Riflessioni per gli Stati Generali. Un funerale e sei detenuti suicidi in trenta giorni di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 26 agosto 2015 Roma Regina Coeli, Terni, Teramo, Pisa, Alba e Carinola. Sono le sei carceri italiane nelle quali, in soli trenta giorni si sono tolti la vita altrettanti detenuti. E il dato oggettivo solleva le proteste del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. (Fonte: agenzia Adnkronos, 22 agosto 2015) Si potrebbe dire che d’estate i mass media vanno in vacanza ed è difficile trovare notizie interessanti e solo i funerali coloriti con la musica di un noto film attirano l’attenzione di politici, funzionari di Stato, giornali e televisione. E il dramma che sei detenuti si sono tolti la vita in un mese nelle nostre "civili" e "democratiche" galere non interessa a nessuno. Il nostro è veramente uno strano paese se ci s’indigna di più per un funerale in stile zingaresco o "mafioso" (per chi non conosce la mafia) o alla Totò (sembra che quella carrozza la usasse il noto attore nei suoi film e feste) che per la morte di sei persone nelle mani dello Stato. L’altro giorno una guardia che legge i miei articoli in rete mi ha detto che non gli piace come e quello che scrivo perché parlo sempre male di loro e del carcere. Gli ho sorriso (i sorrisi sono le "armi" migliori dei prigionieri) e gli ho risposto che molti detenuti hanno qualcosa da dire, ma sono in pochi quelli che lo dicono e ancora meno quelli che hanno il coraggio di scriverlo. Pensandoci bene forse quella guardia non ha tutti i torti, perché in fondo il carcere non è poi cosi crudele e cinico come appare, perché esegue solo il suo compito per cui gli uomini l’hanno creato, e semmai sono le persone che lo rendono cinico e crudele. In questi giorni pensavo che i detenuti conducono la vita più "sicura" al mondo, forse anche perché è difficile che facciano un incidente stradale. Eppure i dati dicono che i detenuti si tolgono la vita e muoiono più delle persone libere. Nessuno però dice nulla del fatto che hanno buoni motivi per farlo perché il carcere in Italia non insegna molte cose, ma una cosa la sa fare molto bene, sa "convincerti" a toglierti la vita. Spesso i detenuti si domandano perché devono continuare a vivere anziché farla finita con una vita che tanto spesso è un inferno. E ammazzarsi non è affatto una domanda, ma una risposta perché per un detenuto a volte è più importante morire che vivere, per mettere fine allo schifo che ha intorno. Purtroppo spesso in prigione la vita è un lusso che non ti puoi permettere e per smettere di soffrire non puoi fare altro che arrenderti, perché in molti casi nelle nostre "Patrie Galere" vale più la morte che la vita. Il Ministro della giustizia Andrea Orlando da poco ha istituito gli Stati generali sull’esecuzione della pena. Sono stati formati diciotto tavoli e sono state coinvolte valide personalità del mondo della cultura, della magistratura, del volontariato, della politica e dell’amministrazione penitenziaria. Spero che qualcuno di loro si domandi perché molti detenuti in Italia preferiscono morire piuttosto che vivere. Io lo so. E se volete saperlo anche voi scendete nei gironi più bassi dell’inferno e scoprirete un mondo da Medioevo, ma con meno umanità di allora. Riflessioni per gli Stati Generali. Appunti per una rappresentanza dei detenuti di Elton Kalica Ristretti Orizzonti, 26 agosto 2015 Da qualche mese il Ministero della Giustizia ha riunito parecchi esperti di carcere per un’ampia consultazione ribattezzata "Stati Generali" sull’esecuzione delle pene. Un aspetto innovativo di questo studio collettivo è la dichiarata volontà di coinvolgere anche i detenuti. Ci sono 18 tavoli che stanno lavorando in modo autonomo su settori diversi della pena, e molti coordinatori di questi tavoli hanno promesso di incontrare i detenuti. Già a metà luglio nella Redazione di Ristretti Orizzonti sono venuti Mauro Palma, consigliere del Ministro della Giustizia, e i professori Adolfo Ceretti e Marco Ruotolo, "inaugurando" il confronto con i detenuti. In quell’occasione abbiamo discusso su possibili metodi di consultazione. Visitare le carceri e somministrare ai detenuti dei questionari rimangono i percorsi più praticabili, pur conoscendo i limiti che tali metodi hanno nella raccolta di dati. Diversi coordinatori dei tavoli si accingono quindi a entrare in carcere a visitare i reparti detentivi ascoltando i detenuti, altri hanno spedito questionari in giro per le carceri e stanno raccogliendo i dati. Sono azioni preziose, e come redazione stiamo collaborando con tutti i tavoli che hanno l’interesse ad approfondire con le persone detenute i temi che devono affrontare. Tuttavia noi avremmo voluto che fosse stato possibile coinvolgere la popolazione reclusa attraverso vere forme di rappresentanza di detenuti: la mancanza di questa rappresentanza è un vuoto che va riempito. Le inutili rappresentanze Gli autori dell’Ordinamento Penitenziario sono stati attenti a preservare il principio di uguaglianza tra detenuti. A tal fine, hanno limitato la diponibilità di denaro in possesso ai detenuti ai fini di creare una parità di condizioni di vita (art. 3 O.P.). Inoltre, hanno vietato l’attribuzione di mansioni che potrebbero comportare "l’acquisizione di una posizione di preminenza sugli altri" per contrastare l’affermarsi di gerarchie di detenuti (art. 32 O.P.). Alcune forme di "rappresentanza" dei detenuti sono state comunque previste. Esiste la Commissione cultura e sport (art. 27 O.P., art. 59 reg. esec.) che dovrebbe curare l’organizzazione delle attività. In realtà le attività culturali sono spesso progetti realizzati da attori esterni (associazioni di volontariato), mentre gli orari del campo sportivo e della palestra sono stabiliti (d’imperio) dalla direzione del carcere: due circostanze che hanno comportato la sparizione della Commissione cultura nella maggior parte delle carceri. Un’altra commissione prevista è quella che opera nella cucina del carcere (art. 9 O.P.) che coinvolge una rappresentanza dei detenuti o degli internati, designata mensilmente per sorteggio, ad effettuare controlli sulla preparazione dei pasti e sui generi alimentari in vendita all’interno del carcere. Uno strumento di controllo utile, se non fosse che molti detenuti hanno un bisogno estremo di lavorare, e l’opportunità di stare per un mese in cucina viene sfruttata per dimostrare di essere un buon elemento da assumere, esibendo gratuitamente la propria "disciplina del lavoro". Non ci sono forme di rappresentanza di detenuti che possano interloquire con l’amministrazione. L’esigenza di istituire la figura del Garante dei diritti dei detenuti ha sottolineato le difficoltà che il sistema carcere crea nel rapporto tra il detenuto, confinato all’interno degli spazi detentivi, e lo staff dell’istituto, spesso distante e impegnato ad operare in situazioni considerate spesso emergenziali. Una distanza riempita in parte da assistenti volontari che si prendono a cuore il caso e si attivano per il singolo detenuto, cercando la domandina smarrita oppure l’attenzione della direzione. Ci sono poi parecchi detenuti che usano un gesto autolesivo sperando che una volta di fronte al consiglio disciplinare possano approfittarne per attirare l’attenzione sui loro problemi. A Padova, quando il Direttore del carcere dialoga con i detenuti della redazione, qualcosa nella vita dei detenuti migliora sempre I detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti ogni 3-4 mesi incontrano il Direttore del carcere. Siamo consci di non rappresentare tutti i detenuti, ma ci occupiamo di informazione e ci vogliamo informare sui problemi di vita quotidiana all’interno del carcere. Gli incontri col direttore sono impostati sotto forma di intervista dove i problemi vengono sollevati dai detenuti nella forma di domande preparate collettivamente, e raccolte prima nelle sezioni. È un confronto che il direttore accetta di buon grado. Si siede al tavolo e affronta le questioni con un atteggiamento che intreccia il rigore dell’istituzione carcere con l’interesse dell’amministratore/persona disposta a risolvere problemi. Pur non avendo alcuna delega di rappresentanza dai detenuti, il gruppo di detenuti è sufficientemente rappresentativo per etnia e per durata della pena. Ma soprattutto è composto di persone che hanno imparato a discutere i problemi insieme, cercando di superare il vittimismo, anche se con fatica. Il confronto con la direzione non sempre comporta interventi rapidi e radicali da parte del Direttore. Se nella normalità la sfiducia nasce spontanea in chi si sente impotente di fronte alla macchina