Giustizia: suicidi in carcere, i difficili "perché" per una scelta estrema di Roberta Girau* La Repubblica, 28 agosto 2015 L’analisi dei fenomeni suicidari e di autolesionismo di una psichiatra che da anni lavora in una colonia penale in Sardegna. Le condizioni di lavoro del personale penitenziario. L’esigenza che anche gli agenti addetti alla sorveglianza dei detenuti vengano preparati per garantire un approccio psicologicamente adeguato con i reclusi. Il suicidio all’interno degli istituti carcerari è un tema dolente che investe prima di tutto degli individui che arrivano ad un livello di sofferenza tale da scegliere come estrema ratio un gesto così drastico e ineluttabile. E investe le loro famiglie, già minate dal vissuto difficile e doloroso di avere un parente lontano e detenuto e che si ritrovano ad affrontare una tragedia ancora più grande. In secondo luogo, seppur non meno importante, è un problema che riguarda una serie di figure professionali che gestiscono la quotidianità di queste persone e che dovrebbero essere messi nelle condizioni di farlo nel modo più adeguato per evitare epiloghi così gravi. Spesso l’idea del suicidio c’è al di là del carcere. Il personale penitenziario, quello dell’area sanitaria, che comprende medici generici, specialisti, psicologi, e quello dell’area comportamentale, sono tutti investiti di una grande responsabilità e sono sottoposti ad un grande carico di stress, che grava soprattutto sull’equilibrio e sul buon funzionamento dell’ingranaggio di una struttura complessa come un istituto carcerario. È importante considerare, prima di tutto, che i detenuti sono spesso individui i quali manifestano propositi suicidari anche al di là della carcerazione e dopo aver scontato la pena, nel corso del loro ciclo di vita. Dunque sono persone che arrivano in carcere già con un certo grado di vulnerabilità. A tutto questo, si aggiunge poi il regime detentivo, che influisce enormemente dal punto di vista ambientale, sullo sviluppo di propositi anticonservativi, come l’autolesionismo e gli atti suicidari. Gli effetti dopo la chiusura degli Opg. Esistono caratteristiche che costituiscono fattori di rischio, i quali rendono la popolazione dei detenuti una categoria di persone molto più vulnerabile rispetto al resto della comunità. Per esempio, individui che vengono condannati a pene carcerarie sono spesso già affetti da disturbi mentali di media-alta gravità. Qui si aprirebbe un capitolo molto importante sulla recente applicazione della legge che ha portato alla chiusura degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari). Chiusura attuata in assenza di risorse e strutture alternative capaci di occuparsi della gestione di pazienti psichiatrici di un certo tipo, con il conseguente loro riversamento negli istituti carcerari. Si tratta di persone sofferenti e purtroppo con livelli di stabilità che impediscono loro comportamenti idonei a rispettare le regole di convivenza con gli altri detenuti e con il personale del carcere. Condizioni minime e indispensabile, queste, per garantire equilibrio e serenità all’interno dell’istituto. Il fattore tossicodipendenza. Queste persone hanno una scarsissima tolleranza alle frustrazioni e sono molto più esposte a possibili eventi stressanti, che poi rendono molto più alto un rischio di autolesionismo e suicidio. Rischio già di per sé alto a causa delle caratteristiche che contraddistinguono le patologie dalle quali sono affetti. Altro fattore di rischio fondamentale è che i detenuti sono spesso persone affette da tossicodipendenza, o quantomeno dedite all’uso di sostanze stupefacenti. Motivo per cui, nel momento in cui vengono reclusi, devono affrontare un periodo di astinenza o di adeguamento ad un programma di disintossicazione che è già difficile da amministrare, a prescindere dalla carcerazione e che si aggiunge alla serie di frustrazioni che devono tollerare e gestire. I farmaci al posto delle droghe. Oltretutto, la tossicodipendenza e l’abitudine ad assumere sostanze rende queste persone molto più difficili da governare dal punto di vista terapeutico, perché tendono a percepire la terapia psicofarmacologica come un sostitutivo della sostanza e quindi sono portati a fare delle richieste continue di farmaci, che possano sedarli o appagarli con conseguenti minacce di atti di autolesionismi di vario genere, più o meno realmente attuati, se non vengono accontentati. Anche coordinare un programma di disintossicazione dal punto di vista farmacologico, utilizzando sostanze sostitutive assieme a psicofarmaci non è esattamente cosa facile, specie in un ambiente carcerario dove tra le altre cose, nonostante i controlli e i migliori propositi di sorveglianza, poi capita comunque che i detenuti riescano a trafugare delle sostanze, che poi si rischia vengano scambiate tra loro, smerciate, o peggio accumulate e poi utilizzate a scopo autolesivo. Operatori e istituzioni "Prigionieri" di un sistema. La conclusione è che all’interno degli istituti carcerari non sempre si verificano le condizioni necessarie perché situazioni così rischiose possano essere gestite adeguatamente. Al punto che, sia il personale penitenziario che quello sanitario, così come le autorità preposte, si ritrovano di fatto "prigioniere" del sistema che, per legge, prevede una sorveglianza dinamica, quando l’individuo a rischio andrebbe invece monitorato in modo molto più assiduo. Ma l’assenza di figure professionali adeguate, come medici e specialisti per un numero di ore sufficiente e la difficoltà a recuperare le risorse necessarie per effettuare ricoveri, impedisce che tutto questo avvenga. La dinamica del suicidio e i momenti difficili. Dal punto di vista psicologico invece, è fondamentale sottolineare quali possano essere le dinamiche che si verificano in un individuo che si ritrova ad affrontare un regime detentivo e che possono portare allo sviluppo di propositi, comportamenti e atti autolesivi, fino alla scelta drastica del suicidio. Innanzitutto esistono dei periodi di maggiore impatto emotivo, particolarmente stressanti per un detenuto durante la carcerazione. Il periodo immediatamente successivo all’ingresso, che è forse il momento più importante e da gestire con maggiore attenzione da parte delle figure preposte. Ma anche i periodi che precedono un’udienza importante, l’attesa di una sentenza definitiva e paradossalmente anche quelli che precedono la scarcerazione, sono vissuti con particolare angoscia. Cosa si perde quando si chiude quel portone dietro di te. Nel momento in cui un soggetto viene recluso, perde una serie di condizioni fondamentali per l’equilibrio di qualsiasi persona; perde il suo ruolo sociale, viene privato dei suoi effetti personali, è impossibilitato ad avere un proprio spazio, con conseguente assenza di riservatezza e intimità; perde la capacità di decidere autonomamente; perde infine il contatto quotidiano con i familiari e le persone care ed è obbligato a vivere dentro i rapporti sociali che diventano imposti e non più scelti. Deve cambiare ogni sua attività quotidiana, tra cui quelle corrispondenti ai suoi bisogni primari, acquisendo nuovi modi di mangiare, dormire, comunicare, vestirsi. Cancellare abitudini personali e automatizzarsi. Oltretutto, le esigenze di mantenimento dell’ordine e della sicurezza all’interno dell’istituto comportano una uniformità dei comportamenti e l’assunzione di abitudini comuni, esterne all’individuo, che portano ad appiattire l’individualità del soggetto riducendo diversità, istanze, bisogni e desideri personali, a favore di comportamenti automatizzati più idonei alle esigenze del contesto. L’individuo indebolisce così la sua personalità diventando dipendente dall’istituzione. Spesso l’ingresso in carcere viene definito come uno degli eventi più traumatici che possono verificarsi nella vita di un individuo. Saper distinguere la sofferenza dalla protesta. Per quanto riguarda l’autolesionismo in particolare, è opportuno chiarire che sarebbe bene distinguere quando si tratta di atti che derivano direttamente e realmente da un vissuto di sofferenza che ha bisogno di venire espresso, da quando invece l’autolesionismo assume una valenza strumentale o di protesta, messa in atto per ottenere dei benefici, situazione questa piuttosto frequente. Tutto ciò rende però problematica la gestione degli atti di autolesionismo, che invece sono un vero e proprio sintomo e rappresentano un modo di dar voce a dei vissuti che non si ha la capacità di esprimere in altro modo. Spesso si verifica proprio un’incapacità di accedere alla propria emotività, che però è presente ed è intensa e viene percepita dal soggetto ingombrante e disturbante, per cui l’atto lesionistico diventa l’unico modo per "sentirsi" e per far fluire quel vissuto emotivo, che trova così sfogo. Gli errori di valutazione su alcuni atti. In questo caso non è un comportamento che può essere giudicato, punito o tantomeno diretto con interventi educativi, ma assume lo stesso valore di un qualsiasi altro sintomo, che non può essere scelto o deciso dal soggetto, nonostante rappresenti un’azione volontaria. Sottolineo questa particolarità perché le figure che normalmente non hanno competenze psicologiche, sono portate a non fare questa distinzione e ad attribuire all’atto volontario una responsabilità, colpevolizzando il detenuto e favorendo un peggioramento del suo disagio emotivo. Competenze psicologiche per il personale penitenziario. Per questo motivo sarebbe davvero enormemente utile che anche il personale penitenziario venisse formato dal punto di vista psicologico, proprio perché venga messo in grado di acquisire le competenze necessarie a gestire certi comportamenti e per mantenere un proprio equilibrio personale, che in questo modo sarebbe molto meno sollecitato e turbato. È difficile individuare delle soluzioni a problematiche importanti come quelle descritte, ma certamente ci sono delle misure che potrebbero agevolare notevolmente la gestione di un contesto così difficile e favorire l’equilibrio delle persone che lo abitano e di quelle che ci lavorano. Il grande "dono" del lavoro. Personalmente, penso che la collaborazione e la comunicazione tra le diverse figure professionali e tra le diverse aree d’azione (penitenziaria, comportamentale, sanitaria) presenti in un carcere, l’adeguata formazione di tali figure e il riconoscimento nel detenuto di una persona prima che di un criminale, non certo per premiarlo ma per assicurare il mantenimento del suo equilibrio, sarebbero già dei grandi passi verso un miglioramento della situazione. Il riconoscimento del detenuto come persona prevedrebbe che l’individuo potesse trascorrere il maggiore tempo possibile in attività utili e non senza scopo. A questo riguardo, lavorando in una colonia agricola, posso dire che il fatto che i detenuti possano quotidianamente uscire dalla loro cella, affrontare una giornata lavorativa, acquisire delle competenze, sviluppare un ruolo sociale per quanto limitato, aumentare la loro autostima, ha un influenza veramente significativa sul mantenimento del loro equilibrio psicofisico. * Psichiatra. Lavora presso la Colonia Penale di Isili, in provincia di Cagliari Giustizia: Dap; il lavoro in carcere è priorità, 700 progetti con la manodopera dei detenuti Adnkronos, 28 agosto 2015 "L’implementazione e la riqualificazione del lavoro penitenziario è tra le priorità delle linee di intervento messe in atto, anche in riferimento agli aspetti formativi delle persone detenute impiegate nei progetti finalizzati al miglioramento delle strutture". È quanto