoltre ci si chiede se il diritto elvetico prevarrà su quello internazionale e se quindi l'applicazione della Convenzione contro la tortura verrà minimizzata. Per quanto riguarda i respingimenti alle frontiere e i rimpatri di rifugiati, è stato criticato il metodo, in particolare nei riguardi di cittadini dello Sri Lanka e della Somalia. In certi casi sono emerse carenze, soprattutto sulla garanzia che l'individuo, una volta rimpatriato nel suo Paese d'origine, non venga torturato. "Sembrerebbe che la Svizzera metta la propria sicurezza al di sopra della dignità umana", ha dichiarato uno degli esperti. Al contrario, l'attribuzione quasi automatica dell'asilo ai cittadini eritrei ha sollevato qualche interrogativo. Preoccupano pure i casi di richiedenti asilo vittime di torture. Così come avevano già fatto diverse Ong, gli esperti si inquietano per la detenzione amministrativa e si appellano a un miglior inquadramento medico e giuridico. Altri problemi non secondari: la sovrappopolazione carceraria e le condizioni deplorevoli che ne conseguono; la mancanza di statistiche nazionali sulle violenze dei poliziotti e sui metodi adoperati negli interrogatori. Il comitato Onu ha invece accolto con favore l'introduzione dell'avvocato della prima ora, ma i progressi in questo ambito differiscono fra i vari cantoni e permangono problemi rilevanti. Libia: video mostra Saadi Gheddafi picchiato in prigione a Tripoli Aki, 4 agosto 2015 Un video che circola sul web mostra Saadi Gheddafi, uno dei figli di Muammar Gheddafi, che viene deriso e picchiato da presunte guardie carcerarie mentre è sottoposto a interrogatorio. Saadi Gheddafi è detenuto in una prigione di Tripoli. Il video, di cui dà notizia il portale libico di notizie al-Wasat e la cui autenticità non può essere verificata, emerge a una settimana dalla condanna a morte per Saif al-Islam, secondogenito di Gheddafi, in relazione alla rivolta del 2011 in Libia contro il regime del colonnello. Insieme a Saif al-Islam sono stati condannati altri otto esponenti del passato regime. Saadi Gheddafi, fuggito dalla Libia nel 2011, è stato poi catturato ed estradato lo scorso anno dal Niger. È accusato, tra l'altro, per l'uccisione di un calciatore quando era a capo della Federazione libica di calcio. In Italia Saadi ha un trascorso nei campionati di calcio di serie A e B.