Giustizia: il Papa, i migranti, e l’aiuto degli angeli custodi di Eugenio Scalfari La Repubblica, 30 agosto 2015 Francesco negli Usa invocherà la libertà per i profughi nei loro Paesi d’origine. "Ama il prossimo tuo" è il motto del Pontefice, ma anche della sinistra. Nelle prossime settimane papa Francesco andrà a Cuba, poi a Filadelfia e infine a Washington dove incontrerà Obama e parlerà al Congresso degli Stati Uniti e a New York dove parlerà all’Assemblea dell’Onu e alle grandi potenze del Consiglio di sicurezza. Sappiamo già quale sarà - al Congresso Usa e all’Assemblea Onu - il tema fondamentale di Francesco: quello dei migranti. Lui li chiama così ed è perfettamente corretto dal suo punto di vista; per alcuni Paesi sono persone che vogliono emigrare e lo fanno a prezzo della vita; per altri Paesi sono immigranti che vengono in certi casi accolti, in altri respinti per mancanza dei requisiti richiesti. Ma per Francesco la parola giusta è quella che Lui usa sempre più spesso: migranti. Sono popoli che per una quantità di ragioni si trasferiscono da un continente all’altro, quasi sempre in condizioni di schiavitù imposte da trafficanti di persone. Popoli che, solo pensando all’Africa sub-sahariana dal Ciad alla Somalia, dalla Nigeria al Sudan, ammontano a cinque milioni per il 2015-16, ma a 50 milioni entro i prossimi trent’anni. Ma non è solo in Africa che avviene questo fenomeno: sta sconvolgendo tutto il Medio Oriente, i Balcani, la Turchia, la Siria, gran parte dell’Indonesia e delle Filippine. Insomma mezzo mondo è in movimento, individui, comunità e interi popoli. Le migrazioni non sono un fenomeno nuovo ma nella società globale il fenomeno coinvolge masse imponenti come non era mai accaduto prima. Venerdì scorso ho avuto un lungo colloquio telefonico con papa Francesco, che ha toccato vari temi, ma soprattutto quello delle migrazioni. Non starò a raccontare ciò che ci siamo detti su altri argomenti ma su questo sì, penso e desidero farlo perché è dominante nella coscienza del Papa e perché comunque sarà tra pochi giorni direttamente affrontato in due sedi della massima importanza. Francesco sa benissimo che le immigrazioni dirette verso continenti di antica opulenza e di antico colonialismo, anche se riconoscono alcuni diritti di asilo con più ampia tolleranza di quanto finora non sia avvenuto, saranno comunque limitate. Ma il suo appello al Congresso americano e a tutte le potenze che rappresentano il cardine dell’Onu e quindi del mondo intero, verterà necessariamente su un altro aspetto fondamentale delle migrazioni: una conquista di libertà dei migranti che avviene, per cominciare, nei luoghi stessi dove ancora risiedono e dai quali vorrebbero fuggire. È lì, proprio in quei luoghi, che il diritto di libertà va riconosciuto, oppure nelle loro adiacenze, creando se necessario libere comunità da installare in aggregati che esse stesse avranno costruito e amministreranno con l’aiuto di centinaia o migliaia di volontari che le assisteranno con una serie di servizi e con un’educazione allo stesso tempo civica e professionale. Questo è il progetto che papa Francesco sta coltivando e che ovviamente ha bisogno del sostegno delle grandi potenze indipendentemente dalla loro civiltà, storia, religione. La Chiesa missionaria di Francesco sarà naturalmente presente in tutti i luoghi dove le sarà possibile, ma i volontari da mobilitare non saranno ovviamente tutti cristiani. Saranno però soprattutto i giovani ai quali fare appello. I giovani d’oggi hanno una gran voglia di fare che a volte si identifica addirittura alla violenza e al terrorismo. Ma non è il male la radice più naturale. Francesco crede e spera che la radice più diffusa sia quella del fare e dell’aiutare il bene degli altri. Per questo prega e questo pensa e di questo parlerà nel prossimo viaggio. Riuscirà ad ottenere la sponsorizzazione dei Grandi del mondo? Riuscirà a mobilitare al massimo le Chiese missionarie cattoliche e cristiane in un’impresa di questa levatura? Collaboreranno nei loro modi anche le altre grandi religioni del mondo, non inquinate da germi fondamentalisti che portano al terrorismo e alla strage? Una cosa è certa, almeno per me ma credo per immense moltitudini di persone: non c’è che papa Francesco che sia in grado di tentare una simile iniziativa. Ascoltando il suo linguaggio direi che chieda il soccorso di migliaia e migliaia di angeli custodi, in tutte le parti del mondo, ispirati dal Dio che è uno soltanto, quali che siano le forme, le liturgie e le scritture con le quali è venerato. *** Il tema che ora desidero trattare è del tutto diverso: è politico, è italiano ed europeo. Ma qualche attinenza con quanto fin qui ho scritto c’è. Il tema è quello della sinistra e la domanda è questa: la sinistra può vincere oppure è destinata a perdere perché, almeno in Occidente ma non soltanto, il tempo della sinistra è tramontato per sua stessa insipienza ed è solo al centro che, almeno in Italia e in Europa, si riesce a raccogliere il massimo dei consensi? Per dare una risposta a chi pone questa domanda vorrei come premessa ricordare una massima creata da papa Francesco a proposito dell’etico-politico che è una fondamentale categoria dello spirito pensante: "Ama il prossimo un po’ più di te stesso". Si rivolge soprattutto ai ricchi, ai benestanti, ai potenti, e li esorta in favore dei poveri, dei poco abbienti, degli esclusi. Questo è il motto di Francesco ma questa è anche da secoli la bandiera della sinistra, quella cattolico-democratica ma soprattutto quella che fu comunista, azionista, liberaldemocratica. La sinistra moderna insomma, che ha alle spalle la storia di quasi due secoli. Questa è la premessa del tema. "Ora ascoltate com’egli è svolto" (I Pagliacci). Paolo Mieli sul "Corriere della Sera" di giovedì 27 agosto ha scritto che in Italia (ma fa anche alcuni esempi europei) la sinistra novecentesca fino all’oggi contemporaneo, non è mai riuscita a vincere per propria incapacità congenita e quindi per propria colpa. Le pochissime volte che ci riuscì pose essa stessa le premesse per perdere al più presto i consensi che aveva per eccezionali circostanze guadagnato. Per cui - Tony Blair insegni - per vincere la sinistra deve spostarsi al centro e produrre cambiamenti che sono di sinistra non per il contenuto ma per il fatto stesso che innovano e l’innovazione è comunque (per Mieli) un elemento di sinistra. Il giorno dopo, sempre sul "Corsera", Angelo Panebianco ha citato Mieli concordando sulla sua tesi ma dando al tema un’ulteriore e più tecnica dimostrazione. La riassumo in breve: la sinistra non è in grado di realizzare una politica fiscale innovativa e capace - sia nel prelievo sia nella spesa e nella ricerca delle risorse - di incentivare gli investimenti pubblici e soprattutto quelli privati, di creare nuovi posti di lavoro e insomma sviluppo, crescita e maggior benessere. La sola cosa che la sinistra (immobilista per antonomasia) è in grado di fare è di trasferire il peso delle tasse dalle spalle di alcune categorie sulle spalle di altre. Insomma, una redistribuzione del carico fiscale che lascia totalmente invariata e immobile l’economica nazionale. *** Risposta a Mieli. Anzitutto: lo Stato italiano non fu fatto soltanto da Cavour e dai patrioti del suo conio liberale e laico. Fu fatto dalla predicazione di Mazzini, dalla sua "Giovane Italia" e soprattutto dal mazziniano ma assai più carismatico Giuseppe Garibaldi. Se non ci fosse stata l’impresa dei Mille e le due grandi battaglie vinte, quella di Calatafimi all’inizio ("Qui si fa l’Italia o si muore") e quella del Volturno, la guerra franco-piemontese contro l’Austria del 1859 si sarebbe conclusa con l’annessione al Piemonte della Lombardia. Cavour del resto - anche per riuscire ad allearsi con Napoleone III - aveva dovuto fare il "connubio" con la sinistra di Rattazzi. Tirando le somme: senza la sinistra il Risorgimento non ci sarebbe stato e il Regno d’Italia già molto tardivo a nascere nel 1861, avrebbe probabilmente tardato un altro mezzo secolo. Ma Mieli lamenta altre cose. Per esempio la fralezza dei socialisti, anarchici all’inizio, massimalisti poi e infine l’impotenza dei comunisti stalinisti. Soltanto Berlinguer ruppe quel vincolo, ma la sua collaborazione con la Dc durò lo spazio di un mattino. Dopo ricominciò una sistematica opposizione che adesso è scaduta a bersaniani, a Gotor, a gruppettari come Fassina e insomma solo adottando la politica di Blair e prendendo molti voti al centro si vince. Ebbene, in alcune cose Mieli ha ragione, ma altre le sbaglia. All’inizio del secolo XX furono i socialisti di Treves e di Turati a spingere Giolitti su posizioni riformiste. E fu il Partito socialista a battersi contro la guerra del 1915. Infine il grande partito della ricostruzione del Paese e della massiccia emigrazione dei giovani dal Sud al Nord, vide la presenza determinante del Pci, di Togliatti, Ingrao, Amendola, Scoccimarro, Alicata, Longo, Reichlin, Napolitano, Chiaromonte e di molti altri ancora che si dedicarono all’educazione delle "plebi" insieme a sindacalisti della personalità di Di Vittorio, di Trentin e di Lama. Senza una classe dirigente di questo livello la classe operaia non ci sarebbe stata e l’Italia sarebbe affondata nel medio ceto burocratico e nella vecchia cultura contadina. È vero, quella sinistra non governò, ma contribuì all’evoluzione politica e culturale del Paese come e di più di chi governava. Ciriaco De Mita fu tra i pochi a capirlo nella Dc. Ma, tranne rare eccezioni tra le quali De Gasperi, la massa dorotea della Dc fu immersa nel politichese anzi ne fu quella che lo inventò. A Panebianco ho poco da dire se non questo: tra cambiamento e innovazione c’è una profonda differenza. Innovazione rinnova, lo dice la parola stessa; il cambiamento può essere innovativo oppure regressivo e reazionario. Tanto per fare un esempio (non fiscale ma storico): il principe di Metternich promosse dopo la battaglia di Lipsia il Congresso di Vienna che ebbe termine dopo Waterloo. Cambiò L’Europa? Certamente. Come? Riportando sui troni d’Europa i monarchi assoluti che la Rivoluzione e Napoleone avevano abolito. Il fisco attraverso il quale si crea il reddito a favore delle classi meno abbienti non è affatto immobilista. Panebianco dovrebbe dirci se sia stato meglio dare 80 euro mensili al medio ceto come mancia elettorale permanente, oppure se non sarebbe stato molto meglio ridurre il cuneo fiscale con quei 10 miliardi. E se sarebbe privo di effetti innovativi l’abolizione del cuneo fiscale che tutti gli altri provvedimenti, a cominciare dal Jobs Act, che non hanno ancora prodotto neppure l’ombra di un nuovo posto di lavoro. Mi contenterei di questa risposta. Grazie. Giustizia: dott Spataro, lo sa che in Francia e negli Usa il Pm dipende dal ministro? di Vincenzo Vitale Il Garantista, 30 agosto 2015 Non c’è da stupirsi se il dott. Spataro, procuratore della repubblica di Torino, torni a ribadire in una apposita intervista che la contrapposizione fra berlusconismo ed antiberlusconismo, che ha segnato oltre vent’anni di recente storia italiana, non ha impedito al primo di produrre guasti e danni di vario ordine, e che comunque le frecciate di tale berlusconismo si son soprattutto dirette nei confronti della indipendenza della magistratura, rimanendo questa in ogni caso il valore a tutti gli altri superiore. È dunque il caso di tornare rapidamente a riflettere sul ruolo che l’indipendenza della magistratura ha da svolgere nella cornice dello Stato di diritto. L’indipendenza nasce e si afferma come portato tipico della teoria della divisione dei poteri elaborata dal costituzionalismo liberale del tardo ottocento e poi viene assunta quale punto di riferimento per l’edificazione delle carte costituzionali degli stati europei nel novecento. Tuttavia, è il caso di ricordare come Montesquieu, che ne è stato il primo e più compiuto teorizzatore, faceva delle distinzioni. Mentre riservava al potere legislativo e a quello esecutivo l’accezione terminologica specifica di "potere", Montesquieu riteneva che quello giudiziario fosse un potere in qualche modo "inesistente", dal momento che i giudici dovevano limitarsi ad applicare le leggi che il parlamento avrebbe votato e il governo cercato di far rispettare. Ne viene che perciò neh ottica tradizionale del sistema costituzionale liberale, il cd. potere giudiziario va collocato un gradino più in basso rispetto agli altri poteri dello Stato che invece sono poteri a pieno titolo. In questa prospettiva, che è l’unica corretta, il problema dell’indipendenza va inquadrato nell’ambito non del sistema costituzionale complessivo, ma in quello del sotto-sistema relativo al funzionamento dell’amministrazione della giustizia. Ricordiamo subito che il nostro assetto costituzionale riconosce indipendenza non solo ai