sottolinea in una nota il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria "in riferimento alle notizie stampa pubblicate nei giorni scorsi" sul tema. "Su questi obiettivi, nel corso dell’anno il Dap ha promosso azioni coordinate e convergenti tra le diverse articolazioni dell’Amministrazione - ricorda la nota - in particolare da gennaio sono stati presentati per il finanziamento, sia con gli ordinari capitoli di bilancio sia con i fondi di Cassa Ammende, più di 700 progetti per il miglioramento delle strutture detentive, con l’impiego quasi esclusivo di mano d’opera detenuta; sono stati approvati e finanziati da Cassa Ammende quasi 150 progetti, tutti con previsione di interventi formativi in favore dei detenuti occupati nei progetti stessi". Il Dipartimento, prosegue la nota, "ha presentato ad aprile un progetto di riforma del lavoro penitenziario corredato da un articolato normativo in linea con le regole europee che, ove non sarà dato seguito con un intervento legislativo immediato, potrà essere spunto di riflessione per i lavori in corso degli Stati generali e per la rivisitazione dell’Ordinamento penitenziario". Nonostante l’esiguità dei fondi a disposizione sul capitolo di bilancio dedicato, nell’ottica della riqualificazione del lavoro penitenziario il Dap - ricorda ancora la nota - sta promuovendo progetti per lo sviluppo delle produzioni nel settore agricolo. L’Amministrazione promuove, ai sensi della legge Smuraglia, la presenza negli istituti penitenziari di realtà imprenditoriali per assicurare la riqualificazione professionale e incentivare le opportunità di inserimento lavorativo dei detenuti rispondenti alle esigenze del mercato del lavoro". Giustizia: braccialetti elettronici, pochi e carissimi. In Italia115 € al giorno, in Germania 7 di Marco Menduni Il Secolo XIX, 28 agosto 2015 Lo stato spende 9 milioni all’anno per il funzionamento di duemila apparecchi. Costi esorbitanti rispetto all’estero. E la gara per una nuova fornitura non è mai partita. La carenza di braccialetti elettronici per gli arresti domiciliari è la più classica delle emergenze annunciate. L’anno scorso, a metà giugno, il capo della polizia Alessandro Pansa aveva scritto al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sottolineando l’urgenza della situazione: entro la fine del mese la scorta dei duemila apparecchi disponibili sarebbe diventata del tutto insufficiente. Quel numero, duemila, era stato stabilito nel 2004; poi la gara d’appalto e l’affidamento della fornitura, in esclusiva, a Telecom. Certo, per quasi un decennio il braccialetto è rimasto un oggetto sconosciuto: nei primi sei mesi del 2013, per avere un metro di paragone, ne sono stati attivati solo 26, nella seconda metà dell’anno 86, altri 140 nei primi tre mesi del 2014. Poi però la storia giudiziaria italiana inizia a cambiare. Nell’estate 2013 il braccialetto diviene strumento di controllo degli stalker. Nel giugno 2014 nuovo decreto: va spedito ai domiciliari ogni detenuto che, secondo il giudice, rischia al massimo una pena di tre anni. Lo scorso inverno arriva poi lo svuota carceri e il braccialetto diventa, nei fatti, quasi obbligatorio per chi va agli arresti in casa. Così le richieste esplodono. Quella fornitura iniziale, duemila pezzi, non basta più. E quando si profila una necessità, Telecom risponde così: "La richiesta potrà essere evasa solo a fronte del recupero per fine misura di un dispositivo in esercizio". Tradotto: quando qualcuno ai domiciliari tornerà in libertà, chi si è "prenotato" prima potrà avere il braccialetto. C’è la necessità di nuove apparecchiature. Bisogna predisporre il capitolato per una gara europea. In un primo momento si indica la scadenza dello scorso aprile, poi slitta a giugno. Poi il silenzio. Nuovo appalto, tutto tace. La gara non è ancora stata fissata. Il ministero dell’Interno conferma che la situazione è, ancora, ferma alla relazione del capo della polizia. Fonti del Viminale fanno trapelare che il capitolato sarebbe ormai pronto, ma mancano i fondi: gli stanziamenti del ministero dell’Economia che potrebbero sbloccare la situazione. In un periodo di grandi risparmi, il tentativo è quello di abbassare drasticamente i costi di gestione. A sorpresa, è stato proprio Pansa a denunciare, commentando i costi dell’operazione, che "si tratta di una diseconomia enorme e di cifre esagerate: in effetti, il braccialetto elettronico è un cellulare che trasmette e non riceve". A regime, utilizzando tutti gli apparecchi a disposizione, il totale "è di circa 9 milioni di euro all’anno". Certo, spiega ancora Pansa che "quello che costa moltissimo è la rete di gestione degli allarmi, la sala operativa aperta ventiquattro ore su ventiquattro che fa il monitoraggio di ogni braccialetto". Però i costi, all’estero, sono stracciati rispetto ai nostri: in Germania un braccialetto costa 7 euro ogni giorno, negli Usa 5. In Italia 115. Giustizia: ci sono cose più importanti dell’indipendenza del magistrato di Vincenzo Vitale Il Garantista, 28 agosto 2015 Brevi appunti in replica a quanto sostenuto da Armando Spataro, procuratore della repubblica di Torino, in un intervento giornalistico a proposito di alcuni temi caldi sul rapporto fra politica e magistratura. Spataro, obiettando a quanto a sua volta sostenuto da Sabino Cassese, afferma che la indistinzione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici sia un bene, in quanto essa garantirebbe una "comune formazione" e una miglior tutela dei diritti degli imputati e delle parti offese dai reati. Inoltre, aggiunge che egualmente da ribadire sono l’indipendenza dei pubblici ministeri e la obbligatorietà dell’azione penale. Punto primo. La mancata separazione delle carriere è un tragico e perpetuo errore, per il semplice motivo che una cosa è l’investigazione o la ricerca del colpevole - compito affidato al pubblico ministero - ed altra cosa, ben diversa, è il giudizio sulla colpevolezza o meno dell’accusato - compito affidato al giudice. Infatti, in senso rigoroso, i pubblici ministeri sono magistrati, cioè impiegati dello Stato, ma non sono giudici, perché non sono chiamati a formulare giudizi su nessuno. Si aggiunga che l’identità di carriere, già errata in linea di principio, lo è anche in punto di fatto per il semplice motivo che chi abbia svolto per anni le funzioni di pubblica accusa, transitando come nulla fosse a fare il giudice, porterà inevitabilmente con se, anche senza accorgersene, la "forma mentis", la sensibilità, il modo di vedere le cose di un pubblico accusatore, riuscendo magari a liberarsene, per assumere quelli del giudice, soltanto dopo aver già prodotto molti ed incommensurabili danni (e sempre a patto che ci riesca). Non così all’incontrario. Infatti, innanzitutto i casi di chi, dopo anni trascorsi a fare il giudice, passi in Procura sono assai più limitati di numero, probabilmente perché il giudice sa che difficilmente sarà capace di adattarsi a fare l’investigatore; in secondo luogo, in ogni caso, la sensibilità di chi per anni "ha detto il diritto" - compito eminente del giudice - non può che giovare anche all’attività del pubblico ministero, donandogli quell’equilibrio e quella ponderazione di cui a volte si sente tanto il bisogno. Insomma, il retaggio di pubblico ministero nuoce tanto al giudice, quanto quello del giudice invece giova al pubblico ministero. Ne viene che mantenere la carriera unica danneggia gravemente la funzione giudicante, finendo a lungo andare col contaminarne la limpidezza. Punto secondo. È ora di chiarire che dell’indipendenza dei magistrati nessuno sa che farsene visto che essa non è sufficiente a garantire invece quella minima dose di buon senso e di sensibilità giuridica che sono necessarie ad amministrare la giustizia. Intendo dire che l’indipendenza da sola non basta e che non è neppure la dimensione più importante. Molto più importanti sono il senso di equilibrio, il senso del limite, il senso di giustizia che un pubblico ministero riesca a dimostrare esercitando la propria attività. Mentre quella non è garanzia di questi, questi lo sono di quella: o no? Pensateci. Ecco perché non se ne può più di queste continue litanie sull’indipendenza, ripetute fino all’ossessione come un mantra capace di esorcizzare l’ingiustizia sempre in agguato. Sarebbe ora di finirla e di vedere le cose come sono. Le cose sono purtroppo così: oggi, si assiste ad attività di pubblici ministeri che pur essendo indipendentissimi, non sembrano per nulla dotati dei requisiti necessari per la funzione che sono, come detto, equilibrio, buon senso, senso del limite. Ne viene che preoccuparsi dell’indipendenza senza prestare attenzione a quei requisiti appare non solo inutile, ma anche insulso. Punto terzo. Oggi, l’azione penale in Italia non è più obbligatoria da almeno vent’anni. Infatti, già vent’anni or sono, un pubblico ministero di una città del Sud, gravato da decine di migliaia di fascicoli, sapendo che oltre la metà sarebbero stati abbandonati alla prescrizione, chiese al Ministro della Giustizia di indicargli quale trattare e quali invece non trattare. Ovviamente, non ebbe risposta, ma il fatto fa capire che già due decenni or sono la situazione era tale che il pubblico ministero era indotto a selezionare, in base a criteri soggettivi e del tutto sottratti ad un controllo che pur era necessario, i procedimenti da privilegiare in mezzo a quelli da abbandonare al loro destino. Si può dunque oggi definire obbligatoria l’azione penale? Ci vuole un bel coraggio a farlo, perché si tratta di una pura ipocrisia. E allora Spataro di cosa parla? Giustizia: riforma della intercettazioni, si prepara un baratto con il Senato nel elettivo di Antonella Nascali Il Fatto Quotidiano, 28 agosto 2015 Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, dalle pagine del Corriere della Sera, ha dettato la linea su intercettazioni e magistrati in politica a pochi giorni dalla ripresa dei lavori a Palazzo dei Marescialli. Legnini, in sintonia con quasi tutti i partiti, pensa che mettere mano alla legge sulle intercettazioni sia una priorità, al contrario del mondo della magistratura e di diversi membri togati del Consiglio che vedono altre urgenze, per esempio il miglioramento della legge sulla prescrizione che falcidia ogni anno migliaia di processi. A sentire ambienti vicini al vicepresidente del Csm, esponente del Pd, la sua esternazione a freddo non è altro che una mano tesa alla maggioranza del partito in difficoltà sulla riforma del Senato: dire che bisogna modificare la legge sulle intercettazioni vuol dire lanciare un amo a Forza Italia e a Ncd, crociati del bavaglio, in cambio di un accordo sulla trasformazione di Palazzo Madama. Insomma, la legge sulle intercettazioni sarebbe uno dei baratti renziani per portare a casa la riforma. Legnini, ufficialmente, ha auspicato che la materia "non diventi oggetto di scambio" e che venga trattata "in modo organico e incisivo", ma ritiene "necessario un intervento normativo. È giunto il momento". E lancia parole tranquillizzanti per i magistrati: "No a limitazioni nell’utilizzo delle intercettazioni a fini di indagine", anche se in Parlamento l’agguato, trasversale, è dietro l’angolo, con la voglia di rivalsa che c’è dopo le numerose inchieste per corruzione e mafia, impossibili senza gli ascolti. È stato molto meno tranquillizzante verso i giornalisti che devono informare e i cittadini che hanno il diritto a essere informati: "No a limitazioni del diritto di cronaca", ma "si a una disciplina più rigorosa sull’obbligo di stralcio e distruzione degli ascolti