Carceri: 14.550 detenuti occupati (il 27% del totale), ma 10mila fanno "servizi domestici" Adnkronos, 3 agosto 2015 È stabile il numero di detenuti occupati, alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria o di imprese e cooperative che possono gestire lavorazioni presenti all'interno delle strutture carcerarie: erano 14.550 al 31 dicembre 2014, quattro per cento in più rispetto all'anno precedente, ma con un aumento della percentuale in rapporto ai presenti, che comunque sono diminuiti. Si è infatti passati dal 23,3 per cento su una popolazione carceraria di 62.536 persone del 2013, al 27,1 su 53.630 presenti. Il dato si ricava dall'ultima relazione sull'attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti, trasmessa dal ministero della Giustizia al Parlamento. La gran parte di detenuti, 10.185, sono impegnati nella gestione quotidiana dell'istituto, i cosiddetti "servizi domestici", con le direzioni che cercano di ridurre l'orario di lavoro pro-capite ed effettuare turnazioni, per mantenere un sufficiente livello occupazionale. "Garantire opportunità lavorative ai detenuti -nota infatti il documento ministeriale- è strategicamente fondamentale, anche per contenere e gestire i disagi, le tensioni che possono caratterizzare la vita penitenziaria". Tuttavia "il budget largamente insufficiente assegnato per la remunerazione dei detenuti lavoranti alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, ha condizionato in modo particolare le attività lavorative necessarie per la gestione quotidiana dell'istituto penitenziario (servizi di pulizia, cucina, manutenzione ordinaria del fabbricato), incidendo negativamente sulla qualità della vita all'interno dei penitenziari". In particolare per i salari si è passati da una dotazione di 66 milioni 751mila 888 euro del 2006, ai 55 milioni 381 mila 793 del 2014. In aumento invece gli stanziamenti per il capitolo industria, con il quale vengono gestite dall'amministrazione ed acquistati macchinari e materie prime, pari a 12 milioni, 376 mila 617, dopo che nel 2012 si era scesi a 3 milioni 168 mila 177. Crescono anche i fondi per la legge Smuraglia, che prevede sgravi contributivi e fiscali per imprese e cooperative che assumono detenuti: poco più di 10 milioni annui dal 2014, dopo che fino al 2012 non si erano mai superati i 4 milioni e seicentomila. "Non vi è dubbio - segnala la relazione - che nel corso degli ultimi anni le inadeguate risorse finanziarie non hanno certo consentito l'affermazione di una cultura del lavoro all'interno degli istituti penitenziari. Ed è proprio in questo particolare momento di difficoltà economica, comune a tutto il territorio nazionale, che l'amministrazione penitenziaria sta moltiplicando i suoi sforzi per contrastare le carenze di opportunità lavorative per la popolazione detenuta". "Oltre a garantire il lavoro per le necessità di sostentamento, proprie e della famiglia, lo sforzo maggiore che l'amministrazione penitenziaria oggi sta compiendo è quello di fare in modo che le persone detenute possano acquisire un'adeguata professionalità", per consentire a chi ha commesso un reato "di introdursi in un mercato del lavoro che necessita sempre più di caratteristiche di specializzazione e flessibilità". Obiettivi che si cerca di perseguire "d'intesa e in accordo con i maggiori consorzi del mondo della cooperazione, nell'ambito di percorsi di collaborazione e di integrazione delle risorse, per garantire il diritto al lavoro delle persone detenute". Tornando alle questioni finanziarie, occorre ricordare che il lavoro alle dipendenze dell'amministrazione viene retribuito in misura non inferiore ai due terzi dei contratti collettivi dei vari settori, ma dal 1994 non è stato effettuato l'aggiornamento per carenza di risorse. I mancati aumenti portano ad un proliferare di ricorsi ai giudici del lavoro da parte dei detenuti lavoratori, che li vedono sempre vincitori, costringendo l'amministrazione a pagare le differenze retributive maturate negli anni, gli interessi e le spese di giudizio. Una situazione, nota la relazione, che rende necessario un intervento normativo. Lo stesso documento ricorda che "per sopperire alle ristrettezze di bilancio, le direzioni di istituto e i provveditorati sono stati sollecitati a presentare progettualità al finanziamento della cassa ammende, con la previsione di opportunità formative e lavorative per i detenuti. Numerose sono state presentate e approvate". Giustizia: la lotta all'illegalità è un dovere di tutti di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2015 Dice Antonello Ardituro, già Pm alla Dda di Napoli e oggi membro del Consiglio superiore della magistratura, riferendosi alla recente retata di camorristi, imprenditori e politici nel Casertano: "La lotta alla criminalità organizzata ha portato negli anni a grandissimi successi. Ma lo Stato potrà vincere solo se si attiva un'azione collettiva che fa compiere uno scatto verso la ricostruzione del territorio. I casi relativi alla metanizzazione e agli appalti per la rete idrica hanno messo in evidenza ricadute politiche e territoriali che impongono una reazione civica complessiva delle varie categorie sociali e intellettuali". Nelle stesse ore il questore di Napoli, Guido Marino, commentava il via libera del governo a 200 uomini da inviare nel centro storico partenopeo per contrastare la recrudescenza criminale: "Bene i rinforzi, ma il vero rinforzo deve venire dai cittadini. Sono loro l'arma in più per affrontare questi cialtroni. Occorre che i cittadini reagiscano, offrano il loro contributo. Se i napoletani non recuperano la consapevolezza di essere di gran lunga superiori a questi quattro parassiti di camorristi o aspiranti camorristi, allora non ci sarà rinforzo sufficiente". Lunedì 13 luglio Claudio Clemente, direttore dell'Uif (Unità di informazione finanziaria) ha presentato il Rapporto sull'attività nel 2014. Nelle analisi dell'Uif, una delle colonne della lotta al riciclaggio del denaro sporco, si basa sulla "Segnalazione delle operazioni sospette", ovvero tutti quei movimenti anomali di finanza che possono indicare un reato. Per legge, a segnalare ogni sospetto devono essere le banche, i professionisti, gli intermediari, i portavalori. "Nel 2014 - ha detto Clemente - abbiamo ricevuto 71.700 segnalazioni, oltre 7mila in più rispetto al 2013". E anche se persistono problemi di qualità e tempestività, "solo qualche anno fa, in presenza di operazioni "anomale", intermediari e professionisti si sarebbero sentiti legittimati a non porsi domande, forti del pensiero che pecunia non olet. La crescita del sistema di prevenzione ha modificato sostanzialmente tale approccio: l'operatore è tenuto a farsi domande". Bene, dunque, nonostante se "alcuni segnalanti, anche di rilevanti dimensioni, interpretano la collaborazione ai fini antiriciclaggio prevalentemente in chiave di deresponsabilizzazione, basando le segnalazioni non tanto su concreti indici di sospetto quanto sulla carenza di elementi conoscitivi per la mancanza di un'adeguata verifica del cliente. Ne derivano segnalazioni intrinsecamente povere, destinate all'archiviazione per l'indeterminatezza dei sospetti manifestati". Clemente ha invece benevolmente sorvolato su un dato significativo: delle 71.700 segnalazioni del 2014 solo 18 (diciotto) giungono dalla Pa. Il che ci conduce alla relazione (2 luglio) del presidente dell'Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone: "Le prime analisi condotte su oltre 1.300 amministrazioni evidenziano un livello pressoché generalizzato di adozione del Piano anticorruzione (...) avvertito, però, come un adempimento burocratico; la qualità dei documenti, infatti, in termini di metodo, sostenibilità ed efficacia è, in molti casi, insufficiente". Va meglio con la trasparenza, "che però, per essere utile, deve essere di qualità e non solo di quantità e cioè consentire al cittadino di accedere alle informazioni utili con semplicità e chiarezza". "L'Anac ha rilevato nel complesso un livello di pubblicazione dei dati quasi prossimo alla totalità delle amministrazioni; la valutazione positiva si scontra, però, con la scarsa attenzione alla qualità e alla completezza dei dati da parte di alcune pubbliche amministrazioni". Intanto il "sistema whistleblower stenta a decollare sia perché la tutela normativa non viene ritenuta efficace, sia per la scarsa propensione alla segnalazione (spesso concepita come delazione)". Un magistrato, un questore, il direttore dell'antiriciclaggio e il presidente dell'anticorruzione dicono tutti una stessa cosa: fino a che ciascun cittadino, ovunque si trovi a lavorare e a vivere, non comincia a impegnarsi in prima persona, voltare pagina resterà un'utopia, magari ben organizzata, ma senza l'energia di chi ci crede veramente. Giustizia: giornalisti minacciati, occorre aiutarli a difendersi di Alberto Spampinato (direttore di "Ossigeno per l'Informazione") Il Mattino, 3 agosto 2015 Oltre a denunciare le violazioni della libertà di stampa che si verificano in Italia, oltre a segnalare le minacce e ritorsioni che ogni anno bersagliano centinaia di giornalisti per impedire che riferiscano fatti e circostanze di interesse pubblico che disturbano il potere, occorre cominciare a fare qualcosa di concreto per assistere e proteggere i giornalisti che subiscono queste intimidazioni. Occorre aiutarli a resistere, a difendersi, a rompere l'isolamento, a non soccombere alla censura imposta con la prepotenza, con l'abuso delle querele. È necessario e urgente, se dai giornali vogliamo apprendere anche le "verità scomode", i misteri che resistono perfino alle indagini giudiziarie, quei fatti e comportamenti scorretti che il potere, i potenti, i corruttori, i criminali nascondono proprio per poter concludere affari sporchi o illeciti. Ma come si possono proteggere i giornalisti? Da tempo sono stati individuati degli strumenti, procedure che attendono solo di essere discusse e attuate. Bisognerebbe attuarle con urgenza, e non solo nei teatri di guerra, ma nella nostra pacifica Italia, in cui si combatte ogni giorno contro i giornalisti una guerra a bassa intensità. Alla conferenza internazionale promossa da "Ossigeno per l'Informazione" e presieduta da Sergio Zavoli, che si è svolta il 2 luglio a Roma, in una sala del Senato della Repubblica, si è parlato di tutto ciò e si sono registrati alcuni importanti passi avanti (il video è su ossigeno.info). Il primo risultato consiste nell'ammissione esplicita da parte del governo che in Italia queste intimidazioni si verificano frequentemente, sono numerose e gravi e il fenomeno è ben rappresentato dai dati impressionanti raccolti da Ossigeno (2.350 giornalisti intimiditi dal 2006 a oggi). Questa ammissione segna un'inversione di tendenza. Finora infatti il fenomeno, oltre ad essere oscurato dai media, è stato platealmente negato dalle autorità pubbliche. Alla conferenza di Roma le ammissioni più importanti sono venute dal presidente del Senato, Pietro Grasso, dal ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, dal vice presidente della Commissione parlamentare antimafia, Claudio Fava, dal presidente dell'Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino, dal segretario della Fnsi, Raffaele Lorusso, dal direttore generale della Fieg, Fabrizio Carotti. "I dati di Ossigeno - ha detto Grasso - ci costringono non solo a riflettere ma anche ad agire. Ci sono troppi minacciati e ancora non siamo capaci di trovare soluzioni adeguate". "Non credo - ha affermato il ministro Gentiloni - che in Italia si possa affermare che l'informazione non sia libera. Credo invece che molti giornalisti non siano liberi di scrivere la verità, indagare ed esercitare al meglio la loro professione. Penso alle intimidazioni e alle minacce quotidiane contro coloro che affrontano temi come la mafia o la criminalità organizzata". Fava ha annunciato che la Commissione antimafia pubblicherà una approfondita relazione sulle minacce ai giornalisti italiani. A queste importanti certificazioni si sono aggiunte quelle del presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, del Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks, dell'inviata della Rappresentante per la libertà dei media dell'Osce, Ulrike Schimdt, del direttore del Centro europeo per la libertà di stampa di Lipsia, Lutz Mukke, del vice presidente dell'Associazione dei giornalisti europei, William Horsley, del rappresentante del centro di monitoraggio dei media nel su est Europa (Seemo) Radomir Licina. Questa generale ammissione della gravità del fenomeno delle intimidazioni è una grande novità di cui Ossigeno rivendica il merito e permette finalmente di cominciare a discutere di cosa fare in concreto per mettere fine alle intimidazioni. Fra l'altro, la svolta del governo si era già manifestata in modo significativo e ufficiale. A marzo del 2015, a Ginevra, durante la sessione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, i rappresentanti italiani, per la prima volta, si sono impegnati ad attuare alcune precise "raccomandazioni" in materia di libertà di stampa, conflitto di interessi e protezione dei giornalisti. In particolare, il governo si è impegnato a "indagare e perseguire tutti i colpevoli di violenza e di crimini di intimidazione contro i giornalisti", "a prendere le misure giuridiche necessarie per proteggere i giornalisti e indagare tutti gli atti di intimidazione e di violenza contro i giornalisti". Purtroppo per risolvere il problema non basta assumere questi impegni solenni. Ma gli impegni solenni sono importanti, poiché rendono percorribili strade che prima apparivano impervie e impraticabili. Purtroppo il parlamento - con l'eccezione della Commissione antimafia - non ha ancora fatto la sua svolta. Continua a battere le vecchie strade che sottomettono l'interesse pubblico a conoscere i fatti di interesse pubblico a un diritto alla riservatezza anche in casi in cui esso non può essere invocato come preminente. Lo dimostrano le recentissime vicende della proposta di legge sulla diffamazione e con la nuova ipotesi di limitazione della pubblicazione delle intercettazioni giudiziarie. Alla conferenza Ossigeno ha formulato alcune proposte su cui raccoglierà pareri e opinioni. Fra l'altro, l'Osservatorio chiede di creare uno Sportello pubblico per comunicare