giudici, cioè ai magistrati chiamati a dire il diritto, ma anche ai pubblici ministeri, cioè a quelli incaricati di funzioni investigative e della pubblica accusa. E ricordiamo anche che in altri paesi occidentali non sospettabili di tendenze dittatoriali così non è, in quanto i pubblici ministeri sono sottoposti al potere esecutivo dal quale dipendono. Si pensi alla Francia che li vede subordinati alle scelte ministeriali o agli Stati Uniti, dove sono eletti dal popolo ed a questo perciò debbono rispondere nei singoli stati federali (pur sotto la sorveglianza del ministro della giustizia del singolo Stato) e dove sono nominati dal Presidente se di rango federale, rimanendo comunque sotto la sorveglianza dell’Attorney General, vale a dire del ministro della giustizia federale. Ebbene, da noi i pubblici ministeri non sono sotto la sorveglianza di nessuno: né del Ministro né dell’esecutivo né del popolo né del capo dell’ufficio, tranne che di se stessi. Qui allora si pone il problema. Infatti, un così alto grado di indipendenza, che praticamente non ha eguali altrove in quanto privo di controllo, postula che il singolo pubblico ministero sia davvero all’altezza del delicato compito che è chiamato a svolgere. È sotto gli occhi di tutti che così non è dal momento che la cronaca recente e meno recente riporta i casi di pubblici ministeri pasticcioni che indagano dove non dovrebbero ed omettono di farlo dove invece sarebbe necessario; che si fissano con una tesi accusatoria, senza recedere neppure davanti all’evidenza contraria; che con estrema facilità chiedono, ottenendola, la custodia cautelare, per anni, di persone che poi saranno dichiarate del tutto innocenti; che addirittura si oppongono ripetutamente al governo (di ogni colore politic) per dimostrare la propria forza (si pensi all’assurdo braccio di ferro, durato molti mesi, tra governi e Procura di Taranto sul caso Ilva, che sarebbe impensabile in qualunque altro Stato normale, senza che nessuna autorità abbia potuto intervenire sugli responsabili degli uffici giudiziari tarantini, impegnati a vanificare ogni tentativo governativo di arginare i gravi ed irreparabili danni derivanti all’economia nazionale dalle scelte della Procura). Il fatto è, come più volte ho ribadito, che l’indipendenza non serve a nulla - ed è anzi controproducente - se non si sia in grado di dimostrare quel minimo di buon senso e di equilibrio che devono assistere chi svolga le funzioni giudiziarie, prima fra tutte quella della pubblica accusa. Non a caso si parla di "giurisprudenza", proprio per significare che senza la necessaria virtù della prudenza, il diritto nasce già defunto. Ne viene perciò che la tanto sbandierata indipendenza - fra l’altro gravemente minacciata dai giochi di corrente e dalla proiezione che questi producono sul Consiglio Superiore della Magistratura (lo notava, fra gli altri, Salvatore Satta) - non può essere mai un valore assoluto, ma è sempre un valore strumentale. Ed è strumentale perché l’indipendenza viene affermata dalle leggi soltanto in funzione della corretta ed equanime amministrazione della giustizia: ma è chiaro che se questa latita, è assente, quella rimane senza scopo, diventando del tutto autoreferenziale e perciò pericolosa. Giustizia: il Presidente Cei, cardinale Bagnasco "provvedimenti seri contro il caporalato" Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2015 Il ministro Martina: "Dal governo lotta senza sosta". Il cardinale: "italiani investano sulle aziende". "Bisogna che il nostro Paese, come tutti gli altri in cui questo fenomeno tragico è presente, prenda provvedimenti seri verso coloro che sono i nuovi schiavisti". Lo ha detto il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, commentando ieri il fenomeno del caporalato margine delle celebrazioni, a Genova, per la festa della Madonna della Guardia. E, parlando della crisi economica, ha aggiunto: "Bisogna che in Italia tiriamo fuori, chi ha le possibilità, che ci sono e molte, degli investimenti per salvare le nostre aziende precedendo i capitali esteri", anche perché "sono in numero crescente gli italiani in sofferenza, come dimostrano i dati di parrocchie e centri d’ascolto". Arriva a breve la risposta del ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina: "Il Governo lotta senza sosta contro il caporalato, piaga inaccettabile che va definitivamente estirpata. Le parole del cardinal Bagnasco sono importanti e ci spronano ad avanzare nell’impegno". "Da settimane - aggiunge -abbiamo intensificato le azioni di controllo i cui esiti iniziano a essere evidenti". Ieri, ad esempio, sanzioni per un importo complessivo di circa 5omila euro, in attività di contrasto del caporalato, sono state elevate dai carabinieri delle Compagnie di Taranto, Martina Franca, Massafra, Castellaneta e Manduria nei confronti di numerosi titolari di aziende agricole. Martina ha anche ricordato che "dall’1° settembre sarà operativa la "Rete del lavoro agricolo", prima sperimentazione italiana di certificazione della qualità del lavoro" e ha indicato, fra le misure più importanti, "quella di aggredire per la prima volta i patrimoni delle imprese che si macchiano di questo reato introducendo la confisca così come per i reati di mafia". Per Maurizio Sacconi (Ap), presidente della commissione Lavoro del Senato, contro il caporalato sono necessari "servizi al lavoro promossi anche dalle organizzazioni dei coltivatori diretti e delle imprese agricole, dai sindacati, dagli enti bilaterali tra le parti sociali. Così come vanno promossi anche nel Centro-Sud i voucher o buoni prepagati per tutti i lavori di raccolta di breve periodo". Giustizia: contro il terrorismo biglietti nominativi e pattuglie polizia sui treni internazionali Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2015 Più collaborazione antiterrorismo tra i Paesi Ue, intensificando l’utilizzo di pattuglie investigative miste, provenienti cioè dalle Polizie dei paesi confinanti sui treni transfrontalieri. Dopo l’attentato andato a vuoto sul treno Thalys 9364 Amsterdam-Parigi del 21 agosto, l’Europa prende le prime contromisure. E punta sul rafforzamento dei controlli mirati su passeggeri e bagagli, come deciso oggi a Parigi dai ministri di nove Paesi europei (per l’Italia Graziano Delrio, ministro dei Trasporti, insieme al viceministro All’Interno Filippo Bubbico) nel corso di un vertice sulle misure supplementari di sicurezza a livello bilaterale ed europeo. "Ci sarà scambio di informazioni e più controlli - ha riassunto Delrio al termine - ma non rinunciamo al criterio di Schengen della libera circolazione delle persone, perché è un fatto di civiltà e il terrorismo da questo punto di vista non ci piega". All’incontro, convocato a Parigi dai ministri Segolene Royal e Bernard Cazeneuve, hanno partecipato anche i commissari europei Dimitri Avramopoulos e Violeta Bulc, e il coordinatore europeo per la lotta contro il terrorismo, Gilles de Kerchove. Cazeneuve, responsabile degli Interni francese ha anche annunciato l’arrivo di biglietti ferroviari nominativi sui treni a lunga percorrenza, definendo "indispensabile" l’avvio di "operazioni di controllo simultanee e coordinate su tratte mirate". Oltre al rafforzamento delle pattuglie miste di polizia, finora riservate invece agli snodi principali, il vertice ha concordato la rigorosa identificazione del personale viaggiante, ispezioni più accurate dei bagagli, metal detector agli ingressi dei binari, e scambio incrociato delle informazioni con accesso comune a un data-base dedicato. Infine, nessuno stop a Schengen, ma modifiche agli accordi di libera circolazione per consentire "quando e dove necessari" controlli alle frontiere adesso esclusi. In arrivo anche norme comunitarie più severe in materia di armi da fuoco. Giustizia: Mafia Capitale. Marino "Gabrielli non ha poteri speciali, la diarchia non esiste" di Fabio Martini La Stampa, 30 agosto 2015 Il sindaco: il governo non metterà un euro per il Giubileo mentre l’Expo di Milano è costato un miliardo e mezzo. Per Ignazio Marino sono state due settimane indimenticabili, ogni giorno il sindaco di Roma è stato pesantemente chiamato in causa, più o meno a proposito, su tantissime questioni, dai funerali Casamonica al "commissariamento" da parte del governo. E lui, negli Stati Uniti per un periodo di riposo (in una località che conosce soltanto il Viminale perché il sindaco è sotto protezione), ha preferito non replicare mai. Un silenzio quasi sovrumano, anche sulla base del più elementare codice della comunicazione: se cercano di demolirti, tu replichi con un argomento convincente. Un codice sconosciuto a Ignazio Marino, che della sua "prima vita" da chirurgo del fegato ha mantenuto un distacco da sala operatoria. Naturalmente, ai collaboratori che dall’Italia via via lo informavano su tutte le polemiche, Marino ha spiegato le sue ragioni, quelle che tornerà ad esporre pubblicamente sin da dopodomani, quando sarà a New York per incontrare il sindaco De Blasio: "Ma vi pare? In questi due anni ho smantellato la politica consociativa tra il Pd e la destra romana, il governo ha formalmente riconosciuto la discontinuità rispetto a quel sistema collusivo, l’ex sindaco Alemanno è indagato per mafia e il dibattito pubblico cosa fa? Si orienta a discutere della mia vacanza!". E sull’ultima delle tante querelle (Roma sarà governata da una irrituale diarchia sindaco-prefetto?). Marino ha risposto così ai suoi: "Sapete bene i rapporti di leale collaborazione che ho sempre avuto con il prefetto Gabrielli. Non ci sarà nessuna diarchia, il prefetto non ha poteri nuovi o diversi. E invece spero che Gabrielli mi aiuti a superare le lentezze che finora hanno connotato l’avvicinamento al Giubileo. In un incontro che si è svolto in Vaticano ad aprile, alla presenza di tutti gli enti interessati, ho presentato il dettagliatissimo piano del Comune sulle opere di nostra competenza, dopodiché il governo ha deciso il via libera nel Cdm del 27 agosto, col risultato che noi potremo fare le gare a settembre. Sia chiaro: il governo ha ritenuto di dover aspettare la relazione di Alfano sull’inquinamento mafioso, io rispetto questa attesa, la capisco. Ma questi sono i fatti". Marino non lo dirà in pubblico, per non riaprire la polemica col governo, ma l’attesa del governo costringerà i cantieri a lavorare 24 ore su 24, con costi superiori e anche con disagi più elevati per i romani. Nel recente Cdm è stata varata anche la "governance" per il prossimo Giubileo e al prefetto Gabrielli è stato affidato il coordinamento tra i diversi enti locali, le forze dell’ordine e il Vaticano, sul modello dell’Expo di Milano: anche lì il prefetto ha svolto lo stesso raccordo. Ma quando Marino ha sentito parlare di Milano, raccontano che abbia sorriso amaro: "Sì, è vero i prefetti svolgono lo stesso tipo di coordinamento. Ma c’è una differenza: per l’Expo lo Stato ha fatto un investimento di un miliardo e mezzo di euro, per il Giubileo il governo non metterà un euro. I 50 milioni che il Comune spenderà per accoglienza e viabilità "appartengono" ai romani: sono stati sbloccati dal piano di rientro al quale siamo stati costretti per ripianare i debiti contratti dalle precedenti amministrazioni. Sia chiaro: questa differenza tra Roma e Milano io la rivendico, Roma non vuole un Giubileo che crei nuovi debiti". Anche il comune di Filadelfia non ha contratto debiti per fronteggiare le spese necessarie all’accoglienza di due giorni per la visita di papa Francesco in ottobre: i fondi (50 milioni di dollari) sono stati raccolti tra i privati ma corrispondono a quanto lo Stato italiano ha concesso a Roma per 11 mesi di Giubileo. E Marino che a Filadelfia ha lavorato, ha raccontato di un "piano veramente "impressive"" Dopo aver lavorato in Campidoglio fino al 14 agosto ed essersi trasferito negli Stati Uniti, pare dalle parti di Filadelfia, Ignazio Marino è stato ripetutamente chiamato in causa su qualsiasi questione, anche su vicende sulle quali il Comune non aveva competenze, come il funerale dei Casamonica. Ma il sindaco di Roma non ha mai replicato. A chi gli chiedeva di dire qualcosa, Marino ha risposto sempre così: "Il sindaco di Roma, ma non solo di Roma, deve mantenere un profilo istituzionale, evitare di entrare in polemica ogni giorno con questo o con quello: credo che sia il modo giusto per fare il sindaco e comunque questo è il mio stile e non intendo rinunciarci soltanto perché qualcuno vorrebbe ridicolizzarmi". Marino è stato accusato di nuovo, stavolta di "assenteismo", per essere restato negli Stati Uniti mentre il Cdm decideva sia le misure per il Giubileo che le contromisure sull’infiltrazione mafiosa del Campidoglio. In questo caso i collaboratori di Marino lo hanno sentito più irritato: "Ma vi sembra che fosse opportuno che io tornassi proprio mentre si assumeva una