Urla tra le sbarre per gli Stati generali sull’esecuzioni della pena di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 31 agosto 2015 "Quando sento parlare certi politici alla televisione di carcere e di giustizia penso che molti di loro vedano in noi solo il male che abbiamo fatto e non il bene che potremmo fare se fossimo trattati con più umanità". (Diario di un ergastolano carmelomusumeci.com). Quando il nostro Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha annunciato la convocazione degli Stati Generali sul carcere e sulla pena ho pensato che questa sarebbe stata l’occasione per portare finalmente la legalità e la nostra Carta Costituzionale in galera, ma il mio entusiasmo sta un po’ scemando perché nonostante questa importante iniziativa ho l’impressione che qualche funzionario del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria continui a fare come gli pare, se gli pare e quanto gli pare. Lo dimostra questa lettera che mi è arrivata dal carcere di Oristano (Sardegna) dai detenuti del circuito AS1 che vi sono stati trasferiti di recente. Giuro, siamo tornati al Medioevo! Subiamo lo stesso trattamento "riservato ai 41 bis". Questa "deportazione" ha comportato l’interruzione del trattamento, e, cosa ancora più grave, è che non ci sono le condizioni neanche per ricominciare daccapo. Non c’è nulla. Venti ore di cella e quattro ore di aria … niente palestra, scuole, corsi di qualsiasi genere, niente, nulla. Ma in compenso ci hanno dimezzato i colloqui telefonici… Ci hanno tolto i computer e gran parte del vestiario: "questo non entra, questo non è consentito, per questo ci vuole l’autorizzazione etc." Ci sono tante cose che vorrei dirti, ma non per lettera… Aiutaci, fai in modo che qualcuno chieda lumi sull’operato di questa direzione. Che altro posso fare se non mettermi anch’io a ululare tra le sbarre della finestra e fare girare questa lettera tra tutti i membri dei diciotto tavoli che si sono formati per discutere gli Stati generali sulla esecuzione della pena? Che altro posso fare se non ricordare a loro che il carcere dovrebbe essere un luogo aperto e più vicino al mondo libero, perché per educare le persone alla legalità e al rispetto delle regole è necessario che anche la legge e le regole siano rispettate dallo Stato? Che altro posso fare se non rammentare ai nostri governanti che in galera è difficile distinguere il bene dal male e il carcere, soprattutto in Italia, non ti fa sentire in colpa, perché di solito ti calpestano il cuore e poi ti dicono che lo fanno per il tuo bene. E al prigioniero non è dato di scegliere. Forse anche per questo si sentono come sacchi d’immondizia buttati in una cella. Poi una volta fuori molti di loro si vendicheranno. Gli svedesi dicono che i detenuti di oggi saranno il vicino di casa di domani, forse per questo i loro carceri sono vuoti e da noi sono pieni. In Italia invece sembra che il tuo reato sia più importante di te, a tal punto che ritengono giusto farti perdere tutta la tua umanità. La mia mente si è liberata dalla rabbia nel confronto vero con persone della società esterna di Tommaso Romeo Ristretti Orizzonti, 31 agosto 2015 La lunga detenzione di un personaggio di spicco del crimine organizzato suscita un certo interesse nei giovani di quel mondo. Un certo numero di quei giovani si convince che quel personaggio è un duro perché non si è piegato al volere dello Stato. In quei giovani cresce sempre di più l’ammirazione per quel personaggio, anche se molti di loro non lo hanno mai visto sono pronti a mettere a disposizione la loro vita per lui perché il loro pensiero è "quello è un essere superiore, non c’è ergastolo o 41bis che può indebolirlo". Poi c’è una parte di giovani di quel mondo che vede quella lunga e dura detenzione di quel personaggio come una vendetta dello Stato e il loro pensiero è "nemmeno quando sono vecchi e stanchi li buttano fuori" in quei giovani cresce il sentimento di rabbia e di vendetta. La strategia della lunga e dura detenzione ha un effetto boomerang sui giovani di un certo mondo, vedono lo Stato debole perché con quella lunga detenzione ammette di temere una persona che è invecchiata nelle patrie galere. Dodici anni fa mi trovavo nel carcere di Spoleto, ero sottoposto al regime del 41bis, allora la mia mente era offuscata dalla rabbia e da altro, quel giorno all’ora d’aria stavo passeggiando con altri due miei paesani, quando uno di loro esordisce "sapete tizio lo hanno declassificato e adesso si trova nelle sezioni comuni". Dopo una lunga pausa di silenzio l’altro paesano dice "poverino, dopo una vita di sacrifici viene retrocesso, che brutta fine ha fatto", io aggiungo "quelli fuori sapendolo in mezzo a tossici e scippatori quando uscirà non lo accoglieranno certo con tutti gli onori", poi faccio le corna e dico "speriamo che a noi non capiti mai una disgrazia del genere". Vi ho raccontato questo episodio per farvi capire che forse il carcere duro con tutte le sue restrizioni non fa ragionare o rieduca i detenuti, anzi li incattivisce. La mia mente si è liberata dalla rabbia e i miei pensieri sono passati oltre dopo un certo periodo che ho avuto un confronto vero con persone della società esterna, in particolare con gli studenti che incontriamo spesso in carcere. Certamente la mia rabbia non è svanita dall’oggi al domani, ma ci sono voluti numerosi incontri e mesi di ascolto al tavolo di Ristretti Orizzonti. Il merito maggiore va a delle persone speciali che fanno volontariato, e che usando le loro parole come un piccone hanno abbattuto quel muro di rabbia e subcultura che avevo innalzato durante tutti quegli anni di carcere duro. Sono arrivato al punto che oggi mi auguro sinceramente che venga accettata la mia istanza di declassificazione, altro che disgrazia come l’avevo definita dodici anni fa. Giustizia: il ministro Orlando "entro l’anno riforma di intercettazioni e processo penale" di Silvia Barocci Il Messaggero, 31 agosto 2015 Il Guardasigilli: entro l’anno ok alla riforma. "Non possiamo fallire sul rilancio della città del processo penale e alla delega sugli ascolti Giubileo, rafforzeremo gli uffici giudiziari". La decisione del governo di affiancare Marino con Gabrielli e Cantone? "Non è una tutela ma un’assunzione di responsabilità nazionale. L’Italia e il Pd non possono permettersi un fallimento nel rilancio dell’azione capitolina. Marino colga fino in fondo questa opportunità e sciolga alcune contraddizioni". Dopo il terremoto dell’inchiesta Mafia Capitale, il ministro della Giustizia Andrea Orlando vede tracciato un percorso di "riscatto" sia per il Pd romano sia per l’amministrazione capitolina. E al Messaggero annuncia: com’è stato a Milano per Expo, anche per il Giubileo il governo rafforzerà gli uffici giudiziari della Capitale. Non solo: entro il 2015 "possiamo farcela ad approvare in via definitiva la riforma del processo penale attuando la delega sulle intercettazioni". Ministro, aver attribuito al prefetto di Roma un forte potere di indirizzo senza ricorrere al commissariamento non ha comportato, di fatto, la messa sotto tutela sia di Marino sia del Pd capitolino? "Parlerei piuttosto di un’assunzione di responsabilità perché è evidente che il cratere che si è venuto a creare nel corso del tempo in una realtà come Roma, sia sul piano amministrativo che politico, è una questione nazionale. Un segnale in questo senso sul fronte politico era stato già dato con la nomina a commissario del Pd capitolino di Orfini, presidente del partito. Oggi, analogamente, si vuole sostenere la Capitale in un processo di riscatto amministrativo. È anche chiaro che starà a Marino cogliere fino in fondo questa opportunità e sciogliere alcune contraddizioni che hanno caratterizzato anche la sua azione di governo". Eppure, proprio il giorno dell’ azione di rilancio non si poteva non notare l’assenza di Marino. "Sull’assenza di Marino sono state imbastite troppe polemiche. La sua presenza il giorno del consiglio dei ministri sarebbe stata assolutamente inessenziale, visto che il sindaco non avrebbe potuto né dovuto assumere alcun ruolo". E l’assenza di Renzi in conferenza stampa, a Palazzo Chigi? "Credo che sia stato oggettivamente un modo per sottolineare che la decisione in consiglio dei ministri era fondata non su una valutazione di opportunità politica ma su elementi di legge. Era giusto che fosse il ministro dell’Interno a illustrare il lavoro svolto dalla commissione d’accesso e a trarne le conseguenze". Intende dire che nel decidere di non sciogliere Roma per mafia non ci sarebbe stata alcuna valutazione di opportunità politica? Non ha forse pesato il pericolo di un voto anticipato a Roma, in prossimità del Giubileo e in coincidenza con l’appuntamento elettorale in altre importanti città? "Escludo che la decisione nasca da valutazioni riferite alla data delle elezioni. Il governo si è pronunciato sulla base del lavoro svolto dalla Commissione che ha escluso lo scioglimento e ha ritenuto che l’amministrazione in carica abbia svolto una funzione di discontinuità rispetto a quella che l’ha preceduta, confermando tra l’altro quanto sostenuto in Commissione Antimafia dal procuratore Pignatone. L’opportunità politica, semmai, c’è stata nell’assumere ulteriori cautele". Alcuni si chiedono su quali basi giuridiche ciò sia avvenuto, visto che il testo unico sugli enti locali non prevede questo genere di affiancamento da parte del prefetto. "La legge era stata pensata e concepita non immaginando che un fenomeno come questo potesse riguardare le grandi metropoli. Con tutto quello che è emerso dall’inchiesta Mafia Capitale, e cioè la fragilità del sistema e la compromissione di pezzi anche dell’apparato pubblico, non potevamo cavarcela semplicemente dicendo "non ci sono le condizioni previste dal Testo unico per lo scioglimento". Era necessario tenere al riparo i prossimi passaggi che sono cruciali per Roma e per il Paese, a partire dal Giubileo". Non teme che la fragilità dell’appiglio giuridico apra la strada a contenziosi amministrativi in caso di mancato accordo tra Prefetto e Sindaco oppure tra la commissione incaricata dello scioglimento del municipio di Ostia e la giunta capitolina? "No, gli strumenti sono stati adeguatamente approfonditi e hanno avuto come precedente il modello dell’Expo. È chiaro che stiamo percorrendo una strada inedita, ma è anche inedito il fenomeno che ci siamo trovati ad affrontare". Non è che Renzi, a differenza di Expo, tema un flop del Giubileo e non voglia accostare il suo nome all’evento? "Il flop è un’ipotesi che non possiamo neanche minimamente prendere in considerazione. Anche per questo Marino deve essere aiutato con forza. L’Italia e il Pd non possono permettersi un fallimento nell’azione di rilancio di Roma". Per l’Expo si è provveduto a rafforzare gli uffici giudiziari di Milano. Farete altrettanto in occasione del Giubileo? "Ci sarà un