burocratica delle Istituzioni, in galera la rassegnazione è un sentimento quasi "cronicizzato". Ma noi a Ristretti abbiamo imparato ad aspettare il prossimo incontro e ritornare sull’argomento. A conti fatti, molte cose sono cambiate grazie al confronto. Basta pensare che quando arrivò la circolare sull’umanizzazione delle carceri (richiesta dall’Europa che aveva condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante delle persone detenute) nel nostro carcere le celle erano già aperte da qualche anno. Erano state abolite le domandine per telefonare e introdotta la scheda magnetica. Le due telefonate premiali venivano date in automatico a tutti i detenuti come una specie di "risarcimento" per il sovraffollamento. Altri esempi di interventi avvenuti in seguito ad incontri col Direttore sono i colloqui "lunghi" (anche per l’Alta Sicurezza") per pranzare con la famiglia la domenica, l’installazione di ventilatori e di distributori automatici per bibite e caffè in tutte le sale colloqui, l’introduzione di generi alimentari di discount nella spesa, la possibilità di utilizzare il computer portatile in cella e di andare all’aria nel pomeriggio per chi frequenta le attività scolastiche e culturali. Gli incontri hanno posto le basi anche per ulteriori collaborazioni con il Direttore del carcere su temi più "politici", come la proposta di legge sugli affetti che abbiamo presentato in un Convegno all’interno della Casa di reclusione e che ora è in discussione alla Commissione Giustizia della Camera. Sicuramente questa esperienza dimostra come la disponibilità umana e professionale di un direttore può trovare molti stimoli se si confronta con rivendicazioni ragionevoli e oggettive di un collettivo. Quando un direttore introduce la democrazia nel proprio istituto: le Commissioni di Reparto del carcere di Bollate Mentre la redazione di Ristretti è una "rappresentanza senza delega", nel carcere di Bollate ci sono i rappresentanti con mandato elettorale. Si tratta delle Commissioni di Reparto i cui membri vengono eletti dai detenuti attraverso libere votazioni. Questo organo di rappresentanza è ufficializzato da un Ordine di servizio emesso dal Direttore che conferma l’obiettivo di valorizzare le rappresentanze dei detenuti, posto dal Piano Territoriale del PRAP. L’ordinanza del direttore stabilisce che per ogni piano siano eletti due rappresentanti; della commissione devono far parte necessariamente anche i rappresentanti delle diverse etnie dei vari piani. Il rappresentante rimane in carica un anno, e nel caso dovesse cambiare piano il suo incarico decade formalmente e si procede con una nuova votazione. Inoltre è richiesta una presenza fissa agli incontri, perciò se si superano le tre assenze senza una giustificazione valida decade l’incarico. La commissione si riunisce una volta a settimana e, in via straordinaria, tutte le volte che vi è una questione urgente; inoltre a turno, una volta al mese, partecipano anche un educatore e un rappresentante della Polizia Penitenziaria; in occasioni particolari può essere invitato anche il Direttore, ma questa decisione è presa a seconda della gravità e urgenza della questione da sottoporre. A fianco delle Commissioni di Reparto ci sono anche le Segreterie di Reparto che si occupano di tutta la parte burocratica legata all’attività delle Commissioni. E non è semplicemente una cosa simbolica, ma un organo diventato il punto di riferimento per i detenuti, per la Polizia penitenziaria e per gli educatori. Le Commissioni di Reparto e le Segreterie di Reparto si raccolgono periodicamente nella manifestazione rappresentativa più alta chiamata Commissioni Riunite, che lo stesso Ordine di Servizio definisce "organismo che rappresenta la complessità dei detenuti dell’Istituto". Certo, il cosiddetto "progetto Bollate" è un carcere con caratteristiche particolari perché ospita detenuti almeno in parte preventivamente "selezionati", attua un regime interno aperto e offre maggiori opportunità lavorative all’esterno. Tuttavia si tratta sempre di un luogo di privazione della libertà, e per quanto migliore rispetto alle altre carceri, i problemi ci sono. Basta leggere qualche verbale e ci si accorge che anche nel carcere ritenuto modello ad aggravare la vita detentiva sono problemi comuni a tutte le carceri, come la mancanza di acqua calda nelle docce, i telefoni e le televisioni non funzionanti, i campanelli per le emergenze notturne mai collaudati, i tempi di attesa lunghi di tutte le istanze. Per concludere, proviamo a portare un po’ di democrazia in carcere La volontà degli Stati Generali di coinvolgere i detenuti sarebbe stata facilmente attuata se ci fossero state forme di rappresentanza in tutte le carceri. L’assenza di rappresentanti ci costringe a discutere e lavorare per introdurre forme democraticamente elette e delegate a portare avanti istanze di interesse collettivo in modo corretto ed efficace. Non serve tanto cambiare la legge. L’articolo 71 del Regolamento d’esecuzione già prevede la possibilità di assegnare compiti di animazione e di assistenza a singoli detenuti o internati, che dimostrino particolari attitudini a collaborare per il proficuo svolgimento dei programmi dell’istituto. Sicuramente l’esperienza di Bollate è un tentativo di responsabilizzazione del detenuto che si inserisce in un progetto più ampio di carcere responsabilizzante. Visto da fuori ci restituisce l’immagine di un dispositivo che funziona nel favorire l’analisi in tempo reale dei problemi che si presentano nella quotidianità detentiva e la trasmissione collettiva delle istanze e delle proposte alla direzione del carcere. Certo, non si può escludere che all’interno di tale dispositivo si possano perseguire altri interessi dai singoli di entrambe le parti. Ma come ogni democrazia, il pericolo che i "rappresentanti" si prestino ad altri interessi oltre a quello generale, diventa un rischio accettabile quando l’alternativa è non avere nessuna voce. Pertanto, se questi Stati Generali credono nell’importanza di coinvolgere anche i detenuti in quanto attori principali dell’esecuzione penale, non possono sottrarsi al compito di valorizzare forme di rappresentanza dei detenuti. Noi di Ristretti crediamo che valga la pena provare a portare un po’ di democrazia in carcere. Allegato: Ordine Di Servizio Direzione Carcere Bollate, 19.11.2014 Oggetto: Commissioni Di Reparto Rilevato che il Piano Territoriale del Prap del 2014 ha incluso tra gli obiettivi perseguiti quello della "valorizzazione delle rappresentanze dei detenuti"; Visto che da anni sono attive presso i reparti detentivi le commissioni dei delegati di piano e che la loro presenza è stata un’efficace strumento di confronto tra le parti e di governo dell’Istituto Visto che anche nelle riformulate tabelle di consegna sono stati inseriti i "delegati di piano" come referenti dei reparti e rappresentanti della restante popolazione detenuta Si dispone quanto segue: In ogni reparto detentivo deve essere istituita formalmente la commissione dei delegati di piano, facilitata da assistenti volontari che avranno anche funzioni di garanti del corretto svolgimento delle attività della commissione, al fine di migliorare la convivenza all’interno del reparto favorendo il dialogo fra tutte le componenti. Gli obiettivi della commissione sono i seguenti: rappresentare i compagni del reparto presso le istituzioni esaminare i problemi di tutte le componenti del reparto, elaborare e condividere proposte e soluzioni possibili essere un interlocutore riconosciuto dalle istituzioni contribuire a risolvere elementi di tensione che si possono generare in reparto La commissione è composta da due delegati per ogni piano, formalmente eletti dai compagni. Della commissione devono far parte anche i rappresentanti delle diverse etnie presenti in reparto e i delegati non possono accumulare più cariche di rappresentanza. I membri della commissione durano in carica un anno, con possibilità di essere riconfermati al massimo per un altro anno. Se durante l’anno un delegato si sposta di piano decade dall’incarico. Se un delegato si assenta dalle riunioni ingiustificatamente per più di tre volte decade l’incarico. I delegati sono tenuti a non divulgare i dati sensibili di cui vengono a conoscenza e sono tenuti altresì a partecipare agli incontri delle Commissioni Riunite, organismo che rappresenta la complessità dei detenuti dell’Istituto. La commissione di reparto si riunisce ogni settimana e, in via straordinaria, tutte le volte che vi è una questione urgente. Una volta al mese sarà presente, a turno, un educatore e un rappresentante della polizia penitenziaria. In particolari