decisione così delicata? Non ho voluto che il mio rientro venisse inteso come una pressione indiretta. E comunque, prima di partire avevo informato il governo e poi ho seguito la vicenda minuto per minuto". E comunque Marino in questi giorni non ha rinunciato ad una delle sue battute: "In vacanza ci sarei andato prima, per scioglimento del Comune, se a suo tempo avessi ascoltato quel che mi proponeva il "vecchio" Pd: Mirko Coratti vicesindaco e Luca Odevaine comandante dei vigili urbani", due degli imputati "eccellenti" di Mafia Capitale. Giustizia: Mafia Capitale. Ecco la squadra del prefetto Gabrielli per Roma Corriere della Sera, 30 agosto 2015 Dalla sua vice Vaccaro ai collaboratori sparsi nei Municipi, la rete del prefetto "tutor" di Marino In Campidoglio olire all’assessore Sabella la persona cruciale è la segretaria generale Buarnè. Premessa: Franco Gabrielli, il prefetto della Capitale a cui il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha affidato il ruolo di "tutor" del sindaco Ignazio Marino, è un uomo abituato a fare da sé, a gestire i dossier più caldi in prima persona, come ha fatto nella sua lunga carriera, in Polizia e in Protezione civile. E lo stesso metodo lo adotterà anche ora, nel dipanare la difficile matassa dei contorni del suo intervento sul Campidoglio. Senza riferimenti di legge precisi, se non quelli ordinari delle norme sui prefetti, si suona un po’ ad orecchio. Però, poi, Gabrielli - come tutti - ha e avrà una squadra di cui si fida e alla quale si appoggerà. Un team scelto, formato in gran parte dai dirigenti della Prefettura, ma con "diramazioni" sia nell’amministrazione capitolina sia nelle altre forze dell’ordine. Del resto, Gabrielli ha un vantaggio: a Roma, e non solo, conosce praticamente tutti. È stato dirigente della Digos, ha seguito da capo della Protezione civile alcune emergenze cittadine: da quella della neve, con lo scontro con l’allora sindaco Gianni Alemanno che lo attaccò duramente, all’alluvione di gennaio 2014 con Marino diventato da poco più di sei mesi primo cittadino. In Campidoglio, dal 2 aprile scorso quando venne nominato Prefetto, Gabrielli ha avuto contatti frequenti (e molto amichevoli) soprattutto con Alfonso Sabella, che lo conosce dai tempi di Palermo, quando uno era magistrato antimafia e l’altro all’Ufficio di protezione dei pentiti di Cosa Nostra. Tra i due i rapporti sono molto buoni, tanto che Sabella ha mostrato alcuni provvedimenti prima a Gabrielli e poi alla giunta capitolina. Di fatto, sarà l’assessore alla Legalità l’"ufficiale di collegamento" tra Prefettura e Campidoglio. In realtà, sul piano formale, anche con Marino il clima è sereno. E lo stesso chirurgo dem, più volte, ha sottolineato come con Gabrielli le cose siano cambiate, dopo gli scontri a distanza avuti dal primo cittadino con l’ex prefetto Giuseppe Pecoraro. Ulteriore prova, proprio in queste settimane. Sulla vicenda dei funerali di Vittorio Casamonica non si è assistito al classico rimpallo di responsabilità che, ad esempio, c’era stato per la devastazione compiuta dai tifosi olandesi del Feyenoord nella centralissima Barcaccia di piazza di Spagna. Gabrielli, in questi mesi, si è mosso attraverso un pool di collaboratori, alcuni "sguinzagliati" sul territorio, in mini comitati per l’ordine e la sicurezza, uno per ciascuno dei quindici Municipi romani. Tra loro, c’è Roberto Leone, dirigente della Prefettura che si è occupato di Ostia fino al suo scioglimento per mafia. Adesso, sul litorale, Gabrielli avrà un’interlocuzione diretta coi tre commissari nominati dal governo, in particolare con Domenico Vulpiani, predecessore di Gabrielli alla Digos. Le gare del Campidoglio, invece, in questi mesi sono passate spesso al "setaccio" di Clara Vaccaro, viceprefetto vicaria: è lei che, qualche volta quasi in tempo reale, ha fornito al Comune le verifiche sulle certificazioni antimafia necessarie per sbloccare un provvedimento bloccato. Il capo di gabinetto è Stefano Gambacurta, che ha già lavorato con Gabrielli quando era prefetto a L’Aquila, il capo delle Relazioni istituzionali Giuseppe Licheri, che cura anche i rapporti con la stampa. L’altra persona, fuori Prefettura, con la quale Gabrielli lavorerà a stretto contatto è la segretaria generale del Campidoglio, Serafina Buarnè, palermitana, classe 1954, che ha esercitato lo stesso ruolo in diverse città siciliane (Bagheria, Cefalù, Partinico, Villabate, Ragusa), la donna che ha sostituito - proprio all’indomani della relazione Gabrielli sul Campidoglio - Liborio Iudicello. L’effetto dei "superpoteri" era iniziato già a metà luglio. Giustizia: Mafia Capitale. Il Vaticano "piena fiducia in Gabrielli". Marino ancora in ferie di Mauro Favale La Repubblica, 30 agosto 2015 Monsignor Parolin: "Diamo un giudizio positivo sulle scelte del governo, ora possibile un Giubileo proficuo". Tra le misure in cantiere l’aumento fino a mille euro per l’ingresso in città dei pullman turistici. Un caso il post del pm di Roma Digeronimo sul sindaco: "L’hanno esautorato ma si applaude beotamente". Ora che la macchina si è messa in moto, ora che il governo ha ufficialmente incaricato Franco Gabrielli del coordinamento sull’Anno Santo, anche il Vaticano dà la sua benedizione: "Noi speriamo che le scelte del governo possano essere quelle giuste, che permettano uno svolgimento del Giubileo sereno e proficuo". Il segretario di Stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin, si allinea alle parole di qualche giorno fa del regista dell’appuntamento, monsignor Rino Fisichella ("Mi pare - dice - che anche lui abbia dato un giudizio positivo su queste decisioni dell’esecutivo") e promuove l’atto con cui il governo investe il prefetto della capitale del ruolo di raccordo tra le varie istituzioni durante l’Anno Santo che prenderà il via il prossimo 8 dicembre. In attesa delle prime gare da bandire per la manutenzione stradale e la creazione di percorsi pedonali (sulle quali vigilerà l’autorità anticorruzione), in Campidoglio l’assessore ai Trasporti Stefano Esposito sta studiando come migliorare la voce "mobilità", capitolo che verrà messo a dura prova dall’arrivo nella capitale di milioni di pellegrini. Tra le misure in cantiere l’aumento fino a 1000 euro (attualmente sono 200) delle tariffe per l’ingresso in città dei pullman turistici e l’utilizzo degli ausiliari del traffico in tutta la città. Così, sottolinea l’assessore, "a differenza di ora, potranno fare multe ovunque". A staccare le contravvenzioni potrebbero essere gli impiegati "amministrativi" di Atac: "Possono fare dei corsi di formazione per diventare ausiliari del traffico - insiste Esposito - il personale si deve mandare dove serve". Prima del Giubileo, però, a tenere banco c’è sempre la questione "Mafia capitale". Col sindaco ancora in ferie, è l’assessore alla Legalità Alfonso Sabella a tenere i rapporti col prefetto Gabrielli. Si attende lettera del ministro Alfano per conoscere i criteri con i quali si svilupperà la collaborazione. I dubbi su un percorso finora inedito (una sorta di "coabitazione" ma senza commissariamento) dovrebbero essere più chiari a metà settimana, quando Marino rientrerà dagli States. Tra gli appuntamenti in agenda una giunta da presiedere, un incontro con Gabrielli, uno col governo e la presenza alla manifestazione del Pd nel quartiere Don Bosco, dopo il funerale-show di Vittorio Casamonica. Lì troverà anche Alfio Marchini, potenziale candidato del centrodestra, sotto attacco per la sua adesione al sit in Dem: "Ci ripensi", chiede Storace. Ma è sull’assenza di Marino che non si placano le polemiche. L’ultima l’ha innescata una pm della procura di Roma, Desirèe Digeronimo, già magistrato a Bari. Su Facebook, due giorni fa ha criticato così Marino: "Non ho mai visto un sindaco plaudire bea(o)tamente per essere stato messo sotto tutela con tanto di annessi e connessi di assessorati alla legalità affidati a pm antimafia, ma qualcuno diceva che il coraggio (o la dignità!) se non lo hai non te lo puoi dare". Un affondo sul quale ora gli organi di controllo della magistratura potrebbero voler approfondire dopo che nell’ultimo anno la Digeronimo si è candidata al Comune di Bari come indipendente, alla Regione col centrosinistra e ora sta valutando l’offerta di un assessorato nella giunta di centrodestra ad Altamura. Sicilia: nel 2015 già 4 suicidi in carcere e da due anni manca il Garante dei detenuti di Claudio Porcasi blogsicilia.it, 30 agosto 2015 Sono già quattro dall’inizio dell’anno i suicidi di reclusi nei carceri siciliani e l’Isola da quasi due anni non ha più la figura del Garante dei detenuti. Proprio in Sicilia, pochi giorni fa (26 agosto), un giovane italiano di 30 anni si è tolto la vita nel carcere di Gela. Si tratta dell’ultimo suicidio all’interno di un penitenziario italiano: il trentunesimo nel 2015. "Continuo a ricevere messaggi e lettere di ex reclusi o loro familiari che mi chiedono consigli per ottenere il rispetto dei loro diritti". Inizia così lo sfogo su Facebook di Salvo Fleres, unico e ultimo garante dei detenuti della Sicilia. Carica rimasta vacante dal giorno della scadenza del suo incarico: il 16 settembre 2013. È da allora. infatti, che i detenuti siciliani non hanno più il loro Garante. Il mandato di Fleres è scaduto il 3 agosto, dopo è scattata la proroga automatica di 45 giorni prevista dalla legge. E poi niente è successo. Il governatore siciliano, Rosario Crocetta, non ha nominato il successore di Fleres, nonostante i diversi ricorsi presentati in questi anni. L’ultimo è quello presentato dai Radicali alla Corte dei Conti proprio contro il presidente della Regione Siciliana. Ma i messaggi e le richieste di intervento continuano ad arrivare. "La Sicilia, - continua Fleres - che era all’avanguardia, non ha alcun garante dei diritti dei detenuti. Credo che neanche l’Italia, nonostante le diffide di Bruxelles e la legge varata in merito, ne avrà mai uno all’altezza della situazione e soprattutto indipendente. A chi mi scrive mi limito a dare consigli generici, perché non posso fare altro. Questo mi dispiace molto in quanto si tratta di persone che hanno bisogno di aiuto. So che non è sufficiente ma non è colpa mia". Fleres, che in questi due anni aveva ricevuto rassicurazioni dal presidente della Regione su una rapida soluzione della situazione, senza però che dalle parole si passasse ai fatti, stavolta usa parole dure: "Il governatore Crocetta è responsabile di tutto questo ma soprattutto si è rifiutato di ascoltare le richieste formulategli con petizioni, diffide e denunce. Ma questo fa parte del suo strano modo di fare antimafia, ciò che mi meraviglia e mi indigna è che quanti avrebbero l’obbligo dell’azione penale, davanti a tali omissioni, stiano in silenzio. Insomma ci vuole fortuna anche ad essere reclusi!!! Buona fortuna a tutti". Calabria: nella nostra regione le condizioni in cui versano le carceri sono allarmanti di Rosario Villirillo crotoneinforma.it, 30 agosto 2015 Lo sostiene l’Associazione "Marco Polo" in una lettera aperta al governatore della Calabria. Gentile Signor Governatore, le scriviamo a nome delle persone detenute, delle loro famiglie e di tutti coloro che si occupano o si interessano delle carceri per sensibilizzarla su un problema di rilevanza sociale che dal suo predecessore è stato ignorato, ossia la mancata istituzione dell’ufficio del Garante dei detenuti nonostante i molteplici solleciti da parte di tante associazioni. Come a Lei noto, il suddetto ufficio è un organismo che esiste in tantissimi Paesi democratici e che l’Onu (con Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura) ci chiede di istituire al più presto. La legge del 2013 è servita anche a mostrare alla Corte Europea dei diritti umani il nostro impegno per la dignità delle persone in carcere. Eppure, inspiegabilmente, la nomina del Garante ancora non c’è. Come Associazione attenta alle problematiche che investono la società, non possiamo che essere grati a Papa Francesco per aver dato coraggio e riconoscimento a Rita Bernardini e Marco Pannella, esponenti dei Radicali Italiani, per il loro impegno per i diritti civili, denunciando più volte le gravissime inadempienze carcerarie. Violazioni rilevate anche dalla stessa Corte Europea dei diritti umani. Nella nostra regione, le condizioni in cui versano gli istituti penitenziari sono allarmanti: 9 su 13 "scoppiano", come dimostrano i dati relativi al 2013. Infatti, i nove istituti penitenziari calabresi superano la capienza regolamentare definita dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, pari al 69% sul totale complessivo regionale. Il tasso più alto di sovraffollamento (addirittura del 73,2%) si registra nel carcere di Reggio Calabria che ospita 109 detenuti in più. Seguono gli istituti penitenziari di Paola, che accoglie ben 289 detenuti a fronte di una