irrilevanti ai fini di indagine, prevedendo precise responsabilità e sanzioni per chi le diffonde illecitamente". Intercettazioni penalmente non rilevanti, però, possono esserlo politicamente e socialmente. Il vicepresidente del Csm si è anche espresso per un drastico giro di vite per i magistrati che entrano in politica: "Nella riforma approvata a luglio si provvede a sterilizzare il periodo di esercizio di funzioni politiche da parte dei magistrati ai fini della maturazione dei requisiti per gli incarichi direttivi e semi-direttivi". Dunque, "se scegli di fare politica non farai più o sarà molto più complicato fare carriera nella magistratura. Ma ora ritengo che si possa fare un ulteriore passo avanti. Proporre al legislatore un intervento che, tenendo conto dei vincoli costituzionali, non consenta a chi ha scelto di fare politica di tornare indietro". Secondo il vicepresidente del Csm, infatti, "chi ha scelto l’appartenenza politica, c’è il rischio concreto che non riesca più a garantire imparzialità e terzietà. E quindi è bene che non rientri". Giustizia: così nasce un nuovo reato il "concorso esterno in funerale mafioso" di Giuliano Cazzola Il Garantista, 28 agosto 2015 È stato costituito un comitato che servirà ad impedire che episodi simili al funerale Casamonica si ripetano. Mi chiedo: verranno anche introdotti dei nuovi reati, magari nella Legge Severino, come il concorso esterno in cerimonia funebre di stampo mafioso oppure l’associazione funeraria per delinquere? Diventerà obbligatorio consegnare i borderò delle orchestrine che allietano le cerimonie funebri? Ci saranno delle melodie proibite? Non ho ancora deciso se scandalizzarmi di più per quello che tutti ormai chiamano il funerale show del 20 agosto o per le reazioni che quell’evento ha suscitato e continua a produrre (da ultimo l’apertura di un fascicolo in Procura). Il mio disappunto non riguarda tanto la grancassa suonata per giorni (e notti) dai media. In fondo, le onoranze funebri, riservate in pompa magna (anzi, maxima), a Vittorio Casamonica, erano pur sempre una notizia. Una sorta di manna piovuta dal cielo in giorni in cui di news ficcanti non c’erano tante. Poi, i giornali, i tg, i talk show non sono tenuti a fornire delle soluzioni: il loro mestiere consiste nel fare delle denunce. E in quella vicenda non mancavano certo gli argomenti per sostenere - ormai lo fanno sempre - che "Annibale è alle porte di Roma". Magari sarebbe stato opportuno ricordare, sia pure brevemente, che, nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, venne brutalmente stroncata dalle truppe del Patto di Varsavia la "primavera di Praga" di Alexander Dubcek. Ma forse non valeva la pena di rivangare delle sepolture, lontane nel tempo ed archiviate dalla storia, quando ce ne stavano di fresche di giornata che consentivano di sbizzarrirsi in commenti indignati e "politicamente corretti". Ho trovato, invece, singolare la reazione (tipica di chi ha una vistosa coda di paglia) delle autorità, al punto da sentirmi solidale con il sindaco Ignazio Marino (non mi era mai successo in precedenza) che ha deciso di restare in vacanza negli States. Soprattutto, mi ha colpito un dato di fatto. Tra il giorno del rito funebre in onore del capo del clan Casamonica e quello della riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza si è verificato un altro ("grave") episodio che ha fatto discutere la stampa internazionale: l’attentato terroristico sul treno Amsterdam-Parigi, sventato da un gruppo di "eroi per caso". Visto che di treni ne circolano tanti anche in Italia e che Roma è nel mirino dell’Isis, ci si aspettava che il Comitato si interrogasse sui rischi che corrono i cittadini italiani nei loro spostamenti e su quali misure di prevenzione si debbano adottare. No. Si è parlato solo della vicenda Casamonica, perché noi facciamo la guerra... ai funerali. Siamo tanto impotenti (ecco la coda di paglia) contro i (presunti?) mafiosi che ci fanno paura anche da morti. Ma la decisione che solleva tante domande è la costituzione di un comitato preposto ad evitare che eventi simili si ripetano. Vuol dire che le famiglie, d’ora in poi, dovranno presentare in Questura un piano particolareggiato per la sepoltura dei lori cari e farselo approvare, magari ricorrendo al Tar in caso di bocciatura? Oppure dovranno assumere, in quella circostanza, degli steward per controllare i documenti dei partecipanti alle esequie, i quali, a loro volta, saranno tenuti ad esibire, su richiesta, la fedina penale? Verranno introdotti dei nuovi reati, magari nella Legge Severino, come il concorso esterno in cerimonia funebre di stampo mafioso oppure l’associazione funeraria per delinquere? Ma i mafiosi non si accontentano di morire. Si sposano, fanno dei figli che a loro volta seguono i norma- li cicli della vita; e le famiglie festeggiano - sovente con spocchia, arroganza, cattivo gusto ed esibizionismo - i singoli eventi. Che cosa farà, allora, questo comitato interforze? Ci saranno agenti in borghese intrufolati nei battesimi e nei matrimoni? E i cronisti? Andranno a misurare la circonferenza delle torte nuziali nelle cerimonie di persone in odore di criminalità organizzata? Diventerà obbligatorio consegnare i borderò delle orchestrine che allietano i raduni con la loro musica? Ci saranno delle melodie proibite? E come la metteranno con le corone funebri? Occorrerà varare un vero e proprio regolamento con una precisa indicazione di quali fiori siano utilizzabili, per evitare che attraverso il loro linguaggio si mandino dei "pizzini"? Per concludere, al posto di Francesco Totti non staremmo tranquilli. Essere definito "l’ottavo re di Roma" può procurargli dei guai. Giustizia: Mafia Capitale. Tutti uniti per il Giubileo, Gabrielli affianca Marino di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 agosto 2015 Governo. Commissariato per Mafia Capitale solo il municipio di Ostia. Al prefetto poteri di indirizzo dell’opera di risanamento. Il radicale Magi: "Con quali norme?". Non è più tempo di dissidi, di sfide politiche, di ripicche e tranelli. Il Giubileo della Misericordia che si apre tra poco più di cento giorni, l’8 dicembre, è una prova che la candidata italiana alle Olimpiadi 2024 non può fallire. E richiede unità di istituzioni e amministrazioni, tanto più se tutte sono targate Pd. Perciò niente commissariamento di Roma, solo di un municipio, quello di Ostia, comunque più popoloso di Reggio Calabria. E neppure un sindaco dimezzato, solo "affiancato" dal prefetto Franco Gabrielli nel risanamento della Capitale e per il Giubileo, sul modello dell’Expo. Polemiche azzerate, al massimo un risolino malizioso insieme al "no comment" sulle vacanze americane di Ignazio Marino. È rapido e indolore, il resoconto del ministro Angelino Alfano e del sottosegretario Claudio De Vincenti sugli atti amministrativi approvati in Consiglio dei ministri, in un paio d’ore di seduta, per bonificare la capitale dalle mafie del "mondo di mezzo" e sperare che l’Anno santo alle porte fili via liscio come l’olio. Il messaggio è chiaro, facilmente traducibile in tutte le lingue: "Il governo è convinto che Roma ce la farà", perciò "affiancherà comune, prefettura e Regione, perché il successo del Giubileo è il successo del Paese". Sciolto per infilitrazione mafiosa il municipio di Ostia ("l’area con maggior numero di abitanti mai commissariata per mafia in Italia", secondo l’assessore Stefano Esposito) e nominati i tre commissari straordinari (il prefetto Domenico Vulpiani, il viceprefetto Rosalba Scialla e il funzionario dell’Interno Maurizio Alicandro), il governo ha "preso atto" delle decisioni assunte dal titolare del Viminale, prima tra tutte quella di "incaricare il prefetto Gabrielli alla pianificazione, insieme al sindaco di Roma, degli interventi necessari a risanare i settori più compromessi" da Mafia Capitale. Tre dipartimenti (Patrimonio, Lavori pubblici e Ambiente) e otto aree di intervento per prevenire appalti e atti illeciti, soprattutto nei settori di "verde pubblico e ambiente, emergenza abitativa, immigrazione e campi nomadi". Alfano annuncia l’avvio delle procedure per la rimozione dei dirigenti e dei dipendenti comunali "qualora ne ricorrano i presupposti" utilizzando l’articolo 143 del Testo unico sull’ordinamento degli enti locali, e chiede "l’aggiornamento dei regolamenti comunali", un sistema di "autotutela degli affidamenti disposti in assenza di regolari procedure concorsuali", "un albo delle ditte fiduciarie per l’affidamento dei lavori e dei servizi in economia, il monitoraggio della effettiva operatività della centrale unica degli acquisti", e una serie di procedure per controllare ed eventualmente annullare atti dirigenziali e contratti di servizio, compresi quelli con l’Ama, l’azienda addetta ai rifiuti al centro della "parentopoli" dell’era Alemanno. Nemmeno il tempo di finire la conferenza stampa, che sul ministro Alfano si scaglia l’ira delle opposizioni e delle destre deluse: Daniela Santanché (Fi) lo definisce "servo sciocco del Pd". Altri gli chiedono di rendere pubblica la relazione, mentre Lega e M5S suggeriscono a Marino di rimanere negli Usa e invocano il ritorno alle urne. Il consigliere Radicale Riccardo Magi, invece, pone una domanda nel merito e chiede ad Alfano di spiegare "in base a quale norma attribuisce al prefetto poteri di indirizzo senza commissariamento". Si attende risposta. Anche per il Giubileo, spiegano ministro e sottosegretario, "non c’è alcun commissariamento, solo un ruolo di raccordo del prefetto di Roma analogo a quello che il prefetto di Milano sta svolgendo per l’Expo". Con la supervisione del presidente dell’anticorruzione, Raffaele Cantone. Si apre però la corsia d’emergenza: "Nessuna deroga alle procedure a evidenza pubblica, solo la riduzione dei termini - puntiamo al dimezzamento - per realizzare in tempo le opere necessarie", spiega De Vincenti. Per agevolare il lavoro dell’esecutivo proprio ieri mattina la giunta capitolina ha deliberato in corsa una serie di ritocchi al piano integrato per il Giubileo e li ha subito trasmessi al Cdm. Nel documento, le linee guida sull’accoglienza di pellegrini e turisti e un piano per definire gli ambiti - mobilità, inquinamento atmosferico e acustico - in cui il Campidoglio potrà operare in deroga dall’ordinaria amministrazione. Per quanto riguarda le risorse, invece, il sottosegretario De Vincenti annuncia per la prossima settimana una riunione "per chiarire gli spazi di bilancio all’interno delle risorse a disposizione del comune". Nessun finanziamento, infatti, verrà dal governo centrale: i fondi saranno trovati derogando di fatto il patto di stabilità e ridefinendo il piano di ammortamento del debito pregresso di Roma. Di questo si occuperà il nuovo commissario straordinario nominato ieri dal Cdm: l’ex assessora al Bilancio, Silvia Scozzese. Infine la sicurezza: Alfano condivide "le misure adottate sul territorio da Gabrielli" e assicura che, per quanto riguarda le responsabilità a livello nazionale (l’intelligence, secondo Gabrielli, avrebbe dovuto impedire il sorvolo dell’elicottero sul funerale di Casamonica), "ci stiamo lavorando". Marino è soddisfatto e fa sapere (in italiano) che la "collaborazione seria e leale, già in atto da mesi" con Gabrielli, proseguirà fino al "risanamento" totale della capitale. E - nota di colore - il suo portavoce Guido Schwarz si toglie un sassolino dalla scarpa con un tweet: "Quintali di carta e inchiostro da…". Una manina saluta chi avrebbe voluto il Campidoglio sciolto per mafia. Giustizia: il poliziotto-balia e il mezzo