le intimidazioni a tutte le autorità competenti con un'unica segnalazione, di istituire un fondo di solidarietà e di costruire una rete di assistenza legale solidale, di elaborare un codice di comportamento sul modo di trattare sui media le notizie sui giornalisti che subiscono intimidazioni e minacce. E la società civile? Come ha detto don Luigi Ciotti, non può solo commuoversi, deve muoversi, deve schierarsi, deve fare la sua parte. Giustizia: Mattarella "la verità sulla strage di Bologna emerga per intero" di Francesco Alberti Corriere della Sera, 3 agosto 2015 Le parole di Mattarella a 35 anni dalla strage. Grasso: appurare se nello Stato ci furono traditori. Non ci sono fischi alle autorità dello Stato. Ma richieste di verità, sì, tante. Sotto l'orologio fermo alle 10.25 di quel 2 agosto 1980, mentre i tre fischi della locomotiva rinnovano un rito laico che mai dovrà spegnersi, ci sono occhi lucidi e labbra serrate dall'emozione tra le centinaia di familiari delle vittime della strage alla stazione (85 morti, 200 feriti). Sembra banale dire "Bologna non dimentica", ma non è così semplice in un mondo che tutto centrifuga e troppo anestetizza. Scene già viste altre 35 volte: il consiglio comunale, il corteo in via dell'Indipendenza, i discorsi nel piazzale della stazione, gente alle finestre, negozi che si fermano. I parenti delle vittime con le gerbere appuntate al petto. Tutto come sempre. Tutto così diverso. Anche la voce del capo dello Stato quest'anno è diversa. Dopo i tanti anniversari firmati da Napolitano, tocca a Sergio Mattarella inviare un messaggio che non può che insistere su quello che per tutti è un dovere, ma per lo Stato un dogma: "Non dimenticare quella strage e quelle vittime innocenti che ormai fanno parte della memoria nazionale" scrive. Nomi, volti e storie che si stagliano da un fondale spesso cupo, "da lunghi anni di indagini difficili - prosegue il presidente della Repubblica - contrassegnate da reticenze e tentativi di depistaggio: la verità emerga nella sua interezza e la battaglia per introdurre il reato di depistaggio è una risorsa". Un percorso solo apparentemente concluso dalla sentenza definitiva che ha condannato all'ergastolo Valerio Fioravanti e Francesca Mambro (da tempo a piede libero): "Su quella tragica vicenda - conclude Mattarella - rimangono angoli bui, specie per quanto riguarda mandanti ed eventuali complici". Impossibile perdonare. Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime e deputato Pd, ha la foga di sempre: "In un Paese normale due stragisti non avrebbero già scontato la loro pena". Dietro a Mambro e Fioravanti, Bolognesi punta il dito contro "uno Stato che avrebbe dovuto proteggerci e invece ci ha ostacolato". Uno Stato che ora promette di esserci. Il presidente del Senato, Pietro Grasso, da ex magistrato, si dice certo che "la verità non va mai in prescrizione, non va temuta per quanto atroce possa essere" e aggiunge che "bisogna pretendere chiarezza al di là di interessi di parte". Poi ci sono le questioni pendenti, non per questo secondarie. Il governo ha spedito a Bologna il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti. Che ammette ritardi e promette risultati: "A giorni saranno sciolti gli ultimi nodi per la desecretazione degli atti e la procedura per la pensione ai familiari delle vittime, mentre il ddl sull'introduzione del reato di depistaggio è in commissione giustizia al Senato". Il sindaco Pd Virginio Merola (in pista per la ricandidatura) vuole crederci: "Ora parlino i fatti". Giustizia: Orlando "il depistaggio diventerà reato", pronti ad approvare legge in Senato di Francesco Grignetti La Stampa, 3 agosto 2015 Ora che sono trascorsi trentacinque anni dalla strage di Bologna, il 2 agosto del 2015 la politica italiana scopre che è indispensabile varare al più presto il reato di "inquinamento dei processi e depistaggio". Sono quattro legislature che si parla inutilmente d'istituire questo reato. Questa sembrava la volta buona e il deputato Paolo Bolognesi, Pd, in quanto presidente dell'associazione vittime della strage, ci aveva pure sperato dopo che 10 mesi fa la Camera ha approvato un testo nato da una sua proposta. Si profila dunque un nuovo reato che sanziona pesantemente chi inquina i processi, non per colpire soltanto gli uomini infedeli delle istituzioni, come aveva immaginato Bolognesi, ma chiunque si presti a depistare i magistrati. E se sono pubblici ufficiali, le pene sono ancora più severe (da 6 a 12 anni). Dieci mesi fa, dunque, Montecitorio approvava. Poi il silenzio. Il ddl è rimasto chiuso in un cassetto fino a tre giorni fa, quando la commissione Giustizia del Senato s'è ricordata che ormai si era alla vigilia. Un mistero, questo lungo periodo di abbandono. Ieri il governo ha annunciato che il reato di depistaggio è in cima alle sue preoccupazioni. "La proposta - ha annunciato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti - è pienamente condivisa e sosterremo l'approvazione del testo senza modifiche, in modo da evitare un ritorno alla Camera". Lo stesso assicura il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "Tenere viva la memoria - dice - è il primo dovere da osservare. Importanti interventi sono stati e si stanno realizzando come la desecretazione dei documenti in possesso della Pubblica Amministrazione e l'introduzione del reato di depistaggio, di cui si è avviata la discussione nella commissione Giustizia del Senato". E così s'impegnano anche Laura Boldrini e Pietro Grasso. Il presidente del Senato, molto applaudito nel suo intervento bolognese, ha riconosciuto: "Evidentemente ci sono state delle priorità, però questa doveva essere considerata una priorità. Adesso il ddl è partito con la relazione introduttiva, dopo le sollecitazioni anche dei familiari delle vittime e le mie. Speriamo che l'iter legislativo sia rapido e che non ci siano ulteriori divisioni". "Speriamo - gli fa eco Bolognesi - che sia la volta buona per chiudere una volta per tutte la questione e arrivare al prossimo anno senza polemiche di questo tipo". Allude al reato di depistaggio, ma anche alla questione dei risarcimenti alle famiglie delle vittime, che in 35 anni non s'è ancora chiusa, e alla desecretazione degli atti, decisa dal governo Renzi, ma che non è affatto facile, e poi - quando ci sono di mezzo i servizi segreti - occorre il via libera da molti Stati stranieri. Resta nei bolognesi, e negli italiani, l'esigenza di capire. Ne ha parlato anche il Capo dello Stato. "Su quella tragica vicenda - ha scritto Sergio Mattarella - permangono ancora angoli bui, specie per quanto riguarda mandanti ed eventuali complici. L'auspicio è che la verità possa emergere nella sua interezza: la vostra battaglia che riguarda anche l'introduzione del reato di depistaggio costituisce un'importante risorsa". Giustizia: caso Azzollini; quel buco nella rete del diritto di Stefano Ceccanti L'Unità, 3 agosto 2015 Nel dibattito di questi giorni sul caso Azzollini bisogna anzitutto fugare un equivoco: la decisione era sull'autorizzazione all'arresto, non sulla prosecuzione della vicenda giudiziaria, sullo svolgimento del processo. Dal 1993 l'articolo 68 della Costituzione non prevede più la vecchia autorizzazione a procedere che aveva portato con sé vari abusi, ma solo questa garanzia minima relativa all'arresto. Proprio perché le tutele dell'articolo 68 si erano così compresse, fino alla scorsa legislatura era prevalso un criterio molto restrittivo, che limitava la concessione dell'arresto solo a reati di sangue. Sulla spinta di casi molto problematici, tra cui alcuni di ingente sottrazione di denaro pubblico, la prassi è cambiata e l'autorizzazione sin dalla legislatura 2008-2013 è divenuta più frequente, non senza qualche problema di disparità dovuta a contingenze politiche. Basti pensare alle decisioni contraddittorie su casi abbastanza simili: la concessione per Papa del Pdl mollato dalla Lega e il diniego per Milanese, che si muoveva invece a cavallo tra Pdl e Lega e quindi fu difeso da entrambi. A parte questi problemi, anche il maggior rigore delle Camere nei confronti dei loro componenti può ben essere giustificato, ma può e deve trovare dei limiti: l'espressione utilizzata dal Presidente del Consiglio secondo cui i parlamentari non possono essere dei semplici passacarte delle procure esprime appunto questo concetto, senza il quale non si darebbe nessun equilibrio tra potere legislativo e potere giudiziario perché quella garanzia sarebbe di fatto eliminata dalla Costituzione vivente. Fatte queste premesse generali sul possibile fraintendimento e sull'evoluzione delle prassi parlamentari dobbiamo analizzare lo specifico caso Azzollini. Ora di richieste di autorizzazioni all'arresto ne ho lette parecchie. Nella scorsa legislatura credo di averle votate tutte perché ben ‘ argomentate. Non mi ero però mai imbattuto in cinquecento pagine in cui si chiede l'arresto di un parlamentare in sostanza per aver introdotto emendamenti in alcune leggi. Delle due l'una: o il primo comma del già citato articolo 68 della Costituzione, quello in cui si afferma che "i parlamentari non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni" è ancora vigente e quindi questa motivazione non è utilizzabile o i sostenitori dell'arresto ritengono di doverlo violare in nome di un malinteso senso della giustizia. Resta sempre valida la lezione di san Tommaso Moro al corteggiatore luterano integralista della figlia che gli voleva far impiccare gli eretici anche se ciò non era previsto dalla legge: "Tu vuoi fare un buco nella rete del diritto per andare di là a prendere il diavolo, ma una volta che hai fatto il buco nella rete del diritto può essere il diavolo a venir fuori e a prendere te". A me sembra abbastanza evidente che le motivazioni dei favorevoli all'arresto, accettando di valutare l'esercizio della funzione legislativa, volessero proprio fare un buco nella rete del diritto. Per questo era giusto votare come ha fatto la maggior parte dei senatori del Pd. Spesso le posizioni più giuste non sono le più facili a spiegarsi, ma non di meno restano le più corrette. Non eleggiamo dei rappresentanti per chiedere loro di prendere le decisioni più semplici e più popolari, ma per essere capaci di assumere anche responsabilità difficili, non facili da capire almeno sul breve periodo. È solo così che la politica non crea falle nella rete del diritto. Giustizia: caso Azzollini; l'arresto si chiede se c'è una condanna, prima è una barbarie di Vittorio Feltri Il Giornale, 3 agosto 2015 Azzollini e i suoi ipotetici complici ne hanno combinate di ogni colore? Può darsi. Ma per schiaffarli in galera sarebbe necessaria una sentenza, anzi tre. Ieri ho letto un gustoso articolo di Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, in cui si sottolineano alcune imprecisioni, più o meno gravi, dette da Matteo Renzi a proposito della vicenda Antonio Azzollini. Il quale si è giovato del voto del Parlamento per non marcire in galera, a differenza di altre dieci persone già "dentro" con le medesime accuse, che vi risparmio (solite ruberie), tranne una, la più pittoresca: il senatore del Nuovo centrodestra avrebbe espresso il suggestivo proposito di fare la pipì in bocca a una suora poco incline a ubbidirgli. Qui non si capisce se fosse una promessa o una minaccia, ma non importa: de gustibus non est disputandum, dicevano gli antenati di Roma ladrona e di Mafia capitale. Travaglio, che secondo me oltre al giornalista potrebbe fare il docente di diritto (nelle sue varie declinazioni specialistiche), ci ha spiegato per filo e per segno come qualmente Azzollini dovesse essere arrestato, anziché graziato dai colleghi. Il famoso direttore ha sicuramente ragione in base ai sacri testi: non oso contestare le sue dotte tesi. Tuttavia, io che sono un cronista tutt'altro che umile sostengo, invece, che anche gli altri dieci (o undici, l'è istess) detenuti per le medesime porcherie andrebbero scarcerati. Lo dico senza entrare nel merito della fetentissima inchiesta, le cui carte li dipingono quali mascalzoni di prima grandezza, ma semplicemente perché sono convinto - ingenuamente, forse - che una o venti persone prima di essere imprigionate dovrebbero essere processate e condannate. Blindarle in fase istruttoria, cioè quando ancora si ignora se siano colpevoli o no, è una barbarie, retaggio di tempi oscuri quando il principe, per non sapere né leggere né scrivere, se sospettava che tu fossi un gaglioffo ti rinchiudeva nella torre ed erano cavoli tuoi. Se poi, miracolosamente, riuscivi a dimostrare di essere puro come un giglio, tornavi libero e amen. Intanto, però - fino a sentenza definitiva - soffrivi in cella. Conosco le obiezioni di Travaglio - che tecnicamente stimo, e ciò potrebbe svantaggiarlo - le quali non fanno una grinza: il fumus persecutionis c'è o non c'è. Se c'è, il soggetto in esame va salvato; se non c'è, va inchiodato. Ogni altra elucubrazione fa rima con masturbazione. Vero, verissimo, sacrosanto. Non è questo il punto, però, visto che un cittadino - sieda a Palazzo Madama o altrove - è obbligato comunque a sottostare alla legge: se essa recita che meriti di filare in carcere, lì sei destinato ad andare e buona notte. Non sono tuttavia d'accordo sulla necessità della cosiddetta custodia cautelare, se non in casi molto particolari. Oddio, in questo senso le norme non mancano. Si ammanetta uno se minaccia di fuggire, se vi sia il timore che inquini le prove o addirittura reiteri il reato. Tre circostanze rare. Prendiamo Massimo Bossetti, il presunto assassino di Yara Gambirasio. Dove vuoi che scappi senza una lira in tasca? Quali prove vuoi che inquini se lo hanno promosso addirittura cornuto ufficiale? Quanto alla reiterazione del reato, prego i magistrati di evitare almeno il ridicolo. Nonostante ciò, egli è dietro le sbarre da un anno pur non avendo neppure subito il giudizio di primo grado. Figuriamoci Azzollini e i suoi ipotetici complici. Ne hanno combinate di ogni colore? Può darsi. Ma per schiaffarli in galera sarebbe necessaria una sentenza, anzi tre. Viceversa, ci si stupisce che il senatore sia stato risparmiato, quando il problema è che gli altri stanno, viceversa, al fresco pur non meritando una punizione preventiva. Altra potenziale contestazione di Travaglio alle mie modeste argomentazioni: