Giustizia: Onida "la magistratura? il vero problema sono le leggi quasi incomprensibili" di Virginia Piccolino Corriere della Sera, 29 agosto 2015 "L’incertezza e il caos delle norme compromettono una giustizia equa, efficiente e celere. E quello delle leggi mal fatte non è un problema della magistratura, ma un problema per la magistratura". Per Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, e presidente della Scuola superiore della magistratura, che provvede alla formazione iniziale e permanente dei magistrati ordinari, "i problemi della giustizia ci sono, ma occorre ben distinguere le cause e i rimedi che riguardano le leggi da quelli che possono riguardare le prassi giudiziarie". Leggi mal fatte? Allora condivide l’allarme di Sabino Cassese e del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini. "C’è una sovrabbondanza di testi normativi disorganici e in continua modificazione. Dipende da come lavorano il Parlamento e soprattutto il governo. Decreti "omnibus" vengono presentati e poi votati con un maxiemendamento. L’accavallarsi di disposizioni varie in simili provvedimenti approvati in blocco non favorisce certo la chiarezza. Ora la qualità delle leggi è persino peggiorata: certi testi sono talvolta quasi incomprensibili". Cosa si dovrebbe fare? "Quando c’è un problema normativo, bisognerebbe affrontarlo esplicitamente, in modo sistematico e in sede propria, non infilare un emendamento nell’ultimo testo in discussione davanti al Parlamento". Il suo collega Cassese punta il dito anche sulla Scuola della magistratura che non insegna a usare la custodia cautelare come extrema ratio. È così? "Qui entriamo nel campo della prassi giudiziaria. Su questo certamente la formazione può e deve incidere. Ma non è vero che la Scuola non cerchi di farlo. Nei suoi corsi la Scuola non ha mancato di richiamare l’attenzione dei magistrati sul problema, partendo dalla constatazione del numero di detenuti in attesa di giudizio, molto superiore alla media di altri paesi europei. Sulle richieste di custodia cautelare avanzate dalle Procure i giudici devono esercitare un vaglio severo. Tuttavia osservo che talvolta un legislatore schizofrenico ha operato in senso contrario, cercando di imporre una "obbligatorietà" della custodia cautelare, con norme che hanno dovuto essere corrette dalla Corte costituzionale". Cassese vi imputa anche di non far ricorso all’analisi economica del diritto. Dovreste? "Il problema non è di elaborare teorie generali, ma è ancora una volta pratico: le pronunce dei giudici incidono su realtà spesso complesse, sociali e anche economiche, e devono tenerne conto adeguando i propri contenuti non solo, come è ovvio, ai limiti e agli obblighi di legge, ma anche, quando esprimono valutazioni discrezionali, a esigenze di equilibrio e di corretto bilanciamento fra interessi contrapposti tutti degni di tutela. Ma l’azione penale, da noi, è obbligatoria, ed è giusto, perché solo così si garantisce l’uguaglianza fra i cittadini. Semmai talora si ha l’impressione di una eccessiva discrezionalità delle Procure nello scegliere le indagini da coltivare e nel disporre dei loro tempi, talora eccessivamente lunghi. L’obbligatorietà dell’azione penale presuppone che al processo si arrivi presto. Anche su questi temi la Scuola non ha mancato di provocare riflessioni e confronti fra i magistrati. La Scuola ha il vantaggio di essere autonoma sia dal Consiglio superiore della magistratura sia dal ministro di Giustizia, che pure nominano i componenti del direttivo ed emanano "linee guida" di cui la Scuola tiene conto. Così essa può promuovere una formazione non esclusivamente tecnico-giuridica, ma aperta alla realtà dei fatti e mirata a sviluppare il senso di "responsabilità sociale" della magistratura". Giustizia: dopo le critiche di Legnini i magistrati "indagano" Renzi di Pietro Mancini Il Garantista, 29 agosto 2015 Oltre che alla paura dell’Isis, e di una crisi finanziaria o all’isolamento del Sud, l’Italia, per dirla con Renzi, non deve rassegnarsi al ritorno dell’uso politico della giustizia, dopo 20 anni di scontri tra i tifosi della Boccassini fi di Di Pietro e i fans di Silvio Berlusconi. Le toghe fiorentine hanno aperto un fascicolo a carico di ignoti, per accertare sfi un generalone della Finanza, Mario Adinolfi, favorì, o meno, Matteo Renzi, tra il 2011 e il 2014. In quegli anni Adinolfi era a capo del Comando interregionale di Emilia e Toscana. Le telefonate tra i 2 big e la notizia dell’inchiesta sono state sparate, in prima pagina, da "Il Fatto Quotidiano", che al leader del Pd, corregionale di Dante Alighieri ma anche di Licio Celli, non perdona nulla. L’auspicio 6 che, tra 5 anni, non spunti un’affermazione del magistrato del capoluogo toscano sul premier, analoga a quella esternata, 20 anni fa, da Tonino Di Pietro su Silvio Berlusconi: "Io quello lo spezzo!". Solo 5 giorni fa, Sabino Cassesfi ha scritto, sul "Corriere della Sera": "Troppe carriere politiche di magistrati in toga e troppe lo loro esternazioni, mentre il Csm sta a guardare". E Marco Travaglio, a cui il commento del professore non è piaciuto, ieri, ha fatto bussare a Rigirano : "Presidente, c’è posta per lei. Non da donna Maria De Filippi, di cui lei è spesso ospite, ma dalla Procura di Firenze, che è interessata a indagare sulla natura - Criminale? Massonica? Amicale? - dei suoi rapporti con Adinolfi e sulle ragioni per cui molte denunce contro di lei, allora Sindaco, caddero nel vuoto". Karl Marx scrisse che la storia si ripete 2 volte, la prima volta come tragedia e la seconda come farsa. Non una tragedia, ma una crisi del primo governo Berlusconi fu servita, su un piatto d’argento, il 21 novembre 1994, dalla Procura di Milano, notificata, sul "Corriere della Sera", dirotto da Paolo Mieli, al premier, a Napoli, dove stava presiedendo una conferenza dell’ONU sulla criminalità internazionale. L’accusa era di corruzione della Guardia di Finanza. 7 anni dopo, Silvio venne assolto ma, con quell’inchiesta, il percorso politico, che era stato deciso dagli elettori, venne deviato. Bossi lasciò la maggioranza, fu siglato il patto del ribaltone tra il capo della Lega, D’Alema e Buttiglione, benedetto da Scalfaro, che varò il governicchio-Dini e negò le elezioni al centrodestra. La politica, oggi, non gode di una salute eccellente né di grande autorevolezza. Ma è, certo, più forte di 22 anni fa, quando il Capo della Procura di Milano, Borrelli, piombò in Tv per bocciare un decreto, predisposto dall’allora Guardasigilli, Conso, che escludeva il carcere per i politici e gli imprenditori, qualora avessero collaborato e restituito le tangenti. Era la prima volta che un magistrato attaccava, frontalmente, un provvedimento del governo, ma l’effetto fu proprio quello voluto ria Borrelli. L’indomani, "coraggiosamente". Scalfaro annunciò che non avrebbe firmato il decreto e Conso lo ritirò. Giuliano Amato: allora premier, commentò, amaro: "Il non decreto del non Conso!". E adesso parte l’inchiesta delle toghe della città di Renzi, casualmente, of course, all’indomani del disco verde di Legnini, vicepresidente del Csm, all’introduzione di "regole più stringenti per i magistrati, che entrano in politica". E, soprattutto, a nuove norme sullo intercettazioni : ascolti più filtrati e limiti alla pubblicazione. Questa linea, da Paese normale, non è, evidentemente, accettabile dai "giapponesi", che infondono continuare a resistere, resistere, resistere ai politici. Oggi a Renzi, ad Alfano, a Verdini. Ieri all’odiato Berlusconi che, dalla Procura di Milano, sulla vicenda Ruby (assolto, in appello, con formula piena), ha subito, tra intercettazioni e analisi di tabulati telefonici, 77.092 controlli. E circa 100mila dalla Procura di Bari, nell’inchiesta Tarantini-escort, E Pallerà primo cittadino di Firenze - dopo aver scherzato su alcune cravatte, non gradite confidò ad Adinolfi una "sconvolgente" notizia, uno "scoop": avrebbe sfrattato, serenamente, da Palazzo Chigi, Enrico Letta, che riteneva "incapace". Noi pensiamo che il premier possa, e debba, essere criticato, per i provvedimenti, varati dal governo, e per la linea politica impressa al PD. Ma che vada sostenuto quando prospetta l’opportunità di archiviare la ventennale sfida tra sostenitori e avversari, noi giornali, nelle Procure, nelle piazze e nei partiti, di Silvio Berlusconi, peraltro declinante, anche a causa di non pochi suoi errori. Carlo Freccero, una dello "vittime" dello spietato berlusconismo - anche se è stato un alto dirigente di Mediaset, poi della Rai e adesso rappresenta il M5S nel CdA di viale Mazzini - ha notato che, tra gli otto anti-B, collocati, giovedì, in prima pagina, da "Il Fatto Quotidiano" non ci fosse neppure un politico. Evidentemente, la maggioranza del Paese, e quanti la rappresentano, in Parlamento, non intendono assistere, né dar vita ad altri 20 anni di risse, senza realizzare nessuna riforma, in primis quella della giustizia. Costoro fanno, come Renzi, "discorsi da bar di Rignano"? Questi maitres a penser, evidentemente, hanno dimenticato che lo elezioni si vincono, anche convincendo gli avventori del bar