sindaco, la strana coppia per salvare Roma di Francesco Merlo La Repubblica, 28 agosto 2015 È il commissariamento più singolare della storia d’Italia. Un uomo perbene, ma pittorescamente inadeguato, affiancato da un prefetto di ferro che sarà il suo tutore. E affiora il nodo della competenze da dividere con Sabella. Ignazio Marino è stato messo a balia. Gli mancano solo il ciucciotto e il bavaglino con su scritto Spqr. È infatti contento come un bambino, batte le mani a Renzi ed a Alfano che lo hanno avvolto in fasce e lo hanno affidato a Franco Gabrielli che sarà la sua matrigna, la sua badante, il suo tutore, il suo insegnante di sostegno. Prefetto di ferro, poliziotto, ex capo dei servizi segreti e della protezione civile Franco Gabrielli è già più sindaco del sindaco. E in questa coppia formata dalla balia e dal bambino somiglia più a Mangiafuoco che alla fata turchina. È l’orco burbero e severo che lo aiuterà davvero a non farsi male e a non fare dell’altro male a Roma. Al punto che il partner potenzialmente in conflitto con questo superprefetto non è il fragile Marino, ma l’assessore Alfonso Sabella, l’ex magistrato che gira con la pistola alla cintola, un altro duro, un altro supereroe per la povera Roma. E infatti Gabrielli e Sabella già si disputano gli amabili resti di Marino. Dietro le quinte, ieri sera hanno subito chiesto una chiarificazione sui poteri, entrambi difendendo il sindaco sino a identificarsi con lui. Gabrielli è "felice di lavorare con Ignazio". E Sabella, che da Marino fu nominato : "Il governo ha riconosciuto il nostro lavoro". Davvero questo è il caso di commissariamento più clamoroso e più strano della storia d’Italia con un’ombra di tristezza per un uomo per bene ma pittorescamente inadeguato, un onesto tontolone in mezzo ai lupi più furbi, più affamati e più feroci. E bisogna anche riconoscere che Marino è il primo cittadino di una capitale che somiglia alla Napoli ‘44 raccontata da Lewis, una città da dopoguerra e da Satyricon, una Roma degradata che lo ha capito ma che Marino non capisce. Ed è un continuo passaggio dal dramma alla commedia, con il ministro Alfano che ieri sembrava persino uno statista, ma era solo la maschera che accompagnava gli spettatori in platea. Alfano infatti è il servo di scena Anche lui ombra di un’ombra si è solo intestato le decisioni di Renzi. Dunque un ministro sotto tutela ha messo sotto tutela il sindaco esibendo un’impudenza politica che Marino non ha. Alfano, come si sa, è titolare di un potere di interdizione che in Italia significa deputati, senatori e luogotenenti sparsi nel territorio. Marino è solo. Gli rimane una piccola corte di impiegati comunali, una guardia imperiale che ricorda i centurioni da Colosseo, pagati per assecondarlo. E nell’ora del tramonto sembrano inventate dai cattivi tutte quelle sue famose gaffe che da due anni sfidano la proverbiale ironia dei romani. Persino la sua innocenza risulta purtroppo irritante perché è inutile, non gli basta per governare ma basta per non cacciarlo, lo protegge da chi vuole mandarlo via, ma non lo assolve dall’incompetenza. Perciò verrebbe voglia di difendere Marino dai soliti bulletti scatenati di Twitter che lo motteggiano in tutte le maniere, anche le più volgari. E su Facebook ora girano le immagini di Marino alle Bahamas con fotomontaggi di ogni genere, compreso il confronto tra la trasparenza delle acque dei Caraibi "dove nuota er cazzaro vero" e la languida sporcizia di Ostia lido dove nuota "er cazzaro nero". E tutti capiscono che Ostia è stata commissariata per mafia perché non si chiama Roma ma è Roma fuori Roma. Dev’essere dura sentirsi commissariati da Alfano. E invece Ignazio Marino sembra ancora non capire: "Sono soddisfatto" ha dichiarato dal suo esilio americano, "con il prefetto Gabrielli lavoreremo insieme". Perciò su Twitter lo paragonano al famoso pugile suonato impersonato da Vittorio Gassman che più le prende e più dice "sò contento" E ancora lo immaginano come quello che, nella barzelletta, cade dal trentesimo piano e, arrivato al ventesimo, alla signora che, affacciata alla finestra, gli chiede "come va?" risponde: "benissimo grazie". Marino neppure si accorge del linguaggio untuoso che traveste la retrocessione: "adozione comune di atti di indirizzo", "cabina di regia", "raccordo operativo tra istituzioni". Come si vede, Alfano ha usato il tipico lessico della finzione politica, con una durezza impietosa che non ha neppure la dignità dell’onore delle armi. Il commissariamento all’italiana, lo svuotamento dall’interno non è infatti una cerimonia di passaggio, non ci sono consegne, campanellini, non c’è la grandezza delle dimissioni, non si intonano requiem, non si sente lo sbatter di tacchi, perché Marino perde il posto senza perderlo, viene reso superfluo e sempre più caraibico, non gli si permette di entrare nell’aristocrazia dei perdenti che non ci hanno saputo fare con il potere. Accompagnato da due superpoliziotti che non somigliano ai carabinieri di Pinocchio ma a Boldi e De Sica, il mezzo sindaco sarà libero soltanto di scrivere il suo attesissimo libro di memorie alle Bahamas: "C’è una luce accesa / dall’altra parte del mare blu" canta Sergio Caputo: Italiani, Mambo. Giustizia: tutti i limiti del commissariamento per l’amministrazione comunale di Roma di Massimo Villone Il Manifesto, 28 agosto 2015 Mandare a casa il sindaco Marino - che a Renzi piace poco - sarebbe stato visto come un regolamento di conti nel Pd. Dunque si prende la via di un commissariamento sostanziale. Più che lo scioglimento del municipio di Ostia, conta che l’amministrazione e il sindaco siano stati consegnati all’occhiuta guardiania del prefetto. Che si chiami coordinamento non fa differenza, è un regime a sovranità molto limitata. Soluzione da tempo adombrata per il Giubileo. È un singolare contrappasso che sia chiamato al compito il prefetto che la storia ricorderà come l’uomo che non sapeva nulla (del funerale del boss Casamonica). Ma, secondo regola, si doveva sciogliere o no? La norma oggi vigente sullo scioglimento per infiltrazioni e condizionamenti mafiosi o camorristici è l’articolo 143 Tuel (testo unico enti locali). La legge originaria risale ai primi anni Novanta, poi modificata, e oggetto di polemiche ricorrenti. Anzitutto, nella prima versione era mirata unicamente allo scioglimento delle assemblee elettive, con commissariamento e nuove elezioni. Paradossalmente, potevano rimanere al proprio posto funzionari e dirigenti senza i quali il condizionamento mafioso non avrebbe potuto farsi strada, e magari veniva mandato a casa chi era stato eletto su un programma di lotta ai poteri criminali. Una debolezza evidente, poi corretta dal legislatore. Inoltre, in termini generali, la legge si inserisce in un campo nel quale l’attività criminosa non giunge ancora alla puntualità di elementi che bene reggerebbero l’azione penale. Se la condotta criminale è accertata e chiaramente imputabile, lo strumento chirurgico di elezione è il giudizio penale. Lo scioglimento di cui si parla interviene nel campo del sospetto, del pericolo, della probabilità che accanto a un crimine accertato altre attività illecite abbiano potuto o possano svolgersi. Le relazioni sull’accesso sulle quali si basa la decisione di sciogliere fanno spesso riferimento a frequentazioni, contatti, contesti di rapporti e collegamenti con persone o ambienti noti per l’appartenenza a organizzazioni criminali. Un terreno scivoloso, e suscettibile di interpretazioni molteplici, soprattutto per gli enti locali minori in cui la rete di legami di parentela o amicizia è inevitabilmente pervasiva. Nell’attuale formulazione, modificata con la legge 94/2009, l’articolo 143 del Tuel richiede "concreti, univoci e rilevanti elementi" ai fini dello scioglimento. Una formulazione stringente voluta dai più garantisti, che per non pochi ha tolto alla legge gran parte della sua efficacia. In ogni caso, la decisione di sciogliere per infiltrazioni o condizionamenti - affidata al Consiglio dei ministri - mantiene un alto grado di discrezionalità, ed è fatalmente oggetto di una lettura politica. Non è un caso che - con la sola eccezione di Reggio Calabria - mai siano stati sciolti i consigli comunali di città importanti. È ovvio che lo scioglimento di Roma avrebbe avuto un impatto fortissimo. Del resto, anche lo scioglimento di comuni minori può essere un percorso accidentato, quando il potere locale è un tassello di equilibri nazionali di governo, infra o interpartitici. Chi va a sciogliere a cuor leggero per mafia o camorra un consiglio comunale in cui siedono portatori di essenziali pacchetti di voti, magari pronti a passare al nemico? È stato ampiamente citato il caso del comune di Fondi, che nel 2009 il Consiglio dei ministri non sciolse, nonostante la proposta in tal senso. Le statistiche ci dicono che gli scioglimenti degli enti locali sono numerosi, e in larga maggioranza hanno luogo per dimissioni volontarie, soprattutto dei consiglieri e talvolta del sindaco. Una parte di questi scioglimenti per dimissioni può essere dovuta proprio all’intento di anticipare uno scioglimento per infiltrazioni o condizionamenti mafiosi. Il comune di Fondi, prima citato, fu sciolto per dimissioni del sindaco. Dove c’è odore di mafia o camorra e timore di commissariamento, giocare di anticipo andando subito al voto può essere la via più agevole di riconquistare la poltrona. Il malato è grave. È fallita la grande scommessa che negli anni Novanta aveva cercato nelle autonomie una nuova vitalità per il paese. E la fragilità della politica e delle istituzioni mostra come sia illusorio il mantra di sapere chi ha vinto la sera del voto. È così nelle regioni e negli enti locali. Ma di buon governo nemmeno l’ombra. E non farà certo differenza la modifica di qualche parola nell’articolo 143 Tuel. Bisogna ragionare su come rinsaldare le istituzioni e i soggetti collettivi che in esse operano, essenziali per far valere responsabilità politica e controllo sociale. Contro la corruzione, bisogna far crescere gli anticorpi nel vivere e nell’amministrare quotidiano. I blog, le assemblee virtuali, il micro-associazionismo sono utili e talora benemeriti, ma non sufficienti. E tanto meno servono le leggi spot e gli interventi emergenziali eretti a sistema. Un progetto di prospettiva e di ampio respiro, volto a rianimare una democrazia gracile e asfittica. Questo serve al paese, e il caso Roma lo conferma. Invece Renzi riferendosi al senato ci dice dal meeting di CL a Rimini che non si aumenta la democrazia moltiplicando le poltrone. Dipendesse da lui, la aumenterebbe dividendole fino a lasciarne una sola. La sua. Giustizia: Roma sotto tutela una scelta obbligata, l’onestà di Marino non basta di Carlo Nordio Il Messaggero, 28 agosto 2015 La fondamentale differenza tra Giustizia (intesa sia come etica sia come legalità) e Politica risiede nel fatto che la prima guarda alle intenzioni e la seconda ai risultati. Per la Giustizia uno stesso comportamento può essere criminoso o indifferente a seconda del proposito del suo autore: si può uccidere per odio, o per sbaglio, o per legittima difesa. In politica questa differenza non vale: quello che conta è il risultato, che dev’essere conforme al programma avallato dagli elettori. In politica, come insegnava un saggio, niente ha più successo del successo. La vicenda del Comune di Roma, con il sostanziale "commissariamento" del sindaco e del suo seguito, conferma questo principio. Nessuno ha infatti mai dubitato della personale onestà del professor Marino, e del suo fermo disegno