la legge va rispettata. A parte che è poco rispettata, dato che non si tiene mai conto delle tre condizioni sopra ricordate ai fini della custodia cautelare, mi sembrerebbe indispensabile procedere diversamente. Un signore indiziato di uno o vari reati è naturale che sia sottoposto a indagini, ma è assurdo che in questa fase sia privato della libertà. Conviene attendere che l'investigazione sfoci in un processo di primo grado, poi eventualmente in appello, quindi in Cassazione. Ciò che, per esempio, è accaduto per Silvio Berlusconi. Il quale a Cesano Boscone si è recato a verdetto definitivo e non durante l'iter intermedio. Azzollini e i suoi compari perché dovrebbero avere un trattamento diverso? Per concludere. Se l'attuale procedura non piace, cambiamola, ma in senso garantista e non in senso opposto. Meglio un colpevole evaso che dieci innocenti detenuti. Ovvio, questa è la teoria: la pratica vi si attenga sempre, nella consapevolezza che la perfezione non è di questo mondo. Giustizia: Viceministro Nencini "toghe e Parlamento? la politica recupera il suo primato" intervista a cura di Fabrizio Lioni Il Messaggero, 3 agosto 2015 Viceministro Nencini come ha valutato il voto del Senato su Azzollini prima e il commento del premier poi secondo cui il parlamento non è il passacarte della magistratura? "Il voto espresso mi convince, sia nella forma che nella sostanza. E, del resto, l'ente (la casa di cura Divina Provvidenza di Bisceglie, ndr), per il cui crac è stato indagato Azzolini, è commissariato da quasi tre anni e quindi non si avevano chiari elementi alla base dei quali si potesse ritenere una possibile reiterazione del reato. È stato un giudizio che ha esaltato il ruolo del parlamento, dopo un'attenta e ponderata analisi delle carte. Così come trovo che la posizione e il commento di Matteo Renzi siano stati un grande atto di rispetto verso le Camere". Eppure non sono mancate le polemiche, anche nella maggioranza.... "Mah, non mi ha convinto molto la posizione di chi su alcuni temi accusa il presidente del Consiglio di essere poco rispettoso della sovranità del parlamento, salvo poi, dall'altra, lamentarsi che in occasione di voti come quello su Azzolini abbia lasciato troppo la mano libera ai senatori. Delle due l'una, perché entrambe le versioni sono in evidente contrasto. In generale, sulle polemiche che hanno riguardato un tema delicato come questo, vorrei ricordare una splendida massima di San Bonaventura, il quale aveva ben chiaro come "la giustizia si pasce di silenzi". La sorte di chi esercita funzioni pubbliche è bene ricordarlo, va garantita e tutelata come quella di tutti. Stiamo parlando della coercizione della vita delle persone, un tema sul quale da sempre bisognerebbe avere la massima sensibilità. D'altronde anche l'ex procuratore capo del pool di Mani Pulite, Francesco Saverio Borrelli, non troppo tempo fa fece una dichiarazione nella quale evidenziò come quel tipo di attività portato avanti dalla magistratura nel corso di Tangentopoli, non fu affatto risolutiva". A proposito di Tangentopoli e al fatto che dopo quella vicenda il parlamento decise di abolire l'autorizzazione a procedere, su questo giornale Giuseppe Maria Berrutti, direttore del massimario della Cassazione, ha affermato che fu un errore mettere mano all'articolo 68. "Nei giorni della costituente furono i partiti della sinistra a volere con forza quell'articolo scritto così. Significava dare mandato ai parlamentari per poter svolgere il proprio ruolo istituzionale liberamente. Oggi, anche se l'articolo è stato modificato sull'onda emotiva di Tangentopoli, si mantiene comunque una sorta di garantismo nonostante tutto. Gli errori, sempre sull'onda emotiva, sono stati altri". Quali? "Beh, ad esempio abolire il finanziamento pubblico ai partiti, lasciando sempre più spazio alla finanza. La politica deve tornare ad esprimere il suo primato. Quando è debole altre istituzioni cercano di colmare il vuoto di potere che lascia. Il governo per rilanciare il primato della politica e la sua credibilità, sta facendo delle buone riforme". Giustizia: inchiesta su "Mafia Capitale", Luca Odevaine collabora con i magistrati di Silvia Barocci e Cristiana Mangani Il Messaggero, 3 agosto 2015 L'ex capo di gabinetto, arrestato lo scorso dicembre, da poco trasferito da Torino a un carcere del Centro Italia. Starebbe parlando del mega appalto da 100 milioni di euro per il Cara di Mineo. I verbali sono stati secretati. Ha iniziato a parlare Luca Odevaine. Da un paio di settimane è stato trasferito dal carcere di Torino in un penitenziario di massima sicurezza del Centro Italia. E i suoi verbali sono stati secretati. Più di Buzzi, il ras delle coop che con le sue ultime rivelazioni sul "sistema" politico di spartizione degli appalti ha scatenato polemiche e smentite, è un altro protagonista di Mafia Capitale ad aver acceso l'interesse degli inquirenti. L'ex capo di gabinetto del sindaco Veltroni, arrestato lo scorso dicembre per corruzione aggravata, starebbe parlando del mega appalto da 100milioni di euro per la gestione del centro rifugiati di Mineo. E lo starebbe facendo sia con i magistrati di Roma sia con quelli di Catania, che per la vicenda del Cara più grande d'Europa hanno iscritto sul registro degli indagati, con l'accusa di turbativa d'asta, sei persone, tra cui il sottosegretario all'Agricoltura Giuseppe Castiglione (Ned). In forza del suo ruolo presso il Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza per i richiedenti asilo, Odevaine sarebbe stato remunerato dal clan di Massimo Carminati e di Salvatore Buzzi con diecimila euro al mese (poi raddoppiati) per agevolare l'aggiudicazione dell'appalto di Mineo alle cooperative "giuste". Quel bando di gara per 3mila posti letto era infatti "blindato". "Sarà difficile che se lo possa aggiudicare qualcun altro", diceva Odevaine in un'intercettazione agli atti dell'inchiesta di Roma. Nel frattempo il Cara è stato commissariato dall'Autorità Anticorruzione. Quell'appalto, datato 30 luglio 2014, era un "abito su misura" cucito addosso al Consorzio Calatino Terra di Accoglienza, lo stesso che tra il 2012 e il 2014 aveva gestito il Cara grazie a ben sette proroghe. Per tre anni le cooperative interessate sono risultate sempre le stesse, tra cui la Cascina global service (finita giorni fa in amministrazione controllata dopo l'ultima tornata di arresti di Mafia Capitale), Sol Calatino, Sisifo e Senis Hospes. E hanno potuto contare, grazie al regime di prorogarlo, su 34,60 euro a migrante. La nuova gara, conclusa nel 2014 con una spesa di 29,80 euro a migrante, è stata indetta secondo il criterio dell'offerta più vantaggiosa. E viene vinta, guarda caso, dallo stesso Consorzio con un ribasso di appena 11%. Già Buzzi ha accennato al Cara di Mineo. È il 31 marzo scorso quando il ras delle cooperative decide di fare una lunga dichiarazione spontanea. Al pm Giuseppe Cascini dice: "Dottore, devo dire delle cose su Mineo". E poi azzarda: "Su Mineo casca il governo... io potrei, cioè se possiamo spegnere il registratore glielo dico, se può spegnere un secondo". Tranchant la risposta del pm: "È vietato dalla legge e noi le cose vietate dalla legge non le facciamo". Buzzi in questi mesi ha continuato a parlare a ruota libera. Ma le sue dichiarazioni sono tutte da riscontrare. La sua linea difensiva - ha fatto notare il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone nel corso della sua ultima audizione in Commissione Antimafia - consiste nel dire che "in fondo la mafia non esiste e se esiste, io non c'entro: c'era un sistema corruttivo diffuso in cui ho dovuto operare". Giustizia: auto-riciclaggio e cooperazione rafforzata impongono di aggiornare le analisi di Roberta Di Vieto e Daniele Ghedi Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2015 Il reato di auto-riciclaggio e la cosiddetta cooperazione rafforzata rendono sempre più rilevante la "variabile fiscale" all'interno dei modelli per la prevenzione della responsabilità amministrativa degli enti (Dlgs 231/2001). La legge 186/2014 ha introdotto fra i reati presupposto l'auto-riciclaggio (articolo 648-ter del Codice penale), che attribuisce rilevanza penale alla condotta di chi, in seguito a un delitto non colposo, impieghi, sostituisca, trasferisca, in attività finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione del precedente delitto, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa. ùIl dibattito generato dalla nuova norma ha riguardato la necessità e l'ampiezza dell'attività di aggiornamento dei modelli, nonché del risk assessment funzionale all'aggiornamento. Secondo un primo orientamento, la "provvista" reimpiegata nel reato di auto-riciclaggio deve derivare da un reato presupposto già incluso nel Dlgs 231/2001. In tal senso, si è espressa anche Confindustria (circolare n. 19867 del 12 giugno 2015) secondo cui "l'auto-riciclaggio dovrebbe rilevare ai fini dell'eventuale responsabilità dell'ente soltanto se il reato base rientra tra quelli presupposto previsti in via tassativa dal decreto 231". Di diverso avviso, invece, chi ritiene che attraverso l'auto-riciclaggio risultano indirettamente inclusi nel Dlgs 231, tra gli altri, i delitti tributari. Sullo sfondo delle due posizioni, il Ddl C-2400 all'esame della commissione Giustizia della Camera, con cui il legislatore sembra intenzionato a introdurre nel decreto alcune fattispecie di reati tributari. L'adesione all'una o all'altra tesi ha importanti risvolti pratici. Nel primo caso, l'attività di risk assessment dovrebbe essere svolta avendo riguardo ai soli delitti non colposi già inclusi nel "catalogo 231" e, quindi, potenzialmente già coperti dal modello, se ben strutturato. L'aggiornamento risulterebbe così limitato, dovendosi per lo più ritenere già operanti i presidi già valutati a prevenzione dei reati di ricettazione e riciclaggio. Il secondo orientamento richiederebbe un'attività di risk assessment che tenga in considerazione anche ulteriori fattispecie di reato oggi non incluse nel Dlgs 231, ma che possono costituire il delitto fonte dell'auto-riciclaggio, come i delitti tributari. Di conseguenza, sarebbe necessaria un'analisi dei rischi anche fiscali e l'identificazione dei presidi di controllo vigenti. Quale che sia la tesi prescelta, per un adeguato aggiornamento del modello risulta di fondamentale importanza il coinvolgimento dei process owners operanti nell'area amministrativa, finanziaria e contabile dell'ente, quali il Cfo (Chief Financial Officer) o il responsabile amministrativo, così come l'acquisizione di una conoscenza approfondita dell'ente attraverso l'esame della documentazione anche fiscale delle società (bilancio, dichiarazioni fiscali, fatture attive e passive eccetera) e dei processi potenzialmente sensibili (gestione della fatturazione, registrazioni contabili, versamenti delle imposte eccetera). Al termine di tale attività, dovranno essere valutate le eventuali criticità riscontrate e andrà predisposto un remediation plan atto a risolvere i gap emersi. In quest'ottica, di grande aiuto per l'aggiornamento del modello sarebbe l'implementazione degli specifici sistemi di gestione del rischio fiscale (Tax control frameworks), che definiscono i principi e le linee guida operative, le procedure e i protocolli per l'accertamento e il monitoraggio dei rischi fiscali, i soggetti preposti al controllo, i flussi informativi, il piano di formazione aziendale, nonché l'identificazione e formalizzazione di rischi fiscali. L'implementazione di un sistema di gestione del rischio fiscale sarà anche presupposto per l'adesione al regime di cooperazione rafforzata basato su un rapporto di collaborazione e trasparenza fra contribuente e autorità fiscali, a cui saranno associati istituti premiali quali, tra gli altri, la riduzione a metà delle sanzioni amministrative applicabili. L'introduzione del regime è prevista nel decreto legislativo sulla certezza del diritto varato venerdì scorso in via definitiva dal Governo: il regime, inizialmente previsto per i contribuenti di maggiore dimensione, sarà destinato a estendersi a una platea più ampia. Arresti domiciliari allargati, ne gode il concorrente esterno in associazione mafiosa di Ernesto D'Andrea Italia Oggi, 3 agosto 2015 Secondo la Corte costituzionale è illegittimo l'articolo 275, comma 3 del cpp. È possibile applicare gli arresti domiciliari al concorrente esterno del delitto di associazione mafiosa. La Corte costituzionale con sentenza n. 48 del 25.02.2015, depositata il 26 marzo scorso, ha sancito l'illegittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, cpp, secondo periodo, rispetto agli artt. 3, 13, comma 1, e 27 della Costituzione. In particolare, i giudici costituzionali hanno ritenuto illegittimo l'art. 275, com. 3 del codice di procedura penale, nella parte in cui, nel prevedere quale unica misura cautelare quella del carcere, non consente al giudice di applicare la misura degli arresti domiciliari - laddove le esigenze cautelari si possano soddisfare con tale strumento - nel caso in cui sussistano gravi indizi di colpevolezza rispetto al concorrente esterno nel delitto di associazione di tipo mafioso, previsto dall'art. 416, bis, del codice penale. La questione di legittimità costituzionale è stata posta dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Lecce al quale era stata presentata, dal difensore di un indagato per concorso esterno nel delitto di cui all'art. 416, bis, cp, un'istanza di sostituzione della misura cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari. Nel caso di specie, il giudice remittente pur riconoscendo l'esistenza di gravi indizi di colpevolezza in capo all'indagato, ammetteva che le esigenze cautelari (pur esistenti) potevano soddisfarsi con la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari, trattandosi di un concorrente esterno al delitto di associazione mafiosa e dell'assenza del pericolo di reiterazione dello stesso reato. Tuttavia, la misura degli arresti domiciliari non poteva essere accolta in quanto la norma censurata, ossia l'art. 275, com. 3, cpp, consentiva solo l'applicazione della misura carceraria qualora sussistenti i gravi indizi di colpevolezza per il reato di associazione di stampo mafioso, salvo che non esistessero esigenze cautelari. La Corte costituzionale