Qualcuno mi può spiegare se c’è un modo per non essere marchiato come "cattivo per sempre"? di Tommaso Romeo Ristretti Orizzonti, 27 agosto 2015 Riflessioni per il Tavolo 2 degli Stati Generali sull’esecuzione della pena. Un mio compagno di detenzione un paio di anni fa mi ha detto: "Tommaso saremo più sereni e soddisfatti se ci facciamo la galera come al 41bis: aria, cella e nessun tipo di dialogo con le istituzioni", perché era certo che alle istituzioni non gli interessa niente del nostro percorso di reinserimento. Preciso che quel mio compagno si riferiva a tutti quei detenuti condannati per 416bis e in particolare a chi era stato sottoposto al regime del 41bis e oggi si trova in Alta Sicurezza 1. Quando ho deciso di impegnare il mio tempo in modo diverso, anche perché l’istituto di Padova a differenza degli altri istituti di pena dava la possibilità anche ai detenuti della sezione AS1 di partecipare ad alcune attività, ho scelto di frequentare la redazione di Ristretti Orizzonti. Due anni di questo mio nuovo modo di farmi il carcere mi hanno dato molte soddisfazioni, in particolare gli incontri con gli studenti delle scuole del Veneto. Questa mia soddisfazione la trasmetto a chi mi sta vicino, in particolare alle mie figlie, in questi due anni la mia mente rimane impegnata in discorsi costruttivi. Arrivo a convincermi di aver smentito il pensiero di quel mio compagno, anche se mia madre ogni tanto mi avvertiva "non illudere le tue figlie". Oggi però sto ancora aspettando una decisione sulla mia richiesta di declassificazione, e ho il timore che arrivi un rigetto della mia istanza che, oltre a riportarmi alla carcerazione vecchia maniera cioè "all’ozio forzato", mi riporterebbe all’amara realtà che chi amministra la giustizia non è interessato al mio percorso di rinserimento. Eppure in questi due anni ho incontrato sia detenuti di media sicurezza, che persone non detenute come studenti, giornalisti, magistrati, ho partecipato a più convegni con centinaia di persone della società esterna, all’ultimo "La Rabbia e la Pazienza" sono anche intervenuto, e mai la mia presunta pericolosità si è manifestata. Ma tutto questo temo che non basti, preciso che con la mia istanza di declassificazione non ho chiesto di varcare il portone del carcere, ma solamente di stare in una sezione di media sicurezza perché solo così potrei continuare il percorso che ho intrapreso. Questi due anni a Ristretti Orizzonti sono stati belli e costruttivi. Ma questa sarà forse l’ultima illusione che prenderò nella mia carcerazione, perché oggi rischio di dover dare ragione a quel mio compagno che credevo scettico, ma invece forse è solo realista, se davvero succederà che i miei ventitré anni di carcere nei regimi e circuiti speciali non basteranno a farmi finalmente andare in una sezione un po’ più aperta, perché vorrà dire che per le istituzioni sarò "Cattivo e Pericoloso per tutta la vita". Giustizia: cambiamo le norme sull’isolamento, è favorevole anche il Dap di Emilio Quintieri (Radicali Italiani) Il Garantista, 27 agosto 2015 Oggi l’esclusione dalle attività in comune, comminabile alle persone detenute ed internate, anche a quelle sottoposte a custodia cautelare, per non più di 15 giorni, è sanzione disciplinare dal contenuto eminentemente afflittivo. Bisogna introdurre l’obbligo per l’Amministrazione Penitenziaria di interrompere, per almeno 5 giorni, l’esecuzione di plurimi provvedimenti applicativi della sanzione disciplinare dell’esclusione dalle attività in comune laddove questi eccedano la durata prevista dall’articolo 39 c. 1, n. 5, della Legge n. 354/1975, nonché la riduzione a 14 giorni, rispetto agli attuali 15, del limite massimo di durata dell’esclusione in conformità alle Raccomandazioni del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura ed in particolare in quelle contenute nel 21° Rapporto Generale. Lo prevede l’emendamento 30.158 al Ddl 2798-A, attualmente all’esame dell’Assemblea di Montecitorio, presentato da Enza Bruno Bossio, Deputata calabrese del Pd, cofirmato anche dalla collega bergamasca Elda Pia Locatelli del Psi, entrambe aderenti anche ai Radicali. Favorevole alla proposta anche il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) che nel frattempo, in assenza di disposizioni legislative o regolamentari e dimostrando sensibilità nei confronti di tale problematica, ha emanato una lettera circolare con cui ha voluto adottare "un’interpretazione particolarmente attenta alla tutela della integrità psico-fisica del detenuto". Oggi l’esclusione dalle attività in comune, comminabile alle persone detenute ed internate, anche a quelle sottoposte a custodia cautelare, per non più di 15 giorni, è sanzione disciplinare dal contenuto eminentemente afflittivo perché implica l’isolamento continuo diurno e notturno. Proprio tale profilo di particolare penosità giustifica l’attuale assetto normativo dell’istituto, coerentemente circondato da una serie di cautele, a partire dalla necessità d’un costante controllo sanitario fino alla previsione di opportune ipotesi di sospensione della misura sanzionatoria. Il quadro normativo non disciplina, in modo esplicito, una ipotesi da non sottovalutare che è quella in cui una persona detenuta sia destinataria di plurimi provvedimenti disciplinari per un periodo eccedente i 15 giorni. Spesso, tali sanzioni, sono state applicate senza soluzione di continuità nonostante la giurisprudenza di legittimità, come spiega Alessandro Albano, Funzionario dell’Ufficio Studi e Ricerche del Dap, abbia fornito risposta negativa. Invero, la Cassazione, chiamata a pronunciarsi in merito, ha ritenuto "indiscusso che la misura dell’esclusione dalle attività in comune è sottoposta al limite temporale di quindici giorni ed al controllo sanitario e che non è consentita l’applicazione continuata di detto tipo di sanzione, anche con soluzioni di continuità minime, come quella di un giorno, poiché così operando si verrebbe a configurare un’aperta violazione del principio costituzionale che vieta trattamenti contrari al senso di umanità". Tale principio di diritto, si inserisce perfettamente nel solco di quanto affermato dal Cpt nel suo 21° Rapporto Generale. Secondo la circolare del Dap, nel caso di più provvedimenti san- zionatori che comportino, per la stessa persona, "la sottoposizione ad isolamento per un numero di giorni superiore ai quindici", tale limite "va considerato inderogabile e, quindi, le Direzioni Penitenziarie non daranno esecuzione continuativa alle sanzioni in argomento ove il cumulo di queste sia superiore a quindici giorni". Ciò non significa che il detenuto responsabile di gravi illeciti disciplinari non debba espiare, per intero, le sanzioni che, legittimamente e doverosamente, gli sono state inflitte. "Si deve, però, avere cura, allo scadere del quindicesimo giorno, di interrompere l’esecuzione di plurime sanzioni - e, dunque, dell’isolamento - per almeno cinque giorni. Soltanto all’esito di tale interruzione potrà applicarsi un ulteriore periodo di esclusione dalle attività in comune, sempre nel limite di durata di quindici giorni e, naturalmente, previa nuova acquisizione della certificazione medica ai sensi dell’Art. 39, comma 2, O.P". Proprio sulla questione dell’isolamento, la Bruno Bossio, all’esito della famigerata ispezione al Carcere di Rossano in Calabria, con una interrogazione aveva invitato il Governo ad assumere dei provvedimenti per assicurare che i detenuti venissero isolati soltanto in "circostanze eccezionali" e, comunque, nei soli casi tassativi stabiliti dal legislatore chiedendo, altresì, che venissero emanate delle direttive soprattutto per quanto concerneva l’esecuzione della sanzione. In numerosi Stati membri del Consiglio d’Europa, com’è noto, la tendenza va verso una riduzione della durata massima possibile dell’isolamento per motivi disciplinari. Il Cpt nel Rapporto del 2011 riteneva che "tale durata massima non dovrebbe eccedere 14 giorni per una particolare infrazione, e dovrebbe essere preferibilmente più breve ed inoltre si dovrebbe vietare d’imporre sanzioni disciplinari successive risultanti in un periodo d’isolamento ininterrotto che vada al di là di tale durata massima". All’epoca, il Prof. Latif Hùseynov, Presidente del Cpt, dichiarò che "l’isolamento può avere effetti estremamente dannosi per la salute psichica, somatica e per il benessere sociale dei detenuti, e tali effetti possono aumentare proporzionalmente al prolungamento della misura e alla sua durata indeterminata. Un indicatore è rappresentato dal fatto che il tasso dei suicidi dei detenuti sottoposti a tale regime è più elevato rispetto a quello riscontrato nel resto della popolazione carceraria". La pratica dell’isolamento carcerario venne definita dal Prof. Juan E. Mendez, Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla Tortura durante la Terza Commissione dell’Assemblea Generale Onu del 2011, molto simile alla tortura e proprio per questi motivi venne chiesto a tutti i Paesi membri di mettere al bando la pratica della detenzione in isolamento e, al massimo, di utilizzarla solo in "circostanze eccezionali" per una durata di tempo molto limitata e, comunque, mai nel caso di giovani e persone con problemi mentali. Presentando il suo primo rapporto su tale pratica, il Prof. Mendez, evidenziò come la detenzione in isolamento indefinita o a tempo prolungato e comunque superiore ai 15 giorni avrebbe dovuto "essere soggetta a un’assoluta proibizione", dal momento che molti studi scientifici hanno dimostrato che anche pochi giorni di isolamento sociale sono in grado di causare danni cerebrali permanenti, sottolineando come tale pratica sia contraria al principio di riabilitazione che è lo scopo finale dell’intero sistema penitenziario internazionale. Per queste ragioni, le Deputate "Radicali", hanno inteso proporre al Governo di "normativizzare" questo importante principio, raccomandato dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura ed affermato anche dalla Cassazione, che allo stato trova concreta applicazione solo grazie ad una recente circolare amministrativa. Giustizia: Legnini "regolare le intercettazioni e punire chi diffonde quelle irrilevanti" di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 27 agosto 2015 Fisco, sì. Ma è sulla giustizia che l’autunno politico si preannuncia rovente. Dopo le indiscrezioni estive di trattative su intercettazioni e riforma del Csm usate come arma di scambio. Giovanni Legnini, da vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, accetta di parlare con il Corriere di quello che ci attende. Con qualche sorpresa: una stretta in arrivo per i magistrati che entrano in politica e poi vogliono tornare indietro. Qualche anticipazione: a settembre ci sarà il primo incontro con il governo sulla riforma del Csm. E un appello: il tempo e maturo per la legge sulle intercettazioni. Abbiamo capito bene, si va verso lo stop al rientro dalla politica ai Tribunali? "Tutti chiedono la riforma del Csm, noi, con l’utilizzo delle nostre prerogative, l’abbiamo già iniziata. Ad esempio, nella riforma approvata a luglio, si provvede a "sterilizzare" il periodo di esercizio di funzioni politiche da parte dei magistrati ai fini della maturazione dei requisiti per gli incarichi direttivi e semi-direttivi". E dunque? "Se scegli di fare politica non farai più o sarà molto più complicato fare carriera nella magistratura. Ma ora ritengo che si possa fare un ulteriore passo avanti. Proporre al legislatore un intervento che, tenendo conto dei vincoli costituzionali, non consenta a chi ha scelto di fare politica di tornare indietro. Spero che l’intero Consiglio discuta e faccia propria questa proposta, sarebbe un segnale nel rapporto politica-magistratura". Pensa a qualcuno in particolare? "Nessuna ostilità nei confronti della scelta di alcuni magistrati di fare politica, anzi, ritengo che proprio dalla magistratura sono arrivate alcune tra le migliori espressioni del Parlamento e anche di esperienze di governo. Chi però ha scelto l’appartenenza politica, c’è il rischio concreto che non riesca più a garantire imparzialità e terzietà. E quindi è bene che non rientri". Il primo scoglio sarà il ddl delega sulle intercettazioni. Prima l’avvio difficile, ora le voci di uno scambio sulla riforma del Senato. "Mi auguro che la materia non diventi oggetto di scambio, ma venga trattata in modo organico ed incisivo". Ma il testo in discussione la convince? "Penso da tempo