di Rignano, e di altri piccoli paesi, e le casalinghe di Voghera. I loro voti contano, certo, non meno di quelli di numerosi e sussiegosi intellettuali, ancora non guariti da quello che un acuto sociologo, il prof. Luca Ricolfi, definì il "complesso dei migliori". Giustizia: in Gazzetta Ufficiale decreto per trasferimento spese uffici a ministero Public Policy, 29 agosto 2015 A partire da settembre 2015 le spese obbligatorie per il funzionamento degli uffici giudiziari saranno trasferite dai Comuni al ministero della Giustizia, così come previsto dalla legge di Stabilità 2015. È stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il decreto del presidente della Repubblica che contiene le nuove regole sulle misure organizzative necessarie a dare attuazione al trasferimento delle spese e delle attività fino ad ora in capo agli Enti locali. È quindi stato superato il sistema, in vigore dal 1941, che poneva a carico dei comuni l’onere di anticipare le spese per la Giustizia nei propri territori, che poi erano rimborsate dal ministero. Per fra fronte alla nuova gestione degli uffici, il ministero della Giustizia ha istituito la Conferenza permanente che si occuperà della loro gestione e manutenzione, con alcune eccezioni. Con la legge di Stabilità 2015 a livello centrale, le competenze connesse al funzionamento degli uffici giudiziari vengono attribuite alla Direzione generale delle risorse materiali e delle tecnologie. La vera novità, a livello periferico - prevista dal dpr pubblicato in Gazzetta - è la nascita della Conferenza permanente a cui sono attribuiti i compiti finalizzati ad assicurare il funzionamento degli uffici. Dunque un nuovo organismo idoneo a svolgere le competenze fino ad ora assegnate ai Comuni. Allo stesso tempo il regolamento precisa che le commissioni di manutenzione - istituite nel 1998 e che si occupavano dei locali e degli immobili degli uffici giudiziari - saranno soppresse a partire dal 1° settembre. A seguito di questa soppressione in ogni circondario è chiamata ad operare la Conferenza permanente, composta dai capi degli uffici e dai dirigenti amministrativi e presieduta e convocata dal presidente della Corte di appello, ovvero, nelle sedi che non sono capoluogo del distretto, dal presidente del tribunale. In particolare, la Conferenza permanente ha il compito di individuare i fabbisogni necessari per il funzionamento degli uffici (gestione e logistica), quali ad esempio: manutenzione di immobili, riscaldamento, climatizzazione, utenze, pulizia e disinfestazione, raccolta e smaltimento dei rifiuti, giardinaggio, facchinaggio, traslochi, vigilanza, custodia. Gli uffici giudiziari interessati dal trasferimento degli oneri di spesa obbligatoria sono quelli elencati nella 392 del 1941. Tra questi non sono compresi la Corte di Cassazione e gli uffici giudiziari che hanno sede nel Palazzo di Giustizia di Roma. Esclusi anche gli uffici giudiziari della città di Napoli: gli edifici e locali ospitanti il tribunale di Napoli nord e la procura della Repubblica presso lo stesso tribunale. La loro gestione e manutenzione è infatti regolata da disposizioni speciali, contenute nel decreto 522 del 1993. Ministero Giustizia e Anci siglano accordo quadro Una complessiva collaborazione deve accompagnare un passaggio storico: il 1 settembre le funzioni in materia di gestione degli uffici giudiziari transitano dai Comuni al Ministero della Giustizia. La complessità delle questioni che emergono richiede gradualità e la più fattiva collaborazione in modo da trovare le soluzioni utili per i differenziati contesti. Il Ministro Orlando e il Presidente Fassino hanno sottoscritto la convenzione quadro, prevista dalla legge, tassello del più ampio percorso di cooperazione istituzionale, che potrà consentire sulla base di accordi locali di utilizzare, dietro il conferimento di un corrispettivo al Comune, il personale comunale oggi impiegato a diverso titolo nella gestione di alcuni servizi individuati espressamente dalla legge. Nel definire le attività che il personale dei Comuni svolge all’interno degli uffici giudiziari (ad esempio attività di custodia e manutenzione degli immobili e gestione degli stessi), la convenzione indica anche i parametri per la determinazione dei corrispettivi per i servizi svolti da parte del personale comunale, quantificati sulla base del costo del personale in relazione alle attività svolte. Rimane fermo l’impegno del Ministro Orlando e del Presidente Fassino di collaborare in modo reciproco sulle questioni poste agevolando il corretto passaggio delle competenze, nonché accompagnando insieme la soluzione delle questioni aperte, la cui principale è il ristoro delle spese sostenute dai Comuni nelle annualità pregresse, su cui hanno scritto congiuntamente al Ministro Padoan. Giustizia: Mafia Capitale, l’investitura che non c’è Il Manifesto, 29 agosto 2015 Il ruolo del prefetto Gabrielli nel risanamento di Roma resta un mistero. Nessun atto, solo l’annuncio di Alfano. Relazione secretata. E la manifestazione del Pd diventa bipartisan. Né mezzo, né doppio. Per capire se davvero il sindaco di Roma Ignazio Marino al ritorno dalle sue vacanze americane si ritroverà il prefetto Franco Gabrielli a fargli da tutore e a dirigere, un gradino sopra di lui, l’opera di bonifica dell’amministrazione capitolina dai tentacoli di Mafia capitale, bisognerà solo attendere di vedere le carte. Che sia un Dpcm, ossia un decreto del premier come quello già firmato giovedì in consiglio dei ministri che dà al prefetto di Roma il compito di coordinare la governance del Giubileo, o che sia una direttiva o un atto di indirizzo ministeriale, nessuno ancora lo ha visto. Semplicemente perché non c’è. Nulla è stato ancora messo nero su bianco e resta per ora solo l’annuncio dato giovedì dal ministro Alfano: "Ho informato il Cdm che intendo nominare Gabrielli per pianificare insieme al sindaco interventi di risanamento" del Campidoglio. Che cosa significhi, con quali poteri e strumenti, nessuno lo sa, nemmeno in prefettura. Solo ipotesi: "È probabile - spiegano in Via 4 Novembre - che il potere di spostare funzionari e annullare atti, per esempio, rimanga nelle sole mani del sindaco". Di sicuro, "tutto si dovrà svolgere all’insegna della leale collaborazione". D’altronde, è difficile anche appurare cosa ci sia scritto nella relazione sulle infiltrazioni di Mafia capitale che il titolare del Viminale ha messo a punto sulla base del lavoro prefettizio e portata in Cdm. Sarebbero state secretate, infatti, quelle sei pagine contenenti la proposta di commissariamento del municipio di Ostia (per il quale ora si attende il decreto del presidente della repubblica, esattamente come accade con lo scioglimento di un qualsiasi comune) e di investimento del prefetto Gabrielli nell’opera di risanamento di quella macchina amministrativa "caratterizzata - ha riferito Alfano - da gravi vizi di legittimità e procedurali". Il consigliere comunale, Riccardo Magi, presidente di Radicali Italiani, non ci sta: "La relazione di Alfano approvata dal Cdm va immediatamente resa pubblica. È un atto amministrativo e dunque, eventualmente, impugnabile davanti al Tar, anche da un consigliere comunale. Dalle dichiarazioni del ministro invece non è assolutamente chiaro sulla base di quale norma e con quali atti si intenda affidare, o sia già stato affidato, "l’incarico di stabilire insieme al sindaco un piano per l’adozione di atti di indirizzo" negli otto ambiti di intervento. È fondamentale - conclude - per valutare sostanza, fondatezza, legittimità e anche il valore politico delle decisioni assunte". Il commissariamento del X Municipio seguirà una strada decisamente più semplice. Anche perché, come spiega l’assessore alla Legalità Alfonso Sabella, "il territorio di Ostia è fortemente infiltrato da una criminalità mafiosa molto più tradizionale e di tipo diverso da Mafia Capitale, molto più legata al controllo del territorio. Del resto io stesso mi ero occupato proprio di Ostia quando facevo il pm a Palermo". Così come più semplice e rodata sarà la governance del Giubileo: "Non credo che sia un lavoro più difficile rispetto all’Expo di Milano", dice il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, nel suo ruolo di controllore degli appalti, che saranno affidati in tempi dimezzati, pur senza deroghe nelle procedure. Intanto cresce la mobilitazione attorno alla manifestazione indetta per il 3 settembre dal presidente e commissario speciale per Roma del Pd, Matteo Orfini. Si chiamerà "Antimafia Capitale" anche se la molla non è scattata né con la prima tranche degli arresti eccellenti né con la seconda, ma con il funerale-show dei Casamonica. Perciò l’appuntamento è nella piazza antistante la chiesa di Don Bosco diventata simbolo delle cosche romane che si spartiscono il controllo del territorio, non potendo da sole arrivare a quello delle amministrazioni. Sarà senza simboli politici, al punto che vi parteciperà anche Alfio Marchini, il candidato su cui punta il centrodestra per riconquistare il Campidoglio e che accusa Marino di essere stato "messo lì con primarie farlocche". Qualcuno