rafforzamento, con più personale amministrativo e più magistrati. Il Giubileo, d’altronde, comporterà un aumento delle presenze in città e, inevitabilmente, un incremento dei carichi che già oggi a Roma sono di difficile gestione". Importanti riforme arriveranno presto alla prova dell’aula: dal processo penale, con la delega al governo sulle intercettazioni, alla prescrizione. Ma c’è anche la riforma del Senato rispetto alla quale il governo, durante l’estate, ha mandato segnali di apertura a Berlusconi così da superare le contrarietà della sinistra Pd. La giustizia potrebbe diventare materia di scambio con la riforma costituzionale? "Il sospetto di scambio è un genere letterario che registro da quando si è insediato il governo. Ognuno può valutare, però, che sino ad oggi tutto è avvenuto in modo esplicito e alla luce del sole. Può piacere o no, ma nulla è stato fatto per recondite manovre". Non si può dire che non assomigli a un baratto la proposta di Calderoli: ritiro di 600mila emendamenti al ddl Boschi in cambio della grazia a Monella. "Vista la delicatezza dell’istituto della grazia che chiama in causa direttamente il presidente della Repubblica mi esimono da qualunque commento, ma il dossier seguirà il suo corso e sarà impermeabile a questo genere di valutazione". Renzi aveva detto che il 2015 sarebbe stato l’anno della riforma delle intercettazioni. Anche per lei è così? "Penso che ce la possiamo fare" Ad approvarla definitivamente? "Sì, definitivamente. La delega sulle intercettazioni possiamo attuarla a strettissimo giro. Inizieremo a discuterne subito dopo il via libera alla Camera". Eppure proprio alla Camera l’avvio è stato difficile, a causa dell’emendamento Pagano sulle registrazioni carpite di nascosto. Immaginate uno stralcio per le intercettazioni? "Lo stralcio rischia di essere più un allungamento che una scorciatoia. Confido che entro settembre il testo verrà approvato nel suo complesso alla Camera. Subito dopo avvieremo un confronto con la stampa. I punti fermi restano tre: nessuna modifica alle intercettazioni come strumento investigativo; sì a tutte le modifiche possibili e necessarie ad impedire la diffusione di quelle che non hanno alcuna rilevazione penale; garanzia del diritto di cronaca". Concorda con la proposta del vicepresidente del Csm Legnini che le toghe passate alla politica non tornino più in magistratura? "Condivido l’esigenza di una disciplina, ma sarei meno netto. Non mi convince fino in fondo che il passaggio in politica costituisca una sorta di contaminazione. Sarei per distinguere i casi". Giustizia: il procuratore Gratteri "basta soldi alla finta antimafia, non è un mestiere" di Andrea Bonzi Il Giorno, 31 agosto 2015 Si può fare dell’antimafia un mestiere. Invito politici ed enti locali a non erogare più denaro pubblico ad associazioni che nascono dal nulla". Un anno e mezzo fa, Nicola Gratteri, magistrato in prima linea contro il crimine organizzato e Procuratore aggiunto del Tribunale di Reggio Calabria, è stato a un passo da diventare ministro della Giustizia dell’esecutivo Renzi. Dottore, si riferisce a qualcuno in particolare con questo l’accusa contro i professionisti dell’antimafia? "Le indagini sono in corso, non posso fare nomi. Ma ci sono casi di soggetti che hanno ricevuto importi che sfiorano il milione di euro di contributi. Gente furba che si fa vedere vicino a magistrati e vittime di mafia ma che, in realtà, non ha mai prodotto nulla. Persone che ottengono la legittimazione tenendo incontri nelle scuole e magari relegano nell’ombra chi, davvero, i crimini di mafia li ha vissuti sulla propria pelle". Serve una sforbiciata netta? "Invito davvero politici e amministratori di Regioni, Province e Comuni a tagliare questi contributi". Ma, allora, come si spiega la mafia ai giovani? "Invece che fare incontri molto spesso inutili nelle scuole, si assumano insegnanti, iniziando dai territori ad aita densità mafiosa. Si dia modo ai ragazzi di fare il tempo pieno, anziché rimandarli a casa, col rischio che si nutrano di cultura mafiosa". Meno chiacchiere, più azione. La recente proposta di una commissione sul caporalato, la convince? "Non servono organi costosi, ma modifiche normative e presidi delle forze dell’ordine sulle strade dove passano i camion pieni di schiavi. Li fermi, sequestri il mezzo, li denunci e fai indagini. Lo sfruttamento esiste da sempre, con una commissione cosa approfondiamo? Con quei soldi facciamo nuovi concorsi per Polizia, Carabinieri e Guardia di finanza, piuttosto". Che ne pensa di Mafia Capitale? "Non parlo di indagini condotte da altri, mi spiace". E di Cantone a capo dell’Anticorruzione? "È l’uomo giusto al posto giusto". Qual è il suo giudizio sull’operato del governo nella lotta alla mafia? "Ha fatto piccole cose, come l’inasprimento delle pene nel 416bis (carcere duro per associazione di stampo mafioso, ndr), ma si può fare molto di più. Negli ultimi mesi non ho visto lo scatto che auspicavo". Ha qualche suggerimento? "A gennaio, come presidente della Commissione per le proposte normative sul contrasto alla mafia (che ha lavorato a titolo gratuito, ndr), ho presentato un pacchetto composto da 150 articoli, pronto per essere discusso in Aula". E che fine ha fatto? "Ne ho parlato 3-4 volte col ministro Orlando, mi ha detto che il lavoro è fatto molto bene, non capisco perché non vada avanti". Mancanza di volontà politica o oggettiva lentezza dell’iter? "Bisognerebbe avere più coraggio. Poi è vero che il Parlamento è un po’ come un lavandino otturato: troppe cose che si fermano in un imbuto". Dica una misura che avrebbe un effetto immediato "L’informatizzazione del processo penale. Solo collegando in videoconferenza i detenuti nei carceri di alta sicurezza, senza trasferirli, abbiamo calcolato si risparmierebbero 70 milioni di euro l’anno. Sa quanto personale potrebbe essere assunto con quei soldi? E si impedirebbe anche che gli imputati facciano accordi, cosa che accade se ne metti trenta o quaranta nella stessa stanza". Si parla anche di intercettazioni, nel pacchetto: tema che suscita grosse polemiche. "Abbiamo proposto grosse modifiche, tenendo presente però che l’intercettazione è l’unico mezzo di ricerca della prova, la più economica, e, in fondo, anche più garantista. Fermo restando, ovviamente, il divieto di pubblicazione dei soggetti che nulla hanno a che vedere le indagini". Giustizia: Mafia Capitale e non solo, tutte le inchieste che preoccupano gli amministratori di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 31 agosto 2015 Da Mafia Capitale a Metro C, fino ai 15 milioni di danni erariali contestati dalla Corte dei Conti ad Ama e Atac. La nuova stagione politica del Campidoglio nasce con l’incognita dei tanti piccoli e grandi terremoti giudiziari che possono arrivare dalle inchieste ancora aperte. Da Mafia Capitale a Metro C, fino ai 15 milioni di danni contestati dalla Corte dei Conti ad Amac Atac. Se ad oggi non è ancora chiarissimo dove finiscano i poteri di Marino e comincino quelli dei commissari che gli sono stati affiancati, ancora meno definibile con certezza è il terreno sul quale il pool di amministratori si muoverà nel tentativo di rilancio della Capitale. Equilibri politici ed emergenze aperte sono solo una parte delle incognite. Altri piccoli e grandi terremoti arriveranno dalle tante inchieste giudiziarie che hanno già travolto un’intera classe dirigente. Su tutte ovviamente c’è Mafia Capitale, che sarebbe sbagliato considerare conclusa con la data di inizio del maxi processo (in 59 alla sbarra dal 5 novembre). Gli interrogatori di Salvatore Buzzi e quelli dei suoi collaboratori nell’organizzazione che controllava centinaia di appalti stanno fornendo ai magistrati della Dda nuovi spunti di indagine. Basti pensare al presunto accordo dietro la nascita del campo nomadi a Castel Romano, per il quale due capi della comunità rom sarebbero stati pagati in nero dal Campidoglio tramite false fatture delle coop di Buzzi. O ai nomi di politici e funzionari che il ras della 29giugno ha snocciolato (risultando non sempre credibile). Il Mondo di Mezzo di Carminati & C. aveva fagocitato anche Ostia, sciolta per mafia, ma sarebbe più corretto dire mafie al plurale. Il comune del litorale è la caldera di un vulcano giudiziario in continua ebollizione. A settembre è attesa la seconda sentenza sul clan Fasciani, ma è sul fronte delle concessioni pubbliche che ci sono tante partite ancora aperte. Quelle per le spiagge di Castel Porziano, ad esempio. O sulla gestione del porto turistico, dove le accuse al presidente Baimi sono state in gran parte ridimensionate dal tribunale del Riesame, ma la procura sta scavando tra "favori" politici finora solo evocati. Con l’ex presidente di municipio, Andrea Tassone, arrestato, e l’ufficio tecnico presunto covo di mazzettari, molto deve ancora emergere. Stesso discorso per il giro di capillari tangenti del XIV municipio, dove gli arresti sono più un inizio che un punto finale. E c’è poi il capitolo municipalizzate, con la Corte dei Conti che contesta ad Ama e Atac un danno erariale da 15 miliardi di euro per le rispettive parentopoli. Le due aziende vogliono rifarsi sui manager responsabili dello sfascio, ma se per Ama è stato condannato in primo grado Franco Panzironi (cinque anni e tre mesi), per Atac è appena iniziato il processo che sconvolge l’ex assessore di Alemanno, Marco Visconti. Infine la madre di tutte le tutte le incompiute, la metro C, per la quale l’anticorruzione ha invito gli atti alla magistratura contabile, già attivatasi sulla lievitazione dei costi, e l’ex assessore Guido Improta è indagato per presunti abusi. Giustizia: Mafia Capitale, il primo giorno di Gabrielli da tutor (in attesa di Marino) di Ernesto Menicucci Corriere della Sera, 31 agosto 2015 L’assessore Esposito: il sindaco non è fortunato quando è via succede sempre qualcosa. Lo ammette persino Stefano Esposito, senatore dem, neo assessore ai Trasporti del Campidoglio: "Marino è un po’ sfortunato: ogni volta che si muove da Roma succede qualcosa". Così sfortunato, il sindaco, che anche l’avvio dell’"era Gabrielli", il prefetto-tutor messo dal governo a "controllare" la situazione romana, lo vivrà oltreoceano. Gabrielli, infatti, da stamane sarà "operativo" a tutti gli effetti, sul Giubileo e non solo. E il primo incontro, con Ignazio assente, lo avrà col governatore del Lazio Nicola Zingaretti, quello che in molti vedono come alter ego di Marino: tanto è gaffeur, fuori dagli schemi, imprevedibile l’uno, tanto è posato, riflessivo, affidabile l’altro. Gabrielli e Zingaretti faranno il primo vero sopralluogo giubilare: il controllo della centrale operativa per le emergenze, il numero unico (112) che sarà coordinato dalla Regione. Secondo appuntamento del prefetto, nel pomeriggio, col vice di Marino, Marco Causi. H Comune darà i nomi dei suoi rappresentanti nella segreteria