che un intervento normativo sia necessario. È giunto il momento. Il Csm ha già espresso un parere sulla delega del governo. I punti fermi sono: no a limitazioni nell’utilizzo delle intercettazioni a fini di indagine; no a limitazioni del diritto di cronaca; sì ad una disciplina più rigorosa sull’obbligo di stralcio e distruzione degli ascolti irrilevanti ai fini di indagine, prevedendo precise responsabilità e sanzioni per chi le diffonde illecitamente. Si tratta di garantire il bilanciamento di tutti gli interessi in gioco, compreso il diritto alla riservatezza". La politica torna a lamentare l’invasione di campo della giurisdizione. "Se la politica ritiene eccessiva l’estensione della giurisdizione nella vita delle persone e nel funzionamento del mercato e dell’economia, deve farsi carico della scarsa qualità o della carenza che caratterizza da molti anni la produzione legislativa. La legge non riesce più a contenere e regolare con completezza e precisione i fatti generati dalla velocità dei cambiamenti, a volte epocali. Il rimedio è solo nel miglioramento della qualità delle leggi". Cambierete voi il Csm o lo cambierà il governo? "Noi stiamo già cambiando il Csm con un ampie riforme interne e con il lavoro quotidiano. Inoltre nel plenum dell’8 giugno, alla presenza del capo dello Stato e del ministro della Giustizia, abbiamo assunto l’impegno ad elaborare per l’autunno una proposta". E ora? Ai primi di settembre ci sarà un incontro con il gruppo di lavoro messo su dal ministro Orlando, per definire i tempi di elaborazione delle proposte. Il governo avrà la sua, noi formuleremo la nostra". Cosa risponde alle critiche sui criteri di nomina dei capi degli uffici? "Sono convinto che con la riforma che abbiamo approvato le ragioni delle critiche sono state superate. Abbiamo approvato una buona riforma che consentirà di evitare così decisioni arbitrarie o corrispondenti solo a criteri correntizi". Basterà per ottenere una giustizia migliore? "Come dice il presidente emerito Zagrebelsky "La giustizia non è solo questione di codici e di procedure. È anche, anzi molto di più, questione di giudici e di ethos". Ecco, nel nostro cammino vorremmo contribuire a cambiare e migliorare la giustizia italiana cercando di ispirarci a questa indubbia verità". Giustizia: al Meeting di Rimini protagonista il "bene" che nasce nel carcere di Padova padova24ore.it, 27 agosto 2015 Si è visto un po’ dappertutto in questi giorni nella Fiera di Rimini il pieghevole del consorzio padovano Officina Giotto, diffuso in oltre ventimila copie in tutti i più importanti incontri della rassegna. Conteneva un messaggio "double face": "Da Padova a Rimini" e "Da Rimini a Padova". "Due slogan", spiega il presidente Nicola Boscoletto, che ieri ha partecipato alla rassegna riminese assieme a cinquanta operatori del consorzio, di cui 15 detenuti, "che sintetizza una storia ormai di dieci anni tra il mondo del carcere e il Meeting. Non c’è edizione in cui la manifestazione non abbia messo sotto i riflettori il tema della detenzione, sia con la proposta di testimonianze, sia con dibattiti sugli aspetti anche spinosi della condizione dei carcerati in Italia". Esemplare la grande mostra "Libertà va cercando, ch’è sì cara - Vigilando redimere" del 2008 con testimonianze di umanità dalle carceri di tutto il mondo. Ieri la variopinta delegazione padovana ha anzitutto incontrato, come avviene ogni anno, detenuti ed ex detenuti di altri carceri italiane come pure operatori, agenti di polizia penitenziaria, assistenti sociali, educatori, cappellani e magistrati. Insieme hanno partecipato in mattinata a un incontro molto singolare, dal titolo "Misericordia ed esperienza del perdono. Ricostruire un mondo nuovo". Protagonisti due persone che hanno vissuto storie terribili di sequestri di persona: il banchiere German García-Velutini, attualmente presidente del Banco Venezolano de Crédito, rimasto undici mesi in balia di una banda criminale a tutt’oggi impunita e Oliverio González, imprenditore messicano che ha avuto il padre sequestrato, torturato e ucciso. Due storie di disumanità agghiacciante, ma anche di ripresa e di perdono, che sono state raccontate dai diretti protagonisti in una sorta di anteprima del Meeting sabato 22 agosto anche nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Un incontro a viso aperto tra chi il reato lo ha subito e chi lo ha commesso. García Velutini lo ha riferito poi alla platea riminese: "Non avevo mai avuto davanti a viso aperto un sequestratore", ha raccontato alla folta platea riminese, "e quando a Padova un detenuto per sequestro e omicidio mi ha chiesto cosa avrei voluto per perdonare uno come lui, gli ho risposto che il perdono bisogna chiederlo partendo dal cuore. E lì ho capito che avevo perdonato i miei sequestratori". Anche il pranzo nel ristorante romagnolo della Fiera ha riservato una sorpresa ai padovani. A tavola insieme con loro c’era infatti un gruppo di amici da Buenos Aires guidati da padre Carlos "Charly" Olivero, sacerdote della parrocchia della Virgen de los Milagros de Caacupé nella villa 21-24 a Buenos Aires. Un prete delle baracche, giovanissimo peraltro, ordinato dall’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio. "È stato l’incontro tra due periferie", commenta Boscoletto, "le villas miserias argentine e il carcere. Padre Charly era desideroso di conoscere la nostra esperienza di lavoro in carcere, ci ha fatto molte domande sulla nostra storia e la fisionomia attuale anche concreta della nostra presenza nella casa di reclusione". D’altra parte il Meeting da qualche anno è diventato occasione di confronto tra esperienze dalle carceri di tutta Italia, ma anche e soprattutto da altri paesi del mondo. "Conoscere, confrontarsi con esperienze diffuse un po’ in tutto il mondo", conferma anche Boscoletto, "aiuta a capire meglio anche la propria e a correggersi e migliorarsi". Il gruppo dei padovani per approfondire il tema del Meeting 2015 ("Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?") ha poi visitato le mostre "Abramo. La nascita dell’io" e "Per me vivere è Cristo. Metropolita Antonij" e poi alle 18.30 nello stand della Compagnia delle Opere assieme a una cooperativa sociale friulana ha presentato la propria attività in carcere. La giornata di ieri a Rimini però è stata contrassegnata soprattutto dalla presenza del presidente del Consiglio Matteo Renzi, una visita che si è in qualche modo intersecata con quella della delegazione padovana. Intorno alle 12 infatti per circa un’ora, prima di tenere il suo discorso, il premier ha incontrato esponenti del mondo delle istituzioni e dell’economia, tra i quali era presente anche il presidente Giotto Boscoletto. "È stato un dialogo approfondito, gli abbiamo sottoposto le principali problematiche che il sistema carcere sta attraversando dall’insediamento del suo governo fino ad oggi, in particolare per quanto riguarda il tema del lavoro penitenziario all’interno e all’esterno delle carceri. Il premier ha ascoltato con attenzione, dimostrando di conoscere bene il tema del carcere fin da quando era sindaco di Firenze. Mi è sembrato un esempio positivo di quanto poi da lui affermato durante l’intervento pubblico, cioè che fa parte dello stile del governo ascoltare le realtà sociali e le esperienze positive e che quando qualcuno dimostra di lavorare con buoni risultati nella e per la società, la politica deve fare di tutto per togliere gli ostacoli e moltiplicare queste esperienze per il bene di tutti". Si torna quindi a Padova grati, non solo per le parole del presidente Renzi, "ma per l’intera giornata passata al Meeting. Una gratitudine che ho visto in tutti i ragazzi, soprattutto quelli che erano qui per la prima volta. Il Meeting è un’esperienza che stupisce ed edifica facendoci tornare a casa carichi di fiducia e di speranza". Giustizia: Giubileo e Mafia Capitale in Cdm, super poteri a Gabrielli di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 agosto 2015 Il prefetto supervisore dell’Anno santo, malgrado la figuraccia dei funerali di Vittorio Casamonica. Ridefinizione del piano di ammortamento e nuovo commissario governativo del debito. Potrebbe essere l’ex assessora al Bilancio, Silvia Scozzese, il nuovo commissario governativo per la gestione del debito pregresso del comune di Roma che sarà nominato questa mattina dal Consiglio dei ministri, insieme alla governance del Giubileo e a un pacchetto di interventi ad hoc richiesto dalla stessa giunta di Marino. Ma nelle mani dei ministri questa mattina arriverà anche la relazione su Mafia Capitale di Angelino Alfano. Secondo i rumors, il titolare del Viminale si limiterà a proporre all’esecutivo di commissariare un paio di municipi (il VI e Ostia, in pole position) e alcuni dipartimenti del Campidoglio (Patrimonio, Lavori pubblici, Ambiente, quelli più "attenzionati"). Poteri speciali in tema di sicurezza andranno comunque al prefetto Gabrielli - malgrado la bufera mediatica per i funerali di Vittorio Casamonica - che coordinerà anche la cabina di regia del Giubileo. Una supervisione speciale sugli appalti sarà affidata al presidente dell’Anac, Raffaele Cantone. Ma anche il sindaco Marino dovrebbe ricevere poteri di ordinanza su trasporti e ambiente. Particolarmente necessaria e urgente è poi la nomina del nuovo commissario governativo per la gestione del debito di Roma, per poter concludere in tempo le 48 opere giubilari elencate nella delibera approvata dalla giunta il 13 agosto scorso. Il governo infatti non erogherà finanziamenti speciali: i fondi necessari dovranno essere attinti dalle stesse risorse del Campidoglio. Con due escamotage: la ridefinizione dell’ammortamento del debito e ulteriori deroghe al patto di stabilità, come già avvenuto per i 50 milioni appena sbloccati. Proprio per agevolare questo tipo di lavoro, la giunta convocata stamattina alle 9,30 ritoccherà la delibera, approvando un "piano integrato" come richiesto dal sottosegretario De Vincenti nell’incontro avuto con il vicesindaco Marco Causi che ieri si è confrontato anche con il ministro alle Infrastrutture Delrio. "Siamo al limite dei tempi - ha spiegato l’assessore alla Legalità, Sabella - Abbiamo una serie di progetti esecutivi già pronti per andare in gara ma abbiamo bisogno di termini più ridotti". Il "rischio Expo" non esiste, secondo Sabella, "perché Roma da gennaio in poi si è dotata di meccanismi di trasparenza senza precedenti, più di ogni altra città di Italia". Giustizia: il caporalato e i nuovi schiavi, pagati un euro ogni quintale di pomodori raccolti di Carlo Vulpio La Stampa, 27 agosto 2015 Lavorare in nero, cioè senza uno straccio di contratto, o in grigio, con un contratto finto, da cui risulti un salario doppio o triplo di quello reale è una pratica molto ben collaudata nei grandi lavori stagionali agricoli. Specialmente nel Sud Italia. Nelle campagne questo sfruttamento grigio-nero è molto più "nero" che grigio. Per il colore della pelle della maggioranza dei lavoratori. Per la fatica bestiale che richiede, non meno di 10-12 ore sotto il sole cocente, con paga "a cottimo", 3 euro per ogni cassone di 3 quintali di pomodori. Per gli abusi d’ogni tipo sulle persone, che nei confronti delle donne sono ovviamente abusi sessuali. Per il taglieggiamento continuo sui lavoratori: la percentuale di 50 centesimi per ogni cassone di pomodori; il "biglietto" di 5 euro a cranio per il trasporto sul luogo di lavoro, stipati anche in quindici in furgoni e in utilitarie; il "contributo" di un euro su ogni bottiglia di acqua per dissetarsi. Secondo i dati dell’Unar, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, 15 province italiane assorbono il 50,6 per cento della manodopera agricola straniera e, tra queste, la provincia di Foggia è al primo posto, con il 6,4 per cento. Il Tavoliere è dunque soltanto il picco più alto di questo infinito dramma, che nonostante i proclami è l’unica "filiera" agricola che funzioni davvero. Una "filiera" in cui vengono triturati non solo i neri africani concentrati in ghetti come quello di Rignano Garganico, che è solo il più grande e il più mediaticamente efficace, ma anche i bianchi europei della ex Europa dell’Est - romeni e bulgari su tutti, che fanno i "pendolari" e terminata la stagione "da neri" tornano in patria, con qualche euro e molte umiliazioni in più. L’emergenza quindi è stabile, endemica, aggravata dall’aumento di offerta di manodopera dovuta ai sempre più numerosi arrivi