ricettività pari a 172 posti (tasso di sovraffollamento del 68%), Lamezia Terme, con 50 detenuti presenti rispetto ai 30 previsti (tasso di sovraffollamento del 66,7%), e Palmi, che ospita al suo interno circa 80 detenuti in più rispetto ad una ospitalità regolamentare di 140 unità (tasso di sovraffollamento del 55%). Con una percentuale di sovraffollamento inferiore al 40% si collocano gli istituti di Cosenza (39,7%), con 292 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 209 posti disponibili, Castrovillari (33,6%), Locri (30,1%), Rossano (25,2%) e Vibo Valentia (15,7%). Viceversa, nel carcere più capiente calabrese, l’Ugo Caridi di Catanzaro, i detenuti sono 466 a fronte di una ricettività pari a 617 unità (-24,5%). E, inoltre, ospitano meno detenuti di quanti ne potrebbero accogliere Crotone (-93,3%), Reggio Calabria "Arghillà" (-56,7%) e Laureana di Borrello (-23,5%). Riteniamo opportuno evidenziare anche che dal 2000 al 19 agosto u.s., per cause di vario genere (suicidi, assistenza sanitaria pessima, cause non chiare, overdose, ecc.), i detenuti morti negli istituti penitenziari sono stati complessivamente 2.447, con una media di 153 l’anno. Le morti per suicidio nello stesso periodo sono state complessivamente 875, con una media di 55 l’anno. Ma, nello stesso periodo, si sono registrati anche più di cento decessi fra gli agenti penitenziari, che si sono tolti la vita nell’indifferenza generale o, peggio ancora, sotto lo sguardo impotente delle istituzioni. Sono dati che, purtroppo, parlano chiaro e che denunciano il malessere che alligna nelle carceri del Paese! Una questione tuttavia aperta e che, ad oggi, non ha avuto alcuna soluzione per l’inadempienza delle stesse istituzioni. Infine, vogliamo significare che Le saremmo grati se uno dei suoi primi atti significativi di governo fosse l’istituzione dell’ufficio del Garante dei detenuti e la nomina dei componenti del relativo collegio. Difatti, è passato un anno da quando è stata approvata la legge che prevede l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Giacente da tre lustri e quattro legislature, ci volle la denuncia di un trattamento di favore nei confronti di una detenuta rinomata perché il Governo, con proprio decreto, ed il Parlamento, con la relativa legge di conversione, ne approvassero finalmente l’istituzione. Per questo, nell’attesa, chiediamo l’aiuto della stampa calabrese affinché al neo Presidente della Regione Calabria, On.le Mario Oliverio, arrivi un messaggio semplice e diretto: "Istituisca subito il Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà". Richiesta che, contemporaneamente, può essere estesa anche a tutti i Sindaci dei comuni calabresi, sedi di istituti penitenziari, perché loro possono e devono istituire, a tutela dei diritti, il Garante dei detenuti o delle persone private della libertà, come del resto ha già fatto, da più anni, il comune di Reggio Calabria, con deliberazione del consiglio comunale n. 46 del 1° agosto 2006 ed è stato, contestualmente, approvato il Regolamento che ne disciplina l’esercizio delle funzioni, i requisiti, le modalità di nomina, durata, decadenza ed i profili operativi inerenti la sua attività. Per concludere, la giustizia non esiste dove non c’è vera libertà. La giustizia non trova posto dove non c’è aiuto a chi è in difficoltà. È più facile sopportare un’ingiustizia che accettare la mancanza di giustizia. La giustizia non si realizza rendendo più confortevoli i percorsi di esclusione sociale. Il volontariato, quello sincero e che si caratterizza per la gratuità delle proprie azioni, è impegnato nella costante alimentazione di atteggiamenti che migliorino la qualità della vita e comportino un aumento di azioni di giustizia e di cooperazione sociale. In attesa, fiduciosi, le porgiamo doverosi e distinti saluti. Sassari: braccialetti elettronici esauriti, la Telecom "non abbiamo responsabilità" di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 30 agosto 2015 Sul caso del detenuto costretto a rimanere in carcere la società replica: numeri stabiliti dal Ministero Il legale: due giorni fa la Cassazione ha detto sì ai domiciliari anche senza il dispositivo elettronico. È la prima considerazione della Telecom che ieri è intervenuta sul caso del detenuto di Nule arrestato domenica scorsa a Sassari dai carabinieri per aver minacciato con una pistola il proprio fratello. All’esito dell’udienza di convalida - martedì - il giudice aveva disposto la detenzione domiciliare con l’obbligo del braccialetto elettronico. E qui è scoppiato il caso, segnalato dall’avvocato Pasqualino Federici che tutela il detenuto Biagio Mellino, un imprenditore di 60 anni. Avendo la Telecom esaurito la disponibilità dei dispositivi elettronici l’uomo è costretto a restare in carcere. "Pur avendo la possibilità di tornare a casa - aveva tuonato Federici - non può farlo e la sua libertà personale di fatto dipende dalla Telecom che non ha più braccialetti in dotazione". Una chiara provocazione che ha comprensibilmente suscitato la reazione e la replica della società di telefonia: "Il ministero dell’Interno ha sottoscritto con noi un contratto per la fornitura a livello nazionale di duemila braccialetti. Altro non abbiamo fatto che mettere a disposizione ciò che ci è stato chiesto". Cioè a dire che non può essere attribuita alla Telecom la "colpa" della permanenza in carcere di un detenuto. "Il limite è stato raggiunto a giugno del 2014 - aggiungono. Le richieste di braccialetti da parte delle Procure possono essere evase solo a fronte del recupero per fine misura di un dispositivo in esercizio". Ma forse, molto più semplicemente, il numero dei braccialetti non è sufficiente - a maggior ragione dopo il decreto svuota carceri - e magari andrebbe incrementato. Secondo l’avvocato Federici il fatto che non si tratti di un episodio isolato ma di un caso analogo a molti altri nella penisola significa che va posto all’attenzione dei piani alti: "Ci sono delle gravi responsabilità politiche - sottolinea il legale con un passato da senatore e membro della commissione giustizia - Tutto questo è anticostituzionale e nel frattempo ho già presentato ricorso al tribunale della libertà". Il tema è molto attuale e lo stesso Federici annuncia la vera notizia: "Due giorni fa la Cassazione ha accolto parzialmente il ricorso di un detenuto nei confronti del quale il tribunale della libertà di Catania (a marzo del 2015 ndr) aveva disposto la sostituzione della custodia cautelare in carcere con quella dei domiciliari subordinata all’applicazione del dispositivo di controllo elettronico, disponendo però la permanenza in carcere fino all’installazione del bracciale. Ma anche in questo caso i dispositivi erano finiti. Ebbene: la Quarta sezione penale, con la sentenza numero 35571/2015, ha sottolineato che il braccialetto elettronico "rappresenta una cautela che il giudice può adottare, se lo ritiene necessario, non già ai fini della adeguatezza della misura più lieve, vale a dire per rafforzare il divieto di non allontanarsi dalla propria abitazione, ma ai fini del giudizio, da compiersi nel procedimento di scelta delle misure, sulla capacità effettiva dell’indagato di autolimitare la propria libertà personale di movimento, assumendo l’impegno di installare il braccialetto e di osservare le relative prescrizioni". Ergo: sì ai domiciliari anche senza braccialetto". Sdr: braccialetto elettronico non è conditio sine qua non per i domiciliari "Il detenuto Biagio Mellino, come sostiene l’avv. Pasqualino Federici, può accedere direttamente ai domiciliari anche se non è disponibile il braccialetto elettronico. Non è più infatti conditio sine qua non". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" con riferimento al caso del cittadino privato della libertà costretto a restare dietro le sbarre per la mancata disponibilità del dispositivo di controllo. "La recente sentenza della Cassazione parla chiaro. La mancanza di braccialetti, per insufficiente disponibilità di fondi da parte della pubblica amministrazione, non può ricadere sul cittadino e la misura meno afflittiva può essere eseguita a prescindere dal mezzo tecnico di controllo". "È evidente dunque - sottolinea Caligaris - che il caso del detenuto Mellino deve essere immediatamente risolto. La sentenza del Supremo Collegio però apre non solo la strada a numerosi domiciliari finora rimasti sulla carta, ma pone una questione di fondo. Se il braccialetto non è fondamentale per accedere alla misura, a che cosa è valso promuovere un accordo con Telecom che comporta peraltro sopralluogo tecnico, tempi di attivazione, controlli e notevoli oneri finanziari? Oltre alle cause per ingiusta detenzione che potrebbero fioccare, c’è - conclude la presidente di Sdr - anche una questione di sperpero di denaro pubblico sulla quale riflettere e approfondire". Voghera (Pv): Uil-Pa; detenuto tenta il suicidio, salvato da un agente all’ultimo minuto La Provincia Pavese, 30 agosto 2015 Un detenuto del carcere di Medassino ha tentato di uccidersi. È stato salvato in extremis dalla polizia penitenziaria: che adesso, però, punta il dito su una serie di disfunzioni e carenze. "Nei giorni scorsi si è verificato un tentativo di suicidio - afferma Andrea Sardo, segretario provinciale Uil-Pa penitenziari. Verso le 13 un detenuto italiano ha tentato di togliersi la vita soffocandosi con una busta, del tipo utilizzato solitamente per raccogliere i rifiuti. La tragedia è stata sventata dalla polizia penitenziaria. Gli agenti si sono accorti di quanto accadeva e sono intervenuti, liberando il detenuto dal sacchetto e da una corda che si era stretto al collo. Si tratta dello stesso personale che è costretto ad aspettare mesi e mesi per vedersi retribuiti straordinari e missioni, che è privato delle proprie divise per forniture inadeguate, che viaggia con mezzi obsoleti e fatiscenti, che spesso è obbligato a coprire più posti di servizio. E nonostante tutto espleta il proprio mandato a testa alta e senza condizionamenti, nonostante la noncuranza dell’amministrazione". Interviene anche il segretario regionale della Uil polizia penitenziaria, Gianluigi Madonia. "Questo episodio - afferma - è un segnale che il malessere e gli episodi critici si stanno espandendo a macchia d’olio negli istituti penitenziari e quindi anche a Voghera. Le criticità legate alla carenza di organico, all’insufficienza delle figure chiamate a seguire i detenuti, l’assenza di mezzi, strumenti e spazi, sono comuni a molti istituti. A Voghera la polizia penitenziaria è sotto organico. Ci sono solo due educatori e uno psicologo per 400 detenuti. La mancanza di spazi limita le possibilità di trattamenti: tutto questo rende ancora più dura la detenzione. Il nuovo padiglione, aperto da oltre due anni, è un fallimento. I progettisti non hanno considerato che non bastano le celle. Un carcere moderno ha bisogno di spazi per i colloqui, aree per le attività scolastiche e professionali, luoghi di culto. Tutto questo non c’è: chi ha progettato il nuovo padiglione ha pensato che i detenuti debbano sempre stare chiusi in camera. Questo aumenta la disperazione dei detenuti e impedisce le possibilità di recupero". Pisa: primo negozio di prodotti dei detenuti, sarà gestito dalle volontarie cattoliche del Cif Ansa, 30 agosto 2015 Si chiama "L’angolino solidale" ed è il primo negozio cittadino, gestito dal Cif (Centro italiano femminile) di Pisa, dove sarà possibile acquistare oggetti realizzati dai detenuti del carcere Don Bosco. Il punto vendita è stato inaugurato stamani alla presenza del sindaco Marco Filippeschi e dell’arcivescovo, Giovanni Paolo Benotto, e si trova a pochi passi da Palazzo Blu, nel centro storico. "L’iniziativa del Cif - ha detto Filippeschi - sostenuta dal Cesvot provinciale, è un bel dono alla città. Il negozio solidale è centralissimo, in Lungarno. Con le offerte che si raccoglieranno potrà venire un aiuto concreto per le detenute della casa circondariale Don Bosco. È un altro segno di carità e di relazione della città con chi ha bisogno di vicinanza, per sostenere la condizione di recluso e per preparare percorsi di reinserimento. Molto è dovuto all’azione delle volontarie e fin da ora offro la disponibilità del Comune a sostenere l’iniziativa e a promuoverla perché tutti la conoscano". Verona: un risciò per gli anziani che aiuta l’integrazione dei detenuti di Ludovica Purgato L’Arena, 30 agosto 2015 Sarà condotto da detenuti volontari dopo un periodo di formazione. La Fondazione Cattolica: "Potranno riscoprire la città con un mezzo nuovo". Un risciò per unire due mondi permeati troppo spesso da solitudine e sofferenza. Un risciò come mezzo solidale, capace di abbattere pareti e regalare nuovi sorrisi. Il progetto "Risciò Solidale", ideato da Clv impresa sociale, Clv Pensionati-Cisl Verona e Anteas Verona con il