occasioni e, compatibilmente con i suoi impegni, sarà presente il Direttore. Uno o più delegati uscenti dovranno accompagnare la nuova commissione eletta per facilitarne il decollo e garantire la continuità del metodo. La commissione si avvarrà del supporto della segreteria per la compilazione del verbale e per la stesura della corrispondenza con le istituzioni interne e la stessa dovrà altresì fungere da luogo di informazioni (peer supporting) ai detenuti nuovi giunti e per la diffusione di tutte le comunicazioni utili per la popolazione detenuta. In merito a nomina e funzioni della segreteria di reparto si rimanda ad apposito regolamento che sarà prodotto. La commissione dovrà avere altresì il ruolo di costante sensibilizzazione verso il dialogo con l’istituzione e verso il rispetto delle comuni regole di convivenza. Il Direttore Giustizia: ancora morti in carcere, cambiare strategia sui reati legati a tossicodipendenza di Valter Vecellio lindro.it, 26 agosto 2015 Roma, carcere di Regina Coeli; e poi in quello di Terni, di Teramo, di Pisa, di Alba e Carinola. Nello spazio di un mese, in sei carceri altrettanti detenuti si tolti la vita. I mezzi di comunicazione, evidentemente distratti da altre "attualità" prestano poca attenzione a questa realtà. Al 30 luglio, stipati nelle carceri italiane risultavano 52.144 detenuti, 54.414 l’anno precedente. Duemila detenuti in meno sono una preziosa boccata d’ossigeno; rispetto alla capienza regolamentare c’è comunque un’eccedenza di 2.489 di detenuti. La situazione nelle carceri resta ad alta tensione: i sindacati della Polizia penitenziaria rivelano che in media, ogni giorno si registrano una ventina di atti di autolesionismo da parte dei detenuti, tre tentati suicidi sventati, una decina di colluttazioni e tre ferimenti. Il segretario del Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria Donato Capece richiama un pronunciamento del Comitato nazionale per la Bioetica che sui suicidi in carcere sottolinea come "il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere". L’Amministrazione Penitenziaria, accusa Capece, "nonostante i richiami di Bruxelles, non ha affatto migliorato le condizioni di vivibilità nelle celle, perché ad esempio il numero dei detenuti che lavorano è irrisorio rispetto ai presenti, quasi tutti alle dipendenze del Dipartimento Ammirazione Penitenziaria in lavori di pulizia o comunque interni al carcere, poche ore a settimana". Una politica che cifre e statistiche dicono essere miope: chi sconta la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4 per cento; un tasso di recidiva che precipita al 19 per cento quando si esaminano i detenuti che fruiscono di misure alternative; ed appena dell’1 per cento quando il detenuto risulta inserito nel circuito produttivo. Conclusione di Capece: "Tenere i detenuti fuori dalle celle buona parte del giorno a non far nulla è una scelta assurda e pericolosa. Dovrebbero lavorare, i meno pericolosi in progetti di recupero ambientale nelle città, pulendo i greti dei fiumi o i giardini pubblici, gli altri in attività dentro al carcere". Torniamo alle cifre: sui circa 52mila detenuti (circa 17mila gli stranieri); oltre 8mila sono in attesa di giudizio, circa il 16 per cento del totale. La tipologia dei reati: al 30 giugno al primo posto figurano reati contro il patrimonio (30.042); seguono quelli contro la persona (21.562); per droga (18.312); armi (10.088); associazione di stampo mafioso-416bis (7.023); reati contro la pubblica amministrazione (6.872); contro l’amministrazione della giustizia (6.026). Le misure alternative, ovvero le punizioni diverse dalla reclusione. Al 31 luglio 2015 sono 33.309 (nel 2014 erano 32.206): 12.793 gli affidamenti in prova al servizio sociale; 723 in semilibertà; 9.936 gli arresti domiciliari; 5.990 i lavori di pubblica utilità; 3.673 in libertà vigilata; 189 in libertà controllata e cinque in semidetenzione. Il Provveditore delle carceri del Triveneto: "In passato sarei stato contrario ma dopo trent’anni di lavoro ho dubbi sull’efficacia degli strumenti finora utilizzati". Una presa di posizione, ora, che perlomeno dovrebbe far riflettere ed essere attentamente valutata. E quella del provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto Enrico Sbriglia. Ascoltiamolo: "Dopo tanti anni di esperienza, ho capito che le pene meramente detentive non servono a fermare la reiterazione dei reati legati alla tossicodipendenza. Quando una strategia non funziona, bisogna cambiare metodo. Quindi, perché non muoversi in un’ottica di legalizzazione del consumo delle sostanze stupefacenti?". Una riflessione, quella di Sbriglia, maturata alla luce di una quasi trentennale esperienza al servizio del Ministero della Giustizia. Nel nostro Paese, racconta, i consumatori abituali di stupefacenti rappresentano il 30 per cento della popolazione carceraria. Chi commette un crimine legato alla droga, tende a rifarlo fuori dalle sbarre. Lo confermano i numeri: per un tossicodipendente il rischio di arrivare alla revoca della misura alternativa al carcere è di quasi quattro volte superiore ad un non tossicodipendente. La gestione dei detenuti con problemi di droga, dice Sbriglia, resta un problema irrisolto: "Quando ci si confronta con le dipendenze, non è facile dare soluzioni. La lettura esclusivamente securitaria di contrasto alla tossicodipendenza, non pare aver portato buoni risultati. Non trovo fuori luogo pensare a soluzioni alternative preventive. Non si arriva in carcere solo perché si fa uso di droga. Ma lo stato di tossicodipendenza favorisce la commissione di taluni odiosi reati, spesso predatori, che più di altri allarmano la collettività". Quella che Sbriglia suggerisce è una "lettura diversa, in un’ottica di governo della dipendenza: parlo di una normativa che preveda la legalizzazione, e non la liberalizzazione, delle sostanze stupefacenti, per un consumo controllato e vigilato. In passato sarei stato fortemente contrario, ma dopo trent’anni all’interno delle carceri ho il dovere di mettere in dubbio l’efficacia degli strumenti finora utilizzati". Più o meno quello che anni fa mi confidava un commissario di Polizia di Zurigo, di fronte alla tragedia prima del Parco Libero della droga al Platzpitz, poi del "ghetto" al Letten: "Le abbiamo provate tutte, e non è servito a nulla. Perché non provare anche la legalizzazione?". Giustizia: la rivoluzione nella Facoltà di Giurisprudenza, quinto anno a "numero chiuso" di Silvia Mastrantonio Il Giorno, 26 agosto 2015 Giurisprudenza, si cambia e si punta sul "numero chiuso" per il quinto anno da passare "sul campo". Si cambia anche per il post-giurisprudenza, quando si lavorerà con la toga addosso e ci si dovrà specializzare. Nei giorni scorsi il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha incontrato la collega dell’Istruzione, Stefania Giannini: hanno concordato le modifiche per l’ultimo anno universitario della facoltà di Legge. I dettagli sono in via di definizione e un nuovo incontro è previsto a settembre. Per adesso, però, si sa che la volontà congiunta è quella di dedicare il quinto anno di studio alla formazione, anche attraverso la scelta offerta allo studente tra diversi percorsi di specializzazione che comprendono un semestre di pratica. Potrebbe valere negli studi legali - con sei mesi di praticantato - ma anche negli uffici giudiziari per coloro che puntano alla carriera Inquirente. Gli esperti di via Arenula stanno valutando le diverse opzioni ma con una certezza: non sarà un cammino aperto a tutti. Pei: transitare nella formazione con relativa pratica lo studente dovrà superare degli step, Anche su queste modalità si sta ragionando in via Arenula con la possibilità che siano collegate alla media dei voti degli esami superati oppure al piano di studio e alla presenza di talune discipline specifiche. Chi non riuscirà ad avere accesso a questi percorsi formativi continuerà il quinto anno come avviene ancora oggi. Lezioni ed esami. Almeno questa sembra l’intenzione dei due ministri che stanno ragionando sulle innovazioni. Spiega Nicoletta Giorgi dell’Alga, Associazione dei giovani avvocati: è fondamentale che lo studente approfondisca la propria preparazione in determinati ambiti "costruendosi competenze specifiche". E anche un modo per cercare di fermare il crollo delle iscrizioni a Giurisprudenza. Nel 2014 si è registrato un -22% arrivato a confermare un trend negativo degli anni ancora precedenti. Un’altra ventata di innovazione arriva a spazzare via l’aria stantia. dei vecchi studi legali. Il ministro Orlando ha innato il regolamento per la specializzazione degli avvocati. Cioè le regole che permettono a