di clandestini e di rifugiati richiedenti asilo in cerca di lavoro. Tutto questo è manna per i "caporali" e per la grande distribuzione agroalimentare. Anche per i produttori, certo, ma questi, se non sono latifondisti, sono in qualche modo anch’essi vittime della "filiera", perché i prezzi del prodotto li fa la distribuzione, e il produttore, "per stare nei costi", si risolve a impiegare la manodopera arruolata dai caporali. Non solo. C’è poi la burocrazia, che spesso e volentieri, per concedere agli immigrati il permesso di soggiorno si ostina a chiedere loro "la residenza" (che non c’entra nulla), così da alimentare tutta una compagnia di giro - composta da avvocati, consulenti, cooperative di servizi vari - che procaccia e vende contratti di affitto e documenti di varia natura che gli immigrati comprano per non diventare "fuorilegge". E così un altro giro di giostra ricomincia. Fino al prossimo "caso umano", alla "scoperta" del prossimo ghetto, alla solenne istituzione del prossimo "Tavolo istituzionale interforze permanente contro l’illegalità e il lavoro nero" (nientedimeno). Ma strutture da campo mobili e temporanee per i lavoratori stagionali, con permesso di soggiorno e garanzia del diritto alla salute, con costi di residenza e trasporto anche a carico della grande distribuzione e delle organizzazioni dei produttori, no? Una cosa del genere, la fece Jacob Fugger ad Augusta, nel 1516. Non era Mao Zedong, ma uno dei più grandi capitalisti dell’età moderna. Giustizia: giallo nelle campagne del Gargano, si ricerca il corpo di un bracciante morto di Gianmario Leone Il Manifesto, 27 agosto 2015 Lo hanno cercato invano per settimane negli ospedali del Gargano. Di lui si conoscono il paese di origine, il Mali, e il luogo in cui lavorava: le campagne di Rignano Garganico in provincia di Foggia. Nessuno pare l’abbia più visto, questo bracciante di trent’anni, uno dei tanti stagionali per la raccolta dei pomodori nei campi della Capitanata. Viveva in una baracca vicino alle campagne dove lavorava. Un "giallo" sul quale la Flai-Cgil Puglia vuole vederci chiaro. Per questo Yvan Sagnet, coordinatore del Dipartimento immigrazione del sindacato, ha deciso di uscire allo scoperto: "Il cadavere non si trova negli obitori né di San Giovanni Rotondo né di Foggia. È probabile sia stato sepolto dai caporali nel ghetto oppure nascosto. Stiamo cercando di conoscere il nome per far partire una denuncia di occultamento di cadavere. Purtroppo è difficile avere informazioni poiché i caporali hanno spaventato a morte i lavoratori che, anche se parlano dell’episodio, hanno paura a dire il nome e il giorno preciso del decesso". L’uomo sarebbe morto cadendo in uno dei 57 cassoni di verdura raccolti dai braccianti. Dunque, qualcosa è successo. I membri della Rete Campagne in Lotta avevano denunciato l’accaduto durante l’assemblea pubblica di lunedì scorso al Centro sociale "Scuria" di Foggia. Per il bracciante del Mali fu osservato anche un minuto di silenzio. Le versioni dei fatti sono però discordanti. Per la Rete, infatti, il lavoratore sarebbe deceduto in ospedale. Chi sa ha paura di parlare temendo di subire pesanti ritorsioni. Tanto è vero che la notizia non ha trovato conferme ufficiali. Come dichiara il segretario generale della Flai-Cgil Puglia, Giuseppe Deleonardis: "Non abbiamo alcuna certezza che sia morto un uomo. Abbiamo raccolto un racconto di qualche bracciante e stiamo verificando". "È una voce - spiega il segretario - e stiamo indagando cercando di capire se sia vera". I carabinieri di Foggia al momento non hanno ricevuto alcuna segnalazione sulla presunta scomparsa di un bracciante, né di un decesso. Nessuna indagine risulta al momento aperta. Ma qualcosa a Rignano Garganico è successo. Luogo tristemente famoso per il ghetto creato dai migranti che vivono in capanne costruite con materiali di fortuna, in condizioni igieniche spesso precarie. E dove dal 2012 "Radio Ghetto Voci Libere", un’esperienza di comunicazione partecipata, tenta di dar voce ai braccianti africani delle campagne pugliesi, specie del foggiano. Da sempre una delle zone più colpite dal caporalato: basti pensare che oltre a quello di Rignano, ci sono il "Ghetto Ghana House" a Cerignola, il "Ghetto dei bulgari", nei pressi di Borgo Mezzanone, e l’insediamento presso la pista dell’ex aeroporto militare attiguo al Cara di Borgo Mezzanone. E proprio in questi giorni le campagne del foggiano sono state al centro dei controlli dei carabinieri di Foggia, del Nucleo operativo del Gruppo Tutela Lavoro di Napoli, del Nucleo ispettorato del Lavoro di Foggia e dal personale della Direzione Territoriale del Lavoro di Foggia. Delle aziende controllate, 32 sono risultate irregolari: 430 i lavoratori agricoli identificati di cui 71 sono risultati irregolari e 64 in "nero". Per sei aziende è scattata la sospensione della attività imprenditoriale, e sono state accertate violazioni amministrative in materia di lavoro e maxi-sanzioni per lavoro nero per oltre 300mila euro. Tutto questo alla vigilia dell’odierno vertice nazionale sul caporalato, convocato dai ministri Martina e Poletti, ed al quale parteciperanno sindacati, associazioni delle imprese agricole, l’ispettorato del Lavoro e l’Inps. Il ministro delle politiche agricole Martina, su Twitter, citando anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha annunciato la loro proposta comune in vista del vertice: "La nostra battaglia contro il caporalato. Confisca dei beni passo necessario". Idea che ha subito trovato riscontri positivi nella Uila Uil, che chiede "un decreto legge per renderle subito operative", come ha dichiarato il segretario generale Stefano Mantegazza. Mentre la Flai-Cgil presenterà la propria piattaforma, nella quale chiede la rapida approvazione del Collegato agricolo e che alla "Rete del Lavoro di Qualità" possano iscriversi e restare iscritte solo le imprese che applicano le leggi ed i contratti di lavoro. Oltre all’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno del caporalato e dello sfruttamento dei lavoratori in agricoltura. Lettere: Roverto per urlare la sua innocenza non mangia e non parla di Marsel Hoxha Ristretti Orizzonti, 27 agosto 2015 In questi giorni sono in profonda sofferenza per Roverto. Un mio vicino di cella che sta facendo lo sciopero della fame e ha deciso di non parlare più durante questo sciopero. Lui viene da un Paese del Centro America. È stato condannato all’ergastolo per un omicidio, ma si dichiara innocente. Non smette un momento di gridare la sua innocenza. In carcere sono davvero molti coloro i quali si dichiarano innocenti, la maggior parte. Molto spesso quando me lo dicono, in cuor mio penso: un altro innocente! Con Roverto, però, le cose le intendo diversamente, per me lui è innocente per davvero! Gli credo e quando ci penso soffro per lui. Io, che il carcere lo frequento da parecchio, nonostante la mia giovane età, ho capito fin dal primo momento che lui è innocente. La sua disperazione mi ha coinvolto profondamente e quando mi parla delle sue figlie il suo volto si accende di una luce che non riesco a ignorare. Noi siamo entrambi redattori della Redazione di Ristretti Orizzonti. Partecipiamo sempre a tutti i convegni e spesso interveniamo con le nostre riflessioni, con le nostre storie. Quando lui narra la sua storia e parla della sua famiglia, delle figlie che vivono lontano, molti di noi si commuovono. Il pensiero comune è che la giustizia tante volte ha un occhio solo, e non vede le cose come dovrebbe. Lui si chiama Roverto Cobertera, è un uomo di colore. Un negro! Lui lo dice sempre, mi hanno dato l’ergastolo anche per il colore della mia pelle. Che le cose non siano andate in maniera lineare lo si capisce anche dal fatto che nel processo di primo grado era stato condannato a 24 anni, poi, in appello gli hanno aumentato la pena al massimo, gli hanno trasformato i 24 anni di pena in ergastolo. Non voglio scendere nei dettagli perché sarebbe lungo e complicato e non è esattamente questo il mio messaggio. Spero che ci sia qualcuno che legge questo articolo e è in grado di dare un aiuto a Roverto, che in questi giorni sta attuando questa protesta pacifica per attirare l’attenzione sul suo caso. Quando vado nella sua cella a trovarlo lui mi parla a gesti, ma agita le mani in una maniera che non capisco niente. Allora prendo la penna e un foglio di carta e lui mi scrive i suoi pensieri. Mi spiega cosa intende e cosa posso fare per lui. Io rido tantissimo e sembra che a volte lo prendo in giro, ma non è vero, lui è molto simpatico e divertente, rido per questo e per distrarlo dai suoi pensieri tristi. Quando esco dalla sua cella però sono sempre triste. Penso che la galera è davvero una cosa brutta, lo penso per me che sono un colpevole, figuriamoci per lui che è innocente. Lettere: i torti presunti della magistratura di Armando Spataro (Procuratore della Repubblica a Torino) Corriere della Sera, 27 agosto 2015 Caro direttore, quando è necessaria, la sintesi può esaltare le virtù di chi scrive, ma spesso può determinare difficoltà nell’esposizione di argomenti complessi. Credo e spero che tali difficoltà - nelle quali anche chi scrive incorrerà - abbiano condizionato il professor Sabino Cassese nell’esposizione delle sue tesi sulle riforme necessarie per far funzionare la giustizia (mi riferisco al suo editoriale sul Corriere del 24 agosto). Lo ipotizzo con il massimo rispetto per il professor Cassese, il cui prestigio è fuori discussione, ma del cui ragionamento, tuttavia, riesco a condividere solo pochi passaggi. L’editoriale in questione, peraltro, si caratterizza per l’assertività di molte affermazioni: un mero elenco di presunte disfunzioni della giustizia le cui responsabilità vengono quasi tutte addebitate ai magistrati. Così per quanto concerne la loro "leggerezza" nell’uso della "carcerazione preventiva... come mezzo di pressione, per ottenere ammissioni di colpa", la tendenza a dettare l’agenda della politica e i criteri di politica industriale fino a occupare uno spazio sproporzionato nella vita civile (tanto da spingere l’autore a ipotizzare che il Csm possa dettare "linee guida non vincolanti"!), la inadeguatezza diffusa nel contrasto della criminalità organizzata, l’utilizzo eccessivo delle intercettazioni quale mezzo di prova. n professor Cassese auspica pure la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici convinto che la diversità dei mestieri richieda "preparazione e professionalità differenti". Come può facilmente rilevarsi, questa lista dei presunti vizi dei magistrati non è nuova, ha preso forma in anni "difficili" ed evidentemente non è stata cancellata dal trascorrere del tempo. Non appare condivisibile neppure la "denuncia" del numero eccessivo degli avvocati quale concausa della crisi della giustizia: la trovo ingiusta se rapportata alla natura libera di quella professione e alle aspirazioni di tanti giovani che credono nella giustizia e nei due piatti della bilancia che la rappresenta. Sto affermando che avvocati e magistrati non hanno vizi, né colpe? Certamente no! E limitandomi ai secondi, condivido ciò che Cassese afferma sull’eccesso di carriere politiche e di esternazioni di alcuni di loro. Aggiungo - come ricordato in altre occasioni - che sono fortemente criticabili anche quei magistrati che si propongono quali moralizzatori della società, esorbitando dai confini della loro professione, o quelli che incorrono in neghittosità inescusabili. Ma - per favore - non si confondano patologia e fisiologia, né si ignori che la magistratura italiana (tra le più produttive in Europa), unitamente alle nostre forze di polizia, è leader mondiale nel contrasto efficace di ogni forma di criminalità organizzata, che le intercettazioni sono irrinunciabili per ogni delicata indagine (specie contro la corruzione) e che l’indipendenza di cui godono i pm, l’obbligatorietà dell’azione penale e la possibilità di interscambio della carriera tra giudici e pm (così da garantire, anche attraverso la loro comune formazione, miglior tutela dei diritti degli imputati e delle parti offese dai reati) fanno di quello italiano un sistema cui la comunità internazionale guarda come esempio virtuoso. Certo, la giustizia italiana necessita di riforme profonde, a partire dagli investimenti in risorse umane e materiali, dalla cancellazione di formalismi inutili, dalla rivisitazione della prescrizione e di molto altro ancora. La strada è però una sola, quella