supporto della Fondazione Cattolica è stato sposato dalla responsabile della Fondazione Oasi Serafìna Dalla Tomba e partirà in questi giorni al cenno servizi "Al Barana". L’iniziativa sociale, attiva da un mese anche alla casa di cura Sant’Anna di via Marsala, intende offrire un servizio di trasporto eco-sostenibile gestito da detenuti in fase di reinserimento e dedicato ad anziani o persone con disabilità. La finalità sarebbe quella di sviluppare reciproci rapporti di solidarietà e arricchimento emotivo. Detenuti volontari, dopo un periodo di formazione, polleranno in giro per il centro storico gli ospiti del centro comodamente seduti su uno dei due risciò a disposizione, dotati di pedalata assistita e pannelli fotovoltaici. "È stata una sorpresa travolgente", racconta Maria Mastella, presidente della Fondazione Oasi, "abbiamo approvato questa iniziativa nel giro di due settimane. E una grossa opportunità: due difficoltà si mettono insieme per creare una forza. Non abbiamo perso questa occasione che peraietterà agli anziani di riscoprire la nostra città con un mezzo nuovo". Ma com’è nata questa iniziativa? "Da una bellissima proposta che ho ricevuto da Fausto Scandola, presidente di Clv", spiega Mariagrazia Bregoli, direttore della casa circondariale. "Questo progetto mi ha entusiasmata fin da subito, penso che sia necessario impegnare i detenuti in attività importanti e di valore, capaci di stimolare il senso civico. Questa iniziativa offre reciprocità e insegna a prendersi cura degli altri". Entrambe le parti coinvolte sono davvero entusiaste e si vorrebbe in futuro creare un servizio turistico che permetterebbe di finanziare quello sociale. Insomma un progetto ben strutturato, che offre opportunità di crescita relazionale o, usando le parole del vescovo Giuseppe Zenti, che ha benedetto i risciò, "capace di far uscire le persone dal loro isolamento sociale". L’iniziativa è realizzata grazie alla partnership con la casa circondariale, la Federazione associazioni nazionali disabili (Fand), l’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti (Uici), l’Ente nazionale sordi (Ens), gli Amici della bicicletta e l’associazione "A mente libera". Conclude l’assessore ai Servizi sociali Anna Leso: "Questo significa lavorare in sinergia: è un modo intelligente per capire cos’è realmente la rete sociale". Orvieto: Sappe; detenuto tunisino non vuole farsi perquisire e aggredisce gli agenti Giornale dell’Umbria, 30 agosto 2015 L’ennesima violenta aggressione contro due poliziotti penitenziari da parte di un detenuto tunisino scatena la reazione del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. L’episodio è accaduto ieri nella Casa di reclusione di Orvieto. "Il detenuto al rientro dal passeggio si è rifiutato di sottoporsi alla perquisizione prevista per il reparto di appartenenza e ha aggredito un assistente di polizia penitenziaria", denuncia il Segretario regionale umbro del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe Fabrizio Bonino. "Immediato l’intervento di un altro Assistente capo del Corpo che ha impedito il peggio. Il detenuto è stato immobilizzato e non ha riportato lesioni, mentre il collega è stato inviato in ospedale e ha riportato lesioni al braccio destro guaribili in 20 giorni. Il ventenne tunisino da poco più di un mese assegnato all’istituto orvietano è recidivo per la promozione di disordini in altri istituti della regione". "È uno stillicidio costante e continuo: i nostri poliziotti penitenziari continuano a essere picchiati e feriti nell’indifferenza delle autorità regionali e nazionali dell’amministrazione penitenziaria, che è costretta a confermare l’aumento delle violenze contro i Baschi Azzurri del Corpo nonostante il calo generale dei detenuti ma che non adotta alcun provvedimento concreto perché queste folli aggressioni abbiamo fine, ad esempio sospendendo quelle pericolose vergogne chiamate vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto", denuncia il Segretario Generale del Sappe Donato Capece, che rivolge al poliziotto ferito "la solidarietà e la vicinanza del primo Sindacato dei Baschi Azzurri". "Sembra che a nessuno, a parte noi, interessa e preoccupa che quasi ogni giorno in un carcere qualche poliziotto penitenziario venga picchiato. Certo non all’Amministrazione penitenziaria dell’Umbria e di quella nazionale che nonostante le centinaia di casi in tutta Italia e le decine in Regione, non adottano alcun provvedimento per porre fine a queste ignobili colluttazioni, adottando ad esempio pesanti sanzioni disciplinari contro i responsabili. Forse pensano che siamo da macello, che disarmati e senza alcuna tutela abbiamo quasi il dovere di prendere schiaffi in servizio", aggiungono i due sindacalisti del Sappe. Migrazioni di massa fino al 2050, il fenomeno che cambierà l’Europa di Francesco Battistini e Maria Serena Natale Corriere della Sera, 30 agosto 2015 Oltre 5 milioni pronti a lasciare la Siria, fuga anche dall’Africa. È la più grave crisi di rifugiati dalla Seconda guerra mondiale, dice il commissario Ue all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos. L’Europa si scopre prima linea di un’emergenza globale, punto di caduta di conflitti che sconvolgono Medio Oriente, Asia, Africa. Le migrazioni resteranno il tratto distintivo del nostro tempo, spostamenti di masse in cerca di opportunità e diritti su rotte di morte e speranza. Un fenomeno che secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni non si arresterà prima del 2050, quando la popolazione mondiale si assesterà sui 9-10 miliardi di persone. Fino ad allora l’Europa, epicentro del terremoto dell’estate 2015, dovrà affrontare una serie di aggiustamenti normativi e culturali, dalla revisione delle regole sul diritto d’asilo fino all’elaborazione di una strategia complessiva per affrontare scenari geopolitici sempre più fluidi. A che punto siamo nella nuova ondata migratoria? Il primo aumento nel flusso degli arrivi si percepisce a partire da gennaio ma la grande accelerazione è quella di luglio, quando gli ingressi illegali in territorio Ue balzano, dai 70 mila di giugno, a 107.500. Solo in Grecia dall’inizio dell’anno gli ingressi (legali e non) sono stati 160 mila, contro i 50.242 registrati in tutto il 2014. La maggior parte da Siria, Iraq e Afghanistan. Migranti che poi tentano la traversata dei Balcani attraverso la Macedonia, per passare in Serbia e in Ungheria, Romania o Bulgaria. Nei prossimi mesi si prevede che da questa rotta passino circa 3 mila persone al giorno. Sul fronte mediterraneo l’ultimo bilancio, aggiornato ieri dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati, è di oltre 300 mila persone che hanno preso il mare per l’Europa dall’inizio del 2015. Circa 2.500 i morti e dispersi. In un’unica giornata, sabato 22 agosto, nelle acque che separano l’Italia dalle coste libiche sono state tratte in salvo 4.400 persone. In Siria oltre 5 milioni di sfollati interni aspettano un’occasione per partire. Come spiega Tana de Zulueta, presidente del Comitato italiano per l’Agenzia Onu dei rifugiati palestinesi con una lunga esperienza in missioni Osce e Ue, "metà degli 11 milioni di sfollati siriani ha già lasciato il Paese, gli altri sono pronti a seguirli, in un contesto regionale dove a conflitti dichiarati si aggiungono tensioni sotterranee, ad esempio in Libano, che riemergendo farebbero esplodere la polveriera mediorientale". Le migrazioni fanno da sempre parte della storia dell’umanità. Un fenomeno oggi amplificato e reso inevitabile dalle crisi umanitarie in corso; dai cambiamenti climatici; dalla scarsità di candidati a svolgere lavori sottopagati nei Paesi più ricchi malgrado la crisi socio-economica; dal deficit demografico che oppone, a un Nord che non cresce e che nei prossimi dieci anni vedrà un sensibile calo della forza lavoro, un Sud abitato da popolazioni giovani e senza occupazione. Per avere un’idea: la Ue conta 550 milioni di abitanti, le Nazioni Unite stimano che in trent’anni il continente africano raggiungerà un numero pari a tre volte quello della Ue. Per ora procede in ordine sparso. La maggior parte dei Paesi più colpiti, dove i governi devono gestire anche l’allarme sociale alimentato dalle destre populiste, sceglie la linea dura. Accade per Regno Unito e Francia che hanno stretto un patto di sicurezza sulla Manica. Accade nel Centro-Est che alza muri materiali e mentali. Non in Germania, che quest’anno aspetta il record di 800 mila richieste d’asilo e ha sospeso l’applicazione del regolamento di Dublino rifiutando di rimandare indietro i profughi siriani. La Ue ha triplicato i fondi per le missioni nel Mediterraneo (da ottobre la Eunavfor Med potrebbe essere autorizzata ad arrestare i trafficanti in mare), ha previsto finanziamenti supplementari per i Paesi di primo accesso come l’Italia, l’Ungheria e la Grecia in crisi politica, e ha elaborato un’Agenda immigrazione per redistribuire i migranti secondo criteri più equi in una logica che dovrebbe unire "responsabilità" e "solidarietà". I ministri degli Interni hanno raggiunto un accordo di massima per la ripartizione di circa 32 mila persone in due anni. La Ue vuole strappare entro fine anno l’impegno per 40 mila migranti che potrebbero poi arrivare a 60 mila. Numeri ridotti e soluzioni parziali. "Servono subito visti temporanei, quote più alte, un sistema rafforzato di protezione internazionale" sostiene il direttore dell’Oim William Lacy Swing. A ottobre i ministri di Esteri e Interni si vedranno a Parigi, a novembre il vertice Ue-Africa a Malta. C’è una nuova consapevolezza politica nelle istituzioni comunitarie: dopo lo choc, si aspettano misure concrete. Esiste già un’Europa che collabora, s’aiuta e divide i profitti: è quella delle mafie. Il caso del camion pieno di cadaveri scoperto giovedì in Austria (targa ungherese, proprietà prima ceca e poi slovacca, immatricolazione fatta da un rumeno, spalloni bulgari e ungheresi) dimostra che le grandi gang criminali collaborano meglio dei governi: "Controllano due terzi del traffico di migranti - dice Marko Nicovic, ex capo della polizia serba -, l’altro terzo è gestito da piccole organizzazioni locali". Dopo la droga, le armi e la prostituzione, gl’immigrati sono il quarto business più redditizio dell’area. In assoluto, il meno rischioso: nessun Paese interessato alla rotta balcanica ha mai introdotto il reato d’immigrazione clandestina e dalla Turchia alla Grecia, dalla Macedonia alla Serbia, dalla Bulgaria all’Ungheria le pene sono pesanti solo se il carico umano muore. Altrimenti, ce la si cava col ritiro della patente o tre mesi di carcere, spesso evitabili con una cauzione di mille euro: meno di quel che paga un migrante. "Non c’è niente di casuale nel cammino d’un profugo - spiega Bojidar Spasic, già funzionario del Bia, i servizi di sicurezza di Belgrado -. Le mafie gli dicono al dettaglio cosa fare: strade, i punti d’incontro a Presevo e a Skopje, i valichi a Szeged, i posti di polizia, gli autisti, le guide, tutto. Ogni suo passo è scandito: prima lo prende la mafia turca, poi i balcanici, alla fine è controllato da kosovari, italiani, russi, ora anche cinesi". C’è un vip service, fino a 10 mila euro, una zona d’ombra per chi abbia qualcosa da nascondere: "psirata", dicono in serbo, iracheni o siriani ex sgherri di regime che temono vendette dei connazionali ed esigono l’invisibilità. Poi c’è il servizio standard, 3-5 mila euro, per gli stessi canali usati con armi o auto rubate: "Il migrante è merce ingombrante - dice Spasic - e non passa mai per le vie della droga". Da qualche giorno, le banche di Salonicco, di Skopje, di Belgrado, di Budapest sono sommerse da soldi versati negli sportelli turchi, libanesi, afghani di Western Union e Tenfore: "Il migrante non rischia di portarsi il denaro addosso, in ogni Paese sa già dove andare a ritirarlo per pagarsi quel pezzo di tragitto". Le polizie europee conoscono i nomi dei grandi clan che si dividono il traffico, elenca Nicovic: "I turchi Karakafa a Istanbul, i bulgari Plamenov tra Sofia e Dimitrovgrad, i Thaci kosovari e gli albanesi di Durazzo che si sono spostati in Macedonia, i russi di Semion Moglievich in Ungheria, i montenegrini che sono venuti a Belgrado perché contrabbandare sigarette in Puglia non rende quanto un camion d’afghani in Ungheria. Per colpire questa gente, ci serve più personale: noi abbiamo solo trenta poliziotti in tutta la Serbia, e solo cinque che conoscono l’arabo, per controllare 100 mila migranti. Ci vorrebbe anche un coordinamento fra polizie che non c’è mai stato: finora, che importava ai serbi di chi sbarcava a Lampedusa? O agli spagnoli di chi entrava in Macedonia?". La corruzione: nel prezzo del passaggio è spesso compresa la mazzetta a doganieri bulgari o serbi che guadagnano 500 euro al mese e "più è grande il gruppo, più sale il prezzo: 