ovviamente sente puzza di stantio. "Attenzione - ammonisce il coordinatore romano di Sel Paolo Cento - che non diventi la piazza delle larghe intese". Giustizia: Mafica Capitale; parte l’era Marino-Gabrielli, Sabella ufficiale di collegamento di Ernesto Menicucci Corriere della Sera, 29 agosto 2015 Secondo l’assessore, che curerà i rapporti tra i due, il primo cittadino avrà l’ultima parola. "A Roma non ci sono due consoli". Lo dicono tutti, in Campidoglio. E tutti, intorno al sindaco "sotto tutela" Ignazio Marino si affrettano a spiegare come il prefetto Franco Gabrielli non sia il secondo "console", quello che formerebbe una diarchia perfetta col chirurgo dem. Formalmente, il ragionamento tiene. Gabrielli, infatti, avrà i poteri previsti dalla legge sui prefetti e si muoverà nell’ambito normativo stabilito dal Dpr (decreto del presidente della Repubblica) 180 del 2006. Il ruolo che gli ha affidato il ministro dell’Interno Angelino Alfano, di affiancamento "politico/amministrativo" al Comune di Roma dovrebbe essere contenuto in una lettera di indirizzo che lo stesso responsabile del Viminale scriverà a Gabrielli e che ancora non è arrivata. Fino a qui, però, è la forma. Quanto basta, dalle parti del Campidoglio, a dire che non c’è "nessun commissariamento, che la responsabilità dell’azione spetta sempre al sindaco, che non ci potranno essere atti co-firmati". Certo, gli stessi collaboratori più stretti di Marino devono ammettere che qualcosa è cambiato, che "politicamente la si può leggere anche in maniera diversa" e che se prima si poteva anche non passare per Gabrielli in alcune materie, ora sarà pressoché indispensabile. Tanto che sarebbe già stato individuato "l’ufficiale di collegamento" tra Marino e il prefetto: questo ruolo toccherà ad Alfonso Sabella, magistrato antimafia, arrivato in Comune come assessore alla Legalità, ma sempre più deus ex machina della macchina comunale. Un compito che costringerà Sabella a rivedere i suoi piani. Agli amici, infatti, il magistrato aveva confidato di aver immaginato la sua avventura romana come un’esperienza "a tempo", fino a fine 2015 (un anno esatto dopo il suo ingresso in giunta). Ora ci sta ripensando: "Ci sono troppe cose da fare ancora", il suo pensiero. Toccherà a lui, così, sottoporre al prefetto i documenti che sta preparando il Campidoglio. Primo esempio, il regolamento sui contratti di servizio delle municipalizzate (prima fra tutti l’Ama, l’azienda dei rifiuti) che Sabella prima ancora di portare in giunta ha fatto avere a Gabrielli. Il magistrato insiste: "Ci hanno messo in contrapposizione, ma non è vero. Io sono felice che Gabrielli ci dia una mano. Felice, chiaro?". H primo appuntamento è ad inizio settimana, quando col prefetto si farà un primo punto sul Giubileo e verrà istituita la segreteria organizzativa di raccordo tra Prefettura, Comune e Regione. Ma la riunione più importante sarà quella che si terrà al ritorno di Marino dall’America, quando con Gabrielli si imposteranno le basi di questa strana "diarchia". Il Campidoglio, in quell’occasione, porterà il lavoro già fatto sui punti elencati da Alfano (verde, appalti, campi nomadi, immigrazione, acquisti e forniture) e lo sottoporrà a Gabrielli insieme agli altri atti ai quali si sta lavorando: regolamento sugli appalti alle cooperative sociali (oggi hanno una riserva del 5%), albo gare e fornitori (Gabrielli potrebbe inserire una pre-certificazione antimafia), controlli interni di legittimità (oggi si fanno sul 20% degli atti del Comune). Gabrielli, in base all’incarico del Viminale, fornirà i suoi consigli e suggerimenti: "Sarà lui - dice Sabella - a dirci se stiamo andando bene, se mancano alcune cose, come procediamo". E se Marino e Gabrielli non fossero d’accordo? "Il sindaco ha l’ultima parola, è lui che decide", giura Sabella. Formalmente sarà così. Chiaro che, in quel caso, si aprirebbe però un fronte di scontro istituzionale molto forte. Con tutte le conseguenze che ne potrebbero derivare. Giustizia: Mafia Capitale; la pesante scelta del governo (ma il sindaco Marino non lo sa) di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 29 agosto 2015 Il Giubileo è a dicembre e la città accumula ritardi. Al primo cittadino sono stati affiancati il prefetto Gabrielli, il magistrato anticorruzione Cantone e persino l’ex assessore al Bilancio Silvia Scozzese. Come Totò insegna ("e che, io so’ Pasquale?"), far finta di nulla può essere arte sublime. Ignazio Marino vi attinge a piene mani, al culmine di un disastro nazionale che ha reso necessarie misure senza precedenti, come senza precedenti è il degrado della Capitale d’Italia. A una Roma nella quale rientrerà dalle sue ferie memorabili con funzioni ridotte e sotto tutela secondo molti, Marino dunque rende noto di essere "soddisfatto". Renzi gli ha tolto tutto ciò che poteva togliergli senza aprire una devastante crisi in Campidoglio. G li ha messo sul collo il prefetto Gabrielli, lo zar Anticorruzione Cantone e, a controllare il debito, gli manderà pure quella Silvia Scozzese che gli era stata assessora al Bilancio e lo mollò sbattendo la porta. Una troika, per dirla alla... greca. Con almeno otto ambiti delicatissimi su cui incidere, tra cui immigrazione e campi nomadi, appalti da rivedere e dirigenti da rimuovere. Mafia Capitale e Giubileo sono faccende separate che alla fine si sommano, e la somma è un macigno. A Marino resta poco altro che la gestione del traffico, impresa comunque non facile. "Abbiamo trascorso due anni a snidare il male!", ha sostenuto dai Caraibi il sindaco imbrigliato, dicendosi ben felice delle sue briglie nuove, tenute da Franco Gabrielli che diventa, di fatto, il nuovo dominus dell’amministrazione capitolina. Volgere l’umiliazione in trionfo s’è rivelata infine una rotta nella tempesta: l’immagine di Marino con indice e medio levati in segno di vittoria, mentre i grillini lo ricoprivano di contumelie e i verbali di Buzzi e Carminati impazzavano, ha sbancato i siti. Ieri, certo, all’esito di un Consiglio dei ministri che in teoria avrebbe potuto decidere persino lo scioglimento del Comune per mafia, il governo ha tenuto a lasciare aperto uno spiraglio formale: per evitare un ulteriore schiaffo alla Capitale sotto gli occhi del mondo durante l’anno giubilare. "Nessun commissariamento di Marino", ha scandito il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti che pure, con la sua sola presenza al posto di Renzi, mostrava plasticamente la distanza del premier dal sindaco (si direbbe quasi un fastidio epidermico a occuparsene in pubblico, tanto Marino è difforme dalla narrazione renziana). Che i giochi siano fatti è però nelle cose. Benché si sia levata parecchia cortina fumogena. Ancora una volta in questo periodo, vengono dalla Chiesa parole nette e il cardinale vicario Agostino Vallini definisce Roma "anemica spiritualmente", auspicando "nuova linfa". Il conto alla rovescia, nel destino politico del sindaco, scandirà i mesi e non le ore: tuttavia è verosimile che, varcato lo scoglio giubilare, il Pd provi a staccare la spina a un primo cittadino con cui non ha mai avuto, in realtà, un rapporto lineare. Questa specie di commedia degli equivoci nella quale tutti fingono di essere felici (rimarchevoli pure le esternazioni dell’assessore alla Legalità, Alfonso Sabella, anche lui fresco di ferie consumate al culmine del caso Casamonica: "Gabrielli e i suoi? Ben vengano! Un toccasana!") è una pièce che non consente di sfuggire alla dura realtà. Il Giubileo che inizia a dicembre è troppo importante (si attendono venticinque milioni di pellegrini e un salto significativo di Pil) per rischiare altre figuracce. Roma è in ritardo, ipnotizzata e paralizzata per mesi. Le gare vanno fatte in tempi dimezzati "pur senza deroghe", sostiene il governo, enunciando un dogma che assomiglia un po’ al comma 22 (il dimezzamento dei tempi non è forse una deroga in sé?). Le vacanze di Marino, proseguite a dispetto del ridicolo che stava sommergendo la città per i funerali in stile Padrino di "zio Vittorio" Casamonica, sono state soltanto l’ultimo strappo in una tela assai logora. Come i due anni che Marino descrive trascorsi "a snidare il male" sono stati, agli occhi dei romani e degli italiani tutti, ben altro. Certo, la città ereditata da Alemanno (il suo predecessore sotto inchiesta per mafia) era in ginocchio. Ma una frase di Buzzi grava come una pietra tombale sui tentativi di atteggiarsi a eroe antimafia: se Marino "resta sindaco altri tre anni e mezzo, con il mio amico capogruppo ci mangiamo Roma", ridacchia il compare di Carminati. È il 17 novembre 2014, mancano pochi giorni ai primi arresti. Pignatone e i suoi pm metteranno un punto, il Comune è una gruviera di infiltrazioni. E tuttavia la vera dannazione del sindaco non sta in quei buchi. Ma nelle buche delle strade, nell’immondizia padrona dei marciapiedi, nel traffico selvaggio, nella metro che non va. Marino è lontano dai suoi concittadini come può esserlo un algido genovese di mamma svizzera cresciuto professionalmente in America. Empatico come una pietra pomice, rischia di cadere sulle multe della sua