del confronto approfondito su ogni criticità accertata: lo aveva auspicato più volte una mente libera come quella del compianto professor Vittorio Grevi, un illustre processual-penalista che aveva con chiarezza spiegato ai lettori in centinaia di articoli pubblicati su questo quotidiano i problemi della giustizia italiana e le possibili soluzioni, senza risparmiare critiche ai magistrati. Le sue, però, erano opinioni ben diverse da quelle del professor Cassese. Lettere: perché mi sono candidato a Garante dei detenuti dell’Abruzzo di Francesco Lo Piccolo Ristretti Orizzonti, 27 agosto 2015 Sono uno dei candidati alla nomina da parte del Consiglio regionale dell’Abruzzo del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Mi sono candidato perché mi è sembrato il giusto sbocco del mio percorso: giornalista, consulente dell’Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo per la "Carta di Milano", membro della Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Abruzzo, referente dei detenuti per i Radicali Abruzzo, volontario in carcere da otto anni, da quando venni invitato dalla direttrice dell’Istituto di Chieti Lucia Avvantaggiato ad aiutarla nell’organizzazione di un giornalino interno. Da allora il giornalino "Voci di dentro" è diventato una rivista ed è nata l’associazione Voci di dentro di cui sono presidente e che oggi è attiva con oltre 60 soci. In questi anni ho imparato a conoscere i detenuti e a misurarmi con loro. Soprattutto ho visto che prima di essere autori di un reato sono persone. Persone la cui dignità non può mai essere calpestata e i cui diritti restano tali, inviolabili. Da qui l’idea e la spinta a cambiare il senso dell’attività del volontario: non solo un aiuto spirituale o materiale ma motore di un processo di responsabilizzazione e crescita delle persone detenute per un reale cambiamento. Da qui le battaglie dentro il carcere per i diritti dei detenuti e fuori per eliminare le condizioni che portano le persone in carcere con la costruzione di occasioni di lavoro, occasioni di studio e di conoscenza. Con la convinzione che fare il volontario in carcere significhi lavorare fuori oltre che dentro per evitare che il fuori sia occasione di mancato inserimento, occasione di devianza e marginalità. Per evitare la cosiddetta porta girevole. Non a caso l’associazione Voci di dentro ha istituito fuori dal carcere uno sportello legale per gli ex detenuti e uno sportello di aiuto nella ricerca del lavoro. Aiuti concreti e realizzati. A titolo di esempio segnalo qui la bella storia di Tony in carcere a Chieti che grazie ai corsi interni di Voci di dentro è stato ammesso al lavoro esterno in articolo 21 prima presso l’associazione e successivamente presso un’industria. Un percorso andato a buon fine al punto che oggi Tony, che ha finito di pagare il suo debito con la giustizia, è libero, è assunto a tempo indeterminato, è padre di famiglia. Ma è solo un esempio. Il primo. Tanti altri i progetti andati a buon fine, tutti nel segno della responsabilizzazione. Come l’esperimento "La città" in corso nel carcere di Pescara: non più visite una tantum, non più corsi settimanali, ma attività quotidiane e costanti con il coinvolgimento di una trentina di detenuti e una quarantina di esterni tra volontari, ingegneri de L’Aquila, stagisti dell’Università D’Annunzio, per la trasformazione degli ambienti, e per la responsabilizzazione e crescita delle persone in una dinamica di relazione e scambio. Per rendere gli spazi il più possibile simili al mondo di fuori con area lavoro, area studio, area hobby e con l’intenzione di estendere questa città in miniatura fino al muro di cinta. Ma è solo una tappa di un percorso, un percorso che parte dalla considerazione che tutte le persone hanno il diritto di essere trattate come persone. Per questo mi sono candidato a Garante dei detenuti. Per garantire i diritti che sono l’altra faccia dei doveri. La nuova seduta di Consiglio per la votazione e la nomina dovrebbe tenersi il 1° settembre. Emilia Romagna: la Garante; i Cie sono disumani, meglio gestire le espulsioni dal carcere Ansa, 27 agosto 2015 "Comprendo e non sottovaluto la necessità che i provvedimenti amministrativi e giudiziari di espulsione degli stranieri, in particolare quelli condannati in sede penale, vengano eseguiti, come richiesto nei giorni scorsi, fra gli altri, dal Pm Valter Giovannini, ma devo ricordare che i Cie dell’Emilia-Romagna, e in particolare quello di Bologna, sono stati chiusi per difetto delle condizioni igienico-sanitarie minime, come accertato dalle competenti autorità sanitarie e per la situazione complessiva di degrado che ha reso le strutture non compatibili con standard minimi di decenza, come ripetutamente accertato anche dal mio Ufficio". Lo dichiara Desi Bruno, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. "A ciò si aggiunge - prosegue - che una parte significativa delle persone trattenute, e quindi private della libertà personale, a volte al limite della metà delle presenze, non era costituita da persone condannate, ma da persone irregolari e anche da persone che avevano perduto il titolo di soggiorno per disoccupazione o comunque non per avere commesso fatti illeciti". La dichiarazione della Garante prosegue così: "La difficoltà, sempre crescente, di affrontare i diversificati fenomeni di immigrazione, impone di trovare modalità di esecuzione delle espulsioni efficaci ma rispettose della dignità delle persone, riducendo al minimo il ricorso al trattenimento, come previsto dalla Direttiva 2008/115/CE. La strada più efficace per le persone condannate è rappresentata dallo strumento dell’espulsione dal carcere, attraverso procedure di identificazione che devono avvenire durante la detenzione, evitando il ricorso al trattenimento ulteriore nei Cie, come è previsto dalla Legge 10/2014, che interviene sul Testo Unico dell’immigrazione. L’articolo 16 prevede che il processo di identificazione del cittadino straniero venga avviato all’atto dell’ingresso in carcere, e che l’espulsione dei detenuti stranieri possa essere alternativa alla carcerazione, quando mancano due anni al fine pena, con l’eccezione dei reati più gravi". Desi Bruno ricorda, infine, di aver più volte sollecitato l’Amministrazione penitenziaria e i consolati interessati ad adoperarsi affinché fossero adottate sin dall’ingresso in carcere le procedure di identificazione che consentano l’espulsione di coloro che sono destinati all’allontanamento in tempo utile, evitando il protrarsi della restrizione della libertà personale nei CIE. Mantova: internata di 21 anni si impiccò all’Opg di Castiglione, indagati due dipendenti di Giancarlo Oliani Gazzetta di Mantova, 27 agosto 2015 Bocciata la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, il giudice vuole una nuova inchiesta. Il dubbio: quella morte si poteva evitare? Si era suicidata, impiccandosi con un lenzuolo, nei bagni dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. La procura aveva aperto un’inchiesta che, di recente si è conclusa con la richiesta di archiviazione da parte del sostituto procuratore che ha seguito il caso. Il giudice però non solo ha respinto la richiesta del pm ma ha disposto nuove indagini, iscrivendo nel registro degli indagati due dipendenti dell’ospedale psichiatrico giudiziario per omicidio colposo. Ha inoltre invitato il pubblico ministero a servirsi di un perito affinché possa stabilire se quel suicidio si poteva evitare. La nuova inchiesta è agli inizi, ma altri soggetti potrebbero aggiungersi a quelli già indagati. La tragica vicenda risale al giugno del 2014. Vittima una ragazza di appena 21 anni. La giovane quel giorno non era andata in mensa ma con un lenzuolo del suo letto si era infilata in bagno. Aveva legato un’estremità alle inferriate della finestra e l’altra attorno al collo. Poi si era lasciata andare. L’aveva trovata un’altra ospite dell’Opg che aveva dato l’allarme. La disperata corsa all’ospedale di Desenzano, purtroppo, si era rivelata inutile. Già ospite della comunità riabilitativa di Quistello, per il disagio psichico la ragazza aveva tentato di strozzare una delle operatrici. All’arrivo dei carabinieri si era scagliata contro di loro, cercando di colpirli con alcuni colli di bottiglia. Per quell’episodio era stata condannata a tre anni e otto mesi. L’accusa: tentato omicidio. Il pubblico ministero Rosaria Micucci ne aveva chiesti cinque. Era accaduto il 30 maggio 2012 nella comunità riabilitativa ad alta assistenza psichiatrica, dove la giovane era ricoverata per un disturbo borderline di personalità. Nel pomeriggio aveva insistito per parlare con una delle operatrici, da cui pretendeva delle sigarette. Dopo il no della dipendente aveva cominciato a spintonarla e a colpirla con pugni e sberle fino a farla cadere a terra. A quel punto aveva cercato di strangolarla. Provvidenziale l’intervento di un medico e di un’infermiera che l’avevano bloccata appena in tempo. "Adesso voglio finire quello che ho iniziato" aveva detto la giovane che era poi riuscita a liberarsi dalla presa dei soccorritori, dopo aver rotto due bottiglie e minacciato con i cocci le persone presenti. La sua furia non si era calmata nemmeno all’arrivo dei carabinieri, anche loro minacciati di morte se avessero osato toccarla. Le stesse frasi le aveva lanciate all’indirizzo del personale della struttura. Alla fine era stata neutralizzata. Trasferita in psichiatria al Poma aveva continuato a comportarsi in maniera violenta. Da qui la decisione del giudice, su richiesta del pubblico ministero, di emettere nei suoi confronti un’ordinanza di custodia cautelare a San Vittore. E da lì tre mesi dopo è stata trasferita all’Opg di Castiglione, dove si è tolta la vita. Massa Carrara: salute in carcere, l’esperienza dell’Usl nella Casa di Reclusione di Franco Alberti* e Bruno Bianchi** Toscana Medica, 27 agosto 2015 È affidata all’autonomia regionale l’attuazione del Dpcm del primo aprile 2008 che trasferiva le competenze sanitarie in carcere dal Ministero della Giustizia a quello della Salute, ma ad oggi l’attuazione della riforma è ancora parziale e frammentaria. Il Comitato Nazionale di Bioetica per la salute in carcere (Presidenza del Consiglio dei Ministri) nell’ottobre del 2013 ha pubblicato un rapporto sullo stato dell’arte in merito. Partendo da una lettura delle criticità segnalate. all’interno dello stesso rapporto, è stato possibile stabilire le possibili azioni di miglioramento in termini di qualità della salute in carcere. L’uguaglianza nel diritto alla salute fra detenuti e liberi non significa solo uguaglianza nell’offerta di servizi sanitari; una buona rete di servizi sanitari è uno strumento necessario, ma non sufficiente, per raggiungere l’uguaglianza dei livelli di salute: ai detenuti va offerta, infatti, l’opportunità nell’accesso al bene salute, tenendo conto delle notevoli differenze di partenza nei livelli di salute, nonché delle particolari condizioni di vita in regime di privazione della libertà, che di per se rappresentano un ostacolo al conseguimento degli obiettivi di salute. La mancanza di libertà è un grave vulnus al patrimonio salute. La riforma della sanità penitenziaria è stata una innovazione importante perché ha aperto le porte del carcere ad una istituzione, quella sanitaria, il cui mandato primo e unico è la promozione della salute della persona e la sua tutela della salute come paziente La conoscenza degli ostacoli che si frappongono fra salute in carcere e la loro comunicazione all’opinione pubblica rivestono una particolare importanza e costituiscono un requisito della trasparenza del carcere necessaria per rendere concretamente esigibili i diritti del detenuto. In molti casi alcuni degli impedimenti hanno a che fare più con la logica e la routine dell’istituzione carceraria che con la sicurezza vera e propria È stato così possibile identificare fra le criticità segnalate, due aspetti che potevano essere attuati in tempi brevi e senza alcun sconvolgimento dell’attuale organizzazione: la possibilità di effettuare la scelta del medico e l’apertura di uno sportello informativo sanitario. Grazie all’impegno del responsabile del presidio sanitario del carcere massese dott. Franco Alberti e del referente per la salute in carcere dell’Azienda Usl 1 dott. Bruno Bianchi nonché alla fattiva collaborazione con la Direzione della Casa di Reclusione di Massa, dallo scorso primo di dicembre nel presidio sanitario distrettuale