nel considerare fondata la questione di legittimità posta dal Giudice per le indagini preliminari, fa leva sulla distinzione tra "associato o concorrente esterno" a un'associazione di stampo mafioso. I giudici costituzionali dopo avere riaffermato la sostanziale differenza tra le due fi gure criminali, ribadiscono il principio secondo cui il "concorrente esterno, sotto il profilo oggettivo, non è inserito nella struttura criminale, pur offrendo un apporto causalmente rilevante alla sua conservazione o al suo rafforzamento e, sotto il profilo soggettivo, è privo dell'affectio societatis, laddove diversamente l'intraneus (associato) è animato dalla coscienza e volontà di contribuire alla realizzazione dell'accordo e del programma criminoso in modo stabile e permanente" (Cass. Pen. sezione VI, sentenza n. 49757 del 20123; Cass. Pen. sezione II, sentenza n. 18797, del 2012). Le stesse Sezioni Unite della Corte di cassazione (sentenza 30.10.2002/21.05.2003, n. 22327), hanno precisato che il contributo del concorrente esterno a un'associazione mafiosa, potrebbe essere anche solo episodico o unico e, quindi, a maggior ragione non è giustificabile, né legittimo, ritenere che sia lo strumento carcerario l'unica misura cautelare praticabile per contenere la pericolosità sociale dell'indagato. È chiaro, pertanto, che nel soggetto esterno ad un'associazione mafiosa, che non è parte di questa e, di conseguenza, non potendo in esso ravvedersi quel vincolo stabile e permanente di adesione al gruppo criminale (unica condizione che potrebbe legittimare sotto l'aspetto "empirico-sociologico" l'applicazione in forma esclusiva della misura cautelare del carcere), non è giustificabile la preclusione degli arresti domiciliari. A giustificazione di ciò, è altresì rilevante il fatto che la giurisprudenza di legittimità sia intervenuta più volte per sottolineare la differenza tra intraneus (associato) e extraneus (concorrente esterno) all'associazione mafi osa, sottolineando che per superare la presunzione dell'esistenza delle esigenza cautelari, mentre per l'intraneus è indispensabile dimostrare che egli abbia reciso ogni legame con il gruppo criminale, per l'extraneus si richiede un parametro meno rigido, che si concreta in una prognosi finalizzata a provare che non vi sia il pericolo di reiterazione del reato. È evidente, quindi, che non può operare, a priori, la presunzione assoluta di pericolosità per l'indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Per questi motivi la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 275, com. 3, cpp, secondo periodo, nella parte in cui preclude che le esigenze cautelari possano soddisfarsi con gli arresti domiciliari, laddove si valuti la posizione del concorrente esterno al delitto previsto dall'art. 416, bis, cp, pur in presenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato. Prime applicazioni della tenuità del fatto, rientrano anche i reati tentati di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2015 L'istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis del Codice penale), introdotto dal Dlgs 28/2015, inizia a trovare applicazione nelle aule dei tribunali. Si tratta, per ora, di pochi casi, che rappresentano tuttavia un primo interessante indicatore di quello che potrà costituire, a regime, il campo di operatività del nuovo strumento, concepito per deflazionare il carico della giustizia da una massa di imputazioni "bagatellari" per le quali non appare giustificata - alla luce dei principi di proporzionalità e sussidiarietà della pena - l'inflizione della sanzione penale. Prime applicazioni - Le prime applicazioni riguardano, tra l'altro, i casi seguenti: • maltrattamento di animali (l'imputato aveva colpito con alcuni calci un cane che aveva sporcato di urina l'espositore dei giornali della sua edicola); • tentato furto in un supermercato (una persona, dopo aver occultato sotto i vestiti alcuni articoli di modesto valore prelevati dagli scaffali, tentava di allontanarsi senza pagare ma era scoperta dal personale); • violazioni della legge fallimentare (il socio accomandatario di una Sas dichiarata fallita aveva omesso di tenere nei tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento i libri e le altre scritture contabili previste dalla legge). Ulteriori ipotesi che potrebbero rientrare nel campo di applicazione della speciale tenuità potrebbero riguardare reati edilizi, alcune violazioni in materia di Codice della strada e, probabilmente, fiscale. Gli aspetti più rilevanti - Un aspetto interessante della prima giurisprudenza - al di là del "colore" degli episodi ritenuti non meritevoli di essere sanzionati penalmente - è la tendenza a comprendere nell'ambito di applicazione della neo-introdotta causa di esclusione della punibilità anche il delitto tentato, pure non contemplato espressamente dall'articolo 131-bis, che si riferisce testualmente ai soli reati consumati, puniti con la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni ovvero con la pena pecuniaria, sola o congiunta alla medesima pena detentiva. Questo, sempre che - beninteso - sussistano nel caso concreto i limiti di pena stabiliti dal 131-bis, calcolati, tuttavia, non più con riguardo alla cornice edittale della fattispecie di reato consumato, bensì guardando a quella prevista per il tentativo (pena edittale ridotta in base all'articolo 56 del Codice penale). Gli indici-criteri - Le prime applicazioni del nuovo istituto hanno dato, altresì, occasione di mettere a fuoco i presupposti applicativi (i cosiddetti indici-criteri) che fondano l'operatività dell'articolo 131-bis, costituiti dall'accertamento da parte del giudice che, per le modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo: • la lesione del bene giuridico, sia particolarmente tenue; • il comportamento dell'imputato non sia abituale. Le caratteristiche della condotta devono essere valutate con riferimento a tutti i parametri di cui all'articolo 133, comma 1 del Codice penale ; dunque, anche con riferimento all'elemento soggettivo che accompagna il comportamento materiale, valutabile alla luce delle modalità che hanno contraddistinto la commissione del fatto. Tale configurazione, in cui entra la ponderazione di fattori soggettivi, porterebbe a escludere l'estensione della causa di non punibilità agli eventuali correi dell'imputato (articolo 119, comma 1, del Codice penale ). È evidente, in ogni caso, l'ampio margine di discrezionalità del giudice nell'apprezzamento dei presupposti di ricorrenza dell'istituto in esame. Le esclusioni - Sotto il profilo dell'individuazione dei casi di esclusione dell'operatività dell'istituto (comma 3 dell'articolo 131-bis), mentre deve ritenersi pacifico che la recidiva reiterata o specifica escluda l'applicazione del 131-bis, i dubbi applicativi hanno riguardato l'ipotesi di commissione di più reati della stessa indole e il caso di reati che consistano in condotte plurime, abituali e reiterate: distinguendo i reati che implicano necessariamente una pluralità di condotte (ad esempio reati permanenti), dai casi di continuazione e del concorso formale. Su tale premessa si è affermata, nell'ipotesi di più reati della stessa indole uniti dal vincolo della continuazione, l'applicabilità dell'articolo 131-bis del Codice penale, in base al principio del favor rei e superando così il dato letterale ("più reati della stessa indole") che sembra escludere tale ipotesi così effettuando una valutazione sulla particolare tenuità dei singoli fatti-reato. La reiterazione va valutata nei singoli casi Le Sezioni unite della Cassazione non si pronunceranno sulle problematiche interpretative emerse in sede di prime applicazioni dell'istituto della "particolare tenuità del fatto". Il primo presidente ha, infatti, restituito gli atti alla sezione rimettente (la terza). Tra le questioni dedotte con tre ordinanze del 7 maggio 2015 (la 21014, la 21015 e la 21016), la più gravida di ricadute concerne il dubbio se il concorso formale di reati escluda l'applicabilità dell'istituto (ultima parte del comma 3 dell'articolo 131-bis, comma 3, del Codice penale) in rapporto alla qualificazione del "comportamento abituale" dell'imputato, che osta alla possibilità di riconoscere quale fatto tenue i reati che abbiano ad oggetto "condotte plurime, abituali e reiterate". La questione si pone poiché la norma considera ipotesi di "comportamento abituale" (e quindi ostativo) i casi di: 1 soggetto dichiarato delinquente abituale, professionale per tendenza; 1 persona che ha commesso più reati della stessa indole; 1 reati con condotte plurime; 1 reati con condotte abituali; 1 reati con condotte reiterate (ad esempio stalking). Il dubbio riguarda l'applicabilità della particolare tenuità del fatto all'ipotesi di concorso formale di reati e se tale possibilità permanga qualora alcuni reati siano, nel frattempo, estinti per prescrizione o per altre cause. Sul punto pare configurarsi un contrasto tra l'orientamento espresso dalla terza sezione della Cassazione - che riconduce le ipotesi di reato continuato alla previsione del comma 3 del 131-bis, in quanto integranti condotte plurime e reiterate - e le prime pronunce di merito, nelle quali il concorso formale è accostato a quello della continuazione, ed è ammessa la possibilità, per il giudice, di valutare se ciascuna condotta in sé considerata possa essere ritenuta un fatto di particolare tenuità. Importanti questioni interpretative interessano anche il piano processuale. La prima riguarda il quesito se, in sede di legittimità, possa essere dedotta per la prima volta - con memoria difensiva o in fase di discussione orale - la questione dell'applicabilità dell'articolo 131-bis, introdotto con normativa successiva alla presentazione del ricorso; e, in caso di soluzione positiva, se la Cassazione possa valutare tale deduzione o debba ogni caso, disporre l'annullamento con rinvio al giudice del merito (in questo caso, peraltro, si profilerebbe il rischio dell'annullamento automatico della decisione impugnata in tutti i casi in cui venga dedotta dal ricorrente l'astratta possibilità di applicazione dell'istituto). Non è chiaro inoltre se tale vaglio sia consentito ai giudici di vertice a fronte di ricorso inammissibile perché manifestamente infondato, e se possa la Corte valutare, anche d'ufficio, l'applicabilità dell'istituto, introdotto con normativa successiva alla presentazione del ricorso, sulla base degli elementi desumibili dalla sentenza: la Cassazione sembra orientata per il no in quanto una pronuncia di non doversi procedere è consentita solo nell'ipotesi di legge successiva che comporti un'abolitio criminis. Stupefacenti: ammessa la confisca del denaro solo se costituisce profitto del reato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 19 giugno 2015 n. 25955. Nell'ipotesi di cui all'articolo 73, comma 5, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, è possibile procedere alla confisca del denaro trovato in possesso dell'imputato solo in presenza dei presupposti di cui all'articolo 240, comma 1, del Cp, laddove si prevede la confisca delle cose che costituiscono profitto del reato, e non ai sensi dell'articolo 12-sexies del decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992 n. 356. Il caso specifico - Nella specie, relativa a sentenza di patteggiamento, la Corte ha conseguentemente annullato la disposta confisca del denaro, sul rilievo che era stata contestata e ritenuta l'ipotesi della detenzione a fini di spaccio, e non quella della vendita di sostanze stupefacenti, onde semmai il denaro trovato nella disponibilità dell'imputato poteva costituire il profitto di altre, pregresse condotte illecite di cessione di droga, con l'introito del relativo corrispettivo, ma non poteva essere ritenuta il profitto del reato in contestazione. Detenzione e spaccio - Nel caso di condanna per il reato di cui all'articolo 73, comma 5, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, può costituire oggetto di confisca ex articolo 240 del Cp solo la somma di denaro che il giudice accerti essere stata ricavata dalla cessione della sostanza stupefacente: trattasi di confisca facoltativa perché il denaro medesimo rappresenta il profitto e non già il prezzo del reato. La confisca è consentita anche in caso di patteggiamento, giacché, come è noto, l'attuale disciplina di tale istituto (articolo 445, comma 1, del Cpp, nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla legge 12 giugno 2003 n. 134) prevede l'applicabilità della misura di sicurezza della confisca in tutte le ipotesi previste dall'articolo 240 del Cp, ivi compresa la confisca facoltativa. Per potere però disporre la confisca del denaro, occorre dimostrare che questo provenga dall'attività di spaccio. Il problema probatorio da affrontare per poter disporre la misura ablativa concerne, quindi, la dimostrazione: 1) del collegamento diretto della cosa con il reato e 2) del giudizio di pericolosità insito nel mantenimento di questa nella disponibilità del reo. Provenienza diretta della cosa dal reato - Il collegamento diretto assume, in tutta evidenza, il significato di provenienza diretta della cosa (il denaro) dal reato. Occorre cioè dimostrare con certezza che il denaro costituisce effettivamente il profitto del reato: ergo, che trattasi, proprio del denaro ("quel denaro") che è stato, per esempio, consegnato dal tossicodipendente allo spacciatore per l'acquisto della droga ovvero del denaro ("quel denaro") che è stato consegnato al corriere in pagamento della partita di droga importata ecc. Dimostrazione che non è sempre facile, vertendosi in ipotesi di un bene tipicamente fungibile. Una volta soddisfatto tale onere motivazionale è molto più semplice la dimostrazione del presupposto della pericolosità sociale insito nel mantenimento del denaro nella disponibilità del reo, cioè del rischio di recidiva che ne conseguirebbe. Tale rischio è sostanzialmente in re ipsa, laddove si consideri la fortemente probabile destinazione illecita di tale denaro, in quanto volto a essere ripulito e/o comunque a essere reinvestito in altre attività, magari illecite. L'annullamento della confisca - Nella vicenda esaminata, la Corte ha annullato la disposizione sulla confisca proprio per la mancata dimostrazione che il denaro sequestrato fosse il provento