500 euro per dieci persone". I livelli di protezione sono alti: le gang controllano le forniture di cibo ad alcuni campi di rifugiati, dice la polizia di Belgrado, un po’ come accadeva a Roma nei centri di Mafia Capitale. E quanto al terrorismo, secondo i rapporti il muro di 275 km costruito dai bulgari sul confine turco non è sufficiente, ma un rischio immediato non si vede. "Gli estremisti di Bosnia e Sangiaccato danno logistica a qualche profugo - spiega Nicovic, ma solo se è di stretta osservanza. È gente che controlliamo anche al telefono. La rete d’accoglienza jihadista però è estesa, dalla Macedonia (Tetovo) al Kosovo (Djakovica) e dal Montenegro (Ulzin). Nessuno può dire con sicurezza che qualche terrorista non sia arrivato: il 90% dei migranti è fatto di siriani e il 70% di questi siriani è tutta gente fra i 20 e i 30 anni". Quanti morti oggi? E lo spettatore, di fronte alle stragi di migranti, gira pagina di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 30 agosto 2015 Quanti morti oggi? Intanto lo spettatore massmediatico, di fronte alle stragi di migranti, gira pagina o cambia canale perché è il solito spettacolo, estremizzato "solo" dal numero delle vittime che cresce ogni giorno. Quanti morti oggi? Intanto lo spettatore massmediatico, di fronte alle stragi di migranti nel Mediterraneo e - scoprono adesso - nel cuore d’Europa dalla rotta balcanica, gira pagina o cambia canale perché è il solito spettacolo, estremizzato "solo" dal numero delle vittime che cresce ogni giorno di più. Così, paradossalmente, mentre aumenta la tragedia si dilata la passività e l’abitudine alla notizia. Del resto sempre più accomunata ad un programma seriale e raccontata con le modalità del reality: ogni canale tv ormai si prende in consegna sotto le telecamere siglate la sua famiglia di profughi, la segue fin dove la vuole seguire e poi tanti auguri (senza dire che la maggior parte dei disperati non arriverà a destinazione e allora le telecamere saranno spente). Sembra addirittura giornalismo-verità, invece altro non è che la macabra riedizione di un reality, di un "asso nella mano" giornalistico. Certo si può perfino avere l’illusione, guardando o raccontando, che quel frammento di notizia o di immagine, siano il solo sostegno immaginario che possiamo dare, almeno in assenza di un intervento reale del potere politico che non fa nulla o peggio, allestendo respingimenti, restringendo diritti d’asilo, selezionando, anche per nazionalità, profughi sicuri (dalle guerre) e quelli insicuri (dalla fame), esternalizzando l’accoglienza in nuovi universi concentrazionari, cioè tanti campi di concentramento nel Sud del mondo, preparando nuove avventure belliche. Ma non è un reality quello che accade sotto i nostri occhi stanchi. Qui è stravolto lo stesso principio di realtà e il giornalismo fin qui realizzato - tantomeno quello embedded - non può bastare. Siamo di fronte ad una svolta epocale che si consuma nella tragedia di centinaia e centinaia di milioni di esseri umani, i nuovi dannati della terra, in fuga da guerre e miseria. E lo spettacolo a lieto fine non c’è. C’è solo la passività dilagante. Da che deriva? Dal semplice fatto che ha vinto l’ideologia della guerra umanitaria che, tra gli altri criminali effetti collaterali, non solo assume la guerra come merito ma cancella le responsabilità dei risultati disastrosi. Invece è nostra la responsabilità di questo esodo. Fuggono dalle nostre guerre e dalla nostra riduzione in miseria di paesi in realtà ricchissimi di materie prime e terra. Non siamo di fronte a cataclismi naturali, sui quali peraltro cominciamo ad individuare anche responsabilità specifiche. Perché le guerre americane ed europee, devastando tre paesi centrali dell’area nordafricana e mediorientale, nell’ordine temporale, Iraq, Libia e Siria (senza dimenticare la Somalia diventata simbolo dell’attuale balcanizzazione del mondo) ha provocato la cancellazione di almeno tre società fino ad allora integrate, con una convivenza etnico-religiosa millenaria; oltre ad attivare il protagonismo jihadista, adesso nemico giurato ma alleato, finanziato e addestrato in un primo tempo dell’Occidente contro regimi e despoti fin lì, anche loro, alleati dell’Occidente e dei suoi equilibri internazionali, alla fine spremuti e occupati militarmente. Se non si afferma la convinzione che la responsabilità è delle guerre degli Stati uniti e dell’Europa, nessuno sentirà davvero il bisogno di intervenire a riparare o almeno a raccogliere i cocci. Vale allora la pena ricordare che sono un milione e 300mila le vittime di alcune delle "nostre" guerre al terrore dopo l’11 settembre 2001 in Afghanistan, Iraq e Pakistan, secondo i dati del prestigioso "International Physician for the Prevention of Nuclear War", organismo Nobel per la pace negli anni 80. Un rapporto per difetto che esclude le guerre più recenti, la Libia, la Siria, l’ultima di Gaza. Che la terza guerra mondiale non sia già cominciata? È una vera ecatombe. Ora non contenti di tutto questo prepariamo con il governo Renzi e per bocca del grigio Gentiloni e dell’annunciatrice Ue Mogherini, dimentichi dei risultati dell’ultima del 2011, una nuova guerra in Libia "con l’appoggio Onu" e "contro gli scafisti" con tanto di previsione di "effetti collaterali che possono coinvolgere innocenti". Il tutto per finanziare da lontano nuovi campi di concentramento, come già con Gheddafi e poi con il governo degli insorti di Jibril. A questo serve l’impegno ambiguo della diplomazia italiana perché nasca l’improbabile governo unitario libico per un paese diviso ormai in quattro fazioni e con L’Isis all’offensiva. Dimenticando altresì che l’ultima guerra oltre ai profughi di oggi produsse subito la fuga di due milioni di lavoratori subsahariani, africani e asiatici che lì lavoravano e che ancora vagano nell’area. Ecco dunque che l’ideologia della "guerra umanitaria" prosegue il suo corso quasi in automatico. È così vero che in pieno ferragosto il Corriere della Sera - la cui storia guerrafondaia sarebbe da studiare a scuola - ha sentito il dovere di scomodare il punto di vista critico di Sergio Romano. Anche lui - che resta comunque "il miglior fabbro" - alla fine, con mille e ragionevoli riserve, conviene che "sì la guerra si può fare": soprattutto perché in gioco c’è l’approvvigionamento del petrolio dell’Eni. I conti tornano. Ma se la guerra deve essere "umanitaria" che cos’è dunque la disumanità che abbiamo prodotto e che muore affogata o chiusa nei Tir come carne da macello avariata mentre in cammino tenta di ridisegnare, abbattere, sorpassare le nuove frontiere e muri del Vecchissimo continente? Qui forse le ragioni dell’assuefazione generale. Resta insopportabile la passività di chi si considera alternativo e di sinistra. Chi lavora per un mondo di liberi ed eguali si trasformi in corridoio umanitario, prepari l’accoglienza, attivi il sostegno, diventi camminante, definisca la sua sede organizzativa finalmente europea tra Lampedusa, i porti del Sud, Ventimiglia, Calais, Melilla e la frontiera ungherese da abbattere. Il manifesto ha lanciato in piena estate il dibattito che consideriamo necessario se non decisivo C’è vita a sinistra? Speriamo di non trovarla solo a chiacchiere. In Francia sì ai siriani, l’Italia apre agli afgani, ecco perché in Europa l’asilo è una lotteria di Vladimiro Polchi La Repubblica, 30 agosto 2015 Altro che regole comuni. Come denunciato dal ministro Gentiloni in Europa vince il fai-da-te. E ogni migrante ha possibilità molto diverse di ottenere un permesso a seconda del Paese in cui arriva. Sei un siriano in fuga dalla guerra? Fai domanda d’asilo in Francia, o in Germania, hai il 95% delle possibilità di vincere un biglietto da rifugiato. Se ti fermi in Italia, le tue chance crollano al 64%. Sei un afgano? Allora le cose cambiano: il Belpaese ti garantisce un buon 95% di probabilità di successo contro il 26% dell’Ungheria. Ogni Stato fa da sé: oggi ottenere protezione in Europa è una lotteria, tutto dipende dal Paese in cui si capita. Non a caso, ieri su Repubblica, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha invocato un diritto d’asilo europeo, valido per tutte le nazioni. Il diritto internazionale impone a ciascuno Stato l’accoglienza dei richiedenti asilo fino all’accertamento (o al rifiuto) dello status di rifugiato. Nel caso italiano, la lunghezza dei tempi di valutazione delle domande resta il punto critico, col rischio di intasare i centri di accoglienza anche con chi non ha diritto ad alcuna protezione. Le regole sarebbero chiare: le commissioni territoriali devono svolgere l’audizione per il riconoscimento dell’asilo entro 30 giorni dalla presentazione della domanda e decidere nei successivi tre giorni. Tuttavia, il periodo di attesa si aggira in media attorno ai 12 mesi. Non solo. Nonostante le sollecitazioni della Commissione europea per introdurre un diritto comune d’asilo, la norma oggi è il fai-da-te: Paese che vai, asilo che trovi. Il continente appare come una coperta d’Arlecchino, con tante pezze colorate quanti sono i sistemi d’asilo adottati. È quanto fotografa una ricerca realizzata dalla Fondazione Leone Moressa con il sostegno di Open Society Foundation. Partiamo dai numeri: nei Paesi Ue nel 2014 è stato accolto il 44,7% delle domande esaminate. Percentuale che varia molto da Stato a Stato: si passa dal 9,4% dell’Ungheria al 76,6% della Svezia. Ma quello che colpisce di più è altro: anche per le medesime nazionalità si riscontrano risultati diversi. A cominciare dai siriani (122mila richiedenti asilo in Europa nel 2014): le loro domande hanno percentuali di accoglimento molto alte in Svezia (99,8%), Francia (95,6%) e Germania (93,6%). Ben più basse in Ungheria (69,2%) e Italia (64,3%). Insomma scappano dalla stessa guerra e corrono lo stesso rischio di perdere la vita se rispediti in patria, eppure la loro accoglienza cambia in base alla discrezionalità del Paese di arrivo. Le differenze si fanno ancora più forti nel caso delle richieste degli afghani: qui è l’Italia il Paese con la percentuale più alta di domande accolte (95,4%). In Germania solo il 66,1% ha avuto risposta positiva. Quota ancora più bassa per il Regno Unito (36,9%) e l’Ungheria (26,2%). Altro caso è quello della Somalia: percentuali record in Italia (94,7%) e Ungheria (92,9%), mentre la Francia (23,2%) è il Paese con la percentuale più bassa. Così per gli eritrei: 89% in Italia, 26% in Francia. "Questa disomogeneità evidenzia una mancanza di uniformità a livello europeo sui criteri per il riconoscimento dello status di rifugiato - denunciano i ricercatori della Moressa - disomogeneità che si fa ancora più evidente nelle procedure dell’accoglienza". Non è tutto. Anche se ogni giorno si parla di "emergenza" o "invasione" sulle coste italiane, la Fondazione Moressa sottolinea come "i dati forniti dall’Alto commissariato Onu raccontino di un’emergenza a livello mondiale che tocca solo in modo marginale il nostro Paese". Negli ultimi anni è infatti cresciuto il numero di persone fuggite dalle guerre: erano 43,7 milioni nel 2010, sono diventate 59,5 milioni nel 2014. Aumenta anche il numero di persone in fuga ogni giorno (42.500). E sono i Paesi vicini alle zone di guerra ad accogliere più profughi, con cifre impensabili per gli Stati europei. Il primo Paese per numero di rifugiati è la Turchia, con 1,59 milioni. Seguono Pakistan e Libano, entrambi con più di un milione di persone accolte. In Italia, invece, al 31 luglio 2015 sono 89mila i migranti presenti nei centri di accoglienza. E ancora: "Rispetto alla popolazione residente, in Italia gli 89mila migranti accolti sono 1,5 ogni mille abitanti. Un tasso assolutamente non paragonabile a quello del Libano: 232 rifugiati ogni mille abitanti". Cie di Trapani, ispezione del M5S dopo il tentativo di suicidio da parte di un immigrato Italpress, 30 agosto 2015 Una delegazione del M5s, guidata dall’eurodeputato Ignazio Corrao e dal senatore Maurizio Santangelo, si è recata per una visita ispettiva al Cie di Milo, a Trapani. Con i portavoce grillini anche Fulvio Vassallo Paleologo, professore di Diritto di Asilo e Statuto Costituzionale dello Straniero, ed Elio Tozzi dell’associazione umanitaria Sicilia Migranti Onlus. "Il Centro di Milo - spiega Corrao - è una di quelle strutture che dovrebbe divenire un hot spot, ma al momento l’attivazione è impossibile perché il centro è ingolfato a causa di procedure probabilmente errate. In questo centro ci sono 116 marocchini sbarcati al porto di Catania circa 15 giorni addietro cui sono stati notificati procedimenti collettivi di respingimento sino alle convalide di trattenimento adottate dal giudice di Pace Trapani. La questura di Catania avrebbe adottato tanti decreti di respingimento identici che potrebbero configurare anche una violazione del decreto di respingimento