dell’Azienda Usl 1 di Massa Carrara all’interno della Casa di Reclusione di Massa sono stati portati a compimento i due obiettivi prefissati. Queste due iniziative sono state oggetto, prima della loro attuazione, di un confronto con la popolazione ristretta nella Casa di Reclusione. Le novità introdottele sono state condivise e valutate con gli stessi detenuti, durante incontri "ad hoc" dove sono stati raccolti suggerimenti, che li hanno visti particolarmente partecipi. Scelta del medico Nello scenario generale all’interno degli istituti penitenziari operano più medici, per cui la persona ristretta al momento del bisogno, urgente o meno, si rivolge al medico presente di turno. Questa organizzazione non permetteva una continuità della cura in quanto veniva leso, come riferito dal Comitato Nazionale di Bioetica, il diritto alla continuità della cura; inoltre, mancava completamente quel rapporto medico/paziente raccomandato più volte dall’OMS anche in ambito detentivo. In analogia a quanto succede per il cittadino libero, che può scegliere il medico di fiducia dall’elenco dei medici presenti che non hanno raggiunto il numero limite massimo degli assistiti, è possibile effettuare una prima e seconda scelta di un medico, in base alla disponibilità del medico stesso, fra gli otto medici operanti nel penitenziario di Massa. Così, all’interno del carcere, anche il detenuto conosce anticipatamente giorni e orari stabiliti di ambulatorio al pari del cittadino libero. A distanza di tre mesi, da una prima verifica effettuata, abbiamo potuto riscontrare che si è formato un rapporto di fiducia medico/paziente ottenendo una maggiore appropriatezza diagnostico terapeutica che ha portato non solo soddisfazione agli utenti ma anche un risparmio di tipo economico. Sportello informativo sanitario Il soggetto detenuto ha il diritto di accesso alla propria documentazione sanitaria in qualsiasi momento. Purtroppo, il vuoto informativo sanitario riguarda invece i parenti o gli altri soggetti aventi diritto. Non conoscere le condizioni di salute, in taluni casi, può portare a tristi risvolti. Per ovviare a tale mancanza è stato istituito uno sportello informativo sanitario, attualmente funzionante due giorni al mese e su appuntamento, al quale possono rivolgersi i parenti o gli aventi-diritto per notizie sanitarie, naturalmente a seguito di un consenso scritto da parte del diretto interessato. Il locale messo a disposizione dalla Direzione del Carcere si trova all’esterno del carcere stesso; le notizie al momento sono fornite direttamente dal responsabile sanitario del presidio, ma in un prossimo futuro saranno fornite dallo stesso medico di riferimento del paziente. Queste due innovazioni, nella loro semplicità, contribuiranno ad incrementare una logica di continuo miglioramento della gestione della salute "dietro le sbarre", pur rappresentando solo l’inizio di una vera rivoluzione culturale da parte di tutti, in particolare dagli operatori sanitari e non che vi operano, consentiteci, con dedizione. *Responsabile Presidio Distrettuale Azienda Usl Massa-Carrara "Istituto Penitenziario" **Referente Salute in Carcere Azienda Usl 7 Massa Carrara Mantova: sicurezza in primo piano per il sovraffollato ex Opg di Castiglione delle Stiviere da Azienza Ospedaliera di Mantova e Direzione del Sistema Polimodulare di Rems Provvisorie Ristretti Orizzonti, 27 agosto 2015 Implementate le misure di controllo nella struttura psichiatrica dell’alto mantovano ma la denuncia del grado di saturazione permane. Il pomeriggio del 15 agosto scorso il paziente Lucian Vecelian si è allontanato arbitrariamente dal Sistema Polimodulare di Rems Provvisorie di Castiglione delle Stiviere eludendo la sorveglianza. A seguito della sua scomparsa volontaria sono state allertate sin da subito le forze dell’ordine che dapprima hanno perlustrato le zone limitrofe, sino ad estendere le ricerche ed i controlli. Le indagini, volte al ritrovamento del paziente fuggito, tutt’ora in corso. L’allontanamento del sig. Vecelian potrebbe dipendere dal grave disagio attualmente vissuto all’interno della struttura aloisiana che ha in carico oltre 260 pazienti, rispetto ai 160 previsti, di cui oltre un centinaio provengono da regioni ancora sprovviste delle Rems. Si segnala infatti che, con gli ingressi degli ultimi mesi, la struttura di Castiglione si trova in una condizione di notevole sovraffollamento: da un lato è cresciuta la presenza di ricoverati, che difficilmente accettano riduzioni dello spazio di libertà e, contestualmente, è aumentato il numero di pazienti con posizione giuridica provvisoria, spesso caratterizzati da patologie psichiatriche minori. La Direzione del Sistema Polimodulare di Rems Provvisiorie, a seguito della diffusa condizione di disagio, di concerto con la Direzione Aziendale, ha adottato misure di maggior controllo sia strutturali che nei confronti dei pazienti maggiormente problematici, garantendo il mantenimento delle buone pratiche sanitarie da sempre in uso. Nonostante l’implementazione di misure di sicurezza nella struttura psichiatrica dell’alto mantovano, è in ogni caso auspicabile un significativo intervento da parte delle autorità di competenza per quel che concerne il tema del ridimensionamento delle presenze dei pazienti, secondo i valori previsti dalla normativa vigente. Tutto ciò per accrescere la sicurezza degli utenti e, soprattutto, degli operatori sanitari, in una adeguata dimensione di cura e assistenza. Napoli: appello della madre di un detenuto a Poggioreale "sta male e va curato" di Giuseppe Letizia Cronache di Napoli, 27 agosto 2015 "Curate mio figlio, o mi do fuoco". La 51enne: Carlo mi ha scritto una lettera per chiedermi aiuto. Carlo Oliviero ha trenta anni e abita nel quartiere Arenaccia. Da un anno e a Poggioreale con l’accusa di rapina. La madre minaccia di darsi fuoco con della benzina davanti al carcere. se il figlio non viene sottoposto a un intervento chirurgico: "Non so più a chi rivolgermi - scandisce Giuseppina Serra - Carlo sta male, ha i calcoli ai reni. A luglio era stato trasferito all’ospedale Cardarelli, ma poi di nuovo in carcere senza essere operato. Perché? Mi ha scritto una lettera: mamma aiutami, perché sto male". E ora la cinquantunenne minaccia di darsi fuoco in via nuova Poggioreale "se non operano mio figlio: ha sbagliato e deve scontare la pena in carcere, ma va curato se necessario". La donna è un fiume in piena e agita la lettera scritta in stampatello su un foglio blu. "Lo faccio per davvero, pur di salvare la vita a Carlo. Sembra che nessuno mi ascolti e lo ascolti. Sono esasperata". Poi spiega: "Perché non operarlo se ha bisogno di un intervento chirurgico? Cosa attendono i medici? Io chiedo soltanto che mio figlio sia trattato al pari degli altri cittadini. Mi scrive dal carcere che sta molto male, possibile che nessuno si preoccupa per lui". E aggiunge: "Sono andata personalmente al carcere, ma non ho ottenuto nulla e non ho risolto il problema. Ecco perché ora ho deciso, che se nessuno fa nulla, io mi do fuoco con la benzina davanti ali ‘istituto in via Nuova Poggioreale". Poi ribadisce: "Mio figlio deve scontare la pena in carcere, ma va curato. E io mi batterò con tutte le mie forze". La donna ha chiesto più volte spiegazioni ed è preoccupata per il figlio. In particolare "sono andata in ansia dopo la lettera di Carlo, che mi ha chiesto aiuto dal carcere, perché sta male. Io cosa posso fare? Ho chiesto che fosse trasportato in ospedale al più presto per essere curato. Ma qualcuno dovrà ascoltarmi e ricevere il mio appello". Nove giorni prima un’altra emergenza: un malore in carcere per Patrizio Lepre del "Cavone". Il 51enne era stato trasportato con un’ambulanza all’ospedale Cardarelli domenica sera. Poi ricoveralo in attesa di essere sottoposto a un delicato intervento chirurgico. "o Ninnillo è il fratello del più noto Ciro Lepre, soprannominato ‘o sceriffo. Patrizio Lepre era recluso nel padiglione San Paolo del carcere di Poggioreale. il centro diagnostico terapeutico (il polo clinico dell’istituto penitenziario). È detenuto per il reato di tentata estorsione. Le condizioni di salute si sono aggravale improvvisamente tre mesi fa. Da quel momento è cominciata una serie di accertamenti e visite mediche. La sera del sedici agosto il quadro clinico si è aggravalo ed è stato disposto il trasferimento con la massima urgenza in codice rosso dal carcere di Poggioreale all’ospedale Cardarelli, dove Patrizio Lepre è stato ricoverato. in attesa dì essere sottoposto a un intervento chirurgico. Quella mattina i sanitari hanno contattato i familiari del 51 enne, che hanno raggiunto il nosocomio nel quartiere Arenella. La segnalazione ai medici della sala operativa del 118 è giunta alle otto della sera di domenica: un detenuto nel padiglione San Paolo del carcere dì Poggioreale sì è sentito male e necessita dì un soccorso con la massima urgenza. Pochi minuti più tardi un’ambulanza trasporta Patrizio Lepre al Cardarelli in codice rosso (il protocollo adottalo per ì casi più gravi). Il 51enne viene sottoposto a delle verifiche sanitarie e in serata i medici fanno sapere che deve essere operato. I familiari hanno trascorso la notte in ospedale. Il giorno seguente i medici hanno fatto sapere che le condizioni del 51enne erano migliorate. Massa Carrara: i detenuti puliscono i sentieri delle Alpi Apuane La Nazione, 27 agosto 2015 I detenuti del carcere di Massa impegnati a ripulire i sentieri di montagna. I detenuti del carcere di Massa impegnati a ripulire i sentieri di montagna. "Libera... mente insieme nella natura": è l’iniziativa che ha coinvolto i detenuti del carcere di Massa, che in questi mesi hanno pulito i sentieri della montagna massese. Un primo bilancio del progetto che vede coinvolti Club Alpino - sezione "Elso Biagi", Comune di Massa, casa di reclusione, polizia penitenziaria e ufficio esecuzione penale esterna di Massa, è stato tracciato oggi alla presenza degli stessi detenuti impegnati nel ripristino dei sentieri. Sauro Quadrelli, presidente del Cai, ha ricordato "che si tratta di un progetto pilota cominciato qualche mese fa e che proseguirà fino alla fine di ottobre". Tra i 50 chilometri di sentieri della nostra montagna "abbiamo incominciato scegliendone alcuni". Mauro Fiori, assessore comunale al Sociale ha ribattezzato il carcere "un quartiere della città. E questo progetto rappresenta un altro tassello nel mosaico dei rapporti instaurati". La direttrice della casa di reclusione Maria Martone ha dato atto ai detenuti "d’aver accolto l’iniziativa con entusiasmo e motivazione, finalizzati a realizzare insieme un percorso di pubblica utilità come già accaduto anche con Asmiu". I protagonisti con i soci del Cai che hanno coordinato il progetto, Fabrizio Bertoneri e Vittorio Antonioli, si sono detti "felici e grati a tutti coloro che gli hanno permesso di tornare a respirare all’aria aperta immersi nella natura, portatrice di energia positiva". Soddisfatta "della sinergia positiva tra i soggetti partecipi" anche la direttrice dell’Uepe. L’augurio di tutti è che il progetto prosegua "per consentire ai detenuti di confrontarsi con la società civile, dimostrando con l’impegno che tranne in certi casi tutti si può cambiare". La cosiddetta "seconda possibilità che non si nega mai a nessuno". Oristano: Calugaris (Sdr); detenuto nel carcere di Massama depresso, negata pet therapy corrierequotidiano.it, 27 agosto 2015 Voleva vedere il suo cane così come gli aveva consigliato la psicologa del carcere di Massama, ad Oristano, per curare le sue crisi depressive. Ma il detenuto ha ottenuto un no dalla direzione del penitenziario. Il caso è stato portato alla ribalta tramite l’associazione Socialismo Diritti e Riforme (Sdr). Il detenuto aveva avanzato alla direzione dell’istituto la richiesta di vedere il suo cane, ma il direttore Pierluigi Farci non ha potuto accoglierla. Al detenuto, che soffre di crisi depressive, la pet therapy era stata suggerita dalla psicologa del carcere. "Non può prendersi un provvedimento che poi, a condizioni analoghe, non venga applicato anche agli altri detenuti", ha spiegato Farci, rispondendo alle sollecitazioni della presidente di Sdr, Maria Grazia Caligaris, la quale sintetizza: "La richiesta non può essere soddisfatta per l’assenza di una regolamentazione che ne determini la precisa natura, le modalità e le finalità". Sdr sollecita "una norma chiarificatrice che non esponga i responsabili