un legale di conseguire e mantenere il titolo di avvocato specialista. Nel provvedimento vengono individuate 14 aree di specializzazione: dal diritto di famiglia a quello commerciale passando per quello dell’ambiente, amministrativo e tributario. Oltre, ovviamente, a penale e civile. Per ogni area, poi, il regolamento individua diversi ambiti di competenza. Sono previste due alternative per ottenere la qualifica: frequentare corsi ad hoc della durata di almeno due anni; attraverso il riconoscimento di comprovata esperienza nel settore. In questo secondo caso sono necessari almeno otto anni di iscrizione continuativa all’Albo. Ma la comprovata esperienza può essere riconosciuta anche a chi, pur non avendo gli 8 anni di iscrizione, dimostra di aver trattato in modo assiduo e prevalente, negli ultimi 5 anni, cause riferite all’area per cui si vuole chiedere il riconoscimento. Anche per le cause è fissato un tetto minimo: 50 l’anno. L’avvocato - una volta ottenuto il titolo di specialista che sarà registrato e certificato dal Consiglio nazionale forense - potrà continuare a esercitare anche in altri. settori del diritto. Giustizia: Mafia Capitale; team commissari per Giubileo, a Marino poteri solo sul traffico di Alessandro Capponi Corriere della Sera, 26 agosto 2015 Domani Renzi decide. Il governo: il piano opere va riscritto, irritazione per l’assenza del sindaco. La battuta (amara) dell’esponente della Capitale da sempre al fianco di Matteo Renzi: "Certo è vero, come si diceva qualche tempo fa, che tra Renzi e Marino alla fine ne rimarrà uno solo. Ma il punto è che se le cose continuano così quello a rimanere in piedi potrebbe pure essere Marino...". È la vigilia del Consiglio dei ministri che deciderà il destino di Roma: Mafia Capitale e Giubileo, le partite sono gigantesche (e dai mille risvolti, politici ed economici) e il sindaco è in vacanza. E i malumori - soprattutto dopo il vistoso funerale Casamonica - si sprecano. E anche tra quelli che in città hanno sempre appoggiato il presidente del Consiglio, qualcuno mugugna: "Matteo è interventista su tutto, tranne che su Roma". In realtà la scelta del governo sarebbe compiuta e riassumibile nella sintesi di un altro parlamentare (non renziano): "Roma sarà semi-commissariata". Perché se è dato per scontato che il Campidoglio non sarà sciolto per mafia è altrettanto probabile che Palazzo Chigi decida di affiancare a Marino ora (e soprattutto) Franco Gabrielli, il prefetto e sindaco-ombra designato, ora anche altri "commissari", almeno su specifiche linee amministrative legate al Giubileo. Sia su Mafia Capitale sia sull’Anno Santo, quindi, Roma sarebbe per certi versi "salva": ma la linea dettata dal presidente del Consiglio non lascerebbe "libero" il Campidoglio. A Ignazio Marino, infatti, il governo sembra sì orientato a concedere i poteri speciali ma solamente relativi ai provvedimenti su mobilità e traffico. Il resto - e cioè le partite più delicate e consistenti, come la supervisione su opere e finanziamenti - dovrà essere supervisionato da altri, a cominciare appunto dal prefetto. Il paragone col passato è impietoso: nel Giubileo del 2000 commissario straordinario fu nominato l’allora sindaco Francesco Rutelli. Stavolta, invece, il ruolo di supervisore va a Gabrielli, in modo da far passare dalla sua scrivania buona parte delle pratiche delicate (anche in ottica di provvedimenti necessari a superare Mafia Capitale). E un incarico di "controllo" sugli appalti sarebbe in arrivo anche per Raffaele Cantone. In Campidoglio ripetono che il modello sarà quello adottato "per l’Expo, con Gabrielli che avrà gli stessi poteri dati al prefetto di Milano". Di certo la città è a un bivio, dopo l’inchiesta di Mafia Capitale e a tre mesi dal Giubileo: per il presidente del Senato, Pietro Grasso, "a Roma è mancata la voglia di riconoscere questa mafia". Nell’incontro di ieri tra Marco Causi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti, alla fine è stato "consensualmente deciso di riorganizzare - si legge nella nota del Campidoglio - l’insieme di tutti gli interventi" già deliberati "dalla giunta (il piano da 50 milioni, ndr) in un nuovo piano organico". In sintesi, il piano va riscritto: domani, in una giunta che precederà di qualche ora il Consiglio dei ministri. Per avere procedure più snelle e trenta milioni in più, forse. Causi sulle polemiche per l’assenza di Marino: "Mi sento offeso perché è come dire che non ho fatto bene il mio lavoro". Ma la verità, per molti, è diversa: "È una fortuna per Roma che sia Marco Causi, in questi giorni, a tenere i rapporti col governo". Giustizia: l’imprenditore Antonio Monella, l’idolo dei leghisti "ho ucciso per sbaglio" di Davide Milosa Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2015 L’imprenditore di cui il Carroccio invoco la liberazione nel 2006 ammazzò un albanese che gli stava rubando l’auto. La concessione della grazia in cambio del ritiro di 500mila emendamenti alla riforma del Senato. L’uscita del leghista Roberto Calderoli trasforma la vicenda dell’imprenditore bergamasco Antonio Monella in una sorta di baratto politico tra il Carroccio e il governo Renzi. Eppure quella del 57enne di Arzago d’Adda è una storia complicata e sofferta, sia sul piano umano sia su quello giudiziario. Monella è in carcere dall’8 settembre 2014. Sulle spalle ha una condanna definitiva a sei anni e due mesi per omicidio volontario con l’esclusione del "dolo intenzionale". Nel 2006 sparò e uccise Helvis Hoxa, un albanese di 19 anni che assieme a due complici assaltò la sua villa tentando poi di rubargli un Mercedes fuoristrada. I giudici respinsero la richiesta di assoluzione per legittima difesa. E nonostante questo, fin da subito il suo caso ha unito forze politiche diverse nella richiesta di grazia. La storia di Monella inizia la notte del 6 settembre 2006. L’imprenditore edile si ritrova davanti tre banditi che subito scappano verso il garage della villa. In mano hanno le chiavi del suo suv. Monella se ne accorge e imbraccia un fucile da caccia regolarmente detenuto. Spara due volte. Decisivo il primo colpo che entra nell’auto e ferisce il giovane albanese. Alle 3 del mattino del 7 settembre i carabinieri trovano il ragazzo accasciato sotto i tavolini di un bar di Truccazzano in provincia di Milano. I complici se ne sono liberati. Hoxa morirà poche ore dopo all’ospedale di Niguarda. Sentito in procura a Bergamo, Monella si difenderà spiegando che il primo colpo è partito per sbaglio. Nonostante i suoi legali siano ottimisti per l’archiviazione in base alla legge sulla legittima difesa, l’imprenditore edile finisce indagato per omicidio volontario. Cinque anni dopo, il Tribunale di Bergamo lo condanna a otto anni. Il 29 giugno 2012 la Corte d’Appello di Brescia riduce la pena a sei anni e due mesi. Il primo marzo del 2014 i giudici della Cassazione confermano tutto. Il 22 marzo successivo il Tribunale di sorveglianza decide per il differimento della pena di sei mesi, giudicando "non improbabile la concessione del richiesto provvedimento clemenziale". Monella, che ha risarcito i familiari della vittima con 215mila euro, entrerà nel carcere bergamasco di via Gleno l’8 settembre accompagnato dal figlio di 26 anni. La politica si attiva subito. Due giorni dopo la sentenza della Cassazione, il sindaco Pd di Arzago d’Adda annuncia la nascita di un comitato per chiedere al presidente della Repubblica la grazia. La Lega si associa e subito cavalca la vicenda. Il neo-leader del Carroccio Matteo Salvini corre nella villa di Arzago. Commenta: "Rischia di finire in galera per aver ucciso un ladro che gli era entrato in casa. Spacciatori tranquilli a spasso e chi si difende in galera, roba da matti". La questione, però, non è solo politica. Il fatto pone il problema della legittima difesa. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando il 5 marzo 2014 annuncia l’avvio dell’istruttoria relativa alla domanda di clemenza. La vicenda di Monella torna d’attualità il 3 febbraio scorso quando in provincia di Vicenza, il benzinaio Graziano Stacchio uccide un uomo che stava rapinando una gioielleria. La Lega torna all’attacco proponendo di allargare la legge sulla legittima difesa. L’iter per comporre la domanda di grazia prosegue. E dopo il differimento di pena, è arrivato anche il parere favorevole della Procura generale della Corte d’Appello di Brescia. L’ultimo passaggio sarà il parere del Tribunale di sorveglianza sul comportamento in carcere di Monella. Il sottosegretario Ferri annuncia: "Ci sono le condizioni perché il ministro esprima parere positivo sulla grazia a Monella". Orlando promette un’accelerazione. La Lega festeggia. Anche se la vicenda di Monella è poco politica e tutta umana. Giustizia: caso Monella; il Pd fa l’offeso "niente scambio sulla grazia". Verdiniani irritati di Luca De Carolis Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2015 Sbarra la porta il Pd. S’arrabbiano i verdiniani, che si sentono quasi superati a destra. E c’è pure chi sorride. Il Calderoli che ha offerto di ritirare i suoi 510mila emendamenti alla riforma di Palazzo Madama ("tranne 4") in cambio della grazia ad Antonio Monella suscita reazioni multiformi nei partiti. Proprio nel giorno in cui Renzi chiude ancora al Senato elettivo: "Non è che devi votare tante volte per avere più democrazia, quello è il telegatto". E poche ore dopo la minaccia del sottosegretario alle Riforme, il dem Luciano Pizzetti: "Troppi emendamenti, porteremo il testo subito in aula". Ieri il premier ha sibilato sul tema da Pesaro: "Ci portano mezzo milione di emendamenti? Una risata li seppellirà". Renzi ostenta sarcasmo, ma Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato per il Pd, si dice sdegnata sul Corriere della Sera di Bergamo: "Mettere sullo stesso piano la riforma del Senato e la grazia a Monella non sta in piedi: sarebbe uno scambio improprio, è un fatto di correttezza istituzionale". Il verdiniano Vincenzo D’Anna si accalora: "Il baratto non è tra le forme costituzionalmente previste per l’attività parlamentare né può essere tollerato quello richiesto da Calderoli". Gli ex berlusconiani, dove Renzi dovrà pescare voti preziosi a settembre, non tollerano che un leghista getti una carta per tornare al tavolo. Gianlu-ca Castaldi, capogruppo dei Cinque Stelle, la butta lì: "Può darsi che dietro questa proposta di scambio, in tipico stile da Lega, ci siano richieste sulla composizione dei collegi elettorali". Ma il sospetto è anche un altro: "Oltre mezzo milione di emendamenti erano il pretesto perfetto per la maggioranza per forzare. E infatti in queste ore il Pd minaccia di saltare la commissione. Calderoli con quella montagna di carta in fondo li ha favoriti". Tradotto, la trattativa potrebbe essere più sottile di come appare. Federico Fornaro, uno dei dissidenti dem: "Con questa offerta Calderoli cerca soprattutto una via d’uscita politica, perché dopo i primi titoli sui giornali quella mole di emendamenti era difficile da giustificare. Di certo ha penalizzato noi della minoranza, che ne abbiamo presentato solo 17". Ma c’è la corsa a sedersi al tavolo con Renzi? "L’anomalia è proprio questa, la trattativa tra partiti e governo. Le riforme sono materia parlamentare, l’esecutivo non dovrebbe metterci bocca. O almeno dovrebbe permettere un vero confronto in commissione". Augusto Minzolini, fittiano, ride: "Tutti quegli emendamenti per il governo erano soprattutto un aiuto". Poi allarga: "Ciò che tutto il centrodestra continua a non capire è che quello è in difficoltà è Renzi. Nonostante Verdini non ha una maggioranza, crolla nei sondaggi e l’Italicum entrerà in vigore solo dal luglio 2016: non può usare la minaccia del voto. Dovrebbe essere lui a cercare contatti, non il contrario". E allora, niente scambi? "L’unica moneta concreta è il premio di coalizione nella legge elettorale: ma Renzi può mai concederlo?". In serata, il presidente del Senato Pietro Grasso alla Festa de l’Unità a Milano: "Sugli emendamenti all’articolo 2 (quello sul Senato elettivo, ndr.) deciderò da arbitro, basandomi sulle carte". Giustizia: Uno Bianca. Occhipinti chiede riduzione di pena, contrari i parenti delle vittime di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 26 agosto 2015 Quel giorno ci scappò il morto. Era il 19 febbraio 1988 e lui e i suoi amici poliziotti decisero di dare l’assalto a un furgone portavalori della Coop bolognese di Casalecchio dove venne freddata una guardia giurata, Carlo Beccari, 26 anni. Un delitto che costò l’ergastolo a Marino Occhipinti, agente della Narcotici di Bologna e membro minore della banda della Uno Bianca, l’organizzazione fondata dai fratelli Savi che fra gli anni Ottanta e Novanta si macchiò di 24 delitti e 103 crimini, tutti commessi per una sola ragione: denaro. Era la gang degli uomini in divisa che toccò il suo culmine il 4 gennaio del 1991, quando la Uno Bianca incrociò fra i palazzoni popolari del Pilastro una gazzella dei carabinieri. Fu una strage nella quale caddero tre giovani uomini dell’Arma sotto il "fuoco amico" dei poliziotti in versione banditi spietati. Ebbene, a distanza di 24 anni, dei quali 21 trascorsi dietro le sbarre del carcere Due Palazzi di Padova (dal 2012 in semilibertà), il cinquantenne Occhipinti ha chiesto alla Corte d’Assise di Bologna di poter accedere ai benefici del rito abbreviato, il che comporterebbe la commutazione del "fine pena mai" in una condanna a 30 anni di reclusione. "Considerati gli sconti di pena per buona condotta il mio cliente dovrebbe così essere libero da subito", ha calcolato l’avvocato Milena Micele, suo difensore. Domande: com’è possibile che un condannato all’ergastolo in via definitiva possa sperare in un "abbreviato postumo"? Per quale motivo non l’ha fatto prima? "Fino al 1999 la legge non consentiva questo rito per i delitti puniti con la pena a vita. Quando è cambiata, il processo era già in Cassazione e noi abbiamo comunque fatto istanza. Il momento era però di passaggio e non abbiamo avuto risposte. Cioè, la Cassazione non l’accolse e non la respinse. Non si capiva esattamente chi e quando la potesse chiedere". Ora Occhipinti ci riprova. Nonostante la stessa richiesta sia stata bocciata nel dicembre scorso a Fabio Savi, capo della banda (erano in sei) con i fratelli Roberto e Alberto, entrambi agenti in servizio a Bologna e Rimini. "C’è una differenza fondamentale - aggiunge il legale. Savi non aveva mai fatto ricorso all’abbreviato, anche quando avrebbe potuto". Una differenza che potrebbe essere presa in considerazione dalla procura di Bologna, chiamata a esprimere un parere davanti alla Corte. "Nel caso di Savi fu negativo - ricorda Valter Giovannini, procuratore aggiunto della città felsinea. Quanto a Occhipinti alla procura non è ancora pervenuto nulla, valuteremo". L’ipotesi della libertà ha provocato l’indignazione dei familiari delle vittime. "È un assassino e io non lo perdono. È stato in silenzio per sette anni anche se sapeva quello che facevano. Se avesse parlato avrebbe salvato tante vite, compresa quella di mio marito", è sbottata Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione che li rappresenta. Durante la reclusione Occhipinti ha fatto vari lavori: redattore della rivista "Ristretti", artigiano per un laboratorio di manichini interno al carcere e ora che è in semilibertà è occupato all’esterno in un cali center gestito dalla cooperativa Giotto che prenota visite per l’ospedale di Padova. Gli anni neri del vice sovrintendente della Narcotici sono lontani: la Uno Bianca, la banda del terrore, il sangue, le rapine. Lui ha confessato, si è pentito e ha abbracciato la fede cristiana: "Mi ha aiutato molto". Il giorno del suo primo permesso premio reggeva la croce di una Via crucis: "La mia vita è stata rovinata da quindici giorni di follia. Per quanto siano gravi i reati che ho commesso e per quanto mi abbiano segnato in maniera irrimediabile sono stati solo quindici giorni. Sia chiaro, non ho scuse e mi assumo tutte le responsabilità ma una cosa è certa: Marino Occhipinti non è quel giovane uomo". La scarcerazione non può essere condizionata alla disponibilità del braccialetto elettronico di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 25 agosto n. 35571. Non si può subordinare la scarcerazione di un imputato, considerato "adatto" ai domiciliari, alla disponibilità del braccialetto elettronico. Con un netto cambio di rotta la Corte di cassazione (sentenza 35571, depositata ieri), dispone l’immediata scarcerazione di un detenuto, al quale il Tribunale della libertà aveva revocato il carcere sostituendolo con la misura meno afflittiva, condizionandola però all’applicazione della "cavigliera". Un paletto non di poco conto visto che l’imputato doveva restare in carcere "fino all’avvenuta positiva verifica delle condizione per l’installazione". Il ricorrente si era venuto a trovare, dunque, nella situazione vissuta da migliaia di detenuti in "lista d’attesa" per ottenere il dispositivo elettronico che apre le porte del carcere. Inutilmente, visto che i braccialetti, messi a disposizione dal ministero dell’Interno, non bastano. L’Osservatorio carceri dell’Unione camere penali aveva sollevato il problema denunciando l’illegale detenzione di chi, pur avendo ottenuto i domiciliari deve restare in cella per la carenza