inter-istituzionale che verrà istituita per l’Anno Santo: ci saranno il coordinatore del Giubileo per il Comune Maurizio Pucci, il capo di gabinetto Luigi Fucito, il vicecapo Rossella Matarazzo, il comandante dei vigili urbani Raffaele Clemente. Martedì, però, è il giorno clou, soprattutto per l’incontro in programma tra il Comune, Gabrielli e Raffaele Cantone sugli appalti dell’Anno Santo. "I nostri controlli - giura Alfonso Sabella, assessore alla Legalità - saranno più severi rispetto a quelli dell’Expo". Il piano, in parte già sottoposto a Cantone, verrà comunque vagliato dal prefetto e dal presidente dell’Anac: saranno loro, alla fine, a dare l’ultima parola ed eventualmente a chiedere integrazioni. La parola d’ordine di tutti è "fare presto, ma fare anche bene", utilizzando il sistema elettronico Siproneg che assicura la rotazione di 900 aziende iscritte all’albo fornitori del Campidoglio. Circa 30 milioni di euro sui primi 50 che il governo ha concesso di spendere a Roma, verranno assegnati così. Basta? Secondo Sabella e Pucci sì: "Faremo anche controlli in corso d’opera, a sorpresa, per vedere che i lavori siano realizzati secondo il capitolato". Ma Gabrielli e Cantone, prima di avviare i cantieri, passeranno al setaccio tutte le imprese fornitrici del Comune, verificandone le autocertificazioni antimafia e andando a capire se ci sono prestanome o scatole cinesi. E Marino? Tra oggi e domani dovrebbe vedere il sindaco di New York Bill de Biasio, poi tornerà nella Capitale per la manifestazione anti-mafia del 3 settembre. Da Roma, intanto, Alfio Marchini gli lancia la sfida: "Mi candiderò a sindaco - ha detto alla festa del Fatto quotidiano. Vedremo chi si alleerà con noi". Il centrodestra lo corteggia, il centrosinistra ci fa un pensiero. E Alfio, per ora, sta in mezzo. Giustizia: dove comandano i "caporali"; non solo stranieri, almeno 150mila italiani sfruttati di Emilio Fabio Torsello Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2015 Sono almeno 150mila gli italiani che nel settore agricolo oggi vivono le stesse situazioni di vulnerabilità e sfruttamento degli stranieri quanto a condizioni di lavoro. Ad anticipare questa stima è Francesco Carchedi, docente all’Università di Roma "La Sapienza" presso la facoltà di Sociologia e coordinatore scientifico dell’Osservatorio "Placido Rizzotto" Flai-Cgil. "Per anni - afferma Carchedi - si è dato per scontato che gli italiani fossero meno vulnerabili o comunque più capaci di difendersi. Oggi sta emergendo che non è così. I lavoratori dipendenti in agricoltura sono circa 1,3 milioni, di questi un quarto sono stranieri. Altre 400-500mila sono le persone che lavorano in nero. Gli italiani sono circa un milione, una parte di loro però non è messa in regola in modo trasparente". L’Italia si conferma così terra di agricoltura e caporali. E non solo al Sud, ma in quasi tutte le regioni italiane. Un sistema, quello della chiamata attraverso il caporale, che nel nostro Paese ha radici antichissime e oggi, come scrive la Flai Cgil nel II rapporto sulle Agromafie, vede "non meno di 400mila (di cui più dell’80% stranieri) potenziali lavoratori in agricoltura che rischiano di confrontarsi ogni giorno con il caporalato, per loro unico strumento per entrare nel mercato del lavoro (seppur nero)". Con un danno per le casse dello Stato che, sempre secondo le stime Flai Cgil, ogni anno si aggira attorno ai nove miliardi di euro (600 invece i milioni non dichiarati sul fronte contributivo). "L’illegalità - aggiunge Carchedi - riguarda almeno il 10% degli imprenditori agricoli a livello nazionale e quindi, di riflesso, i braccianti. Si tratta spesso di grandi aziende che sfruttano i lavoratori e dettano i criteri della concorrenza, viziando il mercato". In Puglia, anticipano ancora dalla Flai-Cgil, sono stati individuati venti grandi imprenditori che mettono in atto uno "stile manageriale predatorio", altri quattro o cinque nella zona di Latina, due nella Sernide, nel mantovano. Secondo quanto emerge dalle recenti rilevazioni fatte dalla Caritas italiana, all’interno del "progetto Presidio" attivo in diverse "tendopoli" di lavoratori stranieri, e dall’Osservatorio della Flai Cgil, i cosiddetti "ghetti" sono sparsi in tutto il Paese, da Nord a Sud, senza distinzioni. Ci "abitano" immigrati provenienti dal Nord Africa e dall’Africa subsahariana (spesso con regolare permesso di soggiorno e con alle spalle una traversata in mare dalla Libia), oltre a braccianti dell’Est Europa, come romeni, ungheresi e bulgari. E la mappa dello sfruttamento si estende ben oltre i luoghi a tutti noti. Si va da Castelvolturno, dove insiste una comunità africana di 18mila persone, a Rosarno in Calabria (qui vivono almeno 3mila persone nella stagione dei raccolti), passando per i ghetti della Capitanata dove si rifugiano circa 12mila immigrati, il Salento e la provincia di Bari, o le tendopoli in Basilicata nella zona di Acerenza, Palazzo San Gervasio, Venosa e Melfi, Ragusa in Sicilia. Tra le 2mila e le 4mila persone si riversano anche nei terreni della Piana del Sele, nel salernitano. Ci sono poi i ghetti del Centro Italia come quelli nella zona di Latina, Fondi e Sabaudia, alle porte di Roma, fulcro della popolosa comunità indiana impiegata nei campi del pontino. E non è immune dal fenomeno dello sfruttamento in agricoltura nemmeno il Nord. In Emilia Romagna si registrano situazioni gravi nel cesenatico e nella zona di Rimini, Ferrara (a Codigoro) e Ravenna. In Toscana a essere critiche sono la zona dell’Amiata e la Val di Cornia. Mentre in Lombardia condizioni di grave sfruttamento si registrano nei campi del basso bresciano e nel mantovano. In Piemonte sono noti come luoghi di "smistamento" di manodopera a basso costo i territori di Saluzzo, le Langhe e Bra. In Veneto, fenomeni di caporalato si sono registrati nella provincia di Padova. In Trentino, nell’area di Bolzano/Laives. Proprio per combattere il problema del caporalato, giovedì scorso i ministri dell’Agricoltura e del Lavoro, Maurizio Martina e Giuliano Poletti, hanno annunciato in tempi brevi una legge che preveda la confisca dei beni per tutte quelle aziende che sfruttino i braccianti o facciano uso di caporali. Un’iniziativa che va a sommarsi alle normative già esistenti per la lotta al caporalato. "A dover cambiare - commenta in questo senso Oliviero Forti, direttore del settore Immigrazione della Caritas italiana - è la contrattazione nella filiera: si fanno le leggi per combattere il caporalato ma ancora non si vede da parte del Governo una riforma del sistema dell’agricoltura che apra, se necessario, un dialogo anche con le grandi multinazionali che nei fatti decidono i prezzi dei prodotti, la domanda e l’offerta. Se il prezzo corrisposto all’agricoltore è basso, difficilmente cambieranno le condizioni di lavoro e salario. La sfida da vincere per eliminare nei fatti il caporalato è tutta lì". Sul procedimento della sospensione con messa alla prova incide la sola pena di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 27 luglio 2015 n. 32787. Nella individuazione dei reati rispetto ai quali è applicabile l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova di cui all’articolo 168 bis del Cp e seguenti ("reati puniti…con la pena edittale detentiva non superiore al massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria…"), deve aversi riguardo alla sola pena edittale, senza che si possa tenere conto della sussistenza di eventuali circostanze aggravanti, seppure a effetto speciale. Lo hanno affermato i giudici della quarta sezione penale della Cassazione con la sentenza 32787/2015. Le eventuali aggravanti - Infatti, sul piano letterale, manca nella disciplina normativa alcun esplicito riferimento alla possibile incidenza delle eventuali aggravanti, mentre ogni volta che il legislatore ha voluto che si tenesse conto delle circostanze aggravanti lo ha espressamente previsto. Inoltre, anche strutturalmente, ai fini della decisione sull’istanza presentata ex articolo 464 bis del Cpp, al giudice non è consentito pronunciarsi sulla fondatezza dell’accusa, dunque sulla configurabilità o meno del fatto aggravato, se non in termini negativi circa la sussistenza delle condizioni per la pronuncia di una sentenza di proscioglimento. La questione - Accogliendo il ricorso dell’imputato, la Corte, in una fattispecie in cui era contestato il reato di cui all’articolo 73, comma 5, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, punito con una pena ricompresa nella soglia indicata dall’articolo 168 bis del Cp, ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui il Gip aveva invece rigettato la richiesta di sospensione in ragione della ritenuta contestazione dell’aggravante a effetto speciale di cui all’articolo 80 del Dpr n. 309 del 1990, che secondo il giudicante avrebbe portato la pena oltre la soglia prevista per l’ammissibilità dell’istituto). I precedenti - In termini, si è già espressa sezione VI, 9 dicembre 2014, Proc. Rep. Trib. Padova e altri in proc. Gnocco e altro, affermando che, nella individuazione dei reati rispetto ai quali è applicabile l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova (probation) di cui all’articolo 168 bis del Cp e seguenti avendo riguardo al mero riferimento edittale ("reati puniti…con la pena edittale detentiva non superiore al massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria…"), deve considerarsi unicamente la pena massima prevista per ciascuna ipotesi di reato, prescindendo dal rilievo che nel caso concreto potrebbe assumere la presenza della contestazione di una circostanza aggravante, comprese quelle a effetto speciale. Da queste premesse, accogliendo il ricorso sia della Procura della Repubblica che degli imputati, la Corte, in una fattispecie in cui era contestato il reato di cui all’articolo 73, comma 5, del dpr 9 ottobre 1990 n. 309, punito con una pena ricompresa nella soglia indicata dall’articolo 168 bis del Cp, ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui il Gip aveva invece rigettato la richiesta di sospensione in ragione della ritenuta contestazione dell’aggravante a effetto speciale di cui all’articolo 80 del Dpr n. 309 del 1990, che secondo il giudicante avrebbe portato la pena oltre la soglia prevista per l’ammissibilità dell’istituto. Subordinazione della sospensione condizionale della pena a specifici adempimenti Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2015 Reato - Cause di estinzione - Sospensione condizionale della pena - Subordinazione del beneficio a specifici adempimenti - Termine per l’esecuzione - Individuazione del dies a quo - Conseguenze. Nel caso in cui la sospensione condizionale della pena sia stata subordinata al risarcimento del danno oppure all’eliminazione delle conseguenze del reato il termine per l’ esecuzione decorre dal passaggio in giudicato della sentenza, atteso che non è possibile una esecuzione ante iudicatum dei capi penali della pronuncia, tra i quali sono comprese le statuizioni sulla sospensione condizionale della pena. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 11 maggio 2015 n. 19316. Pena - Sospensione condizionale - Subordinazione del beneficio a specifici adempimenti Eliminazione conseguenze dannose - Obbligo di restituzione - Ammissibilità anche in assenza di richiesta della parte civile. La concessione della sospensione condizionale della pena può legittimamente essere subordinata alla eliminazione delle conseguenze dannose del reato mediante l’adempimento dell’obbligo di restituzione, anche qualora manchi una richiesta in tal senso per la mancata costituzione di parte civile della persona offesa • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 14 gennaio 2015 n. 1324. Pena - Sospensione condizionale - - Subordinazione alle restituzioni in assenza di costituzione di parte civile - Ammissibilità - Esclusione - Ragioni. Il giudice non può subordinare la sospensione condizionale della pena, in difetto della costituzione di parte civile, all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni di beni conseguiti per effetto del reato, perché queste, come il risarcimento, riguardano solo il danno civile e non anche il danno criminale, che si identifica con le conseguenze di tipo pubblicistico che ineriscono alla lesione o alla messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma penale e che assumono rilievo, a norma dell’articolo 165 cod. pen., solo se i loro effetti non sono ancora cessati. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 29 gennaio 2014 n. 3958. Reato - Cause di estinzione - Sospensione condizionale della pena - Subordinazione del beneficio al pagamento della provvisionale prima del passaggio in giudicato della sentenza - Legittimità - Esclusione. Il beneficio della sospensione condizionale della pena non può essere subordinato al pagamento della provvisionale riconosciuta alla parte civile da effettuarsi anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 11 luglio 2013 n. 29889. Pena - Sospensione condizionale - Condanna a provvisionale - Sospensione condizionale subordinata al pagamento della stessa in un termine anteriore alla sentenza definitiva - Ammissibilità - Sussistenza. Il beneficio della sospensione condizionale della pena può essere subordinato dal giudice, ove la condizione attenga al pagamento di una provvisionale in favore della parte civile costituita, al versamento della somma dovuta entro un termine anteriore al passaggio in giudicato della sentenza, essendo la condanna, nella parte concernente la provvisionale, immediatamente esecutiva per legge. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 8 gennaio 2009 n. 126. Reato - Cause di estinzione - Sospensione condizionale della pena - Subordinazione a specifici adempimenti - Termine per l’adempimento - Individuazione del dies a quo. Nel caso in cui la sospensione condizionale della pena sia stata subordinata al risarcimento del danno o alla eliminazione delle conseguenze del reato, il termine per la esecuzione decorre dal passaggio in giudicato della sentenza, atteso che non è possibile un’esecuzione ante iudicatum dei capi penali della pronuncia, tra i quali sono comprese le statuizioni sulla sospensione condizionale della pena. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 2 aprile 2007 n. 13456. Le norme Cedu non sono "self executing" per l’applicazione immediata di Giulia Laddaga Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2015 Consiglio di Stato - Adunanza plenaria - Ordinanza 14 luglio 2015 n. 7. A distanza di pochi mesi, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 7 del 2015, torna ancora a pronunciarsi in merito alla natura delle norme della Convenzione dei Diritti dell’Uomo (Cedu) nel nostro ordinamento. Sebbene l’orientamento del Supremo consesso della giustizia amministrativa sia costante, frequenti sono le sue pronunce in materia (basti pensare all’ordinanza del 4 marzo scorso, la n. 2/2015). La natura delle norme della Cedu - Ribadendo quanto già affermato dalla Corte costituzionale nelle ormai storiche pronunce nn. 348 e 349 del 2007 in materia espropriativa, le norme Cedu non sono assimilabili alle norme comunitarie self executing ai fini dell’applicazione immediata nell’ordinamento interno. La Corte delle Leggi, infatti, aveva già chiarito che solo le norme comunitarie debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari. E ciò in forza dell’articolo 11 della Costituzione, nella parte in cui consente le limitazioni della sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni. Ciò non può dirsi per le norme Cedu che, pur assolvendo alla funzione primaria di tutela e di valorizzazione dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone, sono pur norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, con connessa disapplicazione delle norme interne in eventuale contrasto. L’articolo 117, primo comma, della Costituzione, nel testo introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, distingue infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario da quelli riconducibili agli obblighi internazionali. Si tratta di una differenza non soltanto terminologica, ma anche sostanziale. Con l’adesione ai Trattati comunitari, l’Italia è, infatti, entrata a far parte di un "ordinamento" più ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. La Convenzione Edu, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce, quindi, norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale, pur con le caratteristiche significativamente peculiari, da cui derivano "obblighi" per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti per tutte le autorità interne degli Stati membri. Le implicazioni nell’ordinamento - Se ne deve dedurre che l’eventuale contrasto di una norma nazionale con la normativa Cedu, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, non può legittimare il giudice a quo alla diretta disapplicazione della norma interna. Va ribadita anche l’esclusione delle norme Cedu, in quanto norme pattizie, dall’ambito di operatività dell’articolo 10, primo comma, della Costituzione, che con l’espressione "norme del diritto internazionale generalmente riconosciute", si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e dispone l’adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell’ordinamento giuridico italiano, ma non si applica alle norme convenzionali, ancorché generali, contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali, come la Cedu, con la conseguente impossibilità di assumere le relative norme quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale, di per sé sole, ovvero come norme interposte ex articolo 10 della Costituzione. L’orientamento dell’Adunanza Plenaria - Dando continuità all’indirizzo, ribadito anche recentemente (ordinanza 4 marzo 2015, n. 2), l’Adunanza Plenaria conclude che, nonostante taluni orientamenti giurisprudenziali e dottrinari di segno contrario, le norme interne contrastanti con le norme pattizie internazionali, ivi compresa la Cedu, sono suscettibili unicamente di sindacato accentrato da parte della Corte costituzionale. Le norme della Cedu, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, assumono rilevanza nell’ordinamento italiano quali norme interposte, essendo loro riconosciuta un’efficacia intermedia tra legge e Costituzione, volta a integrare il parametro di cui all’articolo 117, comma 1, della Costituzione che vincola i legislatori nazionali, statale e regionali, a conformarsi agli obblighi internazionali assunti dallo Stato. Tale posizione non è mutata neanche a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che, all’articolo 6, prevede l’adesione dell’Unione europea alla Convenzione Cedu, che non ha "comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della Cedu nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la concezione delle norme interposte" (Corte costituzionale, sentenza n. 80/2011). Di conseguenza, il giudice del caso concreto, allorché si trovi a decidere di un contrasto tra la Cedu e una norma di legge interna, sarà tenuto a sollevare un’apposita questione di legittimità costituzionale, salva l’interpretazione conforme alla Convenzione, e quindi conforme agli impegni internazionali assunti dall’Italia, delle norme interne. Tale interpretazione, anzi, si rende doverosa per il giudice che, prima di sollevare un’eventuale questione di legittimità, è tenuto a interpretare la disposizione nazionale in modo conforme a costituzione. Le norme Cedu, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre a un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali o dei principi supremi, ma debba estendersi a ogni profilo di contrasto tra le "norme interposte" e quelle costituzionali. Impugnazioni: istanza di sospensione della condanna al pagamento della provvisionale Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2015 Appello - Esecuzione delle condanne civili - Condanna al pagamento di una provvisionale - Istanza di sospensione dell’esecuzione di tale condanna - Proposizione insieme all’impugnazione della sentenza - Necessità - Proposizione quale istanza autonoma e successiva all’impugnazione - Inammissibilità - Decisione del giudice dell’appello - Autonoma ricorribilità in Cassazione - Esclusione. L’istanza dell’imputato diretta ad ottenere la revoca o la sospensione della provvisoria esecutorietà della condanna al pagamento di una provvisionale deve essere formulata insieme con l’atto di appello e, a pena di inammissibilità, non può essere proposta separatamente e successivamente all’impugnazione della sentenza. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 22 gennaio 2015 n. 2860. Appello - Esecuzione delle condanne civili - Richiesta di sospensione della condanna al pagamento della provvisionale - Ordinanza di rigetto del giudice di appello - Impugnabilità - Esclusione. E ‘inoppugnabile, per assenza di una previsione ad hoc, l’ordinanza con cui il giudice di appello rigetta la richiesta dell’imputato di sospensione, ai sensi dell’articolo 600, comma terzo, del Cpp, dell’esecuzione della condanna al pagamento di una provvisionale in favore della parte civile, disposta dal giudice di primo grado. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 5 novembre 2013 n. 44603. Provvisoria esecuzione delle disposizioni civili - Richiesta di sospensione al giudice d’appello - Rigetto - Impugnazione autonoma - Inammissibilità. Contro l’ordinanza con la quale il giudice di appello abbia negato la sospensione dell’esecuzione della provvisionale disposta dalla sentenza di primo grado in favore della parte civile non è consentita alcuna impugnazione, da un lato, stante la tassatività dei relativi mezzi dall’altro, tenuto conto che l’articolo 586 del Cpp è esplicito nel prevedere che l’ordinanza - non autonoma e strutturalmente legata al merito - deve essere impugnata unitamente alla sentenza e per i capi afferenti le statuizioni civili. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 27 maggio 2003 n. 23309. Appello - Esecuzione delle condanne civili - Istanza di sospensione dell’esecuzione della provvisionale - Proposizione insieme all’impugnazione - Necessità. L’istanza di sospensione dell’esecuzione di una condanna al pagamento della provvisionale deve essere formulata, a pena di inammissibilità, con l’atto di gravame e non separatamente e successivamente all’impugnazione della sentenza che detta condanna contenga. Corte di cassazione, sezione II, ordinanza 16 aprile 1999 n. 1581. Per il ristoro del danno patrimoniale va valutato il bene al momento della liquidazione di Mario Piselli Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 14 luglio 2015 n. 146452. A norma degli articoli 1223 e 2056 del Cc il risarcimento del danno deve essere tale da coprire per intero il pregiudizio economico subito dal danneggiato a seguito dell’illecito altrui. Trattandosi di danno derivante dalla perdita di un determinato bene, non si può considerare a priori che il pregiudizio economico sia coperto per intero da una somma pari al valore del bene medesimo in un certo momento, integrato dalla svalutazione monetaria sopravvenuta sino alla liquidazione finale, per la inidoneità di detto criterio a determinare il valore del bene colpito dall’evento dannoso, ma è necessario, ai fini della completa reintegrazione della sfera patrimoniale lesa dall’atto illecito, tener presente in valore del bene al momento della liquidazione del danno. Lo ha affermato la Cassazione con la sentenza n. 14645 del 2015. Una valutazione equitativa - Per i Supremi giudici il ristoro del danno patrimoniale futuro richiede una valutazione equitativa i cui criteri, rimessi alla prudente discrezionalità del giudice, debbono essere idonei a consentire una liquidazione equa, adeguata e proporzionata. Pertanto, detta liquidazione non deve essere simbolica o irrisoria ma deve tendere, in relazione alla particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, ad avvicinarsi al massimo all’integrale risarcimento, provvedendo ad esaminare tutte le voci del danno emergente e del lucro cessante di cui il danno patrimoniale si compone. Il giudice deve, quindi, dare una congrua motivazione dell’esercizio dei propri poteri discrezionali, indicando i criteri assunti a base della sua valutazione, in modo da consentire il controllo della logicità e coerenza degli stessi, mentre non può essere consentito il ricorso ad una valutazione affidata alla mera intuizione del giudice e, quindi, al suo arbitrio. Assegno ai figli ridotto senza reato se la difficoltà economica del genitore è provata di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2015 A prescindere dal bisogno del minore, viola gli obblighi di assistenza familiare il genitore separato che non versa l’assegno al figlio. A integrare il reato, infatti, è l’inadempimento totale agli obblighi di mantenimento. Può sfuggire alla condanna, invece, chi - non riuscendo a sbarcare il lunario - alleggerisca il mensile, sempre che la difficoltà economica sia provata e alla prole non manchino i mezzi per vivere. Lo precisano, con sentenze del 23 e del 24 febbraio 2015, la Corte di appello di Napoli e quella di Roma. Bisogna comunque fare i conti anche con la responsabilità penale prevista dall’articolo 3 della legge 54/2006 che sanziona di per sé il mancato rispetto degli obblighi di mantenimento, a prescindere dalle condizioni economiche del genitore o dal bisogno della prole. Il caso - La questione risolta dal collegio napoletano deriva dall’omesso pagamento, da parte di un padre, dei contributi previsti per i figli minorenni. Fatto che gli era costato una condanna a tre mesi di reclusione e 300 euro di multa. Ma il legale dell’uomo impugna la sentenza: era stata la flessione degli introiti lavorativi, legata alla crisi e alla successiva chiusura del suo negozio, a impedirgli di corrispondere il dovuto. Ad ogni modo, conclude, i minori erano sostenuti dai nonni materni. La giurisprudenza - Motivo respinto dai giudici. È vero che la condotta punita dal secondo comma dell’articolo 570 del Codice penale presuppone lo stato di bisogno della prole, nel senso che il mancato versamento dell’assegno deve avere l’effetto di privare i figli dei mezzi di sussistenza. Tuttavia - si puntualizza - occorre distinguere tra inadempimento totale e parziale. Nel primo caso, non avendo il genitore corrisposto alcunché, il reato scatta a prescindere dalla prova dello stato di bisogno del minore, a nulla rilevando l’eventuale aiuto dei familiari tenuti in via sussidiaria alla corresponsione degli alimenti (Cassazione 40823/2012). Del resto - sottolinea la Corte di appello di Roma del 5 marzo 2015 - la minore età "è una condizione oggettiva dello stato di bisogno", per cui si risponderà di omessa assistenza, anche nell’ipotesi in cui al mantenimento della prole provveda l’altro genitore (Cassazione 53607/2014 ). L’inadempimento parziale, invece, impone al giudice di verificare, di volta in volta, se la cifra versata, seppur inferiore a quella stabilita, sia comunque sufficiente a garantire al figlio i mezzi di sussistenza. Nozione che - ricorda il Tribunale di Trento del 26 marzo 2015 - non comprende solo i mezzi per la minima sopravvivenza (vitto e alloggio), ma anche gli strumenti che consentano, in base alle capacità e al regime di vita del genitore, "un sia pur contenuto soddisfacimento di altre complementari esigenze della vita quotidiana" (ad esempio abbigliamento, libri di istruzione, mezzi di trasporto o di comunicazione). Reato non automatico, dunque, in caso di autoriduzione dell’assegno. Lo ricorda, come anticipato, la Corte d’appello di Roma che, il 24 febbraio 2015, assolve un padre dall’accusa di aver pagato al figlio un mensile più basso di quello sancito. In realtà, la condizione estremamente critica dell’uomo - il cui stipendio era già pignorato per un quinto per saldare i mantenimenti arretrati - non gli consentiva di versare di più. Da valutarsi, poi, la situazione di tranquillità economica del minore, convivente, nella casa di proprietà, con la madre, peraltro fruitrice di un reddito pari a quello dell’ex. Chiude il cerchio la precisazione del Tribunale di Padova del 13 marzo 2015 che - nel condannare un padre a doppio titolo (articoli 570 del Codice penale e 3 della legge 54/2006) - ricorda la differenza tra i due reati: l’articolo 570 del Codice penale punisce la mancata corresponsione dei mezzi di sussistenza; l’articolo 3 della legge 54/2006, invece, sanziona il mancato mantenimento. Così, se nella prima ipotesi rileverà l’eventuale bisogno del figlio, nella seconda basterà accertare solo la volontaria sottrazione all’obbligo di corrispondere l’assegno, nella misura e secondo le modalità stabilite dal giudice. Perché si configuri la responsabilità penale di cui all’articolo 3 sarà sufficiente, dunque, anche un inadempimento parziale. Tratto comune? L’assoluzione, da entrambe le imputazioni, per il genitore che dimostri al giudice di non disporre di risorse sufficienti ad assolvere ai propri obblighi. Lettere: sei suicidi in un mese, ma tacere è il nuovo comandamento di Vincenzo Andraous affaritaliani.it, 31 agosto 2015 Nel giro di un mese ci sono stati sei suicidi nelle carceri italiane. Ma nel nostro Paese la parola d’ordine è non parlare di galera, di morti ammazzati dentro le celle e del loro sovraffollamento. Partendo dall’idea che di galera non si debba parlare, dei morti ammazzati dentro una cella neppure, del suo sovraffollamento meno ancora, volendo così significare che l’ingiustizia è stata finalmente sanata, mi sovviene un pensiero che rafforza drammaticamente quel che è già risaputo da tempo: più la galera sarà ridotta a un lazzaretto disidratato, più chi poco conosce della prigione risulterà contento. Chiaramente si tratta di una disattenzione che renderà il cittadino ulteriormente allarmato, ovvero alla ricerca di sempre nuove sanzioni restrittive che però non risolveranno i problemi che affliggono la società di cui è parte. Una sorta di autoipnosi collettiva, perché è provato dalla recidiva inequivocabile che le carceri punitive non consentono alcuna rieducazione, alimentando ben poca "sicurezza" per quei cittadini che invece auspicano una giustizia giusta. Sul carcere è franato un silenzio spesso come la pece, frutto di un’architettura sofisticata al punto da non obbligare ad alcuna indignazione, neanche per le patologie a doppia diagnosi che s’espandono nelle celle di una prigione. C’è silenzio feroce della notizia, tramortita dall’estate in dirittura conclusiva, contiene un messaggio sottotraccia, non bisogna parlarne troppo, occorre evitare strilli e urla, sono "eventi critici" che dalla notte dei tempi appartengono al novero delle "insindacabilità" carcerarie. Sei detenuti suicidi, ognuno ospite in un Istituto diverso, ciascuno strozzato in gola, con le orbite esplose nei polmoni. Sei persone all’ammasso, corpi denudati, cadaveri in cerca d’autore. Sei residenti in quella sorta di terra di nessuno, dove non si vuole guardare, sei interrogativi rapinati brutalmente di soggetto e complemento oggetto, sei uomini azzerati della propria esistenza nello spazio di un mese o giù di lì. Manca il personale, non ci sono mezzi necessari a tutelare e garantire se non una parvenza vita, una possibile sopravvivenza. In questi frangenti le colpe non sono mai di nessuno, ovvero sono "semplicisticamente" riconducibili alla fragilità umana, genuflessa al peso della colpa e del rimorso incombente. Episodi licenziati sbrigativamente dall’urto e nel fastidio della piaga endemica dell’Amministrazione Penitenziaria, il sovraffollamento, come unica condizione d’irrappresentabilità della pena da scontare. Non c’è da farla tanto lunga, tante e troppe persone per bene muoiono ingiustamente nel consorzio sociale libero! Non fa una grinza, ma forse c’è da tener in debita considerazione che queste dipartite appartengono anch’esse a cittadini detenuti, sì, privati della libertà, ma a norma di legge con le mani e con i piedi interamente affidati allo Stato che li detiene, che però non dovrebbe spogliarli della propria dignità. C’è arrendevolezza di comodo al male minore, rispetto alla condizione di inaccettabilità cui è costretto il carcere. Sei detenuti di ogni età, terra di origine, si sono "volutamente" estinti in altrettante regioni della penisola, dunque non è la solita letteratura di parte che riguarda una ben definita Cayenna, quel famoso inferno, quella unica e malcelata dependance del diavolo. Sei esseri umani hanno preferito la ferita scarnificata al collo, il cappio stretto alla gola, se ne sono andati in sei nell’arco di un mese, scacco