di combattere l’immoralità e l’illegalità. Tuttavia nessuno dubita che questo progetto ormai rischi di fallire, e che l’attuale amministrazione non sia attrezzata a sufficienza per fronteggiare i problemi connessi alle attività delle formazioni mafiose esistenti, e alle possibili infiltrazioni di altre in vista del Giubileo. La decisione del Governo è pertanto comprensibile, e forse anche tardiva. Tuttavia pone due problemi, uno di ordine generale, uno più specifico. Quello specifico riguarda, come è ovvio, la Capitale del Paese. Non sappiamo se il ridimensionamento del sindaco costituisca il verecondo surrogato di una traumatica destituzione, o il primo passo verso le urne, o la conseguenza di faide correntizie o altro. Resta il fatto che, per la prima volta nella storia, si assiste ad una sorta di tutela protettiva imposta dallo Stato a un’amministrazione locale. Beninteso, il primo ha il diritto e il dovere di vigilare sulla seconda, attuando i controlli e gli interventi che ne impediscano gli errori e ne rimedino le inerzie. Ma questo è sempre avvenuto, appunto, attraverso rimozioni e sostituzioni, mentre ora si assiste a un’inedita curatela di sostegno di cui tra, l’altro, non sarà facile definire limiti e competenze. È, come si è detto, una scelta obbligata. Ma è una scelta che, in un sistema normativo gravato di ricorsi e sospensive rischia di complicare una situazione già caotica. Il problema generale è forse meno urgente, ma certamente più serio. Esso consiste nel pernicioso pregiudizio, nato da tangentopoli e alimentato dalla ventennale polemica filo e anti berlusconiana, che l’onestà individuale, assistita da solenni esaltazioni moralistiche, costituisca requisito sufficiente per ricoprire efficacemente le più importanti cariche pubbliche. Ora, a parte il fatto che l’onestà non può limitarsi alla purezza del certificato penale, ma deve riflettere quantomeno la disinteressata devozione all’interesse collettivo, essa non garantisce, da sola, il conseguimento dell’utilità nella quale si sostanzia, come si è detto, la buona politica. Con il risultato che, negli ultimi anni, abbiamo assistito a una proliferazione di candidati di commendevole probità, privi tuttavia della competenza e dell’esperienza idonee all’attuazione di un programma adeguato alle esigenze generali. Purtroppo parte dell’elettorato, per comprensibili reazioni emotive, ha creduto in questo miraggio ingannevole, dimenticando che le buone intenzioni conducono spesso a risultati catastrofici. Perché le virtù del politico, come insegnava Gibbon, sono essenzialmente diverse: il cervello per comprendere, il cuore per risolversi e il braccio per realizzare. L’onestà, come l’intendenza, deve soltanto seguire. Giustizia: commissariato il Campidoglio, la triste fine dello Stato democratico di Piero Sansonetti Il Garantista, 28 agosto 2015 Da oggi il sindaco di Roma non conta più nulla. Non hanno commissariato il Campidoglio, perché un atto di questo genere avrebbe avuto un’inaudita risonanza internazionale, ma hanno affiancato ben due commissari al sindaco - come dire? -uscente. Il fatto che Marino stesso si sia dichiarato soddisfatto di questa frustata in faccia rientra nell’ambito dei Grandi Misteri della politica. Misteri dolorosi, non gloriosi. Probabilmente lo ha fatto solo per evitare di dimettersi. Perché di fronte all’arroganza di un governo che ti rifila due angeli custodi, dichiarando formalmente che tu, eletto dagli elettori, non sei in grado di garantire la legalità e la normale amministrazione, beh, l’unica reazione possibile è quella di dimettersi gridando al colpo di mano, all’ingerenza, all’illegalità sostanziale di una decisione che fa a pezzi la Costituzione e il diritto sacrosanto dei cittadini di scegliersi i propri rappresentati e di non trovarseli imposti dal governo o da chiunque altro. Senza nulla togliere, naturalmente, alla moralità e alla professionalità e alla statura di Gabrielli e Cantone. Solo che, se per caso vogliono governare Roma, visto che il fascismo è finito 70 anni fa, sarebbe meglio presentarsi alle elezioni e provare a vincerle. In Francia, per esempio, e in Svizzera, si fa così... Nessuno comunque pare indignarsi. Così come nessuno si indignò quando fu sciolto il Comune di Reggio Calabria o tanti altri Comuni calabresi. In alcuni di essi i cittadini da decenni non hanno più la possibilità di eleggere sindaco e Consiglio comunale. Possibile che nella politica italiana non ci sia nessuno in grado di dire: "signori miei, questo è uno stato democratico, non è uno stato di polizia?". Sì, possibile. Giustizia: "confisca come per i mafiosi", ecco il piano del governo contro il caporalato di Mariolina lossa Corriere della Sera, 28 agosto 2015 Il caporalato "va combattuto come la mafia" anche con le confische dei beni. E con un "piano di azione organico e stabile", da approntare al massimo entro due settimane, per stroncarlo. E intanto dal primo settembre parte la "Rete del lavoro agricolo di qualità" alla quale dal primo settembre le imprese agricole potranno presentare le istanze di adesione tramite un servizio telematico reso disponibile dall’Inps. E questo il risultato a cui sono arrivati il ministro del Lavoro Giuliano Poletti e il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina a conclusione di un vertice nazionale che si è svolto ieri a Roma. "Vogliamo passare dalla gestione dell’emergenza a un lavoro", ha detto Martina, annunciando che è stato dato un mandato chiaro alla cabina di regia della Rete del lavoro agricolo di qualità, che è presieduta dall’Inps e di cui fanno parte i sindacati, le organizzazioni professionali agricole e i rappresentanti dei ministeri dell’Agricoltura e del Lavoro, e delle Regioni. Per debellare il caporalato, aggiunge Poletti, bisogna lavorare "su tutti gli aspetti dell’illegalità. Abbiamo già sviluppato un’azione di contrasto, la rafforzeremo anche con il ministero degli Interni per quanto riguarda l’immigrazione e con quello della Giustizia per la confisca dei beni". Proprio la confisca dei beni ai "caporali", è il punto qualificante, secondo Martina e Poletti, così come avviene per la confìsca dei beni mafiosi. "C’è un impegno del governo per un alto legislativo importante per la confisca dei beni alle imprese che si macchiano di caporalato, lo faremo a breve, lo stiamo studiando con il ministro della Giustizia Orlando", ha concluso Martina. Subito verranno rafforzati i controlli e avviata la Rete del lavoro agrìcolo di qualità. Potranno presentare richiesta dì adesione alla Rete le imprese agricole con i seguenti requisiti: non aver riportato condanne penali e non avere procedimenti penali in corso per violazioni della normativa in materia di imposta sui redditi e sul valore aggiunto; non essere stati destinatari, negli ultimi tre anni, di sanzioni amministrative definitive per le violazioni della norme suddette; essere in regola con il versamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi. Le domande saranno esaminate dalla Cabina di regia entro 30 giorni dalla data di presentazione. In caso di esito positivo, le aziende selezionate riceveranno il certificato che ne attesta la qualità. Favorevole la Cia, confederazione di agricoltori, che ha chiesto che la rete non crei "ulteriori adempimenti o appesantimenti burocratici", ma s’impegni nel compito, previsto dalla normativa, di formulare proposte in materia di mercato del lavoro a sostegno delle imprese virtuose. Giustizia: piano di contrasto al caporalato, il governo ci prova di Antonio Sciotto Il Manifesto, 28 agosto 2015 Lo sfruttamento nei campi. I ministri Martina e Poletti annunciano un "piano in 15 giorni" per incrementare prevenzione e ispezioni. Ma in vista c’è anche una stretta sulle aziende: si studia la possibilità di confisca dei beni, come avviene già con i mafiosi. Un piano di contrasto al caporalato da preparare in 15 giorni: dovrà elaborarlo la Cabina di regia della "Rete del lavoro agricolo di qualità", che riunisce tutti i soggetti del settore. Ad annunciarlo è il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, che ieri insieme al collega al Lavoro, Giuliano Poletti, ha incontrato in un vertice a Roma sindacati e imprese. Presente anche l’Inps, con il presidente Tito Boeri e Fabio Vitale, capo della vigilanza e nominato presidente della cabina di regia. La Cabina di regia è in realtà già operativa da febbraio, ma di fatto è rimasta finora solo sulla carta, come capita a tante cose in Italia: ora, ha spiegato Vitale, ci si concentrerà "sul piano dei controlli e della prevenzione", ispezioni e intelligence che dovranno essere meglio coordinate e incrementate, come ha promesso Poletti. Il ministro del Lavoro ha annunciato l’istituzione di "un sistema di monitoraggio e rendicontazione periodica del lavoro fatto dalla Rete", in modo da non disperdere gli sforzi di questi giorni "una volta che sia scemato l’interesse delle cronache". Ci si augura ovviamente di non vedere più i tre morti nei campi (e un lavoratore finito in coma) degli ultimi due mesi, o perlomeno di poterli prevenire. "Assistere chi denuncia". Ma si pensa anche a un altro tipo di intervento, operando sul piano delle leggi, e ponendo il reato di caporalato sullo stesso piano di quelli di mafia. Lo annuncia Martina: "C’è un impegno del governo per un atto legislativo importante per la confisca dei beni alle imprese che si macchiano di caporalato. Lo faremo a breve, lo stiamo studiando con il ministro della giustizia Andrea Orlando", ha spiegato il titolare dell’Agricoltura. Inoltre, si ipotizza una forma di assistenza per i lavoratori che denunceranno: "Il governo pensa anche a un sostegno legale per i braccianti che denunciano il caporalato con risorse dedicate", ha detto Martina. Tra le proposte avanzate, cavallo di battaglia della Cgil e degli altri sindacati, che lo chiedono da tempo, l’estensione del reato dai caporali anche alle imprese che fanno uso dei lavoratori illegalmente somministrati. Questo faciliterebbe tra l’altro proprio l’eventuale confisca dei beni alle aziende che violano la legge. Il reato di caporalato fu istituito tra l’altro nel 2011 proprio dopo una battaglia del sindacato: adesso manca quindi "l’ultimo miglio", ovvero l’estensione dello stesso sistema sanzionatorio anche alle aziende agricole che ne fanno uso. C’è poi la parte costruens del piano del governo, quella che mira a incentivare le aziende a fare bene e a escludere dai benefici pubblici chi agisce male. Alla Rete ci si potrà insomma iscrivere se si è in regola con leggi e contratti, ricevendo a fronte un certificato di qualità etica, una sorta di "bollino blu" che si potrà apporre sui prodotti, così che i consumatori possano compiere scelte responsabili. Un logo di responsabilità etica. L’Inps ha ricordato che in base a alla legge "Campolibero" (la 116 del 2014) possono presentare richiesta di adesione alla Rete le imprese agricole che: 1) non hanno riportato condanne penali e non hanno procedimenti penali in corso per violazioni della normativa in materia di imposta sui redditi e sul valore aggiunto; 2) non sono state destinatarie, negli ultimi tre anni, di sanzioni amministrative definitive per le violazioni di cui al punto precedente; 3) sono in regola con i contributi previdenziali e i premi assicurativi. Le domande saranno esaminate dalla Cabina di regia e in caso di esito positivo, le aziende selezionate entreranno a far parte della Rete del lavoro agricolo di qualità e riceveranno quindi il "bollino blu". Fai Cisl, Flai Cgil e Uila Uil parlano di un incontro "importante e molto