collettivo, in difformità a quanto stabilito ad esempio dall’articolo 13 del regolamento Schengen che prevede invece una procedura individuale sul respingimento. Morale - sottolinea l’europarlamentare M5S - l’hot spot che avrebbe dovuto essere avviato il 3 Agosto non è ancora partito perché il Ministero dell’interno con a capo il Ministro Alfano continua a gestire la situazione in maniera approssimativa e confusionaria. Intanto tra gli ospiti, aumenta l’esasperazione per il fatto di non sapere le motivazioni ed i tempi per i quali sono di fatto detenuti, gli scorsi giorni si è registrato l’ennesimo tentativo di suicidio". Per il senatore Maurizio Santangelo invece mancherebbero anche i presupposti normativi per l’attivazione dell’hot spot. "È una operazione di maquillage che stanno facendo alla struttura - spiega il senatore M5S - avevano già predisposto l’area hot spot aumentando la capienza da 220 a 300 posti. Non c’è acqua calda, ed i letti saranno a castello. Ad onor del vero oggi non esiste una normativa tecnica che dice come adeguare la struttura in hot spot, hub o sprar. Come faranno quindi i prefetti ad adeguare i centri se mancano i riferimenti normativi? Con quali criteri considerando che a pieno regime nei centri ogni 72 ore dovrebbe esserci il cambio degli ospiti?". Per Fulvio Vassallo Paleologo occorre "ragionare con i paesi di transito. Solo così - spiega - si potrebbero avere risultati migliori come accaduto nei rapporti con l’Egitto e la Tunisia. Molti marocchini lavoravano in Libia e volevano tornare in Marocco ma non sono potuti rientrare. Succede perché i lavoratori nordafricani che lavoravano in Libia in questo momento sono costretti a tentare l’avventura sui barconi per tornare nel proprio paese. L’Europa dovrebbe guardare chi arriva e cosa succede in Libia e nel nord Africa. Se contiamo di affrontarli a colpi di respingimento, non otteniamo nulla. Ci sono situazioni simili in diverse questure siciliane dove le persone vengono raggiunte dal provvedimento di respingimento a cui viene intimato di lasciare il territorio entro 7 giorni, in questo modo si rischia di non dare esecutività ai rimpatri ed ingolfare gli hot spot con persone che non vengono mandate via ed al tempo stesso non si sa dove portarle". La delegazione incontrerà la prefettura di Trapani probabilmente già la prossima settimana. Tra volontari e skinhead, così Berlino accoglie i suoi 20 mila rifugiati di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 30 agosto 2015 Nel centro di Moabit le associazioni organizzano l’accoglienza. La mobilitazione è ampia. "La politica non ce la fa, ma la gente vuole dare una mano". Sull’ingresso della tenda bianca, la ragazza con il velo esita a prendere l’omogeneizzato che la dottoressa le porge. "No pork, no pork!", dice il medico, senza però convincere la rifugiata siriana, che resta dubbiosa. Ma la dottoressa non molla: rimugina sulle tre parole d’arabo che conosce, poi si illumina: "Halal!". È halal l’omogeneizzato, non c’è carne di maiale, il bambino che aspetta seduto su un lettino d’emergenza può mangiare tranquillo, senza violare le regole dell’islam. La mamma sorride, il medico si rilassa. E riprende il servizio, da una fila a una tenda, a curare insolazioni e qualche caviglia slogata nel giardino del Lageso, come lo chiamano i berlinesi, l’Ufficio regionale per la sanità e gli affari sociali del quartiere di Moabit. La sera è fresca, ma ci sono le coperte distribuite dai volontari dell’associazione Moabit Hilft ("Moabit aiuta"). Si riconoscono per il nome scarabocchiato su un pezzo di nastro adesivo giallo, appuntato sul petto come una decorazione. Senza i volontari, sarebbe la catastrofe: le file interminabili davanti agli sportelli per la registrazione dei richiedenti asilo confermano che l’ufficio di prima accoglienza è sommerso dall’ondata inattesa. Da gennaio sono arrivati nella capitale 19 mila profughi, quattromila solo in agosto. E nel giardino sono forse duemila, affidati alla Caritas e alle organizzazioni di volontari, in attesa di essere poi distribuiti negli ostelli gestiti dai Länder. Yelena, partita da Kishinev, in Moldova, corre a mettersi in fila con un neonato appeso al braccio. Lei e la sua famiglia hanno attraversato l’Austria con un pullmino, pagando cento euro a testa. Seduti in un’aiuola, tre siriani di Aleppo non danno retta alla piccola Hanya, che a sei anni su quel prato vorrebbe giocare, non guardare il papà e gli amici che digitano sul telefonino. "Abbiamo speso 1.500 euro a testa per arrivare qui via Turchia/Grecia/Macedonia/ Serbia/Ungheria. Perché volevamo vivere in pace". Poco lontano, nell’edificio R, fra cassette di acqua minerale e pacchi di pannolini, c’è una riunione di Moabit Hilft. Laszlo Hubert, il coordinatore, prende fiato. Intervista? impossibile. Qualche battuta al volo, tutt’al più, con interruzioni per i rifugiati, per i volontari, per i donatori. Bisogna organizzare gli aiuti, prendere in consegna tutto quello che i berlinesi portano: abiti, alimenti, coperte, passeggini, e soprattutto entusiasmo. Le strutture statali non bastano, l’emergenza è tale che anche il potente governo Merkel ha il fiato corto, così la stampa sollecita la mobilitazione, che è partita in tutta la Germania all’insegna dello spirito civico, ma anche della fantasia. Accanto ai due insegnanti svevi che hanno preparato un corso di tedesco, ci sono i ragazzi di Karlsruhe che hanno varato "Biciclette senza frontiere": accolgono e riparano due ruote usate per poi distribuirle ai rifugiati. Accanto al comune di Münster Sarmsheim, in Renania, che ha chiesto al governo di accogliere più profughi, c’è la squadra di calcio di Babelsberg che ha schierato la sua formazione N.3 composta di soli immigrati. C’è chi offre accesso a Internet e chi fiabe lette a voce alta, chi porta passeggini e sacchi a pelo e chi offre un posto alla propria tavola, o addestramento alla boxe, o lezioni di teatro. Anne, commessa a Kreuzberg, scarica dalla bici barattoli di liquido per bolle di sapone e canestri di plastica, destinati ai giovanissimi. "Vengo dalla Sassonia, voglio fare qualcosa per compensare quello che hanno combinato dalle mie parti. Non siamo tutti come ad Heidenau". Sarah, che studia da maestra d’asilo, garantisce che l’esperienza con i disperati l’ha cambiata: "Sognavo un lavoro con gente ricca. Ora ho capito che ci sono cose più importanti. Sono appagata dal sorriso di questi bambini". Laszlo cerca qualcuno che parli urdu per un rifugiato pachistano, poi vuole assistenza in italiano. È per un marocchino venuto da Cosenza, che dice con accento calabrese: "Sono arrivato per chiedere asilo, in Italia lavoro non ce n’è più". Ibrahim si guarda intorno smarrito, mostra i documenti: è fuggito da Raqqa, la capitale di Al Baghdadi. Mohamed è scappato da Damasco, meglio la Germania, anche se non per sempre: "Il futuro? In Siria, dopo aver studiato qui a Berlino". Alle otto arriva una cinquantina di poliziotti con caschi e protezioni. Devono controllare l’uscita dei profughi, che non possono restare nel cortile del Lageso dopo la chiusura degli uffici. E scoraggiano eventuali attacchi di skin- head o razzisti. Gli insulti e le minacce non mancano: nei giorni scorsi sono arrivati due allarmi bomba, con telefonate anonime. Alla sbarra dell’ingresso, Ahmad ferma tutti, uno per uno: "Hai un posto dove andare?", chiede. Chi non ce l’ha, viene indirizzato alla lista delle disponibilità, dove semplici cittadini hanno segnalato di avere un letto in più. "Più profughi arrivano, meglio reagisce la gente. Nessuno crede più alla politica, così l’energia che prima si spendeva in un partito, o per un’ideologia, si trasforma in gesti concreti. Vengono persone di ogni genere, giovani e anziani, disoccupati o milionari", racconta Laszlo. "Ma mi resta un timore. I giornali incitano a mobilitarsi, la gente si accalca a portare aiuti, ma l’atmosfera può cambiare. Non vorrei che alla fine passasse l’idea che lo Stato non ce la fa. E che serve qualcuno in grado di decidere". Grecia: scontro a fuoco tra militari e scafisti a bordo di uno yacht, muore diciassettenne di Antonio Fraschilla La Repubblica, 30 agosto 2015 al largo di Simi. L’Onu convoca un summit mondiale. Scarcerato il camionista italiano. "È necessario fare di più per risolvere la crisi migratoria in Europa". Sulla tragedia dell’immigrazione interviene il segretario generale delle Nazioni unite, Ban Ki-Moon, annunciando una riunione sul tema a margine dell’assemblea generale dell’Onu in programma il 30 settembre. Si dice "inorridito e rattristato", riferendosi alla scoperta dei 71 cadaveri di migranti scoperti in un tir in Austria, mentre ieri tre bambini in gravi condizioni sono stati trovati in un altro furgone e in Grecia un diciassettenne è morto perché colpito in uno scontro a fuoco tra la Guardia costiera di Atene e i trafficanti. "Lancio un appello a tutti i governi coinvolti - aggiunge Ban Ki-Moon - perché forniscano risposte globali e agiscano con umanità. Quando si esaminano le richieste di asilo, gli Stati non devono fare differenza in base a religione o identità e non possono costringere le persone a tornare nei posti dai quali sono fuggiti". Parole, quelle del segretario generale dell’Onu, definite "un bel segno anche se tardive" dal cardinale Angelo Bagnasco: "Sulla questione immigrazione l’importante è la collaborazione di tutti", aggiunge il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin. Intanto continuano gli arrivi di migranti. Oltre mille e cento salvati nei giorni scorsi nel Canale di Sicilia sono sbarcati nei porti di Taranto e Messina. Ma tra questi ci sono anche i cadaveri di due donne, che in base alle prime indiscrezioni potrebbero essere morte soffocate nella stiva del barcone. La terza vittima è il diciassettenne trovato su uno yacht di 25 metri con a bordo 70 migranti fermato davanti all’isola di Simi in Grecia. C’è stata una sparatoria e il ragazzino è rimasto colpito. Verrà effettuata l’autopsia per confermare la dinamica della tragedia. Il ministro della Marina greco Christos Zois si è detto "addolorato per la giovane vita stroncata". E ha ricordato, pur ammettendo l’accaduto, lo "sforzo disumano della Guardia costiera e l’impegno di salvare vite". La contabilità delle vittime comunque rischia di salire di ora in ora. Il naufragio di giovedì scorso a largo della Libia potrebbe aver provocato 300 morti: secondo il portavoce della Croce rossa libica, Mohammed Almasrati, il numero dei salvati è di 198 ma "sono stati ripescati 111 cadaveri e decine di persone sono disperse". L’ondata migratoria non si ferma anche attraverso i Paesi dell’Est. In Austria la polizia ha fermato un camion con 26 migranti e tra questi tre bambini in condizioni critiche, mentre a Londra è stato rilasciato l’autista italiano perché non sapeva che nel suo furgone fermato nel Surrey c’erano migranti. Le autorità ungheresi hanno invece deciso di bloccare il traffico ferroviario alla frontiera e completato la recinzione al confine con la Serbia. Stati Uniti: detenuto per un furto da 5 dollari, afroamericano muore di fame in carcere di Francesco Tortora Corriere della Sera, 30 agosto 2015 Il ventiquattrenne, che soffriva di schizofrenia, avrebbe passato 4 mesi in cella senza toccare cibo e rifiutando le medicine per curarsi. Era in carcere dallo scorso 22 aprile per aver rubato in un 7-Eleven due snack e una bevanda gasata dal valore di 5 dollari. Due settimane fa il corpo senza vita di Jamycheal Mitchell, ventiquattrenne afroamericano, affetto da schizofrenia e originario di Portsmouth, Virginia, è stato trovato sul pavimento della sua cella nel penitenziario di Hampton Roads. La notizia, passata sotto silenzio sui giornali locali, è stata portata alla luce dal Guardian di Londra che ha dedicato un lungo articolo alla vicenda: il quotidiano britannico sottolinea come al giovane, nonostante i gravi disturbi mentali, sia stata negata la possibilità di essere rilasciato su cauzione. Secondo la polizia carceraria la morte di Mitchell sarebbe avvenuta per causa naturali. Tuttavia i familiari del giovane affermano che Mitchell sarebbe morto di fame, essendosi rifiutato di mangiare mentre era in carcere. Nei prossimi giorni sarà effettuata l’autopsia sul corpo della vittima. A causa delle sue difficili condizioni mentali, il giudice aveva ordinato il trasferimento del giovane in un vicino ospedale psichiatrico. Tuttavia la richiesta del giudice è stata respinta perché nell’istituto non vi erano posti letto disponibili e Mitchell è rimasto ben 4 mesi nel carcere americano dove è morto lo scorso 19 agosto. Il ventiquattrenne, che in passato era stato già in carcere per piccoli furti, durante la detenzione aveva smesso di prendere anche le medicine per curare la schizofrenia. Roxanne Adams, zia della vittima e infermiera