Panda rossa, perché trasforma una svista in thriller. Sempre altrove, sempre in viaggio quando a Roma scoppia una grana. Ora che nelle grane è lui, ai romani, gente de core, verrebbe persino voglia di difenderlo, c’è da scommetterci. Ma prima dovrebbero capire chi sia: molti di loro non ne hanno ancora la minima idea. Giustizia: le sceneggiate penose di Mafia Capitale di Giuliano Ferrara Il Foglio, 29 agosto 2015 E così ci siamo abituati. Roma è una città di mafia, come Palermo o Trapani o Agrigento. Già colpita dalla burinaggine di quel cambio di nome burocratico-nazionale, Roma Capitale per una città che si chiamava Roma e basta (e bastava), ora il Caput mundi è Mafia Capitale. Dicono che si tratta di una mafia particolare, originale, diversa ma contigua a quella che la storia d’Italia e di altre latitudini ha mostrato nelle sue gesta epiche criminali. Ma tutti sanno che mafia è parola insieme oscura e precisa: famiglie, boss, cupole, intimidazione, controllo armato del territorio, collusioni pubbliche, politiche, e infiltrazioni in magistratura e polizia, riti codificati nel tempo, ambivalenza nei rapporti con la chiesa cattolica, linguaggio e segreti, rete speciale di informazioni, possenti interessi in settori di punta del mercato criminale, mobilitazione del voto popolare, omicidi, vendette, stragi, guerre di mafia, omertà. Tutti sanno che quanto è emerso dall’inchiesta che porta quel nome altisonante, Mafia Capitale, è una estesa e ciarliera corruzione di personale municipale, come tante, realizzata da un consorzio di cooperative ispirato al riscatto sociale degli ex carcerati e fattosi avido di appalti nel campo dei servizi assistenziali, roba di impatto e pericolosità modesti. Tutti sanno che l’ex gangster Carminati, che era della partita secondo una quantità di intercettazioni da sballo mediatico, è un affabulatore da pompa di benzina, un refoulé della criminalità comune circondato da esigenti cravattari o usurai, non dai picciotti corleonesi. Tutti sanno che il funerale in rito Sinti di Vittorio Casamonica, con i cavalli e la banda e i fiori piovuti dal cielo, oltre che una cosa privata legata a un lutto, è al massimo una sceneggiatura di Paolo Villaggio o di Rodolfo Sonego per un film di Sordi. Tutti sanno tutto, eppure l’abbiamo bevuta. Vedremo se a novembre il processo con rito immediato ristabilirà in dibattimento il lato grottesco della storia, l’unico verosimile, o se dovremo sorbirci fino in fondo, feccia compresa, questo romanzo criminale o serial tv. Intanto non ci resta che riflettere ancora una volta sulla potenza del circo mediatico-giudiziario. Due ore di Consiglio dei ministri per decidere il nulla sul nulla, e pare senza norme che lo consentano; commissariamento mascherato della giunta Marino; il Giubileo della misericordia tirato dentro l’affare senza pietà: e questo dopo mesi di intreccio tra inchiesta giudiziaria, riflesso mediatico tambureggiante e orchestrazione politica di mitologie che rincorrono mitologie (il Padrino a Roma e la lotta dei nuovi capitani coraggiosi dell’antimafia per estirpare la malapianta). Da quello che è emerso sappiamo che si tratta soltanto di malaffare ordinario, una mala vita che vale poco più o poco meno della dolce vita, che non uno dei grandi business di Roma è entrato nell’indagine, ma il timbro di mafia caratterizza tutto il processo, intimidisce chiunque osi criticamente vagliare l’operato della magistratura, spinge al conformismo inquisitorio, sulla scorta delle intercettazioni e delle soffiate di procura, l’intero sistema dei media con solitarie eccezioni. Nella storia di Roma, che ne ha viste, è entrato a viva forza lo stereotipo della mafia. Qualche osservatore che conosce il pudore aggiunge "cosiddetta" alla formula ormai canonica di Mafia Capitale, ma via, diciamocelo, è fatta. Nella primavera scorsa il capo degli inquirenti romani si presenta a un convegno del Pd e annuncia: arriverà una grande resa dei conti, ci siamo. È il primo passo, tutto politico, di una vicenda misteriosamente politica. Pochi giorni dopo arresti spettacolari, carceri speciali ai sensi del 41 bis, applicazione generalizzata dell’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso ex 416 bis, brani di intercettazioni alla carbonara dilagano, il circo si mette in moto con le sue tecniche di sempre, acrobati, clown, bestie feroci, finti eroi con pennacchio, fanfare, marce e marcette per bambini. Non c’è politico che non squittisca al seguito dei pifferai di Mafia Capitale, non c’è giornalista che sollevi obiezioni sensate contro l’indagine-reportage che gonfia a dismisura e deforma il carattere dell’accusa, che chieda la verifica di fatto di un teorema giudiziario segnato dal surrealismo, non c’è autorità che si preoccupi di vagliare, pesare, distinguere, accertare oltre il grande polverone telefonico e origliatorio. E alla fine ciò che aveva una così forte connotazione mediatico-politica, generato applicando con disinvoltura giurisdizionale a quattro malfattori de borgata le misure ideate in emergenza per combattere gli stragisti di Corleone, sfocia in una sceneggiata politica di governo che comprende lo scioglimento del municipio di Ostia e altre bazzecole: dall’annuncio politico all’inchiesta-reportage (copyright Piero Tony) alla decisione politica. Il terreno per il processo è preparato, il Giubileo di Roma mafiosa è perfettamente attrezzato e infrastrutturato. Perché tutto questo sia accaduto, e con quante complicità e viltà nella classe dirigente, è l’enigma gaudioso che bisognerà prima o poi sciogliere. Giustizia: legge Severino; Berlusconi spera ancora e punta su Strasburgo e sulla Consulta di Francesco Bei La Repubblica, 29 agosto 2015 Mancano pochi giorni e l’attesa sarà finita A metà settembre, calcola l’ex Cavaliere, arriverà la sentenza della corte europea dei diritti dell’uomo sul suo caso. E i giudici di Strasburgo, almeno questo spera il leader forzista, "stabiliranno quello che sarebbe dovuto essere scontato: la Severino non si può applicare retroattivamente". E dunque, se così fosse, Berlusconi potrebbe ricandidarsi, con tanti saluti a Matteo Salvini. Ma c’è un’altra finestra di opportunità, stavolta domestica. D 20 ottobre infatti la Consulta dovrà pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tar di Napoli, il tribunale che ha congelato la sospensione del sindaco di Napoli De Magistris. Secondo i giudici del Tar l’applicazione retroattiva della legge Severino si porrebbe in contrasto con gli articoli "2, 4, 51 e 97 della Costituzione". Anche questa sentenza fa ben sperare il leader forzista. "Se a Berlusconi viene restituito l’onore e l’elettività - sostiene Renato Brunetta - cambia tutto". Nello scenario politico, nel centrodestra, nei rapporti con la Lega, nei rapporti con Renzi. Cambia tutto". Tuttavia l’ex Cavaliere si prepara anche al peggio, a una doppia bocciatura. E agli intimi ha confidato un disegno che andrebbe comunque in rotta di collisione con i desiderata leghisti. "Se io non fossi candidabile, proporremo la leadership a Mario Draghi o Sergio Marchionne". La rivelazione è stata una doccia fredda per quei forzisti che lavorano per un listone che metta insieme Salvini e Berlusconi. Una speranza ribadita ieri dallo stesso falco Brunetta. "Si tratta - ha detto il capogruppo alla Camera - di costruire un tavolo dei programmi, delle regole, delle idee. Da questo punto di vista nessun problema: le differenze tra Lega, Forza Italia e le altre forze sono molto più limitate rispetto a quelle all’interno dello stesso partito democratico". Sarà. Ma certo proporre Draghi, che per Salvini è l’uomo nero, il presidente della "consorteria" bancaria, tecnocratica ed eurocentrica, ha il sapore della provocazione e della sfida. Così come Marchionne, che agli occhi del leader leghista - oltre a essere a capo di una delle odiate multinazionali - ha anche il torto di essere amico di Renzi. Dunque? Spiega chi ha raccolto la confidenza di Berlusconi: "Draghi e Marchionne sono dei simboli. Parlano all’elettorato moderato, ai nostri elettori che si sono momentaneamente fidati di Renzi ma che sono già delusi dal governo. Ma che non voterebbero mai per uno schieramento egemonizzato dalla Lega". Insomma, l’ex Cavaliere è ben consapevole che né Draghi e nemmeno Marchionne si faranno trascinare in uno scontro elettorale contro Renzi lasciando le loro postazioni alla Bce o alla guida di Fca. Tanto più per mettersi alla testa di Forza Italia (o l’Altra Italia che dir si voglia). Ma lo spiffero - che volutamente il leader forzista lascia trapelare parlandone a destra e a manca - ha una doppia funzione. Da una parte raffreddare gli entusiasmi di Salvini, la sua tentazione egemonica su tutto il centrodestra, la voglia di accaparrarsi le candidature a sindaco in tutto il Nord, Milano in primis. Dall’altra, a essere più maliziosi, il tentativo di Berlusconi è un altro. Lasciare aperta la porta a Renzi. Lanciare un segnale di fumo al premier ribadendo la natura moderata di Forza Italia, lontana dagli estremismi della Lega, dal blocco dell’Italia, dal No all’euro, dal rifiuto dell’Europa e della famiglia