del mezzi di controllo. Secondo i penalisti condizionare i domiciliari alla disponibilità del dispositivo elettronico è incostituzionale, perché comporta una disparità di trattamento tra persone che si trovano nella stessa situazione: solo chi è arrivato prima dell’esaurimento scorte ha potuto lasciare il carcere. Molti i ricorsi, fondati sullo stesso argomento, finiti in Cassazione. Ma la Suprema corte, fino a ieri, li aveva sempre respinti. L’ultima sentenza con la quale i giudici di piazza Cavour avevano negato i domiciliari è del 9 gennaio scorso. Nel ricorso, oltre a eccepire il contrasto con la Carta, si faceva presente che la fruizione di una maggiore libertà non poteva dipendere dalle esigenze di spesa della Pubblica amministrazione. La Suprema corte aveva però sottolineato che, secondo la costante giurisprudenza, con il braccialetto elettronico non è stata introdotta una nuova misura coercitiva ma solo "una mera modalità di esecuzione di una misura cautelare personale". Il braccialetto - chiarivano i giudici - rappresenta una cautela che il giudice può adottare per valutare la capacità dell’indagato di autolimitare la sua libertà di movimento e non certo per rafforzare il divieto di non allontanarsi dalla propria abitazione. Nel vecchio corso la Cassazione aveva affermato che il rigetto della richiesta di concessione dei domiciliari, motivato dalla mancanza del dispositivo, non viola la Costituzione perché "l’impossibilità della concessione degli arresti domiciliari senza braccialetto dipende pur sempre dall’intensità delle esigenze cautelari, comunque ascrivibile alla persona dell’indagato". Inoltre, non si può pretendere che lo Stato predisponga un numero indeterminato di braccialetti pari a quello dei detenuti per i quali può essere utilizzato. Ieri, però, la Suprema corte ha invertito la rotta, precisando che del braccialetto si può anche fare a meno. Una conclusione raggiunta partendo proprio dal ragionamento con il quale in passato era stata affermata la necessità del dispositivo e del quale ora si sottolinea un’anomalia: se il giudice decide di adottare il mezzo elettronico, consapevole che non è una misura coercitiva ulteriore e non serve a evitare la "fuga" ma solo a "testare" la capacità dell’imputato di autolimitarsi, assumendo l’impegno di installare il braccialetto, allora vuol dire che a suo giudizio le esigenze cautelari possono essere soddisfatte anche con misure diverse dal carcere. È dunque già superata la presunzione per la quale, basandosi sul reato, il carcere era stato considerato una cautela ragionevole. Per questo la Cassazione ordina l’immediata scarcerazione del ricorrente, con una sentenza probabilmente destinata a fare da apripista per migliaia di richieste di scarcerazione. Da un’indagine sul territorio dell’Osservatorio carceri delle Camere penali, coordinato dall’avvocato Riccardo Polidoro, risulta, infatti, che le soluzioni indicate dall’Autorità giudiziaria sono diverse: la via più percorsa era, almeno fino a ieri, il mantenimento in carcere. Messa alla prova: istanza respinta senza il programma di recupero Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2015 La formulazione della domanda dì sospensione del processo e messa alla prova è un passaggio particolarmente delicato per l’interessato, la cui istanza rischia di incorrere in preclusioni e inammissibilità suscettibili di compromettere il buon esito della procedura, ponendo il soggetto di fronte all’alea del processo e all’eventuale condanna da scontare nelle forme ordinarie. In un contesto giuridico-normativo tuttora gravido di incertezze applicative, particolarmente preziose si rivelano le indicazioni elaborate da alcuni importanti uffici giudiziari - in particolare Milano e Napoli - che offrono alcuni utili chiarimenti relativi alle formalità di presentazione dell’istanza. La domanda deve, anzitutto, rispettare i requisiti di legge, sia sotto il profilo formale (articolo 464-bis del Codice di procedura penale) che sostanziale (articolo 168-bis del Codice penale). Vanno inoltre rispettati i termini di decadenza, ai quali va fatta particolare attenzione poiché variano a secondo che la richiesta sia formulata al Gip, al Gup, al giudice del dibattimento o del giudizio direttissimo. Per le domande proposte nel corso delle indagini preliminari, vanno anche osservati i termini e le modalità indicate nell’articolo 464-ter del Codice di procedura penale. È invece sempre obbligatorio allegare un programma di trattamento elaborato di concerto con gli assistenti sociali (Uepe) o la richiesta di tale programma. In quest’ultimo caso, l’interessato dovrà presentare alla cancelleria del giudice - a pena di inammissibilità - insieme con la domanda di messa alla prova, copia della richiesta all’Uepe con la prova del deposito. La prassi orientata a che il giudice, valutata l’ammissibilità dell’istanza, conceda un breve rinvio per la messa a punto del programma di trattamento. In questo spazio di tempo è da ritenere che la prescrizione resti sospesa (articolo 159 comma 1, n. 3 del Codice penale). Da questa prassi sono esclusi i casi in cui si procede con rito direttissimo i cui tempi stretti non permettono la produzione del programma o dell’attestazione della presentazione della domanda. In tal caso, le indicazioni operative contenute nelle guide-lines della magistratura sono per la concessione di un breve rinvio che consenta all’imputato di presentare la domanda all’Uepe e di un rinvio successivo che permetta agli assistenti di elaborare il programma di trattamento. Il giudice valuterà altresì i profili relativi alla misura cautelare (ovviamente non compatibile con la messa alla prova). Tra le ipotesi di inammissibilità, si segnalano i casi di assoluta carenza derequisiti di legge (ad esempio per superamento dei limiti di pena, per la sussistenza di una declaratoria di delinquenza qualificata, etc.) o il mancato rispetto dei termini di decadenza previsti dall’articolo 464-bis del Codice di procedura penale (cui va assimilata l’ipotesi di reiterazione di istanza già respinta, che supera quindi il limite di cui all’artico-lo 464-quater comma 9 del Codice di procedura penale). Se la domanda è affetta da vizi formali (ad esempio poiché proposta da difensore non munito di procura speciale; o formulata dall’imputato la cui sottoscrizione non sia autenticata), la parte può riproporre l’istanza prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. Rifiuto di sottoporsi all’alcol test dopo l’incidente? Niente aggravante di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2015 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 25 agosto 2015 n. 35553. Un punto a favore dei guidatori che oppongono un rifiuto all’alcol test: a loro, se causano un incidente, non si può applicare la stessa aggravante prevista per chi viene trovato in stato di ebbrezza. Lo ha stabilito la Quarta sezione penale della Cassazione con la sentenza 35553/2015, depositata ieri. Una pronuncia che interviene su una questione su cui si attende un chiarimento per il 29 ottobre, quando la tratteranno le Sezioni unite. La questione era stata loro rimessa proprio dalla Quarta sezione, che però, sulla vicenda decisa con la sentenza 35553, ha ritenuto di pronunciarsi ugualmente perché nel caso specifico c’era il rischio di prescrizione. E ancora una volta la Quarta sezione mostra un orientamento più favorevole ai guidatori, senza preoccuparsi di contraddire i propri precedenti (si veda Il Sole 24 Ore del 14 e del 16 aprile scorsi). Una differenza che forse può essere spiegata dal cambio dei giudici che compongono la sezione. La sentenza depositata ieri potrebbe influenzare il giudizio delle Sezioni unite, anche perché si riferisce a un reato commesso il 21 agosto 2010, cioè quando l’attuale sistema sanzionatorio sull’alcol alla guida era già in vigore (da pochi giorni) con la legge 120/2010. In sostanza, le incertezze nascono sempre dal fatto che, per punire il rifiuto di sottoporsi all’alcol test, l’articolo 186 del Codice della strada fa rinvio alle sanzioni previste per il caso più grave di guida in stato di ebbrezza (quello con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l). Ma il rinvio non riguarda espressamente le aggravanti che scattano per chi provoca un incidente (raddoppio del periodo di sospensione della patente e inapplicabilità della conversione della pena in lavoro di pubblica utilità). In precedenza, la Quarta sezione aveva concluso che il rinvio c’era lo stesso, argomentando che l’articolo 186, il comma 7 (quello sul rifiuto) rinvia alla lettera c del comma 2 (quello con le sanzioni più pesanti), il quale a sua volta rinvia al