proficuo", definendo "di grande rilievo la proposta di Poletti di istituire una sorta di monitoraggio e rendicontazione pubblica delle attività compiute sia per quanto riguarda i controlli sia per tutte le altre azioni che riguardano il lavoro nero". Ma segnalano che la cabina di regia e la stessa Rete del lavoro di qualità non sono mai diventate operative proprio perché i progetti di legge sollecitati dallo stesso sindacato non sono mai stati definitivamente approvati. Per rendere veramente efficace la Rete, i sindacati chiedono quindi ulteriori passi: 1) approvare per decreto il testo già definito al Senato di integrazione dei compiti e funzioni della Rete; 2) inserire la riduzione di un euro a giornata dei contributi previdenziali per le aziende agricole che si iscrivono e prevedere la definizione di un marchio etico del lavoro di qualità per le aziende iscritte alla rete; 3) estendere le sanzioni previste per lo sfruttamento illecito della manodopera e la cancellazione dalla rete alle aziende agricole che non applicano il contratto nazionale, le leggi sulla sicurezza del lavoro e fruiscono della intermediazione illecita di manodopera, prevedendo, inoltre, per tali aziende la revoca delle agevolazioni contributive e dei contributi Pac. Ma non è da trascurare anche la notazione della Coldiretti, ripresa peraltro dagli stessi sindacalisti: si deve smontare il meccanismo per cui al produttore vengono pagati solo 8 centesimi per un chilo di pomodori, e 5 per uno di arance. "Non è più tollerabile che i profitti vadano all’industria della trasformazione e alla grande distribuzione, costringendo poi i produttori a "risparmiare" sul lavoro", protesta Yvan Sagnet della Flai Cgil. Giustizia: caporalato, dagli africani lezione ai rumeni "ribellatevi ai caporali" di Giuliano Foschini La Repubblica, 28 agosto 2015 Foggia, i neri fanno scuola sindacale Martina: subito il piano del governo beni confiscati a chi sfrutta sui campi. Ha cominciato F.B., maliano, 27 anni. Si è tagliato mentre era al lavoro, hanno provato a tacitare tutto e allora lui ha denunciato caporale e azienda per cui lavorava. Per un anno non è riuscito a mettere piede in un campo, ma ora, in silenzio, ha ripreso. E allora hanno cominciato a seguirlo anche suoi connazionali, amici, "una decina almeno" dicono gli operatori della Caritas, che meriterebbero il premio Nobel per quello che fanno qui ogni giorno, "hanno denunciato. E sono gli unici". Nella terra di Giuseppe Di Vittorio ci sono lavoratori che hanno deciso di alzare la testa. Sono africani, vivono per lo più in questo ghetto illegale che in realtà è legale - una baraccopoli da duemila persone nel mezzo della Capitanata- e in nome di una legge naturale, hanno deciso che non tutto si può fare. "La paga deve essere di 3,50 euro a cassone. Non di meno" spiegano al ghetto di Rignano. "Altrimenti nessuno va al lavoro e i pomodori rimangono per terra". In realtà il problema nasce dagli altri abitanti di questa terra - bulgari, rumeni- che arrivano dai loro Paesi attratti da annunci sui giornali che promettono lavoro e poi vengono inghiottiti dai loro stessi sogni, schiavizzati da quella che sembrava speranza. "Ci troviamo di fronte a situazioni agghiaccianti - ammette Concetta Notarangelo, una delle anime della Caritas in questa terra - dormono sotto gli alberi, con i documenti sequestrati, lavorano a debito, assistono e si sottopongono a cose indicibili, e spesso ci sono anche i bambini". Scuote la testa e prende fiato. "Non denuncia nessuno, hanno troppa paura, non denuncia nessuno". E accettano anche paghe minime, loro e anche alcuni italiani, anche due euro per un cassone. Per questo nei giorni scorsi in una riunione del collettivo Campagne in lotta, centri sociali dell’agricoltura - i ragazzi africani hanno fatto una sorta di scuola sindacato ai comunitari. E anche ad alcuni braccianti e trasportatori italiani che denunciavano di essere strozzati dalle mani del caporalato. "Con quel prezzo del pomodoro così basso - dicono - è impossibile non sfruttare i lavoratori. Eppure guardate nei campi: ovunque ci sono macchinari nuovi di zecca". Anche per questo ieri il governo ha annunciato il nuovo pacchetto contro il caporalato. "Entro 15 giorni - ha detto il ministro Maurizio Martina- prepareremo un pacchetto per un piano d’azione organico e stabile". L’idea - così come annunciato in una lettera a Repubblica - di Martina e del collega alla Giustizia Andrea Orlando, è "predisporre un atto legislativo rivolto alla confisca dei beni per le imprese che si macchiano del reato di caporalato. Si sta anche pensando a una forma di assistenza legale per i braccianti che denunciano lo sfruttamento". Tra le iniziative anche la possibilità di individuare una responsabilità in solido per chi sfrutta il lavoro nero. E di introdurre l’obbligo di comunicazione preventiva degli operai agricoli a tempo determinato e un’ipotesi di lavoro sul trasporto pubblico dei braccianti, coinvolgendo anche le Regioni. Al momento infatti la legge viene aggirata non computando le giornate effettive di lavoro, in modo da sottopagare i braccianti. Tra le idee, anche quella di un bollino di qualità per le aziende. L’iniziativa era stata provata in Puglia lo scorso anno, presentata in grande stile. Non ha aderito nemmeno un’impresa. Caltanissetta: detenuto s’impicca nel carcere di Gela, è il 31° suicidio del 2015 in Italia La Repubblica, 28 agosto 2015 Doveva scontare altri due anni. Aveva avuto l’affidamento in prova nei servizi sociali, ma era risultato un esperimento non riuscito. Tornato dietro le sbarre non avrebbe più beneficiato di alcuna forma alternativa alla detenzione. L’uomo, un catanese di 32 anni, (R. R. le sue iniziali) era arrivato nella casa circondariale gelese da circa un mese e doveva scontarvi una pena definitiva di due anni per droga e ricettazione. Quando si è suicidato stringendosi un lenzuolo attorno al collo in cella con lui c’era un altro recluso che in quel momento dormiva. Sul posto è intervenuta un’ambulanza del 118 ma i sanitari non hanno potuto far altro che constatare il decesso. S’abbassa l’età media di chi si toglie la vita. A darne notizia è Ristretti Orizzonti che rileva come 31 detenuti suicidi nei primi otto mesi dell’anno siano, tutto sommato "Un numero in linea con quello degli ultimi anni. Un dato importante invece, sembra essere l’abbassamento dell’età dei detenuti che si sono tolti la vita quest’anno: 37 anni è infatti la media di chi ha posto fine alla sua esistenza dietro le sbarre. Un dato, questo - rileva ristretti Orizzonti - che va confrontato con i 41 anni registrati nell’ultimo quindicennio. Da segnalare ancora - si legge nella nota dell’organizzazione che monitorizza la condizione di vita nelle carceri italiane - un aumento dei suicidi tra i detenuti stranieri: nel 2015 sono il 30% del totale, a fronte del 15% registrato nella serie storica e per la prima volta il tasso suicidario degli stranieri (che rappresentano il 28% dell’intera popolazione detenuta) supera quello che si registra tra gli italiani". Genova: finiti i braccialetti elettronici, anche l’oligarca russo Markov rimane in carcere di Marco Grasso La Stampa, 28 agosto 2015 Diventa chiaro che il garbuglio diplomatico ormai è compiuto quando arriva la prima nota di protesta ufficiale, un atto formale con cui la Russia di Putin si indigna con il ministero della Giustizia italiano perché promette più braccialetti elettronici di quanti non ne possa concedere. Non è solo il segnale che la zuffa diplomatica tra Mosca e Kiev sull’oligarca filo-russo Igor Markov ha definitivamente investito anche Roma. L’affaire che coinvolge l’ex deputato amico del premier russo comincia ad assumere anche ì toni di una figuraccia internazionale, in cui l’Italia sì fa tirare le orecchie da un Paese che quanto a condizioni carcerarie non è in testa alle classifiche di Amnesty International. L’oligarca era stato arrestato a Sanremo lo scorso 12 agosto. Sulle spalle un mandato di cattura internazionale spiccato dall’Ucraina, con l’accusa dì aver preso a bastonate alcuni oppositori politici. La corte, in attesa della decisione di merito, gli ha concesso gli arresti domiciliari, a patto che indossi il braccialetto elettronico. Solo che, come accade a tanti altri poveri diavoli ospiti delle patrie galere, braccialetti non ce ne sono abbastanza e dunque il detenuto Markov deve rassegnarsi a rimanere dietro le sbarre. Per quanto ancora non si sa. Che la materia sia un argomento scivoloso lo si capisce dalle reazioni. Al ministero della Giustizia fanno sapere che la competenza, su numeri e apparecchi disponibili, è del Viminale. E dal ministero dell’Interno allargano le braccia: mancano i fondi. Già, ma come si fa in casi come questo? Qual è il destino del detenuto in attesa di braccialetto? Una sentenza della Cassazione di alcuni giorni fa sancisce che se mancano i braccialetti, è un problema dello Stato e non del detenuto. Dunque, in assenza di dispositivi, vanno applicati comunque i domiciliari. "È una situazione inaccettabile - dichiara Enrico Scopesi, avvocati di Markov. L’ambasciata russa ha presentato una protesta formale al Guardasigilli, attraverso i canali diplomatici previsti". Palermo: Sappe; detenuto non rientra in cella dopo l’ora d’aria e aggredisce un agente Adnkronos, 28 agosto 2015 Un detenuto straniero del carcere di Palermo Pagliarelli, che non voleva rientrare in cella dopo l’ora d’aria, ha dato in escandescenze e aggredito un agente della polizia penitenziaria. A darne notizia è il Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. "Il detenuto pretendeva di non rientrare in cella e ha iniziato a colpire il poliziotto con violenza. Siamo alla follia - sottolinea il segretario generale del Sappe Donato Capece - Calci e pugni ai poliziotti da parte di un delinquente che non voleva rientrare in cella. Questi inaccettabili atti di violenza andrebbero puniti con estrema severità: non sono più tollerabili!". Il Sappe rinnova al ministro della Giustizia Andrea Orlando e ai vertici dell’Amministrazione centrale la richiesta "di dotare la Polizia Penitenziaria di strumenti di tutela efficaci, come lo spray anti aggressione già assegnato in fase sperimentale a Polizia e Carabinieri". "Sono decine e decine le aggressioni subite da poliziotti penitenziari in carcere dall’inizio dell’anno. Cosa si aspetta ad assumere adeguati provvedimenti per garantire la sicurezza e la stessa incolumità fisica degli Agenti di Polizia Penitenziaria che lavorano in carcere?". L’aggressione nel carcere di Palermo è "sintomatica del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Sicilia e in Italia sono costanti - commenta Lillo Navarra, segretario regionale Sappe per la Sicilia - E a poco serve un calo parziale dei detenuti, da un anno all’altro, se non si promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell’esecuzione della pena nazionale, come ad esempio l’espulsione dei detenuti stranieri". Ferrara: carcere di via Arginone, per una mattina anche i detenuti ballano coi Buskers Ansa, 28 agosto 2015 Per una mattina via Arginone, dove ha sede il carcere di Ferrara, è diventata una delle strade del Buskers Festival che fino al 30 agosto colora il centro della città emiliana. Sono stati oltre 100 i detenuti della Casa circondariale che hanno ballato con i musicisti e gli artisti invitati. Il tutto grazie al direttore Paolo Malato, al comandante della Polizia penitenziaria Lisa Brianese, al vice Annalisa Gadaleta. Sul palco è salito anche un gruppo composto da detenuti-musicisti, che partecipano ai laboratori