professionista, ha visitato il detenuto ad agosto e afferma di averlo trovato pelle e ossa: "Il suo corpo era distrutto - ha dichiarato. Era davvero incredibile. La persona che ho visto non aveva nulla a che fare con quella che conoscevo". Secondo la Adams il nipote avrebbe perso almeno 30 kg durante il periodo di detenzione: "Anche la sua mente era in gravi difficoltà perché non prendeva più i farmaci. Eppure era un ragazzo che non aveva mai fatto male a nessuno. Fumava in continuazione e faceva ridere la gente". Ungheria: si vota la riforma del codice penale, 3 anni di carcere agli immigrati clandestini di Francesco Battistini Corriere della Sera, 30 agosto 2015 In Austria trovati su un tir tre bimbi così disidratati che avevano perso conoscenza. In Grecia spari fra trafficanti e militari: muore un ragazzino di 15 anni. "Saremo schiavi o saremo liberi?". Al confine con la Serbia, spuntano le teste rasate di Jobbik. Quelle che odiano rom ed europeisti. E ogni tanto a Budapest organizzano le ronde della Guardia Ungherese, in divisa nera e coi cinturoni di pelle, come usavano le Croci Frecciate nell’Ungheria nazificata. Per ora, girano in borghese e alla larga dai profughi: "Non siamo qui a creare problemi". Hanno solo da piantare nell’erba vicina al Muro un tricolore con una domanda in caratteri runici - schiavitù o libertà? - che l’irredentista Sándor Petöfi faceva ai magiari del 1848. Hanno solo da aspettare che si riunisca il Parlamento e in un guanto di velluto normativo avvolga il pugno di ferro del premier Orbán. L’ultimo colpo: la riforma del codice penale. Proposta venerdì, discussa in settimana, in vigore da metà settembre. Inasprisce il reato d’immigrazione clandestina e d’ora in poi non si limiterà a punire - dieci anni - chi traffica in esseri umani o a espellere chi arriva. No: commina tre anni di carcere a chiunque, guerra o carestia non importa, entri illegalmente in Ungheria. Galera dura ai migranti. Tredici articoli che hanno pochi eguali nell’Ue. "Un’inevitabile risposta - spiega Gergely Gulyas, deputato della maggioranza Fidesz - a un’Europa inadeguata e irresponsabile". Il progetto sarà "in linea coi principi internazionali" e infatti non esclude del tutto l’asilo politico a siriani o iracheni: verrà istituita una "zona di transito" fra il confine serbo e il Muro, più o meno cinque chilometri, e qui saranno esaminate le richieste. Niente centri d’accoglienza: "Adesso ce li mettiamo e scappano regolarmente". Nessuna integrazione. E poche deleghe ai civili: la polizia avrà carta bianca, in "situazioni di crisi" anche il sostegno dell’esercito. "Io spero solo che l’Ue reagisca a quest’inasprimento ungherese", protesta Nenad Ivanissevich, ministro del governo serbo che ieri ha dovuto aprire altri due centri profughi. In tutta questa storia "non c’è un fallimento Ue - attacca il presidente del Parlamento Ue, Martin Schulz, parlando dell’Ungheria senza citarla, piuttosto di governi cinici che non vogliono prendersi responsabilità e impediscono una soluzione europea congiunta". Non stupisce, l’ultimo giro di chiave ungherese. Il progetto di legge ha bisogno di due terzi dei voti in aula e Orbán s’appella alle opposizioni. Forse non servirà: lo choc per i 71 morti nel Tir al confine austriaco, il mesetto di fermo giudiziario ai quattro "terroristi" che portavano il carico, è quanto basta a convincere dell’emergenza l’opinione pubblica ungherese. Jobbik o no, i profughi sono ormai tremila al giorno. Ieri in Austria è stato fermato un camion romeno con dentro tre bambini così disidratati da aver perso conoscenza. I bollettini balcanici somigliano sempre più a quelli mediterranei, i tg danno risalto al 15enne asfissiato su un battello greco. Budapest ha sospeso per un mese i treni locali con la Serbia, annunciando che i 175 chilometri di barriera anti-clandestini sono pronti con due giorni d’anticipo sul previsto. Mentre davanti all’isola greca di Simi è stato fermato uno yacht di 25 metri carico di migranti: nello scontro a fuoco fra trafficanti e Guardia costiera sarebbe morto un 15enne. "Vogliamo un Paese migliore", dicono quelli di Jobbik. In Parlamento hanno 23 seggi e sanno già che cosa votare, anche se sognavano una legge più severa: "L’Europa doveva essere la nostra terra di Canaan", nel senso della terra promessa, "e invece siamo invasi dai cananei" (nel senso d’ebrei, mediorientali & affini). Le opposizioni fanno notare che prima di quest’ondata gli stranieri in Ungheria erano solo l’1,4% della popolazione e l’asilo politico era stato concesso in tutto a 550 persone: in Italia, per dire, siamo all’8,1%, con 21.861 rifugiati politici. Obiezione inutile, a Budapest si sta al di qua o al di là del Muro. Quasi un referendum: schiavi dell’Europa o liberi di fare da noi? Iran: "impiccheremo quel medico, diffonde la corruzione in terra" di Domenico Letizia Il Garantista, 30 agosto 2015 Il regime iraniano continua a violare costantemente la libertà di espressione e di opinione nel proprio Paese, esercitando la repressione come arma politica. Una nuova terribile vicenda ha allertato l’attenzione delle organizzazioni non governative per la tutela e la promozione dei diritti umani e delle libertà civili. Il governo iraniano ha condannato a morte Mohammad Ali Taheri, un cittadino iraniano, con l’accusa di "diffondere la corruzione in terra". Mohammad Ali Taheri, è un medico, praticante della medicina alternativa e fondatore di un movimento spirituale basato sulle teorie di medicina alternativa utilizzate in Iran e altrove. Secondo le norme internazionali sui diritti umani, la pena di morte può essere utilizzata solo per "i crimini più gravi", considerando tali quelli relative a omicidi intenzionali. Mohammad Ali Taheri non ha commesso alcun crimine e viene punito solo per aver pacificamente esercitato i diritti alla libertà di credo, di cura, di espressione e di associazione. Il medico condannato è attualmente in sciopero della fame, dal momento che non gli è stato permesso di incontrare il suo avvocato. Risulterebbe inoltre che anche alcuni dei suoi seguaci siano stati arrestati e torturati, mentre altri sono in sciopero della fame in solidarietà con il detenuto. Nel mondo sta crescendo una mobilitazione contro la sua condanna a morte. Nelle ultime due settimane, molte organizzazioni internazionali ed il Dipartimento di Stato americano hanno biasimato la condanna. Ali Taheri dopo aver scontato quattro anni in carcere e malgrado la sua condanna sia stata quasi del tutto scontata, è stato nuovamente processato per il reato, creato nel paese dai mullah, di "corruzione della terra mediante il traviamento della gente" e condannato a morte. In precedenza era stato condannato a cinque anni di prigione, a 9 miliardi di rial di multa e a 74 frustate per le assurde accuse di "insulto alle santità, utilizzo illegale di titoli scientifici, dottore e ingegnere, e per aver scritto libri e articoli fuorvianti". Una reazione popolare, nel paese, si è avuta il 16 agosto quando un gruppo di persone si è riunito a Teheran, di fronte alla sede del ministero della Giustizia, per chiedere il rilascio del detenuto politico. Durante la manifestazione, le persone presenti sono state attaccate e disperse dalle forze dell’ordine del regime. La polizia è intervenuta utilizzando bastoni e gas lacrimogeni, sparando alcuni colpi d’arma da fuoco in aria per allontanare le persone che si erano radunate. Molti manifestanti sono stati feriti e alcuni sono stati tratti in arresto e trasferiti nei centri dell’ Intelligence iraniana, come quello di Vozara Street. Nelle scorse settimane il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana aveva chiesto a tutti i difensori dei diritti umani e agli organismi ONU competenti, di mobilitarsi contro il nuovo processo subito da Mohammad-Ali Taheri che ha portato alla sua condanna a morte. Anche la Ong radicale "Nessuno Tocchi Caino" è intervenuta sull’accaduto. Sergio d’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino ha dichiarato: "Questa condanna rappresenta una minaccia non solo per Ali Taheri o per i cittadini iraniani ma per l’intera Comunità internazionale perché fa scempio dei basilari principi su cui essa si fonda. L’Italia - ha concluso d’Elia - paladina della battaglia per la moratoria universale delle esecuzioni capitali, si mobiliti per il rilascio immediato di Mohammad Ali Taheri". Nessuno tocchi Caino chiede al Governo italiano di mobilitarsi perché sia annullata la condanna a morte di Mohammad Ali Taheri. Un intervento necessario considerando che anche Zeid Raad ai-Hussein, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, ha invitato le autorità iraniane a "ritirare immediatamente le accuse contro Taheri e garantire il suo rilascio incondizionato". Egitto: tre giornalisti di Al Jazeera condannati a 3 anni per aver diffuso notizie false La Repubblica, 30 agosto 2015 Per il tribunale del Cairo i tre hanno appoggiato l’ex presidente Mohamed Morsi e i Fratelli Musulmani, organizzazione "terroristica" per le autorità egiziane. Sono un egiziano-canadese, un egiziano e un australiano. In aula anche Amal Alamuddin Clooney, legale di uno dei tre. Un tribunale del Cairo ha condannato in appello a tre anni di carcere i giornalisti della tv satellitare del Qatar al-Jazeera accusati di aver "diffuso notizie false" e di aver appoggiato l’ex presidente Mohamed Morsi e i Fratelli Musulmani, organizzazione "terroristica" per le autorità egiziane. I tre sono l’egiziano-canadese Mohamed Fahmi, il producer egiziano Baher Mohammed e l’australiano Peter Greste. A dare la notizia è la stessa al-Jazeera. Ad assistere alla sentenza di condanna a tre anni di reclusione per i tre giornalisti anche Amal Alamuddin Clooney, moglie della star americana e legale di Mohammed Fahmy. È la prima volta che la legale appare in tribunale in Egitto. Fahmi e Mohammed sono stati presi in consegna dalla polizia e con tutta probabilità condotti in carcere subito dopo la sentenza. Greste, il terzo reporter anche condannato, si trova invece in Australia. I giornalisti erano stati arrestati il 29 dicembre 2013 in un hotel dove soggiornavano al Cairo e il processo era iniziato il 20 febbraio del 2014. Il 23 giugno dello scorso anno la Corte d’assise aveva condannato - per aver diffuso "false informazioni" a favore dei Fratelli Musulmani e del deposto presidente Mohamed Morsi - Peter Grestie e Mohamed Fahmi a 7 anni di reclusione, mentre Mohamed Baher a 10 anni di prigione. Più dura la condanna a Baher perché trovato in possesso, secondo l’accusa, di un proiettile. La sentenza aveva scatenato critiche e polemiche da parte di associazioni che difendono la libertà di stampa e attivisti. Per Amnesty International quel processo era stata una "totale farsa" e le sentenze rappresentavano "un feroce attacco alla libertà dei media". Il 1 gennaio 2015 la Corte di Cassazione ha annullato il processo di giugno e ha disposto che venisse rifatto. Il primo febbraio 2015 le autorità egiziane hanno rilasciato l’australiano Greste e lo hanno espulso dal Paese. Gli altri due reporter erano invece stati scarcerati su cauzione, ma erano rimasti in regime di libertà vigilata. "La sentenza odierna è un altro attacco deliberato alla libertà di stampa". Lo ha affermato il direttore generale di Al Jazeera Media Network, Mostefa Souag, dopo la condanna in Egitto di tre giornalisti della tv satellitare del Qatar. "È un brutto giorno per la magistratura egiziana - ha detto Souag - invece di difendere le libertà e un’informazione libera e corretta hanno sacrificato la loro indipendenza per motivi politici". "Scioccato. Offeso. Arrabbiato. Niente di tutto ciò descrive come mi sento adesso. Una condanna a tre anni è totalmente sbagliata", ha scritto su Twitter Peter Greste. "Un affronto alla giustizia, la campana suona a morto per la libertà di espressione in Egitto, è un verdetto ridicolo che colpisce al cuore la libertà di espressione in Egitto. Le accuse contro Mohamed Fahmy, Peter Greste e Baher Mohamed sono state sempre prive di fondamento e politicizzate, non avrebbero mai dovuto essere arrestati e processati", ha detto Philip Luther, direttore per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty International, "la sentenza odierna va immediatamente ribaltata, a Mohamed Fahmy e Baher Mohamed deve essere concessa la libertà senza condizioni. Li consideriamo prigionieri di coscienza, condannati al carcere solo per aver esercitato il proprio diritto alla libertà di espressione". Condanna anche da Reporters sans Frontieres che ha parlato di "vergognosa sentenza politica". Secondo quanto riportato dal sito del quotidiano egiziano al Ahram Amal Clooney ha reso noto che avanzerà una richiesta di "amnistia presidenziale" per i tre. Il legale si è detta "scioccata" per la sentenza di condanna che ha definito "estremamente grave".