alla sofferenza, al dolore, all’abbandono e alla follia che imperversa in ogni disperazione solitudinarizzata da una politica scardinata dei propri ideali. Sei morti ammazzati nello scorrere di qualche settimana non sono una miserabile materia di rimbalzo, tacerne la gravità sottende latitanza di una dignità da rispettare per norma costituente, se non per un diritto e un dovere di umanità che riguarda l’intera collettività. Forse è giunto il tempo di mettere mano davvero alla Riforma Penitenziaria, quanto meno per riconsegnare al carcere il suo scopo e la sua utilità. Lettere: lo sforzo per rimediare al collasso della giustizia di Stefano Nespor (Avvocato e giornalista) Corriere della Sera, 31 agosto 2015 Caro direttore, Sabino Cassese nell’articolo sul Corriere del 25 agosto e Armando Spataro sul Corriere del 27 agosto hanno espresso opinioni divergenti sul tema della giustizia in Italia, soprattutto sul ruolo e le responsabilità dei magistrati. Mi soffermo su due dei punti trattati. Non siamo in presenza di semplici disfunzioni della giustizia (vere secondo Cassese o presunte secondo Spataro). Siamo in presenza di un collasso dell’intero sistema giudiziario (mi riferisco alla sola giustizia ordinaria). Per rendersene conto bastano le migliaia di sentenze emesse dalla Corte europea per i diritti umani e, dal 2001, anche dai giudici nazionali con le quali lo Stato italiano viene condannato a risarcire i danni provocati dall’eccessiva durata dei processi penali, civili e tributari, in violazione della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e della Costituzione. Nessun Paese europeo è paragonabile all’Italia. Nella giustizia penale la durata dei processi è incomparabilmente più lunga di quella degli altri Paesi europei. Migliaia di processi per di più si prescrivono (ed è quindi, ogni volta, la dichiarazione di un fallimento dello Stato). Si vogliono allungare i tempi di prescrizione. Ma è fondato il timore che in questo modo si possano ulteriormente protrarre i tempi durante i quali taluno resta imputato in attesa di processo 0 magari anche condannato in primo grado in attesa del giudizio di appello. La giustizia civile è, se possibile, in condizioni ancor peggiori. Anche qui la smisurata durata dei processi è provocata prima da leggi pessime. Ma siamo sicuri che la maggior parte dei giudici faccia il possibile per evitare questo vergognoso disastro? Teniamo presente che il numero di magistrati togati nel nostro Paese è tra i più alti d’Europa, mentre è in linea con standard europei la spesa per la giustizia. Se, come Spataro afferma, "la magistratura italiana è tra le più produttive d’Europa" dobbiamo scoprire le cause di un dissesto che, come osserva Cassese, determina una fuga dalla giustizia. Ma ben più grave è il gravissimo danno per l’immagine e la competitività del nostro Paese. Osserva Cassese che "la criminalità organizzata si è diffusa in vaste aree del territorio nazionale" e suggerisce di "fare un’analisi sulla preparazione di chi dirige le investigazioni, comprese le forze di polizia". Spataro ribatte che "la magistratura italiana... è leader mondiale nel contrasto efficace di ogni forma di criminalità organizzata". Tuttavia, da Roma in giù la criminalità organizzata, nelle sue varie forme e espressioni, non solo è diffusa ovunque, ma cogestisce con lo Stato le attività produttive con un imponente giro di affari. La responsabilità delle forze politiche nazionali e locali che si sono succedute è palese ed è fuori discussione. Ma è possibile che neppure la magistratura e le forze di polizia, pur così efficienti, non si siano accorte di nulla e comunque non siano in grado di porre rimedio a questo stato di cose? Non è un discorso leghista. Tutt’altro. Se il Sud d’Italia è in queste condizioni la responsabilità è dei governi che lo hanno metodicamente depredato e poi hanno operato scelte in modo da favorire lo sviluppo del Nord (salvo le ridottissime erogazioni attuate con la Cassa del mezzogiorno). Proprio per questo, lo sforzo che ora lo Stato sta compiendo per contrastare la criminalità organizzata (al Sud e al Nord) è apprezzabile ma gravemente insufficiente. Se siamo i migliori e i più bravi nel contrastare la criminalità organizzata, forse la nostra criminalità organizzata è tale che si deve fare ancora di più e ancora meglio. Como: 50enne si toglie la vita in carcere, era in cella per tentato omicidio Il Giorno, 31 agosto 2015 Questa mattina ci sarebbe dovuta essere l’udienza di convalida del suo arresto, invece molto probabilmente verrà disposta l’autopsia sul suo corpo, anche se le cause della morte di Giorgio Salvalai sono fin troppo chiare: si è tolto la vita nella cella che gli avevano assegnato nel carcere Bassone di Como, dove era arrivato solo poche ore prima. Quando gli agenti di Polizia penitenziaria sono passati a controllarlo, nel loro giro di controllo, era ormai troppo tardi. Inutili i tentativi di rianimarlo. Un epilogo tragico a due giorni di follia iniziati giovedì sera, quando l’artigiano cinquantenne aveva dato appuntamento alla sua ex convivente a casa di un amico comune, a Erba nella contrada San Maurizio. Quello che sarebbe dovuto essere un incontro chiarificatore si è trasformato un incubo. Salvalai è sbucato fuori come una furia, ha afferrato la donna e ha iniziato a picchiarla. Ore di violenze e abusi ripetuti fino alla mattina successiva, quando l’uomo è uscito di casa, trascinando l’ex compagna nella sua auto. La donna ha approfittato di un attimo di distrazione del suo carnefice per cercare di fuggire, aprendo la portiera dell’auto in corsa e gettandosi fuori. Salvalai però non si è arreso, l’ha inseguita mentre lei scappava a piedi, cercando d’investirla con l’auto, per poi picchiarla di nuovo selvaggiamente, dopo averla raggiunta all’interno di un parcheggio. A mettere fine all’incubo ci hanno pensato due carabinieri della stazione di Erba alcune ore dopo, in servizio di pattuglia nella zona del cimitero hanno scorto un’auto con le portiere aperte. Gli è bastato avvicinarsi per scorgere per terra alcuni indumenti intimi e udire delle grida disperate di aiuto. Provenivano da un boschetto poco distante dalla strada, dove l’uomo in evidente stato di alterazione psicofisica aveva trascinato la sua vittima, gettandola in mezzo a dei rovi per violentarla di nuovo, percuotendola con una bottiglia e serrandole le mani attorno al collo. Per questo era stato arrestato per sequestro di persona, violenza sessuale e tentato omicidio. Accuse pesantissime che forse hanno spinto l’uomo a decidere di farla finita. 12 suicidi in carcere tra luglio e agosto, è "record" Con la morte di Giorgio Salvalai salgono a 12 i detenuti che si sono tolti la vita durante questa estate "terribile" per le carceri italiane. Un "record" che eguaglia quello del 2005, quando però negli istituti penitenziari vi erano oltre 60.000 persone, costrette in uno stato di intollerabile sovraffollamento, a cui fu posto momentaneo rimedio l’anno successivo con la concessione di un indulto. Nel 2005 si verificarono 12 suicidi di detenuti tra luglio e agosto ed a fine anno se contarono complessivamente 57. Nel luglio del 2006 fu concesso l’indulto e i suicidi durante quell’estate furono "solo" 6, nel 2007 furono 7, nel 2008 furono 9, nel 2010 furono 11, nel 2011 furono 8, nel 2012 furono 11, nel 2013 ancora undici e lo scorso anno se ne registrarono 6. Alessandria: Sappe; detenuto aggredisce i poliziotti penitenziari e poi tenta il suicidio alessandrianews.it, 31 agosto 2015 L’uomo, in carcere per rapina e vilipendio allo Stato, dapprima ha dato in escandescenze, lanciando bombolette di gas contro il personale di polizia penitenziaria, poi ha tentato di impiccarsi. Santilli (Sappe): "Si vive in un clima di tensione che demotiva tutto il personale". La Casa di Reclusione di Alessandria torna al centro delle cronache per la tensione che si vive tra le sbarre. A pochi giorni dall’aggressione ad un poliziotto penitenziario da parte di un detenuto e dal tentato suicidio di un altro, sventato in tempo dagli uomini della Polizia Penitenziaria, sabato 29 agosto, intorno alle ore 18,50, un detenuto di nazionalità marocchina, ristretto per reati di rapina, vilipendio allo Stato e diversi rapporti di prevaricazione su altri detenuti, si è reso protagonista di un diverbio animato. "L’evento critico è stato posto sotto controllo dal personale di polizia preposto - spiega Vicente Santilli, segretario regionale piemontese del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe - Considerato il clima di tensione e di latente pericolosità l’uomo è stato allontanato per la sua incolumità dalla 1 sezione del padiglione B ad un altro reparto". L’uomo, infatti, ha dato in escandescenza, lanciando addosso al personale bombolette di gas e quant’altro in suo uso. Tranquillizzato e trasferito in un altro reparto detentivo, ha però tentato il suicidio subito dopo ed è stato tratto in salvo dal tempestivo intervento degli agenti. "Si vive un clima di tensione presso la C.R. di Alessandria - spiega Santilli - i troppi incarichi del Comandante e del Direttore, la temporanea assenza delle figure apicali, demotiva tutto il personale operante. Nonostante tutto, anche con la carenza di personale, gli agenti intervengono con coraggio e professionalità a tutte le situazioni critiche". Da Roma, il segretario generale del Sappe Donato Capece auspica "che l’Amministrazione penitenziaria del Piemonte ponga rimedio alle gravi carenze organizzative della Casa di Reclusione di Alessandria, penitenziario che non può avere un direttore ed un comandante di reparto "a mezzo servizio" e soprattutto un personale di Polizia, altamente professionale, lasciato praticamente da solo a gestire le costanti criticità che si verificano nelle celle del carcere". Foggia: Cosp; aggressione in carcere, agente picchiato da un detenuto senegalese di Luca Pernice Corriere del Mezzogiorno, 31 agosto 2015 La notizia è stata resa nota dal sindacalista Domenico Mastrulli (Cosp). Nel penitenziario sono recluse 485 persone a fronte di una capienza di 320. Ennesima aggressione ai danni di un agente della polizia penitenziaria nel carcere di Foggia. Secondo quanto denuncia Domenico Mastrulli, segretario generale nazionale del Cosp, il sindacato della Polizia, un cittadino senegalese, detenuto per violenza carnale, resistenza, oltraggio e lesioni a pubblico ufficiale avrebbe aggredito un poliziotto, colpendolo in testa con uno sgabello. Lo straniero poi avrebbe aggredito altri agenti arrivati in soccorso del collega. La vittima ha riportato una lesione alla fronte ed è stata ricoverata agli Ospedali Riuniti anche per tachicardia e ipertensione. Nel penitenziario di Foggia, che dovrebbe ospitare 320 reclusi, ci sono 485 persone con 40 agenti di Polizia in servizio: poliziotti che si riducono drasticamente nelle ore serali, notturne e festive