teatrali di Horacio Czertok, poi i friulani dei "Cinque Uomini sulla Cassa del Morto" e i belgi de Les Busiciens, accompagnati dai responsabili del festival Roberta Galeotti e Luigi Russo. I friulani hanno aperto il concerto con le loro canzoni di libertà, ispirate alla vita quotidiana. Per poi lasciare spazio all’energia del gruppo belga, che con ironia ha intonato ritmi cubani, melodie africane un trascinante "Tu vuò fa l’americano". "Ci teniamo che il carcere sia vicino alla città", il commento dell’assessore Chiara Sapigni. L’estate delle stragi, dai barconi ai camion, quei 500 migranti morti sognando l’Europa di Attilio Bolzoni la Repubblica, 28 agosto 2015 Il ragazzo sudanese falciato dal Tir e le centinaia di uomini, donne e bimbi senza nome spariti nei naufragi. In Libia come a Calais. Quasi 2.500 hanno perso la vita da inizio anno. Ecco chi sono. Quanti sono? Quanti cadaveri ci ha portato questa lunga estate? Quante volte saremo costretti ancora a stare al passo con i numeri, aggiornare la conta dei morti? C’è sempre uno sbarco che sovrasta in tragicità e dimensioni quello precedente, c’è sempre una traversata che si presenta come "la più grande sciagura del mare del dopoguerra". E muoiono, muoiono sempre, muoiono in tutti i modi. Soffocati. Schiacciati. Annegati. Assassinati. Avvelenati dai gas. Tra le onde e sui gommoni, nei cassoni dei camion, sotto le ruote degli autoarticolati, nelle stive, a poppa e a prua. Quando nella notte sono in vista delle luci di Lampedusa e quando all’alba sono scaraventati dalla tempesta nel golfo della Sirte, muoiono a Calais, su una strada a sud di Vienna, al largo di Malta e sui confini e tra i muri di Turchia o Bulgaria, nelle isole greche e nei Balcani occidentali, a Patrasso, Lesbo, Kos, sugli argini del fiume Evros. Muoiono di fame o di sete, di fatica, di crepacuore. Quanti sono? Quanti? Con i 51 ritrovati nelle sentine della nave svedese che è entrata nel porto di Palermo sono 2.440 da inizio anno (più di 500 dal primo giugno) quelli che non ce l’hanno fatta ad attraversare il Mediterraneo e le altre frontiere macello dell’Europa, dati ufficiali Onu. Poi arriva la notizia di quelli intrappolati nel rimorchio di un camion abbandonato sull’autostrada vicino a un lago tra Austria e Ungheria e bisogna subito rivedere la statistica, ritoccarla, aggiungere nuovi "dati" su sopravvissuti, deceduti, dispersi. Come accadrà inesorabilmente domani e anche dopodomani. Come accadrà la prossima settimana e il prossimo mese. Quanti sono? E quanti ce ne saranno ancora? Come si chiamava il ragazzo sudanese "dall’apparente età tra i 25 e i 30 anni" falciato da un Tir il 29 luglio mentre tentava di raggiungere la Gran Bretagna dalla Francia? E chi lo sa, chi lo ha mai saputo? "La nostra squadra ha trovato un cadavere stamani e i vigili del fuoco hanno confermato la morte di questa persona", si è limitato a riferire uno dei portavoce dell’Eurotunnel. Confermato il decesso, tutto molto regolare e burocratico, tutto in regola. In 11 sono morti a Calais quest’estate. A Calais, dall’altra parte dell’Europa, lontano dal nostro mare. Perché, forse li conosciamo i nomi e le storie e i numeri veri dei naufraghi ingoiati nel Mediterraneo il 28 aprile? La guardia Costiera ha informato ufficialmente che erano 750. "Eravamo almeno 950 e forse anche di più", ci ha raccontato uno dei sopravvissuti che abbiamo incontrato qualche giorno dopo nel centro di accoglienza di Mineo, il famigerato Cara agli ordini dei grassatori di Mafia Capitale, quelli che hanno scoperto che si fanno più soldi con i neri disperati che con la droga. Un incendio, un barcone che si è capovolto, tante teste ricce che sparivano e riapparivano e in un istante sono scomparse per sempre. Qualche giorno prima - 16 aprile - 12 nigeriani e ghanesi gettati in mare perché "cristiani". Uccisi da fondamentalisti musulmani, in acque internazionali, davanti alla Sicilia, a due ore di navigazione dalla salvezza. Due ore in più o due ore in meno, la differenza fra la vita e la morte. L’estate 2015 è cominciata in primavera. Tempo bello, mare piatto. Più il tempo è bello e più il mare è piatto e più noi contiamo morti. Ogni giorno. Il 27 luglio: "Soccorso barcone stipato di migranti: tra i 535 a bordo anche 13 cadaveri". 5 agosto: "Peschereccio si capovolge vicino alla Libia. A bordo 600 persone, 300 in salvo, recuperati 25 cadaveri". 6 agosto: "Proseguono nel Canale di Sicilia, a circa 22 miglia dalle coste della Libia, le operazioni di soccorso dei naufraghi del barcone rovesciatosi con a bordo centinaia di migranti. I cadaveri recuperati sarebbero una trentina". Tutte vite inghiottite durante quella che viene definita "la rotta più letale del mondo", il viaggio dalla città libica di Misurata all’isola di Lampedusa, 224 miglia nautiche, il mare cimitero. Quanti sono? A volte - se meno di dieci o venti - non si guadagnano neanche una "breve" sui giornali. L’assuefazione, l’abitudine alla morte, in dieci o in venti non fanno più clamore e nemmeno destano un po’ di curiosità, è diventata normalità sprofondare negli abissi, è il rischio calcolato del passaggio da un mondo all’altro mondo. Sono diventati così tanti i cadaveri che devono diventare sempre di più per trovare uno spazio in prima pagina, altrimenti basta una foto notizia. Come quella del 15 agosto: "Sono 49 i cadaveri recuperati su un barcone sovraccarico di migranti soccorso dalla Guardia Costiera difronte alla Libia". Il bollettino lo rinnoviamo di giorno in giorno, anche di ora in ora. Come per gli ultimi che se ne sono andati ieri l’altro, 26 agosto, perché non respiravano più, non c’era più aria là sotto dove li avevano ammassati, solo esalazioni di gas, oli di motore. "Tratti in salvo 439, i deceduti 51". Per i secondi della lista sono pronti i container al porto di Palermo. Le loro bare. Chissà se finiranno nei container anche quegli uomini e quelle donne ritrovati in una piazzola di sosta dell’autostrada tra il Burgerland Neusiedl e Parndorf, bare austriache, bare italiane. Si può morire soffocati in una barca o su un camion, in mezzo al mare o su un viadotto, sul fronte più meridionale dell’Europa che è Lampedusa o a pochi chilometri da Vienna. Si muore sempre quando si parte da là e si viene di qua. Rivedere il Trattato di Dublino e il diritto di asilo. Bruxelles cerca una nuova politica di Carlo Lania Il Manifesto, 28 agosto 2015 Settembre potrebbe essere il mese decisivo per l’Unione europea per cambiare rotta sull’immigrazione. "Troveremo il modo di distribuire il carico e le sfide in modo equo" ha detto ieri Angela Merkel, e le parole della cancelliera tedesca più che un invito sono sembrate indicare la nuova direzione da seguire. L’alternativa, per l’Europa, è quella di essere travolta dall’onda sempre più imponente di profughi in arrivo sia dal Mediterraneo che via terra lungo la rotta dei Balcani occidentali. Quattro gli obiettivi principale da raggiungere: ripristinare l’obbligatorietà per i 28 di prendere una quota di richiedenti asilo, principio previsto a maggio dalla Commissione europea ma boicottato dai Paesi del Nord che sono riusciti a imporre la volontarietà; alzare il numero dei profughi siriani ed eritrei da ricollocare (inizialmente 40 mila tra Italia e Grecia, poi scesi a 35 mila) e avviare una discussione che porti a una normativa comune sul diritto di asilo. Ma, soprattutto, arrivare finalmente a una revisione del regolamento di Dublino che oggi obbliga i migranti a stare nel primo paese in cui sbarcano. Una cosa che l’Italia chiede da mesi ma che adesso vuole anche la Germania al punto da averlo già sospeso temporaneamente per i siriani. Seppure ancora labili, le possibilità perché si arrivi finalmente a una svolta ci sono. Oltre a Germania e Italia, sostengono le quattro richieste anche Francia e Grecia, ma non è escluso che si accodi anche l’Ungheria, sotto pressione in questi giorni proprio per il forte flusso di richiedenti asilo alla frontiera con la Serbia. E in futuro, passata la tornata elettorale in cui alcuni Paesi sono impegnati nel prossimo autunno-inverso, l’elenco potrebbe allungarsi. "L’Europa è un continente ricco ed è in grado di affrontare questo problema", ha aggiunto la Merkel A questo blocco di Paesi va poi aggiunta la Commissione europea il cui residente Jean Claude Juncker si è battuto per mettere mano a Dublino e perché i 28 si assumessero quote di profughi. Ieri Juncker ha replicato a quanti accusano la commissione di non aver fatto molto per risolvere la crisi dei migranti: "Alcuni ministri di Stati membri ci criticano per una nostra inattività, Ma sono critiche ingiustificate - ha detto. La colpa va data agli Stati membri, non alla commissione che ha presentato la sua Agenda sull’immigrazione a maggio". Il fatto è che da maggio a oggi è cambiato tutto. La pressione dei profughi alle frontiere europee è sempre più forte e coinvolge sempre più Paesi. Come i sei Paesi del Balcani occidentali, che ieri hanno tenuto a Vienna un vertice al quale hanno partecipato anche Italia, Germania, Austria Croazia e Slovenia nel quale nel quale alla Ue di mettere a punto un piano d’azione in grado di rispondere alla crisi di queste settimane. Rapporto dell’Onu: immigrati e profughi eritrei in fuga da carceri lager di Matteo Indice Il Secolo XIX, 28 agosto 2015 A settembre dell’anno scorso 13 ragazzini ("sette maschi e sei femmine") "vengono abbattuti da militari al confine con il Sudan, nella zona di Karora". Pochi mesi prima "quaranta persone sono uccise a fucilate nel tentativo di raggiungere di nuovo il Sudan: del gruppo sopravvivono, e riescono a scappare, in sei. Un soldato a sua volta rifugiatosi in Etiopia racconta: "Gli alti ufficiali, che agiscono su mandato diretto del presidente, ci hanno dato la facoltà di sparare ai bambini, se si ritiene che stiano tentando di lasciare il Paese". C’è un rapporto dell’Onu che in pochissimi si sono presi la briga di leggere, nelle ultime settimane. Nemmeno quelli che d’immigrati e profughi (stra)parlano spesso, magari perché se ne devono occupare governando città, regioni o partiti. È un dossier di 484 pagine redatto dopo nove mesi d’inchiesta da quattro fra membri e consulenti del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite: Mike Smith (Australia), Victor Dankwa (Ghana), Sheila B. Keetharurth (Isole Mauritius): lo hanno illustrato a Ginevra a fine giugno, ma è finito in fretta nel dimenticatoio. Eppure è la prima indagine ad ampio spettro di un’istituzione internazionale - dopo i tentativi di "Amnesty International" - sulla dittatura in Eritrea, ex colonia italiana dell’Africa orientale da cui proviene la maggioranza di uomini e donne sbarcati nel 2015 sulle nostre coste e talvolta dirottati verso la Liguria. I dati del Viminale aggiornati all’altro ieri parlano chiaro: su 111.354 migranti giunti dal primo gennaio, la gran parte sono eritrei (29.019), poi nigeriani (13.788), somali (8.559), sudanesi (6.745) e siriani (6.324). Nigeria, Somalia, Sudan e Siria sono straziati da guerre civili e terrorismo. L’Eritrea no. Ma allora perché in 5.000 ogni mese fuggono, rischiando d’essere falciati dall’esercito, e consapevoli che "il 25-30%" di quelli che dribblano le pallottole morirà comunque attraversando in Sinai o il Mediterraneo? La risposta è in questo dossier, scritto a valle di 550 interviste a ex carcerieri o vittime del regime del sedicente marxista Isaias Afewerki, l’uomo che ha vinto la guerra d’indipendenza dall’Etiopia nel 1991 e ha progressivamente trasformato la sua nazione in un lager a cielo aperto, con l’economia