del Ppe, dagli slogan contro i migranti. Una presa di distanza da Salvini che potrebbe facilitare un’eventuale convergenza tra Pd e Forza Italia al Senato, nel momento in cui si dovrà votare la riforma costituzionale. E chissà, domani, anche il taglio delle tasse sulle casa, altro motivo di frattura interna al partito democratico. "È Renzi che ha bisogno di noi, non il contrario", ripete in questi giorni l’ex cavaliere. E se domani si andasse elezioni anticipate, prima dell’entrata in vigore dell’Italicum (luglio 2016), un riavvicinamento sarebbe la bese per un futuro governo di coalizione. Scelta quasi obbligata in Senato se si tornasse a votare con il Consultellum. Sassari: braccialetti elettronici esauriti, detenuto obbligato a restare in cella di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 29 agosto 2015 Vicenda paradossale a Sassari, la Telecom finisce i dispositivi indispensabili per andare ai domiciliari. La protesta del legale. Capita anche che a decidere della libertà di una persona non sia il giudice di un tribunale ma... la Telecom. In un certo qual modo. Biagio Mellino, imprenditore di 60 anni originario di Nule, era stato arrestato domenica scorsa dopo aver minacciato con una pistola il fratello e altre persone che erano ospiti a casa sua, a Sorso. Tre giorni fa c’è stata l’udienza di convalida, il pubblico ministero ha chiesto la custodia cautelare in carcere e il giudice lo ha invece mandato ai domiciliari con l’obbligo del braccialetto elettronico. E qui arriva il bello: "La Telecom, che dovrebbe mettere a disposizione questi "apparecchi" - spiega l’avvocato difensore Pasqualino Federici - li ha terminati. E il mio assistito non può tornare a casa". Una storia che ha del paradossale e che secondo il legale non rimarrà senza conseguenze: "È un caso davvero incredibile: il pm chiede la custodia in carcere e fa il suo lavoro, il giudice Grotteria concede i domiciliari a condizione che ci sia la disponibilità del braccialetto e anche lui quindi fa il suo lavoro, le forze dell’ordine restano a disposizione ma, e qui sta l’assurdità, a decidere a tutti gli effetti della libertà personale di un individuo è proprio la Telecom. Che, nel caso specifico, il braccialetto non ce l’ha. E Mellino è costretto a restare in cella". Ingiustamente, secondo il suo legale, che infatti annuncia: "Mi riservo di chiedere un indennizzo per ingiusta detenzione". L’imprenditore era stato arrestato domenica: era arrivato nelle campagne di Sorso armato di pistola, secondo i carabinieri con l’intenzione di uccidere il fratello. E siccome quest’ultimo aveva invitato degli amici a cena, Mellino aveva seminato il panico minacciando tutti con la pistola attraverso il finestrino della sua auto. Poi era scappato, era stato rintracciato più tardi, a Sassari, e arrestato con le accuse di minacce aggravate, porto in luogo pubblico della pistola modificata artigianalmente e detenzione di un coltello. Ma davanti al gip che lo ha sentito alcuni giorni fa, l’uomo si è difeso sostenendo che quella trovata dai carabinieri nella sua macchina era una pistola giocattolo e che in realtà in quel momento in mano non aveva l’arma ma una macchina fotografica, tanto che le foto dimostrerebbero - sempre secondo la sua versione - che gli scatti sono stati fatti proprio in quei momenti concitati. Il giudice lo ha mandato ai domiciliari "ma a quanto pare - lamenta l’avvocato Federici - la sua libertà è nelle mani della Telecom che dovrebbe invece avere l’obbligo di mettere a disposizione immediatamente i braccialetti. Tutto questo va contro la Costituzione". Firenze: Uil-Pa Penitenziari; Opg Montelupo Fiorentino, villa medicea a rischio di crollo Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2015 "In attesa che siano trasferiti gli internati dall’Opg di Montelupo Fiorentino alle Rems, ci giunge notizia dalla direzione dell’Opg di Montelupo F.no che una delle torri della Villa Medicea potrebbe crollare a causa di lesioni passanti e profonde degli architravi e di uno stato pessimo di manutenzione". È quanto comunica Eleuterio Grieco, membro della Segreteria Regionale della Uil-Pa Penitenziari Toscana. I documenti inviatici dimostrano che la situazione è ad "alto rischio" per cui invitiamo i vari soggetti istituzionali ad intervenire con immediatezza al fine di non disperdere un patrimonio di valore inestimabile sia per l’intera Nazione che per la stessa cittadina di Montelupo Fiorentino. Aggiunge il Dirigente della Uil-Pa Penitenziari - il continuare a differire i trasferimenti dei detenuti dall’Opg alle Rems dal marzo 2015, è una violazione di legge e che in uno stato di diritto si sarebbe dovuto intervenire assumendo le conseguenti azioni penali ed amministrative. In conclusione - afferma Grieco - come spesso accade solo quando avvengono tragedie sui luoghi di lavoro, gli organi politici e istituzionali intervengono dicendo "si poteva evitare" ebbene allora facciamo si che ciò non avvenga. Ragusa: detenuto Casa circondariale finalista del premio letterario "Goliarda sapienza" Adnkronos, 29 agosto 2015 Per promuovere il concorso nei mesi scorsi la Presidenza del Consiglio Comunale e l’Assessorato ai servizi sociali organizzarono un incontro con i detenuti e le scuole Giuseppe Fontana, detenuto presso la Casa circondariale di Ragusa, che ha partecipato al Premio letterario "Goliarda Sapienza" risulta essere tra i finalisti del suddetto concorso nazionale. Come si ricorderà nei mesi scorsi, su iniziativa della Presidenza del Consiglio Comunale e dell’Assessorato ai servizi sociali, presso la Casa Circondariale di Ragusa e nelle scuole della città furono promossi degli incontri, con la presenza dei giornalisti, rivolti ai detenuti ed agli studenti per presentare il Premio letterario nazionale "Goliarda Sapienza". Per l’occasione intervennero a Ragusa la giornalista e scrittrice, Antonella Bolelli, fondatrice del Premio e lo scrittore Federico Moccia. Proprio la giornalista Antonella Bolelli sarà domani a Ragusa ed accompagnata dal Presidente del Consiglio Comunale, incontrerà Giuseppe Fontana. "Rientrare tra i finalisti del premio - dichiara il Presidente del Consiglio Comunale Giovanni Iacono - costituisce un eccellente risultato per l’autore ed anche per gli operatori dell’Istituto di Pena di Ragusa la cui attività di sostegno ha contribuito a stimolare il desiderio di raccontarsi con sincerità attraverso uno scritto". A Giuseppe Fontana, come a tutti gli altri finalisti del concorso, è stato abbinato un tutor d’eccezione quale è lo scrittore Federico Moccia. Immigrazione: la nostra frontiera di Norma Rangeri Il Manifesto, 29 agosto 2015 Come muore un bambino asfissiato dentro un Tir? In attesa di cambiare il mondo e mettere fine alle guerre post-coloniali dell’Occidente e a quelle che ora combattono le pretro-monarchie in Medio Oriente, dovremmo ingaggiare una guerra di resistenza, che già ci coinvolge tutti: l’assuefazione alle stragi quotidiane dei migranti. Il rischio di digerire sempre più rapidamente le notizie che ogni giorno la televisione porta nei nostri tinelli è fortissimo. Il rullo mediatico macina i morti a pranzo e a cena e, lo sappiamo, l’abitudine è capace di rendere sopportabili cose spaventose. Del resto bastava sfogliare i giornali di ieri per vedere che l’eccitazione della grande stampa era tutta per la "questione romana", mentre le decine di morti asfissiati sul Tir che trasportava uomini, donne e bambini dall’Ungheria all’Austria faticava a guadagnare i grandi titoli di prima pagine. Perfino giornali progressisti e sempre in prima linea contro le malefatte della casta, relegavano la strage del camion in poche righe. Naturalmente con le eccezioni del caso, a confermare la regola, e fatti salvi i giornali della destra che contro i migranti sparano titoli forcaioli per lucrare qualche copia lisciando il pelo ai peggiori sentimenti xenofobi e razzisti di lettori e elettori. Ma l’informazione ai tempi della rete può anche essere l’antidoto al prevalere di assuefazione e abitudine. Come dimostra il caso dell’attivista islandese, promotore di una raccogliere fondi a favore di un uomo, rifugiato palestinese, proveniente dal campo profughi siriano di Yarmuk, a Damasco. Grazie all’immagine di Abdul che vende penne biro all’incrocio di una strada di Beirut con la figlioletta in braccio, il web ha prodotto un felice cortocircuito e scatenato una gara di solidarietà. Tuttavia non è solo l’informazione a essere chiamata in causa. Subito dopo viene la politica e in primo luogo quella che si richiama ai principi di libertà e uguaglianza della sinistra. Come è possibile che lungo i muri che l’Europa costruisce sulle frontiere di terra non ci siano manifestazioni di protesta accanto all’esodo di chi fugge e muore? Perché davanti a quel filo spinato piantato dal regime reazionario del premier ungherese Orbàn non c’è una carovana di quei militanti che dicono di battersi per favorire finalmente l’apertura delle frontiere della Fortezza- Europa? Al punto in cui siamo nessuno più può dire di non sapere perché tutto l’orrore e il dolore è in onda, e non siamo più in pochi a vedere