con grave pregiudizio per le situazioni emergenziali. "Ancora una giornata di violenza nelle Carceri Italiane - commenta Mastrulli - protestiamo fermamente sull’indirizzo politico amministrativo di una Amministrazione che continua a mantenere in detenzione giudiziaria persone che invero dovrebbero rimanere in Opg per gli effetti della Legge di riconversione dei Manicomi Giudiziari con le Rems di cui la Puglia non è stata ancora dotata anche se individuata nell’ex struttura penitenziaria chiusa di Spinazzola. Il Sindacato nell’esprimere piena e incondizionata solidarietà e vicinanza agli agenti aggrediti e al collega ferito, chiede maggiori attenzioni al Ministro della Giustizia e al Capo del Dipartimento che appaiono, per chi scrive, dalle situazioni emergenziali delle Carceri, anni luce distanti". Salerno: fuochi pirotecnici improvvisati dai parenti per i detenuti, proteste dei residenti ottopagine.it, 31 agosto 2015 Ogni giorno in via Monticelli, i parenti dei carcerati improvvisano 15 minuti di spettacoli pirotecnici. Protestano i residenti di via Monticelli. Ogni giorno fuochi pirotecnici che durano anche 20 minuti all’altezza della Casa Circondariale di Fuorni. Sarebbe un modo per omaggiare, da parte dei parenti, i detenuti che sono richiusi nel Carcere. In pratica ogni sera, appena trascorse le 20, all’altezza della Centrale del Latte vi sarebbe un gruppo di persone che preparerebbe lo spettacolo pirotecnico in onore dei propri parenti rinchiusi a Fuorni. Fuochi d’artificio che, secondo i residenti, durano mediamente dai 15 ai 20 minuti con non pochi problemi. Visto che si tratta anche di petardi di indubbia potenza che oltre allo spettacolo visivo associano anche una grande potenza di deflagrazione. Una forma di affetto che, adesso, si ripercuote sugli abitanti di via Monticelli tanto che i residenti adesso temono, vista la potenza dei fuochi, anche per la stabilità delle proprie abitazioni oltre che per le auto. Immigrazione: Unione europea, il 14 vertice emergenza dei ministri di Interni e Giustizia di Luigi Offeddu Corriere della Sera, 31 agosto 2015 Prime mosse, riunione il 14 settembre dei responsabili degli Interni e della Giustizia. Il ministro britannico May: porte aperte solo ai cittadini comunitari che hanno già un lavoro. Anche se sulla sua pagina web alla Commissione europea fino a ieri sera si leggeva "lunedì, nessun evento in programma", oggi il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos andrà a visitare uno dei punti più "caldi" della frontiera comunitaria, assediato da migliaia di migranti: andrà a Calais, in Francia, al porto da cui partono i traghetti per Dover in Gran Bretagna, e all’imboccatura dell’Eurotunnel ferroviario per Londra. Là, il commissario greco sarà accolto dal primo ministro francese Manuel Valls e dal suo ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve. Un ennesimo vertice o mini-vertice, stavolta fra la Ue e la Francia, mentre il Papa grida "basta con le stragi".La prossima "riunione straordinaria" dei ministri degli Interni e della Giustizia si terrà il 14 settembre, a Bruxelles, e l’Italia porterà la proposta illustrata dal premier Renzi ieri al Corriere : "Si scelga finalmente di superare Dublino e di avere una politica di immigrazione europea, con un diritto di asilo europeo. Andremo negli Stati di provenienza per valutare le richieste, gestiremo insieme i rimpatri". Ormai il ritmo di questi incontri - a Berlino, a Parigi, a Bruxelles, in altre capitali ancora - è quasi quotidiano. Il cerino ardente gira di mano in mano, da un ministro all’altro, e alla fine resta fra le mani di qualcun altro che non governa alcun Paese, e neppure la propria vita. Nella girandola degli incontri politici, che forse è insieme sintomo e concausa della paralisi decisionale, sembra sfaldarsi la stessa dimensione comunitaria dell’Unione. Forse è inevitabile, con 28 singoli Paesi posti di fronte a una tragedia di dimensioni bibliche, tutti a parole desiderosi di regole comuni, e nella realtà frementi per il proprio ordine interno. Forse è inevitabile, ma fa impressione lo stesso. Come fa impressione la mossa della Gran Bretagna, già esonerata dagli accordi di Schengen, che ora minaccia di chiudere le frontiere anche ai cittadini Ue privi di un contratto di lavoro. Anche se il ministero britannico degli Interni Theresa May lo nega, a Bruxelles non hanno molti dubbi: questa è o sarebbe la violazione aperta di una norma-pilastro dell’Ue, la stessa che garantisce la libera circolazione delle persone, dei capitali, delle merci e delle idee. Negandola, è come se il Regno Unito socchiuda già la porta dell’Unione, davanti alla quale esita da tanti anni, e faccia un passo al di fuori. L’emergenza si legge anche nelle formalità diplomatiche. L’incontro di oggi a Calais, per esempio, sembra programmato per riassumere in sé le dimensioni del dramma. Alle 10 del mattino, il commissario Ue con i governanti francesi visiteranno il Centro migranti, e forse anche la "giungla" di tende lì accanto, dove vivono 3 mila disperati. Poi si recheranno all’imbocco dell’Eurotunnel per controllare le barriere anti-migranti. Poi ancora all’ospedale di Calais. E infine, parteciperanno a un incontro con tutte le forze "di sicurezza". Parola che non è mai stata tanto incerta ed ambigua, nella vecchia Europa, come oggi. Immigrazione: da Londra pugno duro sui migranti europei "qui solo con un lavoro" di Pietro Del Re La Repubblica, 31 agosto 2015 Il governo: "Da noi sono arrivati troppi stranieri. L’Ue cancelli Schengen" Altre 7 vittime di un naufragio in Libia. Il Papa: "Basta alle stragi di profughi". Spiazzato dalle ultime cifre sui migranti giunti in Gran Bretagna, il governo Cameron corre ai ripari applicando un giro di vite ai permessi d’ingresso e alle concessioni di asilo politico. I dati pubblicati due giorni fa, che parlano di 300mila persone entrate nel Paese tra marzo 2014 e marzo 2015, molte di più delle 100mila previste dal premier inglese, spingono Downing Street ad alzare un muro di nuove regole contro l’immigrazione. Alcune di queste norme sono state annunciate ieri in una lettera scritta al Sunday Times dal ministro dell’Interno britannico, Theresa May, la quale ne ha anche approfittato per criticare aspramente Schengen, a suo avviso responsabile delle recenti stragi: "L’accordo che consente di muoversi liberamente nell’Unione europea è la causa della morte di centinaia di persone che scappano dalla Siria per finire nelle grinfie dei trafficanti di esseri umani, proprio per questo va abolito". Quanto alle nuove restrizioni che intende adottare Londra, prima tra tutte c’è lo stop allo sbarco di europei alla ricerca di un posto di lavoro. A chi non avrà un contratto pronto al di qua della Manica non sarà più permesso di entrare nel Regno. "Di persone senza lavoro lo scorso anno dall’Ue ne sono arrivate 63mila, decisamente troppe", scrive sempre la May, che punta anche il dito contro tutti quegli europei che si trasferiscono in Gran Bretagna soltanto per approfittare degli assegni di disoccupazione o di aiuti alle famiglie. Il ministro mette in guardia perfino gli studenti internazionali che frequentano le università inglesi: "D’ora in poi, cominciate a considerare la vostra esperienza qui come "temporanea". Sempre la May, assieme ai suoi omologhi francese e tedesco, Bernard Cazeneuve e Thomas de Maizière, ha chiesto ieri alla presidenza lussemburghese di turno l’organizzazione di una riunione di emergenza dei ministri dell’Interno e della Giustizia dell’Ue per stabilire le strategie su come fronteggiare la crisi dei migranti, che è stata fissata per il 14 settembre. Londra, Parigi e Berlino vogliono anche che venga al più presto stilata una lista dei "Paesi d’origine sicuri" per completare il regime di asilo comune, proteggere i rifugiati e garantire il ritorno effettivo degli immigrati illegali nei luoghi di provenienza. E sempre ieri, da Piazza San Pietro Papa Francesco ha rivolto un pressante monito per arginare concretamente la tragedia in corso. Dopo l’Angelus, il Santo padre ha chiesto con forza di fermare le stragi di migranti, che ha definito "crimini che offendono l’intera famiglia umana". Il Papa ha poi ricordato le morti di tanti profughi e in particolare le vittime ritrovate in un camion in Austria: "Purtroppo - ha detto - anche nei giorni scorsi numerosi migranti hanno perso la vita nei loro terribili viaggi. Per tutti questi prego e invito a pregare per le 71 vittime, tra cui 4 bambini, trovate in un camion sull’autostrada Budapest-Vienna". Intanto, la cronaca riferisce di un nuovo naufragio davanti alle coste libiche con almeno 7 cadaveri ritrovati sulle spiagge davanti a Khoms, un centinaio di chilometri a est di Tripoli. Immigrazione: così la Gran Bretagna cerca di cavalcare l’onda populista di John Lloyd (Traduzione di Anna Bissanti) La Repubblica, 31 agosto 2015 Il ministro Theresa May si è fatta portavoce dello zoccolo duro dell’opposizione È l’occasione migliore di ottenere un accordo e spuntare migliori condizioni nell’Ue. La Gran Bretagna è il ragazzo cattivo dell’Unione europea, e lo è fin da quando entrò a farne parte. Alla sua domanda di adesione, il presidente francese Charles de Gaulle pose il veto due volte, nel 1963 e nel 1967, arrivando a definire la Gran Bretagna "un’isola insignificante sperduta in mezzo al mare", che preferiva interessarsi più agli Stati Uniti che all’Europa. Alla fine, tuttavia, nel 1973 la Gran Bretagna è riuscita a farvi ingresso, e negli ultimi 42 anni ha esasperato i suoi partner dell’Ue chiedendo un trattamento speciale. Tra gli stati più grandi, è l’unico dell’Ue a non aderire agli Accordi di Schengen, l’unico a non avere l’euro, l’unico a non volere "più Europa", bensì "meno Europa". Alla fine del 2017 si esprimerà in un referendum pro o contro il proseguimento della sua adesione all’Ue: il primo ministro David Cameron raccomanderà di votare "Yes" a favore dell’Ue soltanto se riuscirà a negoziare e conquistare alcune concessioni "sostanziali" dai suoi partner dell’Unione. Tali concessioni saranno finalizzate a restituire più poteri a Westminster, e indeboliranno di conseguenza il potere dell’Unione. Nelle parole di Theresa May, ministro degli Interni, che ha scritto sul Sunday Times di ieri che le migrazioni interne dall’Unione alla Gran Bretagna sono ormai un problema insostenibile e devono essere notevolmente ridotte - si riflettono le opinioni e il comune sentire di quanti vogliono uscire dall’Ue. Theresa May ha 58 anni ed è una donna ambiziosa, dura e intelligente, di gran lunga la politica più illustre del Gabinetto. Potrebbe diventare la candidata di punta della potente ala destra del suo partito, formato in maggior parte da euroscettici. Il suo editoriale di ieri è il tentativo di affrontare e risolvere un grande problema politico per il governo. E al contempo, è anche un segnale lanciato