delle strutture penitenziarie a rischi interpretativi. Resta, però, un fatto incontrovertibile che è stato possibile non solo far incontrare i detenuti con i cani nelle carceri di Bologna, Livorno, Firenze e Montone, ma addirittura consentire la convivenza in cella con canarini a Padova. E nel 1985 un esponente di Prima Linea, durante il processo, ottenne dal giudice il permesso di incontrare il suo pastore tedesco. Situazioni certamente differenti, così come lo sono i convincimenti personali e il livello di cultura animalista". Quanto alla pet therapy, ricorda la presidente dell’associazione, "offre opportunità di recupero formidabili soprattutto per i disturbi dell’umore nei casi anche gravi di autismo. Nel rivolgere un appello al responsabile del dipartimento e al ministro della Giustizia, auspichiamo che anche in Sardegna un detenuto possa incontrare almeno un cane, specialmente quando le sue condizioni psichiche sono particolarmente difficili". Forlì: riprende il laboratorio "Manolibera" per i detenuti della Casa circondariale forli24ore.it, 27 agosto 2015 Riprenderà a fine agosto l’attività di Manolibera, il laboratorio che fa rinascere la carta usata nato nel 2011 presso la Casa circondariale di Forlì, per dare l’opportunità ai detenuti di lavorare e ritrovare il senso della legalità. Il progetto è stato realizzato da Hera in collaborazione con la società consortile di formazione professionale Techné, l’Amministrazione Penitenziaria della Casa Circondariale di Forlì, la Direzione Territoriale del Lavoro di Forlì Cesena, la Provincia di Forlì Cesena, la Camera di Commercio di Forlì Cesena, i Comuni di Forlì e Cesena, l’Unione dei Comuni Rubicone, il Comieco (Consorzio Nazionale Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base Cellulosica) e la Cooperativa Cils. Il laboratorio è stato allestito in locali all’interno del carcere di Forlì appositamente adattati per queste attività ed attualmente è supportato dalla struttura di Techné che ricorre all’attività di ragazzi disabili per il confezionamento del prodotto finale, a seguito della temporanea riduzione del numero di detenuti impiegati nel laboratorio, in attesa del ripristino della piena operatività con 4 detenuti. Il laboratorio "Manolibera" che si è concretizzato anche grazie al coinvolgimento e al sostegno di diverse istituzioni e attori del territorio che ne hanno condiviso principi e filosofia e successivamente anche grazie all’apporto del mastro cartaio fabrianese Franco Conti, produce carta artigianale realizzata secondo una tecnica di lavorazione arabo-cinese del tutto naturale che si basa sullo spappolamento e l’omogeneizzazione della carta di recupero. Si tratta di un piccolo atelier, il primo in Italia nato all’interno di un carcere, che tratta carta riutilizzabile, cioè usata ma non ancora diventata rifiuto, fornita dallo stesso carcere. Con questo materiale si realizzano eleganti manufatti artistici, carta da lettere e oggetti vari per enti, istituzioni, negozi e librerie, quaderni, biglietti, album fotografici e scatole decorate. Manolibera costituisce un lavoro quotidiano per i disabili e i detenuti, per favorire le relazioni sociali tra di loro e verso l’esterno, preparandoli ad un futuro reinserimento sociale. Attualmente è nel pieno della sua fase creativa e coinvolge sia detenuti che operatori qualificati che collaborano alla sua realizzazione. È stato attivato un sito cartamanolibera.it per l’e-commerce dei numerosi prodotti di Manolibera, fra cui quaderni, biglietti, album fotografici e scatole decorate. L’attività commerciale è stata affidata nel 2014 alla Legatoria Editoriale Berti, che ha avviato un processo di codifica (etichettatura) di tutti i prodotti per la gestione delle forniture e che procederà con la realizzazione di un nuovo catalogo per l’anno 2015-2016. "Manolibera è un progetto in cui crediamo molto: conferma l’impegno del Gruppo Hera nel coniugare l’attenzione per l’ambiente e la volontà di sostenere iniziative rivolte al sociale. Fa parte del nostro dna e rientra nelle linee guida della nostra responsabilità sociale d’impresa - ha commentato Tiziano Mazzoni, Direttore Servizi Ambientali del Gruppo Hera - Va al di là del semplice assistenzialismo: punta all’autosostentamento, facendo diventare la cartiera una vera attività produttiva. In più, mira alla prevenzione della produzione di rifiuti: prima ancora di buttarla via, questa carta diventa arte e si rigenera, riducendo l’impatto ambientale". "Manolibera" si aggiunge ad altri progetti in cui Hera è impegnata in prima linea per il coinvolgimento sociale e la diffusione della coscienza ambientale. Come "Raee in Carcere" che, sfruttando l’opportunità di intercettare i rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) ha realizzato laboratori all’interno degli istituti penitenziari di Bologna, Ferrara e Forlì, nei quali i detenuti effettuano il trattamento e smontaggio di grandi elettrodomestici conferiti dai cittadini presso le stazioni ecologiche del Gruppo Hera. Oltreché al progetto Raeebilitando, ideato insieme al Consorzio Remedia e Opimm - Opera dell’immacolata Onlus, che a Bologna organizza attività formative con ragazzi diversamente abili, finalizzate allo smontaggio e separazione di piccoli elettrodomestici e, in tal modo, sono favoriti nell’inserimento lavorativo. Aversa (Ce): Sappe; cinque agenti contusi in colluttazione con un internato dell’Opg di Nicola Rosselli Il Mattino, 27 agosto 2015 Cinque agenti di Polizia penitenziaria sono rimasti contusi mentre tentavano di riportare alla ragione un paziente ricoverato presso il locale ospedale psichiatrico giudiziario Filippo Saporito. Ancora alta tensione in una struttura penitenziaria della Campania, dopo l’aggressione di alcuni giorni fa nel carcere di Benevento, ancora agenti di polizia penitenziaria aggrediti. Teatro dell’episodio, questa volta quello che dovrebbe essere l’ex ospedale psichiatrico di Aversa, dove un internato avrebbe violentemente (secondo il sindacato di categoria Sappe, Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria) colpito cinque poliziotti. Una versione non condivisa dai responsabili della struttura aversana oramai in via di dismissione, dove la dinamica è raccontata in maniera diversa. Assente per ferie la direttrice Elisabetta Palmieri, ad illustrare al cronista quanto avvenuto tra le mura dell’ex manicomio criminale dove, comunque, nonostante la chiusura ufficiale a far data dal marzo scorso, vivono ancora oltre ad una cinquantina dì ricoverati in attesa di essere trasferiti presso le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure dì sicurezza) nelle regioni dì appartenenza, è il commissario Villano. "In verità, - ha dichiarato l’ufficiale dei baschi azzurri - si è trattato di un episodio che possiamo definire di ordinaria amministrazione. C’era un ricoverato, piuttosto ben piazzato, che è andato in crisi psicomotoria, per cui è stato necessario intervenire per praticargli una intramuscolo che lo riportasse alla calma. Sono intervenuti cinque colleghi che, ovviamente, nell’azione hanno riportato, così come accade quasi sempre in casi analoghi, qualche lieve trauma. Non è stato necessario il ricorso al pronto soccorso dell’ospedale cittadino, ma sono stati visitati presso la nostra struttura e tre dì essi sono stati dispensati per qualche giorno dal servizio". "Altro che dichiarazioni tranquillizzanti, altro che situazione tornata alla normalità. I numeri dei detenuti in Italia sarà pure calato, ma le aggressioni, le colluttazioni e i ferimenti - afferma da parte sua Donato Capece, segretario del Sappe - si verificano costantemente, con poliziotti feriti e celle devastate. Il ministro della Giustizia Orlando ed il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Consolo adottino con tempestività urgenti provvedimenti, a cominciare dalla sospensione della vigilanza dinamica delle sezioni detentive e dalla necessità di dotare i Baschi Azzurri di strumenti di difesa personale". Relativamente all’aggressione avvenuta presso l’ospedale psichiatrico Filippo Saporito, il segretario del sindacato di categoria maggiormente rappresentativo, afferma: "Quella dì Aversa è l’ennesima grave e intollerabile aggressione a dei poliziotti penitenziari. La situazione nelle nostre carceri resta dunque allarmante, nonostante si sprechino dichiarazioni tranquillizzanti sul superamento dell’emergenza penitenziaria: la realtà è che ì nostri poliziotti continuano ad essere aggrediti senza alcun motivo o ragione. Eventi del genere sono sempre più all’ordine del giorno e a rimetterci è sempre e solo il personale di Polizia Penitenziaria. Il Sappe esprime solidarietà ai poliziotti feriti e augura loro una veloce ripresa e ritorno in servizio. Ma va anche detto - con fermezza - che queste aggressioni sono intollerabili ed inaccettabili". Ad Aversa al 31 marzo scorso, data dì chiusura, gli internati erano 104. Attualmente ve ne sono 58, ma il numero scende di giorno in giorno, segno che il trasferimento alle Rems, sebbene con lentezza, continua in attesa della chiusura definitiva. Grosseto: animazione per i figli dei detenuti, pomeriggio di giochi e divertimenti di Barbara Farnetani ilgiunco.net, 27 agosto 2015 Oggi sarà una giornata speciale per i carcerati che si trovano rinchiusi nella struttura di via Saffi a Grosseto. L’associazione Le Querce di Mamre che già da diversi anni opera nella struttura carceraria, oggi animerà i momenti di visita figli/padri offrendo un gelato ai bambini avvalendosi della collaborazione di Daniela Seravalle del Progetto fantasia che animerà l’incontro con trucca-bimbi, palloncini e tanta fantasia. L’attività ludica dedicata ai figli minorenni dei detenuti è in linea con i programmi del Ministero di Giustizia previsti anche nel carcere circondariale di Grosseto. Per un giorno i bambini dimenticheranno le mura in cui sono rinchiusi i genitori e vivranno un pomeriggio spensierato, quasi come si trovassero a casa di amici, o a una festa. Trapani: sospeso lo stato di agitazione della Polizia penitenziaria trapanioggi.it, 27 agosto 2015 Sospeso lo stato di agitazione del personale di Polizia Penitenziaria in servizio alla Casa circondariale di Trapani. La protesta era stata avviata lo scorso mese di luglio - dalle sigle sindacali Sappe, Sinappe, Osapp, Fns Cisl e Coordinamento nazionale Polizia Penitenziaria - per richiamare l’attenzione delle autorità competenti sulle carenze in organico. Dopo la chiusura del reparto femminile, dichiarato inagibile, e la notizia che, a breve, anche il reparto "Tirreno" sarà chiuso per essere ristrutturato con conseguente trasferimento in altri carceri dei detenuti attualmente presenti, "abbiamo deciso - si legge nella nota diffusa dai sindacati - di sospendere la nostra protesta a condizione, però, che il personale non più impiegato nei due reparti non subisca movimentazione per diversa destinazione". I rappresentanti di categoria chiedono, inoltre, al Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Maurizio Veneziano di fare chiarezza "sulla pianta organica effettiva della Casa circondariale trapanese" anche in vista dell’apertura del nuovo padiglione, attualmente in costruzione, che richiederà l’impiego di unità di Polizia Penitenziaria. I sindacati chiedono all’Amministrazione Penitenziaria di tenere conto anche del fatto che a Trapani un’alta percentuale di poliziotti penitenziari "ha superato il cinquantesimo anno di età anagrafica". Immigrazione: le ex carceri per l’accoglienza, ecco il piano del Viminale per i profughi di Vladimiro Polchi La Repubblica, 27 agosto 2015 Scatta l’allarme per l’aumento dei flussi: "Partiranno finché ci sarà bel tempo". Allo studio anche l’ipotesi di attrezzare aree industriali non utilizzate. L’ondata d’arrivi non rallenta. La piena è prevista ancora per un mese. Il Viminale suona l’allarme: "Fino al 30 settembre prevediamo l’ingresso di altri 20mila nuovi profughi". Per questo si è pronti a tutto. Se la rete d’accoglienza dovesse collassare, si apriranno vecchie caserme, aree industriali in disuso e perfino ex penitenziari, a cominciare dal carcere di Morcone, in provincia di Benevento. Da mesi i tecnici del ministero dell’Interno non nascondono le preoccupazioni. Le cifre vengono aggiornate quotidianamente. A ieri i migranti giunti in Italia nel corso dell’anno hanno raggiunto quota 111.354: per lo più eritrei (29.019), nigeriani (13.788), somali (8.559), sudanesi (6.745) e siriani (6.324). Dunque in gran parte migranti che hanno diritto a una qualche forma di protezione internazionale. Il sistema d’accoglienza è già al limite: attualmente ospita 93.608 profughi, tra centri governativi e strutture temporanee regionali. Le regioni sostengono il carico maggiore con ben 64.224 migranti ospitati sul loro territorio. Le più investite sono la Sicilia (che accoglie il 16% dei migranti), la Lombardia (13%), il Lazio (9%), la Campania (8%), il Piemonte (7%) e il Veneto (7%). Ma ciò che allarma maggiormente è la tendenza degli ultimi giorni. "Dopo i 4mila profughi soccorsi in mare pochi giorni fa - ragionano dal Viminale - si pensava che il flusso avrebbe cominciato a rallentare, invece no. Assistiamo anche oggi (ieri, ndr ) a nuove ondate di arrivi. Non solo. Aumentano le vittime e i trafficanti si fanno sempre più feroci, anche senza apparenti spiegazioni, come se avessero fretta di liberarsi del grosso del "carico" entro l’estate". In autunno infatti, col peggioramento delle condizioni atmosferiche, gli arrivi via mare solitamente rallentano. "Ma nel prossimo mese la pressione non dovrebbe alleggerirsi". Non è tutto. Il Viminale monitora con attenzione altri due fenomeni, che stanno caratterizzando gli ultimi arrivi. Primo, il flusso via mare di cittadini marocchini: migranti economici, che solitamente non hanno diritto all’asilo. "È da tempo che non accadeva - confermano dal ministero - probabilmente la chiusura della frontiera con la Spagna li ha spinti su una nuova rotta verso l’Italia. Ma i marocchini li rimandiamo tutti a casa, abbiamo infatti un buon accordo di riammissione con il Marocco". Ancora più allarmante è l’altro fenomeno, che impegna il sistema d’accoglienza: il flusso imponente di arrivi di minori stranieri non accompagnati. Per lo più 16-17enni egiziani. Nazionalità solitamente soggetta a espulsione. "Ma i minori sono soggetti vulnerabili, la legge ci impedisce di rimandarli indietro fino al raggiungimento della maggiore età". Di fronte a questo flusso costante di arrivi, il nostro Paese resta in attesa delle decisioni che dovrebbero essere prese la prossima settimana con riunioni a livello tecnico a Bruxelles, proprio per andare incontro alle difficoltà di Italia e Grecia. Dal Viminale esprimono poi "grande apprezzamento per la decisione presa dalla Germania di sospendere il regolamento di Dublino per i siriani in arrivo", ma sanno che ancora per un po’ dovranno farcela da soli. "Non possiamo fare sconti a nessuno, sindaci, prefetti, governatori di regione dovranno fare la loro parte, secondo il sistema delle quote approvato nel 2014". All’orizzonte resta la possibilità di attivare immobili pubblici inutilizzati. "Non solo quelli messi a disposizione dal ministero della Difesa, come ex caserme - precisano dal ministero dell’Interno - ma anche strutture degli enti regionali, come centri di sviluppo industriale fermi o mai utilizzati". E ancora: beni confiscati alla mafia, soprattutto in Calabria. E poi, immobili di proprietà del ministero della Giustizia. Un esempio? "Potrebbe essere presto utilizzata la struttura dell’ex carcere di Morcone, in provincia di Benevento, mai entrata veramente in funzione". Immigrazione: Ungheria; rivolta nel centro di Röske, la polizia carica i profughi, di Massimo Congiu Il Manifesto, 27 agosto 2015 Nel centro di accoglienza di Röszke, nel sud dell’Ungheria, la polizia ha reagito con i lacrimogeni alle proteste di un gruppo di duecento rifugiati che volevano parlare con un giornalista della televisione pubblica. Volevano denunciare che l’ufficio immigrazione sta prendendo le impronte digitali per registrare i richiedenti asilo. L’episodio dimostra la difficoltà del momento; il primo ministro Viktor Orbán ha riunito il consiglio di sicurezza nazionale. Al termine della riunione è stato deciso l’invio di un corpo speciale costituito da oltre duemila uomini per sorvegliare il confine nazionale e impedire l’ingresso dei profughi. Alla stampa il capo della polizia Károly Papp ha detto che gli uomini del corpo speciale non riceveranno l’ordine di fare fuoco mentre Zoltán Kovács, portavoce del governo, ha riferito che l’esecutivo sta valutando la possibilità di far intervenire l’esercito. Röszke si trova nei pressi del confine ungaro-serbo, quello che il governo ha deciso di blindare con una barriera metallica e di filo spinato lunga 175 chilometri. La prima fase dei lavori dovrebbe aver termine entro la settimana prossima, secondo le informazioni attualmente a disposizione, ma ve ne sarà almeno un’altra con la quale irrobustire la struttura e farle raggiungere l’altezza di quattro metri. La situazione è delicata e tesa, il fenomeno ha assunto proporzioni più che rilevanti: le stime diffuse ultimamente parlano di oltre 80mila immigrati giunti in Ungheria dall’inizio dell’anno, una cifra che supera di circa il doppio quella registrata nel 2014. Il flusso di arrivi è continuo e non accenna a diminuire. Il governo enfatizza l’emergenza e descrive una situazione sempre più difficile da sostenere. Situazione che ha portato le autorità magiare a intervenire con mezzi drastici non potendo aspettare le soluzioni dell’Unione europea, soluzioni che secondo l’esecutivo di Budapest sono inesistenti. Già diversi mesi fa Orbán aveva parlato di fallimento delle politiche europee nel campo dell’immigrazione e affermato che ogni paese ha il diritto di organizzarsi autonomamente a seconda delle sue esigenze specifiche per gestire l’emergenza. All’interno della società ungherese si è diffusa una certa inquietudine a fronte del fenomeno, questo stato d’animo è accentuato dalla propaganda del governo che da tempo segue una politica fatta di ammiccamenti all’estrema destra per cercare di riconquistare i consensi perduti a favore del partito ultranazionalista Jobbik. Quest’ultimo ha intrapreso un’operazione di facciata e ripulito il suo linguaggio per ampliare il consenso col risultato che diversi ungheresi non lo vedono più come un partito estremista. La sua popolarità è aumentata anche fra gli studenti universitari, fra giovani che vi vedono l’unica forza in grado di rinnovare il paese. Jobbik mette in primo piano il problema della sicurezza pubblica al quale concorrerebbe il flusso costante di immigrati che raggiunge l’Ungheria. Ma le forze governative non sono da meno e mesi fa Orbán aveva dichiarato di considerare negativo il fenomeno dell’immigrazione da tutti i punti di vista, tra i quali quello della sicurezza pubblica, considerando l’immigrazione un potenziale veicolo di terrorismo. L’opposizione di centro-sinistra critica pesantemente la politica che l’esecutivo porta avanti in questo ambito, considerandola vergognosa e tale da isolare il paese e allontanarlo dall’Europa. Le fanno eco gli ambienti progressisti della società civile che mesi fa si sono mobilitati con iniziative concrete di sabotaggio contro i cartelloni apparsi nelle città del paese e recanti messaggi (scritti in ungherese) del tipo "Se vieni in Ungheria non puoi portare via il lavoro agli ungheresi", un lugubre benvenuto agli immigrati. Ora si parla di militarizzazione del confine ungaro-serbo che a causa della barriera protettiva è diventato più difficile da valicare ma non impossibile. Non sono pochi, infatti, i disperati che riescono a superarla e la polizia locale ha riferito di aver riscontrato ieri la presenza a ridosso del valico di confine di circa 2.500 migranti illegali. L’episodio di Röszke ha un precedente nei disordini avvenuti all’inizio dell’estate al campo profughi situato presso Debrecen (Ungheria dell’Est) e provocati, secondo fonti locali, da un centinaio di immigrati illegali con successivo intervento delle forze dell’ordine e impiego di gas lacrimogeni. Il campo è stato concepito per ospitare circa ottocento rifugiati, attualmente all’interno ce ne sarebbero rinchiusi circa il doppio. Guerre e clima tra le cause principali dell’esodo di decine di milioni di migranti di Marinella Correggia Il Manifesto, 27 agosto 2015 Secondo lo State of the World 2015 del World Watch Institute fra il 2008 e il 2013 140 milioni di persone hanno dovuto spostarsi in altre aree o paesi, a causa dei disastri ambientali e climatic. Solo una piccolissima minoranza bussa alle porte dell’Occidente. Lavoratori migranti in fuga dalle nostre guerre, sfollati dalla nostra guerra al clima, vittime dello sfruttamento post-coloniale: tre categorie a cui è negato tutto. Eppure, accoglierli non è generosità, è un obbligo da parte di chi è colpevole delle loro sventure: anche l’Europa. Stima lo State of the World 2015 del World Watch Institute che fra il 2008 e il 2013 le persone che abbiano dovuto spostarsi in altre aree o paesi, a causa dei disastri ambientali e climatici, siano state circa 140 milioni. Solo una piccolissima minoranza bussa alle porte dell’Occidente. Dove un migrante ambientale o economico non ha diritto allo status di rifugiato (perché non fugge direttamente da guerre od oppressioni): è bollato come clandestino e respinto al suo paese, o schiavizzato in campagna dai caporali, con infinite complicità. Eppure, dei danni da caos climatico sono responsabili i paesi abbienti, già colpevoli di sfruttamento coloniale e post-coloniale ai danni di Africa, Asia e America latina. Anche la quasi totalità delle decine di milioni di sfollati e rifugiati di guerra nel mondo rimane all’interno dei rispettivi paesi o nei paesi confinanti; solo 600mila sono stati accolti in Europa. Eppure, i conflitti che l’Occidente conduce con i propri bombardieri o fomenta - senza subire mai conseguenze in termini penali, economici e politici - continuano a provocare esodi biblici: non solo di cittadini dei paesi bombardati o attaccati, ma anche di milioni di migranti che in quei paesi lavoravano. Un nigerino o un burkinabè che, perso il lavoro in Libia a causa della guerra della Nato nel 2011, cercano di approdare in Europa, non hanno diritto di essere riconosciuti come rifugiati. E invece, dovrebbero avere addirittura avere, dai paesi Nato, un risarcimento danni. Ecco alcuni numeri sulle fughe dai conflitti prodotti o direttamente fomentati dall’Occidente, negli ultimi 25 anni. L’Italia non si è mai sottratta. 1991: "Tempesta nel Golfo", guerra all’Iraq. La guerra provoca l’esodo di circa tre milioni di persone dall’area. Fra questi, 300mila lavoratori palestinesi vengono espulsi per vendetta dal Kuwait "liberato" e da altre petromonarchie, o lasciano l’Iraq distrutto dalle bombe e impoverito e dal successivo embargo. Abbandonano l’Iraq in tutto circa un milione di lavoratori stranieri (bengalesi, egiziani, yemeniti, filippini, indiani, pakistani…). L’Arabia saudita espelle circa 800mila yemeniti perché il loro paese non ha votato a favore della guerra all’Iraq. 1999: "Operation Allied Force", bombe Nato su Serbia e Kosovo. L’azione militare, non approvata dall’Onu, provoca - invece di prevenire o arrestare - l’esodo di massa di centinaia di migliaia di kosovari. Dopo la vittoria della Nato, sono i serbi a fuggire a decine di migliaia dal Kosovo "liberato". 2003: Operazione "Iraqi Freedom", bombardamenti e invasione/occupazione dell’Iraq. Varia fra i 3,5 e i 5 milioni il numero di iracheni sfollati interni e rifugiati all’estero a causa dell’occupazione anglo-statunitense (con alleati) del 2003 e della successiva guerra settaria. A partire dal 2014, un milione e 800mila iracheni hanno lasciato le loro case di fronte all’avanzata del cosiddetto Stato islamico in Iraq. 2011: Libia, "Unified Protector", sette mesi di bombardamenti Nato. Fino al 2011 in Libia lavoravano oltre due milioni di stranieri, regolari o irregolari, fra nordafricani (in primis egiziani), africani sub-sahariani e asiatici (70-80mila dal Bangladesh). Con le bombe della Nato e la concomitante "caccia al nero" da parte dei "ribelli" libici alleati della Nato sul campo, lasciano la Libia 800.000 lavoratori migranti. Con l’arrivo dei "ribelli" a Tripoli, fine agosto 2011, lasciano il paese anche quasi due milioni di libici, distribuiti soprattutto fra Tunisia e Libia senza un vero status di rifugiati. 2011-oggi: Siria, guerra fomentata da paesi Nato e petromonarchi Dal 2011, sei milioni e mezzo di siriani sono diventati sfollati interni; tre milioni hanno lasciato il paese. Poche centinaia di migliaia hanno ottenuto asilo in Europa. 