quel che accade. Persino leader europei come Merkel devono scendere in campo politicamente e personalmente per dire che i vecchi trattati (Dublino) sono da rivedere. La sinistra dovrebbe fare dell’immigrazione la sua battaglia principale, giocandola all’offensiva, nei singoli paesi di appartenenza e nei punti caldi dell’esodo. I convegni sono utili ma non bastano. Meno talk-show e più mobilitazioni per manifestare concretamente presenza e solidarietà. Per esempio sulla nostra grande frontiera del Mezzogiorno, la prima linea per i comuni che cercano di accogliere come possono i sopravvissuti ai viaggi della morte. Il Sud dovrebbe essere anche la frontiera della sinistra. E intanto, in attesa di cancellare leggi criminogene come la Bossi-Fini, a chi fugge per mare e per terra su un gommone o nel cassone di un Tir, per non morire basterebbe salire su una nave o su un treno. Con un semplice, regolare biglietto. L’Europa e l’immigrazione, la nuova vetta da scalare per Angela Merkel di Franco Venturini Corriere della Sera, 29 agosto 2015 Timoniera nel bene e nel male di tutta la politica europea, Angela Merkel non poteva più rinunciare al suo ruolo sul tema scottante dei flussi migratori. L’atroce morte in Austria di settantuno sventurati è una strage all’interno dell’Europa e all’interno del mondo germanico, non una fatalità "esterna" in quel Mediterraneo che pure continua a mietere un numero ben superiore di vittime. L’opinione pubblica tedesca è scossa come mai prima, e preoccupa che si riaffaccino episodi di xenofobia neonazista. Soprattutto, è ormai evidente anche alla cancelliera che le migrazioni siano destinate a durare e rappresentino per la sopravvivenza dell’Europa una minaccia non inferiore al disordine finanziario. A Berlino è in corso, tardivamente, la presa d’atto di una nuova priorità squisitamente politica che si affianca a quella vecchia di natura economico-finanziaria: se non gestita con criteri equi l’ondata migratoria darà una forza non più controllabile alle strumentalizzazioni populiste ampiamente presenti nella Ue, e la rotta di collisione tra democrazia elettorale e governabilità finirà per distruggere l’intera costruzione europea. Occorre dunque concepire strategie diverse e urgenti che portino a un sistema unificato del diritto d’asilo, al ritorno delle quote nella ripartizione degli aventi diritto, e forse alla revisione delle regole di Dublino sull’esempio di quanto la cancelliera ha fatto per prima sospendendole a beneficio dei profughi siriani. L a nuova consapevolezza della Germania, che pure non corre i pericoli politici interni della Francia o dell’Italia, è motivo di speranza e deve essere accolta da un benvenuto altrettanto consapevole. Deve esserci chiaro che il nuovo orientamento del governo tedesco rappresenta in concreto l’unica possibilità di arrivare a quei traguardi che l’Italia da tempo insegue, perché è stato ampiamente dimostrato in sede europea che non abbiamo, se non in presenza di momentanee scosse emotive dovute a immani sciagure, il peso necessario per far valere le nostre argomentazioni davanti agli altrui egoismi. Così come si è visto che l’auspicato asse italo-franco-spagnolo non esiste, con Madrid su inattese posizioni anti ripartizione come i Paesi del Nord e dell’Est, e Parigi ondeggiante tra consultazioni privilegiate con Berlino e timori di favorire il Front National. Dobbiamo, questa volta, affiancarci alla Germania e incoraggiarla nel suo ruolo di leadership, portarle le nostre esperienze e conoscenze per esempio della situazione in Libia ma anche di quella nei Balcani, tentare di favorire una svolta voluta ora anche da Berlino sapendo però che ci sarà battaglia e che le resistenze saranno dure a morire. Per questi motivi abbiamo noi per primi interesse a non dilazionare oltre la fine dell’anno - come peraltro concordato giovedì alla conferenza di Vienna - l’entrata in funzione dei nostri "centri di registrazione", strettamente legati, nella visione della Merkel, ai passi successivi sul diritto d’asilo e sulle quote. Si può tornare a sperare, se faremo la politica giusta. E tuttavia dobbiamo anche essere lucidi, vedere i limiti della nostra speranza e del nostro impegno a fianco della nuova determinazione tedesca. Angela Merkel è imbattibile in casa, esercita un enorme potere di influenza in Europa, ma sbaglierebbe chi volesse accostarla al Cancelliere di ferro Otto von Bismarck e alla sua capacità di creare in Europa uno stabile sistema di alleanze. Per certi aspetti la Merkel è anzi una Cancelliera d’argilla, perché né l’Europa né il mondo di oggi sono quelli dell’Ottocento. La crisi greca può ancora degenerare. Obama è tutto elogi ma comincia il suo lavoro ai fianchi per confermare a gennaio le sanzioni anti russe sull’Ucraina ben sapendo che la Germania si è esposta con le intese di Minsk II e che un loro fallimento avrebbe un prezzo anche politico per Berlino. La crisi economica non è stata ancora superata del tutto ed ecco che la Cina fa tremare il mondo, soprattutto quei Paesi, come la Germania, che hanno puntato tutto sulle esportazioni rinunciando allo sviluppo della domanda interna. Sono tempi non facili, anche per Angela Merkel. E la questione dei migranti non li farà migliorare. Basterà il peso tedesco a far rientrare i nazional-egoismi messi scandalosamente in mostra al Consiglio europeo del 25 giugno? Si riuscirà davvero a far passare un sistema di quote obbligatorie e basate su parametri oggettivi sin qui rivelatosi irraggiungibile? Le garanzie che alcuni vedono negli accordi di Dublino potranno davvero essere modificate, e le politiche nazionali sull’asilo rese comuni? Acquisita la scelta di distinguere tra migranti con diritto d’asilo e migranti economici da rimandare a casa, come potranno avvenire respingimenti tanto massicci e tanto costosi, forse con il coinvolgimento di una missione Onu? E come si pensa di impedire che quanti avranno ottenuto asilo e saranno stati assegnati pro quota a un determinato Paese si spostino di loro iniziativa per esempio in Germania, dove già vive oggi la netta maggioranza dei migranti che ce l’hanno fatta? È bene non perdere di vista questi e altri interrogativi per valutare correttamente la montagna che Angela Merkel ha annunciato di voler scalare, le sue probabilità di successo e di conseguenza anche le nostre. Il confronto che si annuncia non sarà facile, e malgrado l’urgenza non sarà veloce. Ma da oggi esiste una possibilità, che prima aveva dimostrato di non esserci e che l’Italia farà bene a sostenere senza rinunce e senza furbizie. Più migranti significa maggiore disoccupazione? di Tino Oldani Italia Oggi, 29 agosto 2015 Non è vero, ma il governo balbetta di fronte alle bufale di Salvini e Grillo. Anche gli italiani sono stati un popolo di migranti. E hanno raggiunto un record mondiale. Tra il 1861 e il 1965) sono espatriati più di 27 milioni di italiani, una cifra enorme se rapportata alla popolazione media di quegli anni, 40 milioni. In un secolo è emigrato il 68% della popolazione italiana, più dei due terzi, soprattutto dalle Regioni del Sud, ma anche da alcune del Nord, come il Veneto. Sono della ricerca dell’economista Nicola Cacace, di cui ho scritto ieri. Cacace li ha messi in ordine, ricavandole dalle statistiche storiche dell’Italia dal 1861 al 1965: "Anche tenendo conto dei rimpatri del periodo, circa 7 milioni, rimane che in un secolo più della metà della popolazione italiana è espatriata definitivamente. Un record mondiale, se non fosse che un paese più piccolo e allora altrettanto povero, l’Irlanda, con 4 milioni di abitanti, ci ha superato, avendo espatriato solo negli Usa 5 milioni di irlandesi". Di fronte a questi numeri, la memoria corta non può essere una scusa per nessuno. Tanto meno per chi, da Matteo Salvini a Beppe Grillo, alimenta una quotidiana cagnara politica contro gli immigrati. È gente che, come gli italiani dell’Ottocento, scappa dalla miseria, dalle guerre e dalle persecuzioni: un flusso crescente, passato da 154 a 232 milioni di esseri umani in poco più di vent’anni, pari al 3,2% della popolazione mondiale. Un’onda che, negli ultimi mesi, è diventata impetuosa nell’area del Mediterraneo, ma gestibile, come ha detto Angela Merkel. Purché tutti i Paesi interessati facciano la loro parte con solidarietà e rigore, allestendo i centri di identificazione e di prima accoglienza così da separare in poco tempo i meritevoli di asilo politico e rispedire indietro gli altri. Un assist per l’Italia, ma anche una sveglia politica, visto che finora i tempi lunghi della burocrazia italica consentivano all’80% dei migranti di squagliarsela verso l’Europa del Nord prima delle identificazioni. Il fenomeno durerà a lungo, forse decenni, e richiederà una gestione politica meno improvvisata e più informata di quella che si è visto finora. Soprattutto su due punti: il lavoro e la sicurezza. "Non è vero che gli immigrati tolgono lavoro agli italiani", afferma la ricerca di Cacace. "Senza i 3 milioni di lavoratori stranieri, andrebbero in crisi interi settori, dall’agricoltura all’allevamento, con quasi 200 mila lavoratori; alla