comma 2-bis (quello sulle aggravanti per chi causa un incidente). Ora la Quarta sezione ritiene che quest’ultimo rinvio non si estenda a ritroso al comma 7, che si riferisce a una questione di altra natura. Droghe leggere e fatti di lieve entità, revoca della patente da valutare caso per caso di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2015 Tribunale di Brindisi - Ordinanza 29 luglio 2015. Nessun automatismo tra la condanna per traffico o detenzione di sostanze stupefacenti - nell’ipotesi di fatti di lieve entità o legati alle droghe leggere - e revoca della patente. La previsione obbligatoria contenuta nell’articolo 120 del Codice della strada si riferiva infatti ad un diverso quadro normativo messo fuori gioco prima dalla sentenza della Corte costituzionale 32/2014, che ha ripristinato la distinzione tra droghe pesanti e leggere, e poi dal Dl 146/2013 che tramutato una circostanza attenuante - la lieve entità - in una autonoma ipotesi di reato. Per queste ragioni il tribunale di Brindisi (ordinanza 29 luglio 2015), in via cautelare, ha sospeso il provvedimento di revoca della patente deciso dal prefetto come conseguenza automatica di una condanna irrevocabile da parte della Corte di appello di Lecce a due anni di reclusione (pena sospesa), e 4 mila euro di multa, per il reato previsto dall’articolo 73, comma 5, del Dpr 309/1990. All’opposto, secondo l’amministrazione, il provvedimento di revoca era vincolato dal tenore letterale dell’articolo 120 del Codice della strada "laddove, adoperando la formulazione "il prefetto provvede alla revoca della patente di guida", non lascerebbe alcuno spazio per valutazioni discrezionali della PA". La motivazione - L’ordinanza del tribunale pugliese invece si rifà a due recenti sentenze del Tar di Brescia (nn. 187 e 500 del 2015) secondo le quali l’automatismo va escluso. Infatti, argomenta il giudice, la revoca era obbligata prima che la sentenza della Consulta dichiarasse l’illegittimità dell’articolo 4 bis Dl 272/2005 così facendo scomparire l’omologazione del trattamento sanzionatorio tra droghe leggere e pesanti, e ripristinando la versione precedente della norma. Mentre con riferimento ai fatti di lieve entità il cambio di rotta è arrivato col Dl 146/2013 che ha tramutato in una autonoma ipotesi di reato quella che era stata fino ad allora considerata una circostanza attenuante (impostazione poi confermata anche dal successivo DL 36/2014). Delineato il nuovo assetto normativo si deve procedere anche ad una rilettura del Cds. Per il giudice Moschettini, seguendo un’interpretazione "costituzionalmente orientata" (venendo in considerazione diritti a copertura costituzionale come la libertà di circolazione), nell’ipotesi di fatto di lieve entità o condanna per droghe leggere (se la pena inflitta in tale ultimo caso non superi il massimo edittale previsto per la fattispecie di lieve entità) "l’autorità amministrativa, prima di emettere il provvedimento di revoca, dovrebbe esaminare la posizione dell’interessato, tenendo conto non solo della condanna penale ma anche della sua condotta successiva e delle prospettive di reinserimento sociale, valutando, all’esito, se il persistente possesso della patente possa rappresentare uno strumento di riabilitazione o, all’opposto, un aggravamento della pericolosità sociale". Non va dimenticato infatti che la ratio della norma è quella di garantire la sicurezza pubblica, escludendo dalla conduzione dei veicoli "coloro i quali siano ritenuti pericolosi, pericolosità che, in caso di condanna per un fatto di lieve entità, non può ritenersi presunta". Lettere: il giustizialismo non va in vacanza di Filippo Facci Libero, 26 agosto 2015 Bisogna essere brutti dentro per incazzarsi col Sabino Cassese il 24 di agosto, così, prendendo cappello e sclerando solo perché il professore (80 anni a ottobre) lunedì scorso si è permesso di scrivere delle placide ovvietà sulla giustizia e sui magistrati. È vero, Cassese le ha scritte nientemeno che nell’editoriale di apertura del Corriere Della Sera, roba importante, e il travasato di bile è Marco Travaglio, d’accordo. Inoltre il professor Cassese è inviso al professor Gustavo Zagrebelsky che è amico di Travaglio, d’accordo anche su questo: ma vien da chiedersi, lo stesso, che razza di vacanze abbia fatto il direttore del Fatto. Oltretutto lo sapete che il Corriere-della-Sera-tardi è fatto così: arriva sempre buon ultimo, mette timbri di ufficialità sopra tutto ciò che è già lampante da tempo, il che significa che anche Sabino Cassese non ha certo rivelato nulla. Il professore oltretutto è un personaggio serafico, un ex giudice costituzionale noto per il suo equilibrio e non propriamente un berlusconiano: nel 2013, per dire, è stato relatore sul conflitto d’attribuzione sollevato dal Cavaliere contro il tribunale di Milano, e sappiamo com’è finita. Il problema è che si contrappose a Zagrebelsky sulla questione delle intercettazioni illegali che riguardavano il Quirinale: sappiamo anche questo. Ma detto questo - domanda - che cosa ha detto, che cosa ha scritto Cassese sul Corriere? Ha scritto, nell’ordine, che gli avvocati in Italia restano troppi, che il Csm è inquinato dalle correnti, che la Cassazione è intasata di ricorsi, che i magistrati abusano della carcerazione preventiva, che la usano per ottenere confessioni, che troppi magistrati passano in politica o esternano di politica, che troppe procure dettano l’agenda politica o addirittura stabiliscono criteri di politica industriale, che sulla criminalità organizzata ci sono procure valevoli ma altre che paiono inadeguate come pure le forze di polizia, che il sistema giudiziario è invasivo e che fallisce come erogatore del servizio della giustizia, che perciò molti la rifuggono e non ne hanno nessuna fiducia, che i tempi sono notoriamente geologici. Oltre questo il professore ha scritto le solite cose, ovvie anche queste: che c’è l’abuso delle intercettazioni, che è necessario separare le carriere tra giudici e pubblici ministeri come avviene in tutti i paesi civili, che la Corte di Strasburgo ci ha criticato e condannato un’infinità di volte: c’è qualcosa che non sapevate? E non lo diciamo per prendercela con Cassese, che è un insigne e pacato giurista che non fa che riordinare ciò che è appunto palese a tutti: ma con chi, nel tardo agosto 2015, ancora ha il coraggio di negare ciò che è appunto palese a tutti. Travaglio - lasciando da parte gli insulti che rivolge al professore, musica per i suoi lettori più cretini - ha scritto che le considerazioni di Cassese corrispondono a "i più vieti, banali e farlocchi luoghi comuni sparsi sull’argomento". Ha ragione: sono realtà così ovvie che ormai sono diventate luoghi comuni, non per questo meno veri. Poi, però, il negazionista passa a negare l’evidenza e sciroppa i rimedi (suoi) che a suo dire sarebbero stianoti: "Disincentivare le impugnazioni pretestuose e limitare i dibattimenti rendendo convenienti i riti alternativi: patteggiamenti e abbreviati", poi "abolire l’appello, filtrare i ricorsi in Cassazione, consentire la reformatio in pejius (l’aumento della pena in caso di impugnazione) ecc.". Avete notato anche voi? I "rimedi" del professor Travaglio sono soltanto olio negli ingranaggi della pubblica accusa: non servono all’accertamento della verità, servono solo a velocizzare la condanna di chi si ritiene automaticamente colpevole. Non c’è spazio per i non colpevoli: l’ammissione ai riti alternativi, infatti, implica l’ammissione del reato, e dal momento che c’è il reato, beh, ogni impugnazione diventa "pretestuosa" e quindi aboliamo l’Appello, come no, anzi, prevediamo che, in caso di appello, la pena possa essere aumentata. Tutte le altre necessità invocate da Cassese e da mezzo Paese (tipo il fissare delle linee guida per il perseguimento dei reati, o separare le carriere dei magistrati) secondo Travaglio equivalgono a "sventrare la carta", cioè la Costituzione: e se all’estero le ovvietà predicate da Cassese sono realtà, sappia il professore che "gli organismi europei additano il modello italiano come un modello da imitare e una garanzia di indipendenza dei giudici". E qui siamo alla pura invenzione, alla barzelletta: il modello della giustizia italiana, semmai, è un notorio zimbello mondiale, tanto che è additato tra le cause dell’arretratezza e della mancata crescita del Paese. Che poi in giro per il mondo ci sia qualche toga a cui piaccia il modello italiano (ma non "gli organismi europei") è come dire che a Lucignolo piaccia il paese dei balocchi. Lettere: la nostra battaglia contro il caporalato di Maurizio Martina* e Andrea Orlando** La Repubblica, 26 agosto 2015 La