paralizzata. Dove la leva obbligatoria inizia a 14 anni e ha durata indefinita, le donne-soldato sono sottomesse e violentate dai capi, gli oppositori politici incarcerati e torturati, si commettono "sospetti crimini contro l’umanità"; dove non c’è lavoro, speranza, nulla. E ad attraversarla un po’ si rimane senza fiato perché l’Eritrea è (anche) un rottame d’Italia, con le insegne dei cinema in italiano, i pochi bar che sanno fare il cappuccino e i cannelloni, i camion Iveco vecchi di oltre mezzo secolo ancora in marcia. Gli ispettori Onu spiegano subito che l’Eritrea non ha permesso di entrare. E i colloqui sono avvenuti negli stati dove a migliaia hanno cercato la salvezza (357mila i rifugiati alla primavera scorsa suddivisi fra una decina di nazioni nel mondo, pari al 10% della popolazione residente) oppure "in segreto", fra chi è rimasto, grazie a intermediari. Il governo Afewerki, che pure mantiene buoni rapporti con Roma e varie aziende italiane, è definito un "regime della paura": non ci sono mai state elezioni, nel ‘97 doveva essere promulgata una costituzione ma non è accaduto, i ministri svolgono un ruolo poco più che simbolico e il vero potere è detenuto dai generali che riferiscono direttamente al capo dello Stato. La sicurezza interna è un’ossessione; ma mentre a polizia ed esercito è delegata la bassa manovalanza, e i soldati sono ammassati al confine con l’Etiopia nel delirante timore d’una nuova guerra che non ci sarà mai, lo "strapotere" è del National Security Office, squadra politica dentro cui sono nate le forze speciali Unit 72, alle quali è concesso tutto. Vige "una legge di fatto", i giudici sono confinati "a mansioni burocratiche" ed è stata creata una Special Court "che include in prevalenza militari e non persone esperte di diritto". Avvengono "omicidi extragiudiziali", gli arresti "sono spesso arbitrari e non comunicati ai familiari", basati sul semplice sospetto di dissidenza. Il sistema di spionaggio è "capillare". E poiché la scarsità di fondi e tecnologia inibisce parecchio le intercettazioni, si arruolano miglia di adolescenti che origliano e pedinano. Nessuno rifiuta di fare la spia, "altrimenti si può essere arrestati, torturati o uccisi. Tutti controllano tutti - precisano quindi Smith, Dankwa e Keetaruth, citando letteralmente decine di resoconti personali: nelle famiglie i figli non si fidano dei padri o dei fratelli". Sono censite 95 prigioni, "dove condizioni igieniche spaventose possono portare a malattie di lunga durata o alla morte". Si è detenuti perlopiù "in dieci o venti nei container all’aperto o interrati". Due le forme di tortura praticate per estorcere informazioni o confessioni false: "L’incaprettamento e la "posizione dell’elicottero". "Ho visto un mio commilitone -racconta un soldato poi riparato all’estero - cui sono state scuoiate le mani poiché aveva tentato di andarsene. Lo hanno mostrato al resto della truppa con un cartello appeso al collo: "Io ho provato a scappare". Ed è proprio per questo che lo fanno comunque. Basterebbe studiare un po’, per comprenderlo, anziché parlare a vanvera di storie e posti che non si conoscono. Stati Uniti: il presidente Obama "la libera vendita delle armi uccide più del terrorismo" di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 28 agosto 2015 Il padre della reporter freddata: l’America dica sì ai controlli. Walmart: non venderemo più fucili d’assalto. "Quante persone come mia figlia devono ancora morire prima che si faccia qualcosa?", si chiede, mentre lacrime di dolore gli sgorgano dagli occhi, Andy Parker il giorno dopo che Vester Lee Flanagan gli ha portato via Alison uccidendo lei, giornalista 24enne, e il cameraman Adam Ward di 27 anni a colpi di pistola, mentre facevano una diretta tv da Moneta (Virginia). Sono sempre di più, ma non ancora abbastanza, coloro che negli Stati Uniti vogliono una legge più restrittiva sulla diffusione delle armi. "L’America farà finalmente qualcosa per fermare la nostra carneficina alimentata dalle armi?", domanda il Washington Post in un editoriale. "Tragedie come questa ci ricordano con quale facilità e brutale efficienza queste armi entrano nel business degli omicidi", scrive il quotidiano esortando la Casa Bianca e i singoli Stati ad agire perché "ogni governo razionale le regolamenterebbe con accuratezza. Invece, i nostri leader hanno rinunciato a mettere mano alle più palesi carenze nei controlli". Intanto il colosso della distribuzione Walmart, 4.600 supermercati in tutto il Paese, un terzo dei quali accanto alla saponette e ai pannolini vende armi che fanno impressione solo a guardarle, annuncia che fermerà le vendite dell’ AR-15 e di altre copie di fucili d’assalto. Prima, però, dovrà smaltire le corpose scorte nei suoi magazzini. Uno stop, ci tiene a precisare Walmart, forse per non urtare la suscettibilità delle potenti lobby delle armi, che è collegato al calo delle vendite e che, per carità, non ha nulla a che vedere con le stragi folli che continuano a ripetersi negli Usa e che vengono programmate ed eseguite con sistematica freddezza da individui armati. A giugno, dopo la strage di Charleston, dove Dylann Roof, un ragazzo di 21 anni che odiava gli afroamericani uccise nove persone nella più antica chiesa metodista degli Usa con la pistola che il padre gli aveva regalato al compleanno, Barack Obama tornò per l’ennesima volta a chiedere all’America di fare i conti con se stessa e con l’eccessiva facilità con cui le armi possono circolare sul suo territorio. "Prima o poi dovremo renderci conto come nazione che questo tipo di violenza di massa è ignota agli altri Paesi avanzati", disse. Mercoledì, al 15esimo intervento che è stato costretto a fare dopo una strage accaduta durante la sua presidenza, cerca di far ragionare ancora una volta i suoi connazionali, tanto attenti alla minaccia terroristica: "Ho dovuto fare troppe volte dichiarazioni come questa e troppe volte comunità come questa (Roanoke, sede in Virginia della tv Wdbj7, ndr ) hanno dovuto sopportare tragedie come questa", ma "ciò che sappiamo è che il numero delle persone che muoiono per delitti legati alle armi in questo Paese surclassa quelle uccise dal terrorismo", ammonisce poco dopo che il suo portavoce Josh Earnest, facendo le condoglianze ai familiari delle vittime, aveva detto che è urgente che "il Congresso approvi una stretta sulle armi". Nel momento in cui colleghi, amici e cittadini di Roanoke commemorano i giovani assassinati, Andy Parker, 62 anni, promette: "Non mi fermerò mai, per rendere difficile che possa procurarsi un’arma gente come l’assassino di mia figlia". Iraq: evasione dal carcere di Mosul, 447 prigionieri scappano dallo Stato islamico Nova, 28 agosto 2015 Un’evasione di massa è avvenuta nel carcere di Mosul, capoluogo della provincia settentrionale irachena di Ninive caduto nel giugno 2014 nelle mani dello Stato islamico (Is). Secondo quanto riferito ad "Agenzia Nova" da fonti locali, circa 450 prigionieri sono fuggiti dalle prigioni allestite dai jihaidisti nel campus dell’Università di Mosul. Secondo le prime ricostruzioni, i prigionieri avrebbero aperto le serrature dall’interno corrompendo alcune guardie. Tra le persone fuggite ci sarebbero diversi curdi e yazidi. I miliziani fedeli all’autoproclamato califfo Abu Bakr al Baghdadi avrebbero istituito numerosi posti di blocco per catturare i fuggiaschi, dichiarando lo stato di allerta. La situazione per le strade sarebbe molto tesa e l’organizzazione terroristica avrebbe arrestato decine di persone accusate di complicità nell’evasione. Dopo l’ingresso a Mosul, lo Stato islamico ha imposto una costituzione in 16 punti che, tra le altre cose, prevede l’espulsione di tutti i non sunniti che non facciano pubblica conversione. Vi sarebbero nella zona diverse fosse comuni accertate nella città, mentre centinaia di cadaveri non consegnati alle famiglie sarebbero ancora negli obitori. Secondo uha Abduikareem Abed Oda, giornalista e attivista irachena per i diritti umani di Mosul, membro dell’Iraqi Women Journalist Forum, l’intera popolazione della città di Mosul è ostaggio dei jihadisti fedeli all’autoproclamato califfo. A Mosul hanno da sempre convissuto sunniti, sciiti, cristiani, yazidi e turcomanni. L’arrivo dei jihadisti ha comportato la distruzione di importanti reperti archeologici presenti in città e di buona parte delle moschee sufi e di quelle che contenevano le tombe dei pii e dei profeti dell’Islam, come la moschea del profeta Younes, del profeta Shit e di Jarjis. Sono più di 25, quasi tutte sunnite, le moschee distrutte a Mosul dai jihadisti, fatte saltare in aria per cancellare la loro storia. Alcune di queste erano moschee storiche costruite più di 800 anni fa. Sono quasi tremila le moschee presenti nella provincia di Ninive, 935 solo a Mosul, ma al Baghdadi ha voluto colpire quelle che avevano maggiore significato storico e spirituale. Ad un anno di distanza dalla presa di Mosul da parte dello Stato islamico, avvenuta il 10 giugno del 2014, la situazione in Iraq non sembra migliorata sul fronte della sicurezza. Nonostante l’offensiva dell’esercito iracheno, la discesa in campo delle milizie sciite e l’intervento degli Stati Uniti con una Coalizione internazionale per la lotta al terrorismo, impegnata in quotidiani raid aerei, i seguaci dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al Baghdadi sono riusciti giorno dopo giorno a strappare sempre più terreno, arrivando a controllare circa il 40 per cento del paese. Iran: il ministero degli Esteri chiede rilascio di 19 cittadini iraniani detenuti negli Usa Il Foglio, 28 agosto 2015 L’accordo nucleare con l’Iran non è ancora stato ratificato dal Congresso americano e nessuna sua clausola è entrata in vigore, ma già Teheran inizia a mostrare che tipo di rapporti ispireranno l’accordo. Mercoledì il ministero degli Esteri di Teheran ha chiesto agli Stati Uniti il rilascio di 19 cittadini iraniani detenuti per quelle che il regime descrive come accuse infondate di aver violato le sanzioni. La dichiarazione pubblica è notevole non solo perché fornisce nuove informazioni (finora non si sapeva quanti fossero gli iraniani detenuti in America, né quali fossero le loro accuse), ma soprattutto perché Teheran avanza la sua richiesta dopo aver ignorato per mesi i tentativi di Washington di liberare i tre cittadini americani di origini iraniane prigionieri del regime degli ayatollah per ragioni che, queste sì, appaiono squisitamente politiche. Obama inizia la caccia casa per casa ai voti per l’accordo con l’Iran Sull’Iran i falchi di sinistra si gettano contro la politica liberal della speranza, il poster impolverato di Obama Tra questi c’è Jason Rezaian, giornalista del Washington Post arrestato 13 mesi fa con l’accusa di spionaggio. Il suo processo si è concluso il 10 agosto e la condanna potrebbe ammontare a 20 anni di prigione. Il Washington Post, molte associazioni per i diritti umani e la stessa Amministrazione americana hanno sostenuto l’innocenza del giornalista. Il tentativo di liberare Rezaian e gli altri due americani di origini iraniane detenuti, il veterano dei marine Amir Hekmati e il pastore cristiano Saeed Abedini (c’è inoltre Robert Levinson, ex agente Fbi disperso in Iran fin dal 2007), è stato uno dei corollari della trattativa con l’Iran per tutta la durata dei negoziati, e il non aver ottenuto risultati è stato visto come un segno ulteriore di cedevolezza da parte dell’Amministrazione Obama. È anche un presagio negativo per la politica della mano tesa del presidente. Gli ayatollah già vogliono prendersi il braccio.