pesca, specie d’altura, con 10 mila stranieri; alle costruzioni, con almeno 300 mila edili; all’industria manifatturiera pesante (fonderie, concerie, carni) con più di 300 mila stranieri; al commercio, alberghi, pizzerie e ristoranti con almeno 500 mila stranieri; alla sanità con altri 30 mila; ai trasporti con quasi 100 mila stranieri, fino ai lavori domestici con quasi due milioni". Quando propone una nuova politica europea dell’accoglienza, la Merkel sta seguendo quanto fece a suo tempo Helmut Kohl, che al Bundestag dichiarò: "Se domani tutti gli stranieri partissero, la Germania si fermerebbe, dagli ospedali alle fabbriche, dagli alberghi alla nettezza urbana". L’episodio per Cacace è un monito alla sinistra di governo italiana, che riesce solo balbettare di fronte alle sparate xenofobe di Salvini e Grillo, mentre sarebbe suo compito "spiegare alla gente che con la disoccupazione e la pesante crisi in atto, gli immigrati non c’entrano neanche un poco. Se partissero, interi settori fallirebbero e molti italiani perderebbero il loro lavoro". Il sentimento popolare che prevale è la paura, alimentata dai talk show, dove leghisti e grillini fanno a gara nel dipingere un clima di insicurezza. Cacace sferza la pochezza culturale della sinistra di governo, incapace di repliche convincenti. "La percezione di insicurezza è superiore all’insicurezza reale", sostiene la ricerca. E così in Italia, in altri paesi europei e perfino negli Usa. Una ricerca Ocse ha documentato che "nei paesi a più alta disoccupazione la xenofobia schizza al 30% laddove esiste un partito populista di destra, in Italia, Francia, Austria, Norvegia, Olanda e Gran Bretagna". La stessa ricerca Ocse precisa: "Se si prendono in esame i dieci paesi in cui esiste un partito populista, si nota come al crescere della disoccupazione, aumenti di molto il sentimento anti-straniero. Il rischio per le società occidentali è rappresentato da una saldatura tra settori della popolazione in crisi e messaggi xenofobi e falsi dei partiti populisti". Un rischio che coinvolge un numero sempre maggiore di paesi europei, Italia compresa. E per venirne a capo tocca sperare nella Merkel. Il Ministro Gentiloni "l’orrore dei tir ha convinto i falchi, ora l’Europa ha capito" di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 29 agosto 2015 Il ministro degli Esteri: "La strage in Austria dimostra che quella dei migranti non è solo una nostra emergenza. I Paesi non siano ostaggio di chi semina la paura. Serve un diritto d’asilo europeo valido per tutte le nazioni". Il sogno europeo che si trasforma in incubo, con una fine orribile nel cassone di un Tir. Ministro Gentiloni, questi morti sono sulla coscienza dell’Europa? "Certamente pesano sulle nostre coscienze, come le vittime delle rotte mediterranee. Nelle ore in cui si scopriva la tragedia ero a Vienna, per un vertice di Europa e Balcani. Bastava guardare in volto i colleghi per capirlo: siamo tutti coinvolti. Fino a poco tempo fa c’era l’idea che fosse solo un’emergenza italiana e greca, nelle ultime settimane si è diffusa la consapevolezza che il problema investe l’Europa intera". Ma quelle morti così atroci si potevano evitare? "Queste tragedie si devono evitare. Noi ci stiamo lavorando da un anno e mezzo, con operazioni di ricerca e soccorso in mare, abbiamo salvato oltre centomila vite umane. L’Italia è additata ad esempio dalla comunità internazionale. E ora alle operazioni nel Mediterraneo partecipano assetti navali di altri Paesi. Ma anche se si salvano centomila vite umane, non sempre siamo in grado di salvare tutti". La tragedia del camion è un nuovo segnale d’allarme? "Indica che l’emergenza è ormai un problema europeo. Eventi tragici del genere si ripetono con troppa frequenza quasi ogni giorno in Macedonia". Italia e Grecia stanno facendo la loro parte, ma restano indietro sul punto dei centri di registrazione. Ci sono state critiche dei partner? "Assolutamente no. L’Italia fa la sua parte e, come ha ribadito anche la cancelliera Merkel, Roma e Berlino spingono perché tutti i punti in agenda siano rispettati". Ma tutti i Paesi sono pronti a fare la loro parte? "Negli ultimi due mesi la percezione è cambiata in modo significativo. Anche governi che avevano resistito al principio della distribuzione dei rifugiati, come quelli di Austria e Slovenia, stanno modificando le posizioni". Bisogna cambiare il trattato di Dublino? In prospettiva serve un diritto d’asilo europeo valido per tutti i Paesi. Droghe: il sostituto procuratore Padalino "ipocrita non legalizzare la cannabis" di Paola Italiano La Stampa, 29 agosto 2015 Le nuove norme fanno calare gli arresti: "Situazione fallimentare". "Oggi, di fatto, il carcere non è più previsto per il piccolo spaccio. O lo si considera un reato, oppure si facciano delle scelte coerenti e cioè si dica che il carcere non è la risposta giusta. Ma allora la normativa deve essere diversa". Si parlava di legalizzazione ieri alla Festa dell’Unità in piazza d’Armi. C’è chi è rimasto sorpreso a sentire il sostituto procuratore di Torino Andrea Padalino, che prima di occuparsi di molti processi No Tav è stato uno dei magistrati che coordinarono le operazioni in quel supermercato all’aperto della droga passato alle cronache come "Tossic Park". Padalino ha snocciolato cifre, parlando di una "situazione fallimentare, con un misto di ipocrisie da parte del legislatore". Per concludere così: "Lasciare alla coscienza delle persone la libertà di fare scelte di vita, penso sia compito di uno Stato, l’atteggiamento repressivo non ha portato un risultato né pratico né culturale". I dati degli ultimi 3 anni dicono di un calo complessivo delle persone arrestate e, in particolare, degli arresti per droga. A determinarlo, una serie di riforme e meccanismi complessi che, tra provvedimenti svuota-carceri e spostamento dei minimi di pena, hanno di fatto depenalizzato il piccolo spaccio. Quindi, i numeri non restituiscono la realtà: non ci sono meno arresti perché si spaccia meno ma "perché forse le forze dell’ordine non hanno più incentivo ad arrestare i pusher". Perché il giorno dopo l’arrestato torna in libertà, o perché, quando anche si dispongano misure cautelari attenuate, come gli arresti domiciliari, queste restano spesso inapplicabili perché la maggioranza delle persone fermate sono stranieri senza fissa dimora. Che cosi vengono restituite al circuito criminale, una situazione di cui Padalino sottolinea "cinismo nel lasciare per strada persone che delinquono e rispetto alle quali non si riesce a fare nulla". Un discorso complesso, in cui secondo il pm, "il problema è capire se la nostra società ha ancora bisogno di questa risposta, che rischia di essere ipocrita se si depotenziano le norme". Anche perché il sistema è schizofrenico: "Il piccolo spaccio è di fatto depenalizzato, ma oltre la modica quantità le pene vanno dagli 8 ai 22 anni. Non vado in carcere con una pallina di droga, ma con dieci grammi ne rischio 8". Al dibattito partecipava anche Benedetto Della Vedova, sottosegretario agli Affari Esteri, che sta portando avanti in parlamento la proposta di legalizzazione della cannabis e che sta cercando di aggregare una maggioranza trasversale. "Sembra quasi una messa cantata", ha detto ieri ascoltando le riflessioni di Padalino e la posizione favorevole del vicepresidente del consiglio regionale Nino Boeti e del garante per i detenuti Bruno Mellano. Ma Padalino ha anche invitato a una riflessione più completa. Se l’obiettivo è togliere linfa alle mafie, bisogna affrontare la questione minorenni: "Non deve esserci un mercato alternativo che si rivolga a loro. E sappiamo benissimo che i più grandi consumatori sono gli adolescenti". Quindi, uno spunto che sa di provocazione: "Dare una veste giuridica alla cannabis toglie risorse alle mafie, ma questo allora vale anche per cocaina ed eroina, dalle quali proviene la maggior parte dei proventi". India: caso marò, Girone ricoverato in ospedale, la famiglia da lui Paolo Valentino Corriere della Sera, 29 agosto 2015 Il marò ha contratto la Dengue, una febbre tropicale. Le sue condizioni non desiano preoccupazioni La moglie e i figli gli sono accanto. Roma invia due medici militari. "Non destano particolari preoccupazioni le condizioni di salute" di Salvatore Girone, il fuciliere di marina trattenuto in India, che nei giorni scorsi ha contratto la febbre Dengue, un’infezione tropicale trasmessa da punture di zanzare. Lo dice in un comunicato il ministero della Difesa, precisando che "la malattia sta seguendo il suo normale decorso". Girone era stato ricoverato nei giorni scorsi in un ospedale di New Delhi, dove viene assistito da una equipe medica indiana che fonti della Difesa definiscono di "alto valore tecnico professionale" e segue il pa-ziente "con scrupolosa attenzione". Giunto alla quarta giornata dall’inizio dell’infezione, Girone migliora costantemente, anche grazie a una terapia di reidratanti e paracetamolo. Nella capitale dell’India sono stati comunque inviati due medici militari italiani, uno dell’Esercito proveniente dal Policlinico del Celio, l’altro dell’Aeronautica, che