2015: Yemen, bombardamenti dell’Arabia saudita e alleati. A partire dal 26 marzo 2015, con i bombardamenti sullo Yemen da parte di una coalizione di paesi arabi guidati dall’Arabia Saudita e cn l’appoggio tecnologico degli Usa, oltre un milione di yemeniti si sono spostati in altre zone. Sono altri potenziali richiedenti asilo in Europa. L’Arabia saudita è il primo acquirente di sistemi d’arma dall’Italia. India: caso marò; dopo sentenza di Amburgo la Corte Suprema sospende i procedimenti Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2015 La Corte Suprema indiana ha sospeso tutti i procedimenti giudiziari riguardanti i marò italiani "fino a nuovo ordine". Una nuova udienza fissata per il prossimo 13 gennaio farà il punto della situazione. La decisione era attesa dopo la sentenza pronunciata ad Amburgo dal Tribunale del Mare lo scorso 24 agosto. La nuova udienza il 13 gennaio 2016, è due giorni prima della scadenza del nuovo permesso di sei mesi di permanenza in Italia concesso a Massimiliano Latorre. Respinta la calendarizzazione di una petizione per reintrodurre nel processo la Sua Act. Nell’udienza i giudici della Corte hanno anche respinto l’iniziativa di un avvocato di far calendarizzare una petizione firmata dai familiari di uno dei pescatori per la reintroduzione nel processo della legge antiterrorismo Sua Act. L’ordinanza del Tribunale del mare. Il Tribunale internazionale del diritto del mare di Amburgo ha ordinato che l’India e l’Italia si astengano dall’esercizio di qualsiasi forma di giurisdizione sui due fucilieri di Marina nell’attesa di una determinazione definitiva del caso da parte della Corte arbitrale. Il Tribunale non ha adottato nessuna misura sulla situazione di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, accusati dal 2012 dell’omicidio di due pescatori indiani scambiati per pirati. Accusa che i due fucilieri hanno sempre negato. I giudici di Amburgo martedì hanno accolto solo in parte le richieste italiane stabilendo che India e Italia devono astenersi "dall`esercizio di qualsiasi forma di giurisdizione sui due fucilieri di Marina, nell`attesa di una determinazione definitiva del caso da parte della Corte arbitrale, che è in via di costituzione". Entro il 24 settembre rapporto dei due Paesi. I giudici del Tribunale del mare non hanno accolto la richiesta di Roma in merito al rientro in Italia di Salvatore Girone e alla conferma della permanenza di Massimiliano Latorre in Italia e hanno chiesto, entro il 24 settembre, un nuovo rapporto in proposito da parte dei due Paesi. L’agente del Governo italiano Francesco Azzarello ha sottolineato che il Tribunale del mare "ha riconosciuto la piena legittimazione e competenza della Corte arbitrale sulla vicenda" e che ciò "tutela in parte i diritti italiani". L’Italia, come ha dichiarato anche il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha intenzione di rinnovare la richiesta di modifica delle condizione dei fucilieri dinanzi alla Corte arbitrale non appena questa sarà costituita. Pakistan: talebani accusano governo per morti in carcere Ansa, 27 agosto 2015 I talebani del Tehrek-e-Taliban Pakistan (Ttp) hanno accusato ieri le autorità pachistane di avere "avvelenato in carcere" Muslim Khan, ex portavoce del movimento in Swat, e Mehmood Khan, un altro loro importante comandante. In un comunicato firmato dal portavoce centrale de Ttp, Muhammad Khurassani, si sostiene che "due dei nostri più importanti comandanti sono stati avvelenati a morte in carcere e il nemico deve attendersi ora la nostra vendetta". Khurassani ha ricordato che un team di cinque membri dei talebani dello Swat, fra cui appunto Muslim Khan e Mahmood Khan, furono arrestati con un inganni nel 2009 "dopo essere stati invitati a un incontro a Peshawar". "Fino al 25 agosto 2014 son stati torturati - dice infine il portavoce - in differenti prigioni del Paese e alla fine avvelenati". Arabia Saudita: 4 condanne a morte eseguite in un giorno in differenti città del regno Aki, 27 agosto 2015 Le autorità saudite hanno eseguito in un giorno quattro condanne a morte in differenti città del regno del Golfo, portando a 130 il numero dei detenuti giustiziati dall’inizio del 2015. Lo ha riferito l’agenzia di stampa ufficiale Spa, citando una nota del ministero dell’Interno. Tre persone, di nazionalità saudita, sono state giustiziate per omicidio. Le esecuzioni, tramite decapitazione, si sono svolte nella provincia di Asir, nella città di Taif e nella provincia di al-Baha. Un siriano, infine, è stato decapitato nella provincia settentrionale di al-Jawf per traffico di droga. Stati Uniti: giornalista e cameraman uccisi in diretta tv, omicida posta clip del delitto di Marco Letizia Corriere della Sera, 27 agosto 2015 La reporter tv Alison Parker, 24 anni e l’operatore Adam Ward, 27 anni, assassinati mentre erano in onda, da un dipendente scontento della stessa tv che si è poi ucciso. Il killer covava risentimento verso le vittime e voleva vendicare la strage di Charleston. La morte in diretta tv, come il titolo di un celebre film. Stavolta però è successo sul serio negli Stati Uniti, a Moneta, in Virginia. Un uomo ha infatti assassinato a colpi di pistola la giornalista televisiva Alison Parker, 24 anni, della tv WDBJ7, rete locale della Cbs e il cameraman Adam Ward, 27 anni, mentre stavano effettuando un’intervista in diretta. Anche la signora intervistata, Vicki Gardner, la direttrice della locale camera di commercio, è stata ferita alla schiena, è stata operata ed ora è in condizioni stabili. Ma alla tragedia di un delitto si è aggiunto un ulteriore sfregio alle due vittime. Il killer, un collega scontento delle due vittime, poi identificato in Vester Lee Flanagan, 41 anni, ma che in televisione si faceva chiamare Bryce Williams, ha postato sui social il filmato del delitto visto dalla sua prospettiva, ovvero quella dell’assassino. Poi ha spiegato anche i motivi del suo gesto: dietro tutto ci sarebbe un presunto movente razziale. Vester Lee Flanagan, è infatti afroamericano, e ha lavorato per un anno nella stessa emittente delle vittime. "Alison ha fatto commenti razzisti. L’hanno assunta dopo questo?", ha postato sul social media riferendosi alla reporter uccisa. Ma Flanagan ce l’aveva anche con Ward che si sarebbe lamentato con la direzione del personale dopo una volta che avevano lavorato insieme. Il filmato dell’omicidio è particolarmente toccante nella sua essenzialità. Alison Parker, ripresa da Ward, stava intervistando, come detto, la direttrice della locale camera di commercio, al Bridgewater Plaza, centro commerciale di Moneta, quando improvvisamente sono risuonati degli spari. La giovane si gira spaventata urlando, cerca di nascondersi, grida "oh mio Dio", prima che la telecamera in mano al cameraman cada a terra. Nel movimento la telecamera riesce ad inquadrare per un attimo il volto dell’assassino. Che poi metterà in rete il filmato dell’omicidio visto dal suo punto di vista. La polizia ha prima isolato la zona di Moneta, dove è avvenuta l’aggressione mortale, e poi ha chiuso le scuole nella contea di Bedford e in quella vicina di Franklin. Gli agenti hanno bloccato l’intera area e hanno cominciato la caccia all’aggressore. Alle indagini hanno partecipato anche l’Fbi e l’Atf, l’agenzia federale Usa specializzata in crimini con armi da fuoco ed esplosivi. Ma la caccia all’uomo si è conclusa tragicamente nel giro di un paio d’ore. Flanigan si è infatti sparato un colpo di pistola alla testa quando la polizia lo ha raggiunto sull’Interstate 66 ed è morto in serata. Sempre il killer, dopo aver postato il filmato sui social, avrebbe inviato all’emittente tv Abc un documento per spiegare le motivazioni del folle gesto: l’uccisione dei due reporter in Virginia sarebbe un atto per vendicare la strage nella chiesa di Charleston, dove il 17 giugno scorso sono stati assassinati nove afroamericani. "Perché ho fatto questo? - si legge appunto nel documento inviato alla Abc - Ho pagato la caparra per la pistola il 19 giugno. La sparatoria nella chiesa di Charleston è avvenuta il 17 giugno", racconta Vester Lee Flanagan. Il killer poi aggiunge: "Quello che mi ha mandato fuori di testa è stata quella sparatoria. E sui miei proiettili ho inciso le iniziali delle vittime". L’autore del carteggio - che in numerosi tratti appare delirante - scrive poi di aver sofferto di discriminazione razziale, molestie sessuali e di essere stato oggetto di bullismo sul lavoro: "Ho tutto il diritto di essere arrabbiato, e la strage della Chiesa di Charleston è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso". Citati poi nelle 23 pagine inviate alla emittente anche gli autori delle stragi di Virginia Tech e della Columbine High School. Stati Uniti: sparatoria in Virginia, le due telecamere e il tabù infranto di Aldo Grasso Corriere della Sera, 27 agosto 2015 Ovunque censurata e dissimulata, la morte sembra risorgere in tv nelle vesti dell’imprevisto o come offerta sull’altare delle emozioni. Si fa presto a dire la morte in diretta, ma una scena così atroce non si era mai vista. Un killer uccide a colpi di pistola la giornalista televisiva Alison Parker, 24 anni, di una rete locale della Cbs e il cameraman Adam Ward, 27 anni, mentre stanno effettuando un’intervista. Sono immagini terrificanti: il volto della giornalista, che vede l’assassino avanzare e sparare, esprime l’orrore più grande che si possa immaginare. Seguiamo i suoi ultimi disperati tentativi di sfuggire la morte: la giovane si gira urlando, cerca di nascondersi, grida "oh mio Dio", prima che la telecamera del cameraman cada a terra. Cascando, la telecamera riesce a inquadrare per un attimo il volto dell’assassino. Dallo studio, la regia taglia la diretta: la conduttrice è sotto choc, senza parole. Riprende poi fiato: "Non siamo sicuri di cosa sia successo lì. Cercheremo di capire cosa fossero quei suoni". Poi arriva l’annuncio della morte della reporter e del collega. Ma non basta: l’incubo più grande deve ancora arrivare. Vester Lee Flanigan, un afroamericano che aveva lavorato per quel network utilizzando il nome Bryce Williams, posta sui social il filmato del delitto visto dalla sua prospettiva, quella dell’omicida (come fanno i tagliagole dell’Isis). Nel video, girato con il telefonino, si vede spuntare una pistola in primo piano, prima che inizi l’assurda resa dei conti. Per la prima volta la morte in diretta ha due punti di vista, quello delle vittime e quello dell’assassino. Come se un tetro gioco di specchi raddoppiasse la tragedia. Il nesso tra la morte e la sua rappresentazione in diretta è uno dei temi cruciali che attraversano le riflessioni sui media, uno di quei temi cui il cinema ha dedicato attenzione, a partire da L’asso nella manica di Billy Wilder a La morte in diretta di Bernard Tavernier, da Dentro la notizia di James L. Brooks ai cosiddetti "snuff movie", filmati amatoriali in cui vengono esibite torture con conseguente, inevitabile epilogo. Da tempo, per i media la morte non è più un tabù: dev’essere raccontata, mostrata, esibita quasi per la paura che una tragedia non vista resti invisibile, cioè inesistente. Ma i media siamo noi, sempre più pornograficamente addestrati a pedinare la morte in diretta. Inutile dare la colpa ai social network, alla mania narcisistica di dover certificare la nostra giornata con foto, video, messaggi. Da tempo (per noi italiani, almeno dalla tragedia di Vermicino) qualcosa si è spezzato per sempre, la morte si è fatta spettacolo, il nostro occhio si è indurito. Il catalogo delle atrocità è così sterminato che le domande legittime rattrappiscono sul nascere: un "accrescimento senza progresso", diceva Musil, che si risolve nella tranquilla connivenza della tragedia e del suo contrario. Il dramma di Moneta, in Virginia, ci dice soltanto che un nuovo tabù è stato abbattuto, che un nuovo limite è stato infranto. Ovunque censurata e dissimulata, la morte sembra risorgere in tv nelle vesti dell’imprevisto o come offerta sull’altare delle emozioni. Le immagini condivise sui social dall’assassino sono tanto più terribili quanto più svuotate di qualsiasi sostanza etica: le atrocità crescono, ma nessuno vuol rinunciare a fornire il proprio contributo al patrimonio della ferocia umana. Non è lo spettacolo che "deve" andare avanti, è la vita. Da molti anni, molta parte della nostra vita si svolge con l’apporto attivo della tv e dei social network. I media sono i nostri nuovi ambienti di socializzazione, "luoghi" in cui impariamo a comportarci, a divertirci, a soffrire. Persino a filmare il duplice delitto che stiamo per commettere.