ai suoi colleghi affinché capiscano che lei è più inflessibile al riguardo dell’Unione, sia del primo ministro sia del Cancelliere. La settimana scorsa la notizia secondo cui l’anno scorso l’immigrazione netta nel Regno Unito è stata di 330mila unità - benché Cameron avesse promesso che non avrebbe superato le 100mila - ha imbarazzato il governo. Come ha fatto notare May, gran parte degli immigrati proviene dagli stati membri dell’Ue e ha dunque il diritto di circolare e lavorare liberamente nell’Unione. Ma, secondo May, l’accordo di libera circolazione prevede solo la libertà di accettare un posto di lavoro che sia stato già offerto (e non la possibilità di andare a cercarlo). La Confindustria britannica ha però confutato le sue argomentazioni, affermando che negare l’ingresso ai migranti dall’Ue sottrarrebbe ai datori di lavoro il personale di cui ha bisogno. E farebbe chiudere varie fabbriche. Le esigenze del partito, tuttavia, scavalcano quelle dell’economia: l’opposizione popolare all’immigrazione, già molto alta, continua ad aumentare. Quando ha sollecitato i leader europei a "prendere in considerazione le conseguenze dell’immigrazione incontrollata sui salari, i posti di lavoro, la coesione sociale dei paesi-destinazioni finali; sulle economie e le società degli altri stati; e sulle vite e il welfare di quanti cercano di venire nel Regno Unito", Theresa May si è fatta portavoce dello zoccolo duro di quell’opposizione. Questa è l’occasione migliore per la leadership britannica di spuntare un accordo e modificare le regole dell’Ue, promuovendo quei cambiamenti che tutti i paesi ora stanno iniziando a prendere in considerazione, per esempio quelli che implicherebbero maggiori controlli alle frontiere e che reagirebbero anche alle preoccupazioni dell’estrema destra, sempre più popolare perché trae vantaggio dall’opposizione ai migranti. La Gran Bretagna è il ragazzo cattivo dell’Ue da oltre quarant’anni, ma ora si presenta quasi come un caposcuola che chiede provvedimenti che gli altri paesi reputano impensabili, ma sui quali di fatto potrebbero essere costretti a pensare. Medio Oriente: italiano attivista di una Ong arrestato, filmava bimbo picchiato da soldato di Francesca Musacchio Il Tempo, 31 agosto 2015 Attivista di una Ong di 31 anni arrestato in Cisgiordania dalla polizia israeliana Le accuse: lancio di pietre e attacco ai militari. La Farnesina: "Sarà espulso". Lancio di pietre e attacco ai militari. Sono queste le accuse nei confronti di Vittorio Fera, un’attivista italiano della ong International Solidarity Movement, arrestato venerdì in Cisgiordania nel corso di un manifestazione in un villaggio palestinese. Il 31enne, originario di Monza, è detenuto nelle carceri di Israele in attesa di giudizio. Ieri nel tardo pomeriggio, però, la Farnesina ha fatto sapere di una possibile espulsione del giovane già nelle prossime ore. "Il Consolato generale d’Italia a Gerusalemme e l’ambasciata a Tel Aviv - spiegano dal ministero degli Esteri - stanno seguendo sin dall’inizio e costantemente il caso del connazionale Vittorio Fera, posto in stato di fermo in Cisgiordania. La sua posizione è in corso di esame da parte delle autorità israeliane competenti, che hanno informato della possibilità di una espulsione già nelle prossime ore. La nostra rappresentanza diplomatica ha ricevuto assicurazioni dal ministero degli Esteri israeliano sulle buone condizioni del connazionale e sulla possibilità di poterlo quanto prima visitare per prestare ogni ulteriore assistenza consolare". Su quanto accaduto venerdì, però, restano ancora alcuni aspetti da chiarire. Durante la protesta che ogni settimana gli abitanti di Nabi Saleh compiono contro la costruzione di un insediamento illegale israeliano nelle terre del villaggio, il 31enne è stato fermato mentre stava filmando la presunta aggressione da parte di un soldato israeliano nei confronti di un ragazzo palestinese. Fera, secondo l’ong che ha divulgato la notizia, è accusato di aver "lanciato pietre e attaccato i soldati" proprio durante la manifestazione. Una situazione che il movimento pro Palestina ha definito "un’affermazione priva di fondamento" aggiungendo che "Vittorio stava filmando il violento attacco delle forze israeliane a un ragazzino palestinese, che veniva aggredito e soffocato da un soldato". Il video del minore con un braccio ingessato, afferrato con forza dal soldato israeliano, hanno fatto il giro del mondo, suscitando l’ira dei palestinesi e non solo. Sull’autenticità delle immagini, però, sono stati espressi dubbi. Il sospetto è che l’aggressione al bambino e la reazione di altre persone accorse sul posto per liberarlo dalla morsa del militare, facciano parte della propaganda anti Israele messa in campo dagli attivisti del villaggio. Il Daily Mail, in particolare, ha sottolineato come nel video è presente anche Ahed Tamim, mentre morde la mano del soldato nell’intento di liberare il ragazzino, e definita dai media israeliani come "Shirley Temper". La 12enne è figlia di una coppia di attivisti palestinesi, in passato finiti nei guai con la giustizia proprio per le loro azioni considerate eversive. La famiglia è anche accusata di manipolare l’informazione dei media contro Israele. Suo padre Bassem nel 2011 è stato condannato per aver istigato giovani al lancio di pietre e per manifestazioni non autorizzate. È stato in carcere per otto volte, mentre la moglie è stata arrestata cinque volte. In manette anche il figlio Waed. Buon sangue non mente e "Shirley la furia" nel 2012 si è scagliata a pugni chiusi contro i soldati israeliani durante una manifestazione, sempre in Cisgiordania, ricevendo in seguito un premio per il coraggio mostrato. Rimane da capire, quindi, il contesto nel quale Vittorio Fera è finito in manette. Intanto la Farnesina si sta occupando del suo rientro in Italia, che forse gli eviterà un processo in Israele. Australia: World Medical Association condanna segretezza dei campi detenzione profughi Aise, 31 agosto 2015 "La World Medical Association si affianca a un gruppo di medici e infermieri australiani nel condannare le nuove norme di segretezza imposte su chi lavora nei centri di detenzione per richiedenti asilo, stabiliti dall’Australia in due remote isole del Pacifico oltre che nel proprio territorio". A riferirlo è un articolo pubblicato nell’ultimo numero di "Nuovo Paese", il mensile della Filef edito ad Adelaide in lingua italiana. "Le nuove norme sono parte della neocostituita Australian Border Force, un’agenzia congiunta del dipartimento immigrazione e del servizio dogane e protezione dei confini e istituiscono un reato che proibisce al personale medico, educativo e umanitario operante nei centri di divulgare informazioni sulle condizioni dei richiedenti asilo e sulle cure prestate. Secondo le norme, lo staff che rivela condizioni dei detenuti o episodi di abusi rischia fino a due anni di carcere, con esenzioni limitate per informazioni fornite a enti di supervisione o autorità di protezione dei minori. Il presidente della World Medical Association, Xavier Deau, ha scritto al primo ministro conservatore Tony Abbott chiedendo di emendare la nuova legge per permettere al personale medico di parlare apertamente delle cure prestate ai richiedenti asilo. "Dobbiamo ritenere che il divieto si estenda ai medici che lavorano in centri profughi e che riferiscono le proprie osservazioni riguardanti il proprio lavoro", scrive Deau. "Questo è in chiaro conflitto con i principi fondamentali dell’etica medica. I medici devono alzare la voce, pubblicamente se necessario, quando le condizioni di salute dei loro pazienti, che siano in libertà o in detenzione, sono inaccettabili". Intanto oltre 40 medici, infermieri, insegnanti e operatori umanitari, che hanno lavorato in centri di detenzione di richiedenti asilo, hanno scritto una lettera aperta al governo federale contro il nuovo reato. Russia: incendio uccide quattro detenuti in un carcere della regione di Ulianovsk Ansa, 31 agosto 2015 Un incendio ha ucciso quattro detenuti in un carcere della regione di Ulianovsk, nella zona del Volga. Lo scrive il Moscow Times. Le fiamme sono divampate sabato sera e sei persone sono rimaste ferite. Tra loro un agente di polizia penitenziaria, ricoverato in terapia intensiva. Egitto: il Canada chiede la grazia per il giornalista di "al Jazeera" condannato a tre anni Nova, 31 agosto 2015 Il governo del Canada ha formalmente chiesto la grazia per Mohamed Fahmi, giornalista egiziano-canadese di "al Jazeera", condannato sabato scorso a tre anni di carcere insieme ad altri 2 suoi colleghi e 3 tecnici. Lo ha riferito l’avvocato del giornalista, Amal Clooney. Le accuse sono di diffondere notizie false, di essere legati ai Fratelli musulmani e di non avere permessi di lavoro per esercitare la professione in Egitto. "Le condanne a tre anni di carcere comminate da un tribunale egiziano nei confronti di sei giornalisti dell’emittente del Qatar "al Jazeera" rappresentano un passo indietro per la libertà d’espressione nel paese africano", ha detto l’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Federica Mogherini, in un comunicato diffuso dalla rappresentanza europea al Cairo. Fra i condannati vi sono Baher Mohamed, il naturalizzato canadese Mohamed Fahmy e l’australiano Peter Greste, processato in absentia perché già estradato nel suo paese. La condanna di quest’ultimo, non presente al dibattimento, "mette ulteriormente in dubbio la credibilità del processo" e rappresenta "una violazione da parte dell’Egitto degli obblighi derivanti dalle leggi internazionali", si legge nel comunicato. L’Alto rappresentante ha esortato le autorità egiziane a garantire un clima adeguato per le fonti d’informazione e i giornalisti. "Mezzi d’informazione liberi, differenziati e indipendenti sono essenziali in una società democratica, e ci attendiamo passi concreti per promuovere un ambiente sicuro per i giornalisti", ha detto la Mogherini, che ha reiterato l’appello dell’Ue per la liberazione dei condannati. Secondo l’Alto rappresentante, la sentenza di ieri, che ha riconosciuto i giornalisti colpevoli di aver diffuso "false informazioni" nel corso dei disordini seguiti alla deposizione dell’ex presidente Mohamed Morsi nel luglio del 2013, con l’intento di minare la sicurezza del paese, ha sollecitato le proteste della comunità internazionale e proiettato una cattiva immagine del sistema giudiziario egiziano, visto come "uno strumento per soffocare le opposizioni e le voci libere". Dal canto suo, il ministero degli Esteri del Cairo ha respinto tutti i commenti relativi alle condanne, definendoli "non accettabili". In una dichiarazione diffusa oggi, il ministero ha fatto sapere che il governo del Cairo considera le proteste internazionali nei confronti delle condanne come "interferenze inaccettabili nelle procedure del sistema giudiziario egiziano".