hanno già visto il marò e incontrati i colleghi che lo curano. La decisione, precisa il comunicato del ministero, "rientra nella prassi laddove un militare in servizio all’Estero abbia problemi e non sia presente una struttura sanitaria nazionale cui appoggiarsi come invece accade nei vari teatri operativi". La notizia della malattia è stata confermata anche dal padre del militare, Michele Girone. La moglie e i figli sono da due giorni a New Delhi per essergli vicini. Dall’Italia, sia il ministro Roberta Pinotti che il capo di Stato maggiore, il generale Claudio Graziano hanno parlato al telefono con il marò, per accertarsi delle sue condizioni. La malattia di Girone, guaribile in una settimana e piuttosto facile da contrarre in climi sub-tropicali, non sembra in ogni caso dover innescare alcuna nuova dinamica nella vicenda dei fucilieri di marina, sul modello di quanto invece era avvenuto per Massimiliano La-torre, l’altro marò coinvolto nella vicenda, colpito da una grave ischemia cardiaca e per questo autorizzato a curarsi in Italia. È chiaro che in questa fase le autorità italiane hanno ogni interesse a tenere un profilo basso. Tanto più in un passaggio delicato del procedimento, che dopo la decisione del 24 agosto del Tribunale internazionale per il diritto del mare di Amburgo, ha preso una piega piuttosto favorevole per l’Italia: in esecuzione dell’ordinanza della corte anseatica, due giorni fa la Corte Suprema indiana ha infatti sospeso tutti i procedimenti giudiziari contro i due marò, accusati di aver ucciso due pescatori indiani nel febbraio 2012 durante la loro missione internazionale antipirateria a bordo della nave Enrica Lexie. Nelle prossime settimane la parola passerà alla costituenda Corte arbitrale, che sarà operativa non appena verrà completata la procedura di nomina dei tre membri ancora mancanti, per i quali occorre il consenso di entrambe le parti. Una volta insediata, questa sceglierà la sede e si darà un calendario dei lavori. Più importante, a quel punto la corte potrà valutare nel merito le misure provvisorie, sulle quali il Tribunale di Amburgo ha deciso di astenersi e che con tutta probabilità l’Italia sottoporrà nuovamente ai giudici. In primis la possibilità per Girone di rientrare in Italia e per Latorre di rimanervi, in attesa dell’esito del processo arbitrale, i cui tempi rimangono in ogni caso piuttosto lunghi. Secondo gli esperti infatti, occorreranno da 16 mesi a due anni prima che si arrivi al giudizio definitivo. Vaticano: morto ex nunzio Wesolowski, era in attesa del processo per pedofilia La Presse, 29 agosto 2015 È morto l’ex nunzio della Repubblica Dominicana, il polacco Jozef Wesolowski, che era a processo per accuse di pedofilia. Lo hanno fatto sapere fonti vaticane. La notizia della morte di mons. Wesolowski è stata confermata dalla Santa Sede. L’ex arcivescovo polacco è morto nella sua abitazione in Vaticano. Secondo i primi accertamenti la morte è avvenuta per cause naturali. Il promotore di Giustizia ha ordinato un’autopsia che sarà effettuata oggi. Il santo padre, fanno sapere dal Vaticano, è stato doverosamente informato. L’ex nunzio, già ridotto allo stato laicale, era agli arresti da circa un anno e a luglio era stato ricoverato in terapia intensiva. Era a processo per cinque accuse: detenzione di materiale pedopornografico e abusi sessuali su minori, ricettazione (per aver acquistato o ricevuto il materiale pedopornografico), lesioni gravi (per il perturbamento mentale provocato a adolescenti) e condotta che offende la religione e la morale cristiana. Tunisia: delegazione con giornalisti in Siria per osservare situazione detenuti tunisini Nova, 29 agosto 2015 Una delegazione tunisina composta da esponenti della società civile e da giornalisti si recherà oggi in Siria per analizzare la situazione dei detenuti tunisini, in particolare quella dei 43 rilasciati dalle autorità siriane e per le quali le autorità tunisine non hanno ancora avviato le pratiche per il rimpatrio. Lo riferisce il presidente dell’Associazione unione dei tunisini indipendenti per la libertà, Moez Ali. Ali, che è anche il coordinatore della coalizione civile tunisina contro il terrorismo, ha detto che il programma della visita comprende una riunione con alcuni tunisini in Siria per cercare di comprendere i problemi dei cittadini tunisini che si trovano nel paese di Bashar al Assad. La visita ha anche lo scopo di attuare gli accordi conclusi dai rappresentanti della società civile tunisina nel 2013. Birmania: rilasciati settemila detenuti, ma continua repressioni su studenti e attivisti Reuters, 29 agosto 2015 Quattro studenti, arrestati per le proteste che si sono svolte nel marzo scorso contro la riforma dell’istruzione approvata dal parlamento birmano, sono in regime di isolamento dal 22 agosto. Molti giovani erano scesi in strada per più di un mese, chiedevano di cambiare la legge, la decentralizzazione del sistema educativo, la formazione di sindacati di categoria e l’insegnamento anche nelle lingue delle maggiori minoranze etniche del Paese. Le richieste, però, come spesso accade in Birmania, sono state inascoltate. E gli studenti hanno ricevuto solo arresti e repressione. I giovani, Naing Ye Wai, Aung San Oo, Jit Tu e Nyan Lin Htet, che ancora non sono stati processati e dunque condannati, nei giorni passati avevano promosso uno sciopero della fame per protestare contro il divieto di libertà su cauzione richiesto per riuscire a partecipare alla sessione di esami in programma dal 17 al 29 settembre prossimo alla Yadanarpon University, a Mandalay. "I quattro studenti non sono stati ancora condannati e, in conformità con le norme internazionali sui detenuti, dovrebbero essere autorizzati a presentarsi ai loro esami", spiegano le associazioni per i diritti umani "Assistance Association for Political Prisoners" (Aapp) e "Former Political Prisoners Society" (Fpps) in un comunicato congiunto dove chiedono la loro liberazione. "La scelta di punire gli studenti per lo sciopero della fame, mettendoli in celle di isolamento, è completamente ingiustificata e può essere vista come un deliberato tentativo di scoraggiare tutti gli studenti a fare attivismo politico". I giovani, che fanno parte del movimento giovanile "All Burma Federation of Student Unions" (ABFSU), sono stati arrestati per aver scritto con vernice spray frasi di protesta all’esterno della loro università. "Il compito di un istituto penitenziario dovrebbe essere correzionale", si legge nella nota delle due associazioni. "Ma la decisione del tribunale di respingere la loro richiesta limita in modo significativo le opportunità di un futuro migliore". Secondo AAPP e FPPS, la storia dei quattro studenti è uno dei tanti esempi di come le leggi in Birmania vengano ancora utilizzate per detenere gli attivisti politici al fine di soffocare la libertà di espressione e di dissenso. "L’arresto, la detenzione e il successivo trattamento dei giovani mette in evidenza la necessità di una drastica riforma del sistema giudiziario e carcerario del Paese". Intanto, il 30 luglio scorso, il governo birmano guidato dall’ex generale dell’esercito Thein Sein - che aveva in precedenza promesso la liberazione di tutti i detenuti politici - ha rilasciato quasi sette mila prigionieri. Ma di questi, solo 13 sono attivisti. "Questo numero è drasticamente sproporzionato. Attualmente ci sono ancora circa 120 prigionieri politici dietro le sbarre e più di 400 persone sono in attesa di un processo", precisano le due organizzazioni per i diritti umani. Inclusi nella sanatoria sono stati 155 cittadini cinesi colpevoli di disboscamento illegale nello Stato Kachin, 153 dei quali erano stati condannati all’ergastolo. "Il loro rilascio, a meno di 10 giorni dopo la loro condanna a seguito delle richieste provenienti dalla Cina per liberare i prigionieri e farli tornare nel Paese di origine, solleva seri dubbi per quanto riguarda la sovranità della Birmania e la validità dello stato di diritto nel Paese". Emirati Arabi: Amnesty accusa "torture a detenuto canadese sospettato di terrorismo" Askanews, 29 agosto 2015 Gli Emirati Arabi Uniti hanno torturato un cittadino dalla doppia nazionalità, canadese e libica, che trattengono da un anno in ragione dei presunti legami con i Fratelli Musulmani. Lo ha denunciato Amnesty International. Le autorità degli Emirati non hanno fornito alcun motivo per l’arresto di Salim al Aradi, detenuto dal 29 agosto 2014. Ma secondo l’ong, credono che sia legato alla confraternita islamista, messa al bando nel Paese del Golfo. Secondo Amnesty International, Aradi "sarebbe stato torturato se non maltrattato in detenzione. La sua salute si sarebbe aggravata ed è stato privato di adeguato accesso alle cure. Il trattamento illegale di Salim al Aradi dimostra le misure estreme alle quali le autorità degli Emirati sono ricorse a nome della sicurezza nazionale", ha aggiunto il vice direttore per il Medio Oriente e l’Africa del Nord dell’ong, Said Boumedouha. Salim al Aradi era stato arrestato con altri nove imprenditori libici, quattro dei quali liberati a dicembre ed espulsi verso la Turchia.