dell'attività di spaccio: ciò che in effetti non poteva essere, giacché era stata contestata e ritenuta la ipotesi della detenzione illecita, ma non quella della cessione di sostanza stupefacente. Per completezza, va soggiunto, che in tema di confisca del denaro, potrebbe soccorrere anche la disciplina contenuta nell'articolo 12-sexies del decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992 n. 356. In forza di quanto disposto dall'articolo 12-sexies citato, per quello che qui interessa, nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell'articolo 444 del Cpp per taluno dei delitti previsti dall'articolo 73, esclusa la fattispecie di cui al comma 5, e dall'articolo 74 del Dpr 309/1990, è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica. È una disciplina cui quindi potrebbe legittimamente farsi ricorso quando risulti impraticabile soddisfare, proprio per la rilevata fungibilità del denaro, la prova di quel collegamento diretto della somma sequestrata all'imputato e l'attività criminosa, che è conditio sine qua non del provvedimento ablativo di confisca facoltativa ex articolo 240, comma 1, del Cp: peraltro, come evidenziato qui anche dalla Cassazione, non potrebbe farsi ricorso alla disciplina dell'articolo 12-sexies nel caso in cui la condanna o l'applicazione di pena riguardi il reato di cui al comma 5 dell'articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990, espressamente eccettuato dall'ambito di applicazione della disposizione. Esame dei testimoni: gli orientamenti sul divieto di porre domande "suggestive" Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2015 Istruzione dibattimentale - Esame dei testimoni - Divieto di porre domande suggestive - Sanzione processuale - Inesistenza - Rilevanza ai fini della valutazione della genuinità della prova - Condizioni - Individuazione. In tema di esame testimoniale, la violazione del divieto di porre domande suggestive di cui all'articolo 499 del Cpp in mancanza di una sanzione processuale, rileva soltanto sul piano della valutazione della genuinità della prova, che può risultare compromessa esclusivamente se inficia l'intera dichiarazione e non semplicemente la singola risposta fornita alla domanda suggestiva, ben potendo il giudizio di piena attendibilità del teste essere fondato sulle risposte alle altre domande. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 2 febbraio 2015 n. 4672. Istruzione dibattimentale - Esame dei testimoni - Divieto di domande suggestive - Riferibilità al giudice - Esclusione - Limite delle domande nocive - Sussistenza - Eccezione formulata nel corso dell'assunzione dell'atto istruttorio - Necessità. Il divieto di porre domande suggestive nell'esame testimoniale non opera con riguardo al giudice, il quale può rivolgere al testimone tutte le domande ritenute utili a fornire un contributo per l'accertamento della verità, ad esclusione di quelle nocive, in relazione alle quali la relativa eccezione deve essere proposta nel corso dell'acquisizione dell'atto istruttorio e non può essere sollevata per la prima volta con l'atto d'impugnazione. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 23 ottobre 2014 n. 44223. Istruzione dibattimentale - Esame dei testimoni - Divieto di porre domande non pertinenti o suggestive - Nullità od inutilizzabilità - Esclusione - Ragioni. In tema di esame testimoniale, la violazione del divieto di porre domande suggestive non dà luogo né alla sanzione di inutilizzabilità prevista dall'articolo 191 del Cpp, né a quella di nullità, atteso che l'inosservanza delle disposizioni fissate dagli articoli 498, comma primo, e 499 del Cpp non determina né l'assunzione di prove in violazione dei divieti di legge, né la inosservanza di alcuna delle previsioni dettate dall'articolo 178 del Cpp. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 21 marzo 2014 n. 13387. Istruzione dibattimentale - Esame dei testimoni - Divieto di domande suggestive - Riferibilità a tutti i partecipanti all'esame - Sussistenza. Il divieto di porre al testimone domande suggestive si applica a tutti i soggetti che intervengono nell'esame, operando, ai sensi del comma secondo dell'articolo 499 del Cpp, per tutti costoro, il divieto di porre domande che possono nuocere alla sincerità della risposta e dovendo, anche dal giudice, essere assicurata, in ogni caso, la genuinità delle risposte ai sensi del comma sesto del medesimo articolo. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 24 febbraio 2012 n. 7373. Istruzione dibattimentale - Esame dei testimoni - Domande vietate - Testimone minorenne - Esame del giudice - Domande suggestive - Divieto - Sussistenza. Il giudice che procede all'esame diretto del testimone minorenne non può formulare domande suggestive. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 28 giugno 2011 n. 25712. Istruzione dibattimentale - Esame dei testimoni -Violazione delle regole fissate per l'esame -- Inutilizzabilità - Esclusione - Ragioni - Nullità - Insussistenza - Motivi. In tema di assunzione ed utilizzazione delle prove, non dà luogo alla sanzione di inutilizzabilità, ai sensi dell'articolo 191 del Cpp, la violazione delle regole per l'esame fissate dagli articoli 498, comma primo, e 499 del Cpp, poiché non si tratta di prove assunte in violazione di divieti posti dalla legge, bensì di prove assunte con modalità diverse da quelle prescritte. Deve essere, del pari, esclusa la ricorrenza di nullità, atteso il principio di tassatività vigente in materia e posto che l'inosservanza delle norme indicate non é riconducibile ad alcuna delle previsioni delineate dall'articolo 178 del Cpp. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 3 novembre 2005 n. 39996. Con il tramonto del danno tanatologico la Cassazione ritorna alle origini di Remo Bresciani Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2015 Addio al riconoscimento del danno tanatologico. Le sezioni Unite civili della Suprema corte, infatti, con la sentenza n. 15350 del 2015 hanno escluso in maniera categorica che nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni possa essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis. Un ritorno alle origini - I giudici di legittimità preso atto dell'esistenza di un contrasto in seno alla terza sezione avevano disposto, con l'ordinanza 5056/2014, la rimessione dell'importante questione circa l'ammissibilità o meno del riconoscimento del danno tanatologico in favore degli eredi della vittima di un atto illecito, deceduta nell'immediatezza dell'evento dannoso, ovvero subito dopo aver subito le lesioni a tale evento riconducibili, al primo presidente per l'assegnazione alle sezioni Unite. Il collegio esteso di piazza Cavour è quindi intervenuto riaffermando l'orientamento che fino a gennaio del 2014 era assolutamente consolidato e che sicuramente risulterà gradito alle compagnie di assicurazione spaventate dalla pericolosa deriva presa dalla Cassazione con la sentenza n. 1361 del 2014. Lo "strappo" della sentenza n. 1361 del 2014 - La pronuncia "incriminata", infatti, mutando radicalmente indirizzo ha ritenuto possibile indennizzare gli eredi di una persona anche in caso di morte immediata della stessa. Secondo quel collegio il credito risarcitorio del danno da perdita della vita si acquisirebbe istantaneamente al momento dell'evento lesivo che, salvo rare eccezioni, precede sempre cronologicamente la morte cerebrale, ponendosi come eccezione al principio della risarcibilità dei soli "danni conseguenza". La negazione di un credito risarcitorio della vittima, trasmissibile agli eredi, per la perdita della vita, seguita immediatamente o a brevissima distanza di tempo dalle lesioni subite, sarebbe inoltre contrastante con la coscienza sociale alla quale rimorderebbe che la lesione del diritto primario alla vita fosse priva di conseguenze sul piano civilistico. La soluzione delle sezioni Unite - Le sezioni Unite, nel confutare le conclusioni del collegio "ribelle", hanno affermato che la coscienza sociale, se può avere rilievo "sul piano assiologico e delle modifiche normative, più o meno auspicabili, secondo le diverse opzioni culturali, non è criterio che possa legittimamente guidare l'attività dell'interprete del diritto positivo". La morte provoca una perdita, di natura patrimoniale e non patrimoniale ai congiunti, ma non "si comprende la ragione per la quale la coscienza sociale sarebbe soddisfatta solo se tale risarcimento, oltre che ai congiunti per le perdite proprie, fosse corrisposto anche agli eredi". Quanto, infine, alla possibilità di fare un'eccezione al principio di risarcibilità dei soli danni conseguenza i giudici replicano che "se è alla lesione che si rapportano i danni, questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in quanto e fin quando il medesimo sia in vita". Lettere: perché ha senso che D'Alema dica che il governo cadrà per mano giudiziaria di Claudio Cerasa Il Foglio, 3 agosto 2015 Fino a qualche tempo fa era solo un pettegolezzo, una frase lasciata cadere lì alla fine delle cene, tra gli amici di una vita e i compagni di partito, e Massimo D'Alema, ex presidente del Consiglio, ex ministro degli Esteri e soprattutto ex capo del Copasir, lo diceva e non lo diceva, alludeva senza essere preciso, giocava con le parole per spiegare quello che sarebbe stato, secondo lui, il destino inevitabile del governo Renzi, il suo esito naturale, il suo drammatico percorso finale. Fino a qualche tempo fa era dunque così, solo una chiacchiera da bar, ma da qualche settimana a questa parte la chiacchiera da bar si è ingigantita, ha preso forma come un mostro, e ai ragionamenti a mente fredda si sono aggiunti altri passaggi. E il risultato è che dall'inizio di luglio la voce, un filo minacciosa, è arrivata anche nelle stanze di governo, nei ministeri che contano, ed è arrivata anche laddove, in teoria, passano i fili che contano nel rapporto tra i due soggetti messi a fuoco dal magnifico D'Alema: la magistratura e il governo Renzi. La storia è questa e vale la pena metterla in evidenza anche perché era un'impressione che tempo fa aveva avuto anche questo giornale. Alcuni ministri raccontano che Massimo D'Alema, da qualche tempo, sostiene che il governo non cadrà per uno sgambetto del Parlamento, per un giochino delle minoranze, per un complotto delle opposizioni ma cadrà per mano giudiziaria, e il ragionamento fatto in privato dall'ex presidente del Consiglio - che è arrivato anche al ministero di Grazia e Giustizia, terra di Andrea Orlando - ricorda da vicino l'allarme che lo stesso D'Alema fece nel 2009. Quando, dalle stesse terre pugliesi che oggi il governo Renzi ha sfidato mandando ceffoni a una procura piuttosto vivace come quella di Trani, il leader maximo disse, a proposito del governo Berlusconi, che presto "nel governo ci saranno scosse, ed è arrivato dunque il momento, per l'opposizione, di farsi trovare pronta e responsabile". Nessuno sa naturalmente quale sia la scossa che potrebbe arrivare oggi - e anche chi ha avuto modo di parlare con l'ex ministro degli Esteri non sa se ci sia un terreno specifico sul quale il rapporto tra governo e magistratura potrebbe finire in cortocircuito. Quello che si sa però, con certezza, è che nel governo Renzi in molti danno per scontato che in futuro ci possa essere una "reazione" da parte di alcuni mondi della magistratura che si sentono in contrapposizione culturale con l'ideologia del governo renziano e che da un momento all'altro potrebbero replicare su scala più grande il modello già adottato qualche settimana fa con le chiacchierate tra Renzi e Adinolfi (telefonate cioè che non solo sono state inserite nei fascicoli giudiziari senza che vi fosse alcun rilievo penale ma che nel passaggio da una procura a un'altra sono state sbianchettate, e lo sbianchettamento ha fatto sparire, come si sa, gli omissis che erano stati piazzati proprio sopra i nomi Renzi e Adinolfi). Dire che la sensazione, o forse qualcosa di più, di D'Alema sia fondata è naturalmente impossibile ma ciò che invece è considerato possibile e probabile dal mondo renziano è che le sfide lanciate in questi mesi da Renzi nei confronti di alcuni pezzi pregiati della magistratura non siano a costo zero (anche se poi spesso le sfide riguardano più i simboli che le riforme). A Palazzo Chigi, in questo senso, è forte il sospetto che tra le procure girino faldoni su faldoni con intercettazioni che, anche se prive di rilievo penale, potrebbero essere utilizzate da chicchessia in modo strumentale per indebolire il governo. La "scossa", dunque, è possibile che non ci sia, che sia solo un presentimento e nulla di più, ma il governo Renzi sa bene che negli ultimi vent'anni, sia a livello nazionale sia a livello locale, sono stati molti, e continuano a essere molti, i governi costretti a fare i conti con una magistratura invadente, che confonde il codice penale con il codice morale. E dunque è necessario mettere nel conto che qualcosa potrebbe succedere, e che alla lunga, come capita regolarmente a chi anche solo a parole sfida il circo mediatico giudiziario, una "reazione", magari da qualche piccola procura desiderosa di affermarsi a livello nazionale, ci potrebbe essere. E anche per questo chissà che Renzi una volta per tutte, in linea con il ragionamento fatto venerdì scorso contro la politica che ha il dovere di non essere passacarte delle procure, non decida di prendere, per regolare le intercettazioni, quel disegno di legge (il numero 1914) depositato in Senato il 22 maggio, presentato dai due vicecapogruppo al senato del Pd (Alessandro Maran e Giorgio Tonini), e che permetterebbe al governo Renzi di tirar fuori la stessa legge sulle intercettazione che nel 2007 provò a fare il governo Prodi, prima di cadere a causa di un'inchiesta vagamente invasiva arrivata da una piccola procura campana. Biella: rapporto dell'osservatorio di Antigone, il carcere di viale dei Tigli è "isola felice" di Valter Caneparo ecodibiella.it, 3 agosto 2015 Sono ancora molto affollate. Con poche donne ma tanti stranieri. E con costi di gestione e del personale fra i più alti d'Europa. È questa la fotografia delle carceri italiane scattata da Antigone, l'osservatorio che dalla fine degli anni 80 si occupa della condizione dei nostri penitenziari, nel suo undicesimo rapporto annuale. Nel quale si sottolinea come la situazione continui ad essere ben oltre il livello di guardia malgrado la condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo di due anni fa. Nonostante la parziale diminuzione della popolazione carceraria dal 2013 ad oggi (meno 8.554 unità), al 28 febbraio 2015 i detenuti presenti nelle 207 strutture sono infatti 53.982, ben 4.039 in più rispetto al numero di posti letto regolamentari stabilito dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap). Il tasso di sovraffollamento, dunque, si attesta al 108%. Ci sono cioè 108 detenuti ogni 100 posti disponibili. Il carcere di viale dei Tigli, in questo senso, potrebbe essere considerato come una sorta di isola felice. La situazione, al momento, appare vivibile. Due settimane fa, lo stesso sottosegretario Ferri, in visita prima al Palazzo di giustizia e poi alla casa circondariale di Biella, aveva fatto i complimenti per la gestione della struttura e dei vari servizi. A fronte dei 394 posti regolamentari, vi sono presenti circa 330 detenuti, con il massimo numero tollerabile che sfiora le 570 unità. L'organico della Polizia penitenziaria resta inferiore rispetto al previsto pur se di poche unità. Il personale è composto attualmente da circa 210 unità compresi i cinque nuovi agenti arrivati nei giorni scorsi con una quindicina di operatori impegnati fuori sede. La pianta organica dovrebbe essere di circa 220 unità totali. La vera carenza si presenta nei ruoli dei sovrintendenti e degli ispettori. Se a Biella la situazione appare più rosea rispetto ad altre realtà, "per stessa ammissione dell'amministrazione - scrive ancora Antigone nel suo rapporto - il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie" come i reparti chiusi per lavori di manutenzione, che comportano "scostamenti temporanei" quantificati intorno alle 4.200 unità. Se lo facesse, spiega l'osservatorio, "il tasso di sovraffollamento salirebbe al 118 per cento". Siracusa: detenuto tunisino tenta suicidio, salvato dal poliziotto penitenziario in servizio Gazzetta del Mezzogiorno, 3 agosto 2015 Nuovo tentativo di suicidio, il secondo nel giro di cinque giorni, nel carcere di Siracusa da parte di un detenuto tunisino. A soccorrerlo prontamente, salvandogli la vita, un agente di Polizia Penitenziaria in servizio nel reparto detenuti comuni. Con un cappio ricavato artigianalmente l'uomo, pare affetto da problemi psichici, ha cercato di togliersi la vita all'interno del reparto dove si trova in carcere. Il poliziotto penitenziario allertato dai rumori provenienti dalla cella con prontezza è intervenuto evitando il peggio. Il detenuto non sarebbe in pericolo di vita ma sarebbe sotto osservazione in un reparto speciale dell'istituto penitenziario. "Vi sono ristretti circa 100 detenuti in quel reparto - ha detto il coordinatore provinciale della Uil penitenziari, Corrado Della Luna - sorvegliati da un solo poliziotto penitenziario. Anche oggi grazie all'intervento tempestivo dei poliziotti penitenziari si è evitato il peggio. Ricordiamo che la casa circondariale di Siracusa lavora sotto organico da parecchio tempo chiederemo come organizzazione sindacale un intervento urgente da parte del Prap e del Dap anche in vista dell'apertura del nuovo reparto che conterrà altri 300 detenuti circa". Napoli: ex detenuti rimasti senza lavoro occupano il Comune di Torre del Greco metropolisweb.it, 3 agosto 2015 C'è chi è finito dietro le sbarre e - all'uscita dal carcere - non è stato riammesso in servizio. C'è chi è stato misteriosamente cancellato dal passaggio di cantiere avvenuto tra la Ego Eco - la ditta di igiene urbana "cacciata" da Torre del Greco a causa del mancato rispetto delle regole previste dal capitolato d'appalto per la raccolta dei rifiuti all'ombra del Vesuvio - e i Fratelli Balsamo. C'è chi era impiegato nelle ex cave di villa Inglese, prima di ricevere un inatteso e incomprensibile benservito. Storie di "ordinario" disagio occupazionale, accomunate dalla disperazione e dalla rabbia: molle capaci di convincere tre disoccupati - tutti volti già noti agli abituali frequentatori del Comune - a trasformare l'androne di palazzo Baronale nella loro "nuova casa". Un'occupazione pacifica, finalizzata a un unico obiettivo: recuperare il lavoro smarrito. "Di qui, non andremo via finché l'amministrazione comunale non troverà una soluzione al nostro caso", affermano con gli occhi provati da tre giorni trascorsi a "vivere" e dormire sul pavimento in cotto del municipio. Da un angolo spunta un paio di catene, inizialmente utilizzate per legarsi ai cancelli di palazzo Baronale: "Siamo disposti a tutto - sottolinea Michele, il più anziano del gruppo - anche a lasciarci morire qui, sotto il sole a 40 gradi". L'ex netturbino era stato baciato dalla fortuna a giugno del 2010, quando il suo nome fu estratto a sorte tra i 469 partecipanti alla rissa per un posto di lavoro a tempo determinato presso i Fratelli Balsamo. Una fortuna "bruciata" da un paio di manette ai polsi e un soggiorno imprevisto a Poggioreale. All'uscita, una nuova sorpresa: "L'azienda mi ha comunicato che il mio contratto era scaduto - racconta il quarantacinquenne - ma non era possibile, perché tecnicamente risultavo "sospeso" come sempre accade a chi incorre in disavventure giudiziarie". Non è un mistero, infatti, come "in forza" all'organico degli addetti alle pulizie a oggi figurino nomi e cognomi "eccellenti" della camorra: gente condannata a svariati ergastoli, eppure formalmente inserita (naturalmente senza diritto allo stipendio) tra i lavoratori Nu. "Mi sono rivolto a un avvocato per chiarire la situazione - conclude Michele - ma adesso non posso andare più avanti senza un impiego: sono qui senza mangiare e senza assumere i medicinali necessari a curare la grave patologia di cui soffro. L'ho già detto sia al sindaco Ciro Borriello sia al vicesindaco Donato Capone, responsabile delle politiche sociali: mi dovesse succedere qualcosa, saranno loro i responsabili morali della mia morte". Una morte che Giovanni ha sfiorato solo un mese e mezzo fa, quando si arrampicò sul tetto di palazzo La Salle - sede distaccata dell'ente di largo Plebiscito - per protestare contro il mancato rinnovo del suo contratto da netturbino. "Sono sposato e padre di una bambina - racconta il quarantenne -Non posso mantenere la mia famiglia, sono disperato". La sua è una storia nota a tutti in municipio: prima operatore ecologico "a chiamata" con la Ego Eco, poi operaio saltuario presso le ditte edili impegnate nei lavori di ristrutturazione in città. Oggi a spasso, senza un futuro: "Non vogliamo avere nuovi guai con la giustizia, solo essere messi nelle condizioni di portare avanti dignitosamente le nostre famiglie - dicono rannicchiati nell'angolo dell'androne di palazzo Baronale trasformato nella loro casa. Non andremo via di qui, finché non ci verrà restituito il nostro lavoro". Pianosa (Li): il "paradiso terrestre" salvato dai detenuti in regime di semilibertà di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 3 agosto 2015 In media il 68% di chi esce da un penitenziario "normale" commette un nuovo reato. Per quelli che sono passati da qui invece si scende al 2,5. Lo sguardo dello spazzino è pieno di serena malinconia. "Una volta c'era un sacco di gente", dice. Una volta era tanti anni fa, quando è arrivato nella colonia penale di Pianosa, nell'arcipelago toscano. Lo spazzino è un uomo di quasi settant'anni e ne ha passati 42 qui. Una vita per riparare a un errore. Ma ora, a differenza di prima, lo sta facendo da detenuto libero. Il Comune di Campo dell'Elba, di cui l'isoletta fa parte, l'ha assunto part time per tenere pulite le strade di uno dei paesi più piccoli e suggestivi del Mediterraneo. Un gioiello splendente dell'architettura eclettica dell'Ottocento, oggi quasi completamente disabitato, dove si è consumata una delle vicende umane più incredibili della nostra storia. Di uomini che come quello spazzino stanno scontando una pena da detenuti liberi a Pianosa ce ne sono trenta. Alcuni di loro erano già passati da lì quando c'era il carcere: anzi, i carceri, perché di penitenziari ne esistevano un tempo ben cinque. Altri, quasi tutti, sono arrivati da Porto Azzurro. Li seleziona una commissione che ne esamina il profilo psicologico e umano, valutando le attitudini per questo esperimento che non ha uguali, nei modi in cui viene attuato a Pianosa, nel nostro ordinamento carcerario. C'è chi ha ucciso, chi ha rapinato, chi ha trasportato droga. C'è il cinese che insieme al rumeno si occupa dell'orto dove si producono la verdura e la frutta per Porto azzurro e per il ristorante, l'unico dell'isola in gestione a una cooperativa. C'è il siciliano mago dei motori, capace di rimettere in sesto indifferentemente una Panda e una ruspa. C'è il pugliese spazzino. Ci sono il sardo e il sudamericano ormai specialisti della ricostruzione dei muri a secco che a Pianosa sono un'autentica opera d'arte. E poi chi serve ai tavoli del ristorante. Chi ti fa il caffè all'unico bar. Chi pulisce la spiaggia. Chi rifà le camere all'unico alberghetto. Chi accudisce i cavalli e guida la carrozza che porta i turisti in giro per l'isola. E qui sta il salto. Sono detenuti che scontano una pena in un regime di semilibertà e lavorano regolarmente retribuiti. Come prevede appunto la legge, articolo 21 dell'ordinamento carcerario. Non sono in vacanza. Ma in questo caso interagiscono con la gente assolvendo un compito che va ben oltre la rieducazione: tengono in vita e contribuiscono a preservare questo angolo di paradiso terrestre. Adesso Pianosa fa parte del parco dell'arcipelago toscano, è una riserva integrale. La proprietà è demaniale, la competenza ambientale è dell'ente parco della regione Toscana, quella amministrativa è del Comune. Le barche non si possono avvicinare, la pesca è tassativamente vietata entro un miglio dalla costa. Si può fare il bagno solo alla spiaggia di sabbia bianchissima separata con il piccolo paese dal resto dell'isola completamente piatta come dice il suo nome, che era tutta una colonia penale agricola, da un enorme barriera di cemento armato, ormai quasi più diroccata di tanti muri di sassi e mattoni. Non altra funzione se non quella intimidatoria: nelle torrette di sorveglianza non è mai salita una guardia. Quel muro gigantesco era stato tirato su più di trentacinque anni fa, dicono per volontà del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, quando venne costruito sul vecchio sanatorio il carcere di massima sicurezza nel quale furono rinchiusi prima i brigatisti, quindi dopo il 1992 i mafiosi. Era il luogo del famigerato (per i criminali) 41-bis. A Pianosa fu il momento più brutto dell'età moderna. Non che non ne avesse vissuti di peggiori. I romani vi confinarono l'ultimo e più problematico nipote di Ottaviano, Agrippa Postumo, che si fece costruire una residenza con le terme in riva al mare, e i resti sono ancora lì; ma pare che avesse anche una splendida villa all'interno, si mormora proprio sotto l'ex carcere di massima sicurezza non a caso battezzato "Diramazione Agrippa". Ci sono catacombe cristiane che si estendono sotto gran parte dell'isola, con 700 tombe già scoperte. E nel 1553 i pirati turchi invasero Pianosa sterminando la popolazione. Per più di due secoli, da allora, rimase un deserto. Fino a quando nell'Ottocento riprese a vivere e il Granduca di Toscana la trasformò in una colonia penale agricola. Era la nostra Cajenna, al pari della Gorgona e dell'Asinara. Da cui qualcuno, emulando Papillon, cercava sempre di scappare. Ma con scarsa fortuna. Un galeotto attraversò le otto miglia di mare che separano Pianosa dall'Elba con la camera d'aria di una ruota di trattore ma trovò i carabinieri ad aspettarlo. Poi con il supercarcere diventò un inferno. Dentro e fuori. Dentro, centinaia di detenuti. Fuori, centinaia di guardie carcerarie con le famiglie. Il paesino meraviglioso intasato dalle macchine perennemente in sosta, con le persone sedute negli abitacoli e i finestrini abbassati che si parlavano da un'auto all'altra. Pianosa era arrivata ad avere anche 2.500 abitanti, ma in una condizione assurda. Tutti erano prigionieri. Nessuno era felice. L'inferno durò quasi vent'anni. Il 28 giugno del 1998, improvvisamente, scattò l'ora X. Il governo di Romano Prodi decise di chiudere il penitenziario e Pianosa fu evacuata in un solo giorno. Forse l'unica fuga di massa di detenuti e secondini con le loro famiglie che la storia ricordi. A testimonianza di quell'incredibile episodio c'è una caserma della polizia nuova di zecca, comprensiva di una enorme centrale termica, mensa, cucina e circolo ufficiali, costata miliardi e mai aperta: è lì, con le piante di cappero che penetrano nelle fessure spaccando gli intonaci ancora immacolati, entrano nei quadri elettrici, coprono i marciapiedi. Ci fu chi perfino chi lasciò la casa aperta con i letti sfatti e la pastasciutta calda nei piatti. E l'isola fu di nuovo un'isola deserta. Come di fatto è ancora oggi. Fa impressione il porticciolo, perfetto nelle proporzioni e nelle sagome, che fu definito da qualcuno il più bello del mondo, senza una barca: a parte quella dell'unico residente isolano nato a Pianosa, il custode delle catacombe Carlo Barellini. Fanno impressione le spettacolari merlature smozzicate dalla salsedine, le case lesionate, i due piccolissimi alberghi Trento e Trieste affacciati sulla piazzetta del porto dove i bambini giocavano con il pallone che finiva sempre in acqua, ormai cadenti. E le strade deserte, dopo le cinque di sera quando il battello dei turisti giornalieri torna a Marina di Campo. Consola soltanto il pensiero che lì altri danni l'uomo non ne sta facendo, e che se non ci fosse stato il carcere Pianosa avrebbe avuto un destino ben diverso: probabilmente non dissimile da quello di tanti altri luoghi incantati della nostra Italia ora sbranati dal cemento e dalla speculazione. E ti viene in mente che forse la strada giusta per preservare ancora tutto sia puntare su questo singolare e straordinario compromesso. Soltanto con un po' di buonsenso in più. Da parte di tutti. Forse è giusto spendere milioni per ripristinare le antiche specie animali autoctone: c'è un progetto con fondi europei gestito dall'ente parco. Ma sarebbe forse ancora più giusto salvare prima la splendida roccaforte del porticciolo costruita sul disegno fatto da Napoleone Bonaparte durante i suoi cento giorni all'Elba, che sta cadendo a pezzi. Con tutti i denari che si buttano per cose inutili, davvero è impossibile trovare qualche risorsa da investire nel recupero di parte almeno di quelle architetture uniche al mondo? Energie umane per uno sviluppo sostenibile di Pianosa, come dimostra l'esperimento che si sta facendo qui, non mancherebbero. Le regole per i detenuti liberi, intendiamoci, sono rigide: non potrebbe essere diversamente. Ognuno ha un ruolo preciso. Hanno il telefonino e possono parlare con il figlio o la fidanzata. Ma finita l'attività, a sera, devono rientrare. Non nelle celle, perché il carcere non c'è più da 17 anni, bensì in una vecchia prigione riadattata ad alloggi dagli stessi detenuti: si chiama "Diramazione Sembolello" ed è il posto dov'era stato rinchiuso durante il fascismo Sandro Pertini. Tutto è secondo la legge. I detenuti hanno anche la possibilità di ricongiungersi con gli affetti familiari, come prevedono appunto le norme. Per gli incontri c'è una piccola residenza risistemata sempre in economia, battezzata "la casa delle mosche". Reggere una situazione del genere non è facile. I soldi sono pochissimi e si fa quasi tutto cannibalizzando le vecchie strutture carcerarie. Un aiutino arriva dall'ente parco. Qualcosina anche dal Comune. Ma oltre al fisico, ci vuole anche una passione bestiale. Quella che non manca a Claudio Cuboni, assistente capo delle guardie carcerarie (quattro in tutto) di stanza a Pianosa. Un ragazzo sardo di cinquant'anni con l'hobby (o forse anche qualcosa di più) della scultura, capace di gestire con umanità e rigore un equilibrio sottilissimo. Forse anche perché sta a Pianosa da ventitrè anni. Forse perché ha visto com'era prima e com'è adesso. Forse perché sa che per una volta tanto un articolo della nostra Costituzione può essere rispettato: il 27, quello secondo cui "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". Dice la statistica che commette di nuovo un reato il 68 per cento di chi sconta la pena in carcere normale. Dal 2004 sono passati a Pianosa 120 detenuti e quelli che dopo aver terminato qui la pena lavorando ci sono ricascati sono solo tre. Il 2,5 per cento. E questo vale più di ogni altra cosa. Velletri (Rm): Fns-Cisl; i problemi del carcere? sovraffollamento e reparto psichiatrico castellinews.it, 3 agosto 2015 Il Segretario aggiunto Fns Cisl è intervenuto sui problemi dell'istituto, dal sovraffollamento al reparto psichiatrico alle carenze di personale. Ha avuto luogo giovedì 30 luglio la visita al Carcere di Velletri del Segretario aggiunto Fns Cisl Lazio, Massimo Costantino, e del Segretario Sas Fns Cisl Cc Velletri, Massimo Serretiello. Nell'istituto, infatti, risulta attualmente un sovraffollamento di 108 detenuti: 518 sono i presenti, a fronte dei 410 previsti. "La situazione che ci preoccupa di più - ha detto Costantino - è quella della sezione "Articolazione per la tutela della salute mentale in carcere", istituita con Decreto del Ministero della giustizia il 28 maggio 2015 che, come appreso, dovrebbe contenere 5 soggetti provenienti dagli ex Ospedali psichiatrici giudiziari. Detenuti che, avendo problemi psichiatrici, necessitano di assistenza sanitaria 24 ore su 24, ma ciò non potrebbe essere garantito. Questo reparto, se le condizioni risultano essere queste, per la Fns Cisl non può e non deve essere aperto. Si segnala - ha detto ancora Costantino - una grave e cronica carenza di personale: su 263 unità ne sono presenti solo 206, di cui 24 adibite presso il Nucleo traduzioni e piantonamenti. Occorre anche in questo caso un incremento di personale, richiesta che la Fns Cisl ha già fatto agli organi centrali del Dap. Occorrono poi - prosegue il comunicato - interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulla caserma agenti, che risulta fatiscente. Occorre riaprire la sala convegno, attualmente chiusa, anche con le stesse modalità in uso anni fa, come la gestione diretta da parte della Polizia penitenziaria. Serretiello - ha concluso Costantino - ha infine chiesto un incremento delle altre figure penitenziarie: ragioneria, segreterie e area educative, oltre a un aumento dell'organico". "Racconti dal carcere", i detenuti raccontano per il Premio Goliarda Sapienza Adnkronos, 3 agosto 2015 Ultimo sprint per la quinta edizione del Premio letterario "Racconti dal carcere", intitolato alla scrittrice Goliarda Sapienza, indimenticata autrice di "L'arte della gioia", promosso da inVerso Onlus, Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, Dipartimento per la Giustizia Minorile e Siae. Si tratta dell'unico premio letterario in Europa dedicato ai detenuti adulti e minori affiancati da scrittori, giornalisti e artisti in veste di tutor, a cui hanno partecipato quest'anno oltre 500 autori da tutte le carceri d'Italia. Tra questi testi sono stati selezionati venticinque finalisti, di cui 20 per la sezione "Adulti" e cinque per la sezione "Minori". Un dato numerico rilevante, ha sottolineato l'ideatrice e curatrice del premio, Antonella Bolelli Ferrera, che mostra "il desiderio sempre crescente di mettersi a nudo attraverso la parola scritta, come atto di libertà". Grazie infatti agli oltre duemila racconti che hanno partecipato al concorso in cinque anni, il Premio Goliarda Sapienza è diventato "un osservatorio privilegiato del rapporto tra carcere e scrittura". I 25 racconti finalisti, con le introduzioni dei rispettivi tutor, saranno raccolti nel volume "All'inferno fa freddo, Racconti dal carcere" in libreria dal 16 novembre (Rai Eri editore), giorno in cui sarà presentato, in occasione della cerimonia di premiazione che si terrà a Roma presso la Casa Circondariale di Regina Coeli. Madrina della manifestazione è la scrittrice Dacia Maraini, mentre il poeta Elio Pecora presiede la giuria, costituita da Daria Galateria, Angelo Maria Pellegrino, Paolo Fallai, Silvia Calandrelli, Ruben De Luca, Giordano Bruno Guerri, a cui è affidato il compito di scegliere i tre vincitori della sezione "adulti" e quelli della sezione "minori". I tutor della sezione "adulti" sono: Luca Argentero, Marco Buticchi, Pino Corrias, Emilia Costantini, Giancarlo De Cataldo, Maurizio De Giovanni, Erri De Luca, Marco Franzelli, Carlo Maria Grillo, Massimo Lugli, Silvana Mazzocchi, Federico Moccia, Antonio Pascale, Andrea Purgatori, Roberto Riccardi, Fiamma Satta, Gloria Satta, Salvo Sottile, Cinzia Tani, Andrea Vianello. Quelli della sezione "Minori": Eraldo Affinati, Alessandro D'Alatri, Paolo Di Paolo, Walter Veltroni, Luca Zingaretti. Le storie narrate sono, in gran parte, estreme: si va dall'iniziazione alla criminalità organizzata agli abusi sessuali, dalle botte di una madre all'obbligo di uccidere quando sei chiamato alla "guerra", magari un conflitto contro un clan rivale così come contro i ribelli del Darfour. Alcuni racconti spiccano per qualità letteraria giocando su scambi di ruolo come -ad esempio- il detenuto al posto di un poliziotto penitenziario e il poliziotto che invece si ritrova carcerato. Immigrazione: legge sullo ius soli, i leghisti attaccano "pronti ad alzare le barricate" di Ilario Lombardo La Stampa, 3 agosto 2015 Domani prima tappa alla Camera. Dopo l'estate l'ostacolo degli emendamenti. È tutto pronto per il nuovo match, a settembre, tra i due Matteo. Al ritorno dall'estate, l'incontro politico Renzi vs Salvini si giocherà di nuovo sull'immigrazione: "Con il massimo della disoccupazione giovanile, mi sembra una follia che il parlamento dia la priorità alla cittadinanza facile agli stranieri". A parlare è Massimiliano Fedriga, capogruppo della Lega Nord alla Camera e volto tra i più battaglieri della truppa padana. Non ne vuole proprio sapere della legge sullo ius soli che domani avrà la sua prima tappa in commissione: il voto sul testo base. Una sintesi di 24 proposte di modifica alla legge sulla cittadinanza prodotte in due anni e mezzo di legislatura, alcune prima ancora che Enrico Letta scegliesse Cécile Kyenge, un ministro nero, il primo della storia italiana, nata e cresciuta in Congo, per dare una spinta anche simbolica alla battaglia dei diritti. Sull'altro fronte però la Lega ha alzato prima le banane, in un'irrisione feroce e stolta, poi i propri principi: "La cittadinanza non è un mezzo per integrare, ma è la certificazione dell'integrazione avvenuta nel nostro Paese. Bloccheremo la legge" dice Fedriga. Il testo firmato da Marilena Fabbri, Pd, si concentra solo sui minori e introduce un superamento dello ius sanguinis, cioè per discendenza, con una versione temperata dello ius soli: è cittadino chi nasce in Italia da genitori che soggiornano qui legalmente da 5 anni. Per capire, se ci sono da tre anni, il bambino avrà la cittadinanza a due anni. Per chi invece qui non è nato ma è arrivato prima dei 12 anni, la legge prevede il riconoscimento dopo 5 anni di ciclo scolastico (ius culturae). Le posizioni Gli schieramenti si stanno posizionando. E c'è da giurarsi che il dibattito si polarizzerà. La stagione dei diritti - cittadinanza, unioni civili - servirà a Renzi, in autunno, per sanare le ferite alla sinistra del partito. La campagna leghista, invece, trascina gli alleati di Forza Italia, e provoca già qualche spaccatura. La correlatrice del testo Annagrazia Calabria si è dimessa. Era al lavoro sulla legge da quando gli azzurri erano ancora in maggioranza. Ora Fi si è tirata fuori: "Dopo le aperture degli ultimi anni, all'improvviso ho visto prevalere un atteggiamento di chiusura nel mio partito" racconta Renata Polverini che ha fatto una sua proposta, accolta nel testo: "Stiamo indurendo le nostre posizioni sulla scia di una sudditanza con la Lega. Non lamentiamoci se gli elettori moderati vanno con Renzi". Il ddl è frutto di una mediazione tra anime diverse. C'era chi come Sel e il M5S chiedeva meno anni per i riconoscimento, e chi, più da destra, come i popolari, i centristi di Ncd o anche Polverini, proponeva che la cittadinanza fosse legata a un percorso scolastico. Un altro compromesso prevede che tra i 12 e i 18 anni, oltre a un ciclo completo a scuola, sia provata anche la residenza di almeno 6 anni. Carlo Giovanardi aveva proposto di concedere la cittadinanza contestualmente all'iscrizione in prima elementare. A settembre partirà il balletto degli emendamenti. "Non credo che alla Camera avremo problemi - risponde Khalid Chaouki, Pd. In Senato sarà un'altra storia". Messico: tutto è in mano ai narcos, lo Stato ormai è soltanto un complice di Roberta Zunini Il Fatto Quotidiano, 3 agosto 2015 Sono già migliaia i morti e gli scomparsi. Nel Nord del Paese basta scavare per ritrovare scheletri umani. Il pellegrinaggio disperato di intere famiglie che, ogni giorno, si mettono in cammino per cercare i nuovi luoghi di questo orrore sottaciuto. Appena scendo dal pullman sotto un sole già spietato alle 10 di mattina, vedo il viso rabbuiato di Alejandro. Un giornalista trentenne che lavora per un giornale locale. Il motivo della sua preoccupazione e tristezza giace a 300 metri da noi. Il cadavere di un suo collega è ancora steso a terra, sotto il lenzuolo della scientifica. "L'hanno ammazzato con quattro pallottole in faccia mentre scendeva dalla macchina. Era un cronista coraggioso". Anche Alejandro lo è, come la maggior parte dei cronisti del Guerrero, uno degli Stati più violenti del Messico. Ero partita tre ore prima da Città del Messico e ora che sono arrivata a Iguala in questo frangente, mi salgono a galla tutte le raccomandazioni degli scrittori, esperti e attivisti che avevo incontrato nella capitale per cercare di capire come mai il Messico sia diventato un collage di Stati mafia. Un inferno di violenza e soprusi ai danni dei più deboli. È proprio sul Periferico Norte, la superstrada di Iguala che nel settembre dello scorso anno furono sequestrati dalla polizia municipale i 43 studenti della scuola Ayotzinapa annidata nella campagna di Tixtla, un pueblo distante un'ottantina di chilometri. Ayotzinapa fa parte delle cosiddette scuole normali. Termine con cui si definiscono le scuole statali di stampo marxista create nel secolo scorso per i figli dei contadini più poveri. Dopo la dichiarazione del procuratore federale Murillo Karam in cui è stata rivelato, nonostante l'indagine non fosse stata chiusa, che gli studenti erano stati sequestrati dalla polizia municipale di Iguala su ordine del sindaco Luis Abarca - colluso con un cartello di narcotrafficanti - e quindi consegnati ai narcos che li avrebbero bruciati in una discarica vicino a Iguala, i loro familiari hanno iniziato a cercarne i resti. Perlustrando la discarica di Cocula e i boschi attorno a Iguala, i genitori e parenti dei 43 anziché trovare ciò che ne era rimasto, hanno scoperto decine di fosse comuni affollate di corpi di altri desaparecidos. I dati ufficiali pubblicati dalla federazione confermano la scomparsa di 30mila persone dal 2006 al 2014, ma le Ong e associazioni umanitarie messicane sostengono che la cifra reale sia ben diversa: 200mila cittadini finiti nel nulla in meno di dieci anni. Numeri agghiaccianti che non possono non mettere sotto accusa le istituzioni, infiltrate a tutti i livelli dalla criminalità. "Quando abbiamo saputo che erano state scoperte delle fosse comuni, abbiamo deciso di fare come i genitori degli studenti. Da ottobre a oggi abbiamo trovato 60 fosse solo nei dintorni di Iguala". Mario Vergara mi accoglie nella cucina della Chiesa di San Francesco, dove è stata istituita la sede del comitatolos otros desaparecidos (gli altri scomparsi). "Mio fratello è scomparso due anni fa senza lasciare un biglietto, un segnale, nulla. Era un taxista. La sua macchina è stata ritrovata intatta. Sono certo non avesse legami con il narcotraffico. Forse si è rifiutato di fare qualcosa per degli affiliati che volevano trasportasse droga. Ma sono tutte congetture", mi spiega con le lacrime. Mentre una anziana signora mi offre una limonata per smorzare l'afa insopportabile, entra Carmela Abarca annunciando che la gendarmeria è in ritardo e bisogna aspettare ancora prima di andare a buscar las fossas. Come ogni domenica, dopo la messa delle 9, i familiari, confortati dalla benedizione del parroco, si incamminano alla ricerca delle spoglie dei loro cari. "Mio marito era un ex poliziotto, quando è scomparso lavorava part time perché aveva deciso di studiare legge". Carmela ha 43 anni, come il padre dei suoi tre figli, che ora non sa come sfamare perché ha dovuto lasciare il lavoro. "Sono troppo piccoli per stare a casa da soli. I nonni abitano lontano e qui non abbiamo parenti. Quando c'era mio marito ci davamo il cambio. Faccio le pulizie due volte la settimana e per fortuna ci sono queste amiche che se ne prendono cura", dice indicando tre signore di mezza età dallo sguardo pietrificato sedute attorno al grande tavolo. Sono le mamme di altri fantasmi di questa guerra silenziosa. "Dopo la sua scomparsa, ho ricevuto una sua chiamata di pochi secondi in cui mi diceva che stava bene e sarebbe tornato presto. Ora non ci spero più, vorrei solo dargli una degna sepoltura". Carmela, come altre, aveva ricevuto la chiamata di un anonimo che chiedeva un riscatto impossibile. "Gli investigatori dicono che gli autori dei sequestri sanno benissimo che non possiamo pagare migliaia di pesos. Chi sequestra chiederebbe il riscatto solo per farci credere che i nostri cari sono ancora vivi e indurci a non denunciare, altrimenti, dicono sempre, li ammazzeremo", piange la signora De la Cruz, sessantenne ex impiegata municipale che da tre anni cerca la figlia ventenne. Sua nipote è stata freddata la settimana scorsa davanti ai sui bambini nella piazza centrale di Iguala contro il marito che aveva denunciato alcuni poliziotti coinvolti nel sequestro dei 43. La sensazione è di essere finiti in un film horror. Sensazione che diventa tangibile quando ci incamminiamo per andare a cercare le fosse. Solo la forza della disperazione può spingere questa processione di esseri umani dolenti a sfidare il caldo, i narcos e i poliziotti municipali, molti dei quali la notte si trasformano in sicari e per ritrovare i congiunti. Mentre avanziamo tra gli sterpi e i rovi, circondati da cactus giganteschi, improvvisamente l'uomo vestito di bianco, che ci guida, si ferma. In una mano tiene un lungo bastone e nell'altra un foglio di quaderno con una mappa. "Un anonimo ci ha fatto recapitare questo foglio che indica le coordinate per trovare le fosse. Non è la prima volta. Ma non posso spiegarvi nei dettagli come veniamo in possesso di queste mappe perché chi ce le dà rischia grosso", dice Daniel, il campesino esperto di ritrovamenti. Grazie a quarant'anni di lavoro nei campi questo minuscolo cinquantenne è in grado di capire quando il terreno è stato smosso e ricoperto artificialmente. Nonostante non abbia familiari scomparsi, dall'ottobre scorso ha dedicato tutte le sue domeniche a buscar las fossas. Mario, il coordinatore dell'associazione lo guarda con gratitudine mentre lui alza gli occhi verso le cime della Sierra. Lassù, nascoste dalla fitta vegetazione tropicale, ci sono le piantagioni di marijuana, di papavero da oppio, coltivate da una schiera di schiavi guardati a vista dai narcos. Nessuno può avvicinarsi, neanche l'esercito. Talvolta i signori dei cartelli ordinano ai loro cecchini di scendere per impedire ai buscatores di continuare le ricerche. Dopo aver constatato che non c'è nessuno in vista, Daniel inizia la sua macabra operazione. Alza il bastone fin sopra la testa, poi, con una mossa rapida e precisa lo ficca in profondità nella terra. Con una manovra altrettanto rapida lo riporta in superficie e lo annusa. L'odore della decomposizione è inconfondibile. Intanto i familiari attorno a lui pregano, mentre piantato una bandierina sul punto in cui è stato estratto il bastone. Servirà a medici e antropologi forensi per dare il via alla riesumazione. Iran: 32 esecuzioni in una settimana, tra cui quelle di due donne da Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana politicamentecorretto.com, 3 agosto 2015 Mercoledì mattina 29 luglio, i giovani di Karaj si sono scontrati con i boia del regime lanciandogli pietre e aggredendoli per protestare contro un'esecuzione pubblica di tre persone a Golshahr, Karaj, vanificando così il tentativo della autorità di intensificare l'atmosfera di terrore nella società. Temendo il diffondersi della rabbia popolare, i boia hanno velocemente sgombrato la scena del crimine e se ne sono andati. Lo stesso giorno Paridokht Molaifar, una madre di 43 anni, è stata giustiziata nella prigione di Ghezel Hesar a Karaj. Solo il 27 Luglio undici detenuti, tra i 25 e i 35 anni di età, sono stati giustiziati nella prigione centrale e in quella di Ghezel Hesar a Karaj. Nove sono stati impiccati collettivamente nella prigione centrale. L'impiccagione di cinque detenuti, tra i quali una donna, nella prigione di Shahab a Kerman, quella di un detenuto nella prigione centrale di Ardebil il 30 Luglio, quella di quattro detenuti a Esfahan e di uno nella prigione di Tabriz il 29 Luglio, quella di sei detenuti ad Ilam, nella prigione centrale di Zahedan e in quella di Bandar Abbas il 25 e 26 Luglio, sono alcuni dei crimini commessi da questo regime solo la settimana scorsa. Le criminali esecuzioni della scorsa settimana, l'annuncio della condanna a morte del detenuto politico Mohammad-Ali Taheri e la distruzione di una sala di preghiera sunnita a Tehran avvenuta il 29 Luglio, in concomitanza con il viaggio in Iran di alcuni importanti politici europei, dimostra che l'apertura dell'Occidente verso questo regime, dopo che è stato costretto a "bere l'amaro calice" dell'accordo sul nucleare, non fa altro che incoraggiare la sua lotta per la sopravvivenza, inasprendo la repressione sul popolo iraniano. Iran: ho passato 6 anni in carcere per aver aperto un blog, ma ora quella Rete non c'è più di Hossein Derakhshan (Traduzione di Rita Baldassarre) Corriere della Sera, 3 agosto 2015 Sette mesi fa mi sono seduto al tavolo di cucina nel mio appartamento anni Sessanta, annidato all'ultimo piano in un vivace quartiere del centro storico di Teheran, e ho ripetuto un gesto che avevo fatto già migliaia di volte in passato. Ho aperto il mio pc portatile e ho pubblicato le mie osservazioni nel mio nuovo blog. Ma era la prima volta da sei anni a questa parte, e ho provato un colpo al cuore. Qualche settimana prima, ero stato amnistiato e scarcerato dalla prigione Evin, a nord di Teheran. Pensavo che avrei passato il resto della mia vita in quelle celle. Nel novembre del 2008 ero stato condannato a quasi vent'anni di carcere, per quello che avevo scritto nel mio blog. Ma il momento della liberazione è giunto del tutto inatteso. Ho fumato una sigaretta in cucina con uno dei miei compagni di prigionia e siamo tornati insieme nella stanza che condividevo con una decina d'altri uomini. Una voce si è diffusa in tutte le celle e per i corridoi, in un tono privo di particolari emozioni: "Cari amici detenuti, l'uccello della buona sorte si è posato sulle spalle di un nostro compagno di prigione. Signor Hossein Derakhshan, lei è un uomo libero". Quella sera, per la prima volta, ho varcato la porta del carcere da uomo libero. Ogni cosa mi appariva nuova, la fredda brezza autunnale, il rumore del traffico, gli odori e i colori della città in cui ero sempre vissuto. Nuovi palazzi, spudoratamente lussuosi, avevano preso il posto delle casette che ricordavo. Immensi cartelloni con la pubblicità di orologi svizzeri e di schermi televisivi piatti prodotti in Corea. Donne con sciarpe e soprabiti colorati, uomini con capelli e barbe tinte, e centinaia di caffè con cameriere e musica occidentale. Questi cambiamenti avvengono gradualmente, ma ti balzano all'occhio quando sei stato tenuto lontano per tanto tempo dalla vita quotidiana. Due settimane più tardi mi sono rimesso a scrivere. Alcuni amici mi hanno consentito di cominciare un blog in una rivista d'arte. L'ho chiamato Ketabkhan, "lettore di libri". Sei anni di galera sono stati lunghi, ma nella vita online rappresentano un'era geologica. Scrivere e pubblicare su internet non è cambiato ma leggere - e farsi leggere - è mutato drasticamente. Ho provato a postare su Facebook un link a una delle mie storie, e ho scoperto che Facebook restava indifferente. Il mio link finiva per somigliare a una pubblicità. Ha ricevuto tre "mi piace". Tre! Ed è finita lì. In quel momento, ho capito chiaramente che le cose erano cambiate. Nel 2008, quando mi hanno arrestato, i blog erano oro puro e i blogger vere e proprie rock star. Malgrado il fatto che il governo avesse bloccato l'accesso al mio blog in Iran, potevo contare su un pubblico di ventimila persone ogni giorno. Dove mi connettevo, scattava un balzo di traffico: potevo dare voce a chi volevo, o discutere e criticare a piacimento. La gente leggeva i miei post e lasciava una quantità di commenti interessanti, e persino quelli che si dichiaravano fortemente in disaccordo venivano a curiosare. Altri blog si collegavano al mio per discutere su vari argomenti. Mi sentivo un re. A quell'epoca l'iPhone era comparso da poco più di un anno, ma gli smartphone erano usati soprattutto per telefonare, inviare brevi messaggi, aprire l'email. Non esisteva Instagram, né SnapChat, né Viber, né WhatsApp. I blog erano il luogo ideale dove reperire il pensiero alternativo, assieme a notizie e analisi di vario genere. Erano la mia vita. Tutto era cominciato con l'11 settembre. Mi trovavo a Toronto e mio padre era appena arrivato da Teheran. Stavamo facendo colazione quando il secondo aereo si è schiantato contro il World Trade Center. Sono rimasto sbigottito e confuso e, in cerca di idee e spiegazioni, mi sono imbattuto nei blog. Dopo averne letto qualcuno, ho pensato: Ecco, anch'io dovrei aprirne uno e incoraggiare tutti gli iraniani a partecipare. Ho cominciato a scrivere su hoder.com, servendomi della piattaforma editoriale di Blogger, prima che fosse acquistata da Google. Poi, il 5 novembre del 2001, ho pubblicato una guida su come iniziare un blog. La cosa ha innescato quella che poi è stata definita la rivoluzione del blog. Ben presto centinaia e migliaia di iraniani si sono dedicati a questa attività, facendo salire il Paese tra i cinque principali per numero di blog. Ero orgoglioso di aver contribuito a questa democratizzazione della scrittura senza precedenti. Appena ventenne, ero stato soprannominato il "blogfather", il padrino del blog, nomignolo sciocco, è vero, ma che lasciava intuire quanto fosse profondo il mio coinvolgimento. C'è una storia nel Corano a cui ho riflettuto molto durante i miei primi otto mesi di isolamento in carcere. Un gruppo di cristiani perseguitati si rifugia in una grotta, dove tutti cadono in un sonno profondo. Quando si svegliano, hanno l'impressione di aver fatto un sonnellino, in realtà hanno dormito per trecento anni. Uno di loro si azzarda all'esterno per procurarsi da mangiare - immaginiamo la fame dopo tre secoli di digiuno - e scopre che il suo denaro è diventato un reperto da museo. Solo allora capisce davvero la durata del loro lungo sonno. L'hyperlink, o link ipertestuale, era la mia moneta corrente sei anni fa. Nata dall'idea dell'ipertesto, l'hyperlink forniva quella diversità e decentralizzazione che mancavano nel mondo reale. Incarnava lo spirito aperto e interconnesso della Rete, nella visione del suo inventore, Tim Berners-Lee. I blog davano forma a quello spirito di decentralizzazione, erano finestre nella vita di persone di cui non sapevi nulla; erano ponti che collegavano esperienze diverse le une alle altre e le cambiavano. Ma da quando sono uscito di galera, ho capito fino a che punto l'hyperlink sia stato svalutato. Quasi ogni social network oggi tratta il link come qualsiasi altro oggetto, come un'immagine o un testo. Ti incoraggiano a postare un unico hyperlink e sottoporlo a un processo simil-democratico di "mi piace", di "più" e "cuoricini". Gli hyperlink sono stati spogliati dei loro poteri. Ancor prima di andare in prigione, avevo notato che la forza degli hyperlink stava subendo una contrazione. Il suo nemico era una filosofia che combinava due dei valori più diffusi e sopravvalutati dei nostri tempi: la novità e la popolarità. Quella filosofia è Stream. Lo streaming oggi domina il modo in cui la gente riceve informazioni sul web. Un numero sempre minore di utenti utilizza direttamente le pagine web specializzate, mentre la stragrande maggioranza riceve un flusso continuo e inarrestabile di informazioni selezionate da algoritmi tanto complessi quanto segreti. Non c'è alcun dubbio che la diversità di temi e opinioni online oggi è meno ricca. Le idee più insolite e stimolanti vengono soppresse dai social network perché le loro strategie di classificazione privilegiano ciò che è noto e popolare. La conseguenza più preoccupante della centralizzazione dell'informazione nell'epoca dei social network è che ci rende sempre più impotenti nei nostri rapporti con i governi e i poteri economici. È in atto un'operazione sempre più estesa di sorveglianza sulla vita civile. L'unico modo per sottrarsi potrebbe essere quello di ritirarsi in una grotta e di addormentarsi, anche se dubito che riusciremmo a svegliarci fra trecento anni. Purtroppo, questo non ha nulla a che vedere con il Paese di residenza. Per ironia della sorte, gli Stati che collaborano con Facebook e Twitter ne sanno più sui loro cittadini rispetto a quelli, come l'Iran, in cui il governo tiene in pugno Internet ma non ha accesso legale ai gestori dei social media. Talvolta penso di essermi irrigidito, sarà l'età che avanza. Forse tutto questo altro non è che la naturale evoluzione di una tecnologia. Ma non posso chiudere gli occhi davanti al declino nella diversità e alla sparizione dei potenziali che la Rete potrebbe avere per la nostra epoca travagliata. In passato, la Rete era tanto seria e potente da farmi sbattere in prigione. Oggi si è ridotta a poco più di una forma di intrattenimento, al punto tale che persino l'Iran non prende più sul serio alcune sue manifestazioni - Instagram, per esempio - e non si scomoda nemmeno di bloccarle. Mi mancano i giorni in cui la gente si premurava di ricercare le opinioni più diverse e si sforzava di leggere più di un paragrafo di testo scritto o 140 caratteri. Penso con nostalgia ai giorni in cui scrivevo qualcosa sul mio blog senza preoccuparmi di farmi pubblicità su un'infinità di social network, quando nessuno si preoccupava di "mi piace" e condivisioni. Questa è la Rete che ricordo prima di finire in prigione. Questa è la Rete che dobbiamo salvare.