piaga del caporalato nel nostro Paese purtroppo è ancora aperta e queste settimane ci hanno consegnato fatti drammatici che nessuno può minimizzare. Morire di lavoro nei campi e lavorare a due euro l’ora è inaccettabile, cosi come lo sono gli atteggiamenti omertosi che avvolgono troppo spesso questi fatti. Il fenomeno ha radici profonde, investe da tempo territori e settori delicati, a partire da alcune filiere agricole dove, a fronte di tante imprese sane e legali, si annidano comportamenti e pratiche oltre le regole. La contiguità con le dinamiche della criminalità organizzata è un tratto riscontrato in diversi contesti e oggi lo sfruttamento della manodopera si alimenta anche della tratta di essere umani generata dai nuovi fenomeni migratori di massa, Indignarsi non basta. Dobbiamo sempre ricordare che la mafia, sin dai suoi albori, svolse un ruolo fondamentale nella difesa dell’inaccettabile ordine latifondista che opprimeva il mondo agricolo del Mezzogiorno. Un ruolo di vera e propria polizia di classe. Oggi, quell’odioso assetto di sfruttamento del lavoro, che è stato superato con lotte drammatiche, può riproporsi in forme antiche o attraverso nuove dinamiche. La necessità di alzare il livello dì consapevolezza e contrasto a questi fenomeni è un dovere immediato per noi. Innanzitutto a partire da una strategia per il rafforzamento dei controlli ispettivi in campo, perché nessuna norma può essere davvero utile se non si attiva una forte azione di controllo e presidio dei territori. Su questo siamo impegnati con i ministri Alfano e Potetti, gli organismi ispettivi e le forze dell’ordine. Il prossimo 27 agosto si terrà un vertice nazionale a partire da questa priorità a cui deve contribuire in modo significativo anche il nascente Ispettorato nazionale del lavoro e un modello organizzativo in grado di attivare rapidamente task force locali. Un secondo fronte d’impegno deve assolutamente coinvolgere tutti gli attori delle filiere produttive maggiormente esposte a questo fenomeno. In particolare, nelle produzioni agroalimentari è necessario un patto di responsabilità in grado di coinvolgere i produttori e le loro associazioni d’impresa, il mondo del lavoro e il sindacato, la grande distribuzione organizzata, le realtà dell’industria alimentare e le regioni. Dobbiamo agire ancora sul versante della contrattualistica per coniugare sicurezza e flessibilità. La stessa dinamica organizzativa di alcune produzioni e la formazione dei prezzi non sono variabili secondarie di fronte a queste situazioni. Lo strumento innovativo della "Rete del lavoro agricolo di qualità" voluto fortemente dal Governo con il decreto 91/2014, atteso da tempo dal mondo del lavoro e operativo dal 1 settembre, può segnare un punto di svolta per la certificazione etica delle attività d’impresa e nel rapporto consapevole con il cittadino-consumatore. Le Regioni inoltre potrebbero introdurre scelte utili sui requisiti di accesso ai fondi europei dello sviluppo rurale incentivando proprio chi aderisce alla "Rete del lavoro di qualità". Un terzo fronte d’azione riguarda il rafforzamento delle norme di contrasto al caporalato. Già oggi il decreto legislativo 231 prevede la revoca dei finanziamenti pubblici ad aziende che non rispettano le leggi in materia di sicurezza, così come il Testo unico per la sicurezza sul lavoro indica la sospensione dell’attività di impresa in caso di occupazione irregolare e di recidive violazioni delle norme. L’istituzione del reato di caporalato nel 2011 è stato un passo decisivo, ma occorre riflettere su alcune possibili novità utili per meglio colpire il fenomeno. Pensiamo, innanzitutto, alla possibile estensione delle misure di prevenzione patrimoniale antimafia a chi sì avvale di caporali, alla responsabilità dell’impresa che ne benefica "a valle" e all’avvio operativo di programmi specifici per sostenere e accompagnare il lavoratore che denuncia il proprio caporale. Va colpita la ricchezza generata dallo sfruttamento illecito del lavoro e le riforme legislative proposte e sostenute dal Governo vanno in questa direzione. Per combattere il fenomeno del caporalato non servono però generalizzazioni: la grande maggioranza delle imprese agricole sono realtà sane e in regola. Ma guai a noi se questa considerazione ci portasse, come forse è accaduto per troppo tempo in passato, a sottovalutare il problema derubricandolo a fenomeno marginale. Non è affatto così. Questo Paese ha conosciuto storie d’impegno straordinarie su questo fronte: pensiamo a figure come Giuseppe Di Vittorio, che ha dedicato la sua intera esistenza al riscatto del mondo contadino o a Placido Rizzotto, che pagò con la vita la sua sfida alla mafia rurale e a tanti altri che hanno combattuto per la giustizia sociale e per dare regole conseguenti al lavoro agricolo. Noi oggi abbiamo il dovere di organizzare una reazione consapevole all’altezza del problema, a difesa del lavoro e dell’impresa ma, soprattutto, a salvaguardia della vita di tante lavoratrici e tanti lavoratori che in quei campi devono poter vivere con piena dignità la propria esistenza. *Maurizio Martina è ministro delle Politiche agricole **Andrea Orlando è ministro della Giustizia Venezia: mancano i braccialetti elettronici, detenuti costretti a restare in carcere di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 26 agosto 2015 "Non è disponibile un numero sufficiente di braccialetti elettronici con un risultato aberrante: persone che dovrebbero andare agli arresti domiciliari sono costrette e restare in carcere". A denunciarlo è il presidente della Camera penale veneziana, l’avvocato Renato Alberini, che, al pari dei colleghi di molte altre province ha deciso di avviare una battaglia di civiltà su questo delicato tema, che riguarda la liberà personale. Da un lato per informare l’opinione pubblica di quanto sta accadendo; dall’altro per cercare di ottenere provvedimenti dal Governo affinché venga messo a disposizione un numero maggiore di braccialetti, sufficiente a rispondere alle esigente. Ma anche per fare in modo che le procedure di installazione diventino più efficienti di quanto non accada oggi. Le norme in materia di custodia cautelare sono state modificate recentemente, anche a causa del sovraffollamento carcerario, rendendo impossibili le misure cautelari (cioè carcere e domiciliari prima di una sentenza definitiva) se la pena prevedibile sia inferiore ai tre anni. E imponendo al giudice di motivare per quale motivo l’indagato debba finire dietro le sbarre e non siano sufficienti gli arresti domiciliari. Negli ultimi mesi, di conseguenza, sono sempre più numerosi i provvedimenti che impongono i domiciliari e, nei casi in cui il giudice ritiene necessario un controllo più stretto, viene decisa l’applicazione del braccialetto elettronico. Ma i braccialetti che il ministero della Giustizia ha messo a disposizione in tutta Italia non sono sufficienti. E, in mancanza di braccialetti, l’indagato deve restare dietro le sbarre. "Si tratta di una detenzione illegale", ha denunciato il presidente dell’Unione Camere penali, Beniamino Migliucci. Dallo studio effettuato a livello nazionale dai penalisti, emerge che i braccialetti "a disposizione sul territorio nazionale sono circa 2mila e costano allo Stato 11 milioni di euro all’anno (5.500 euro l’uno) versati a Telecom Italia (fornitore unico, senza gara d’appalto) a cui vanno aggiunti gli 80 milioni di euro versati sempre a Telecom, dal 2001 al 2011 per l’utilizzo, in via di sperimentazione, dei primi 114 braccialetti - denunciano Unione delle Camere penali e Osservatorio carcere - L’attuale contratto di fornitura non prevede peraltro la possibilità dell’aumento del numero di dispositivi da parte di Telecom. Occorrerebbe dunque rifare nuovamente l’appalto milionario". Mantova: ex Opg Castiglione delle Stiviere, la Fp-Cgil denuncia l’aumento degli internati rassegna.it, 26 agosto 2015 Continuano a far notizia le evasioni di internati dell’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, nel mantovano. "L’ultima a ferragosto. Ma la vera notizia è che nell’ex Opg, oggi Rems, residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, sono ancora internate oltre 260 persone, e ne sarebbero previste 160. Il tutto perché in altre regioni le Rems non sono ancora state realizzate", così la Fp Cgil in un comunicato stampa. "A parte che la legge prevede che le Rems siano soltanto una misura transitoria, perché la logica manicomiale va superata - afferma Manuela Vanoli, segretaria Fp Cgil Lombardia. Ma cosa si aspetta a potenziare i servizi sul territorio per la presa in carico delle persone già dimissibili?". Tra i punti critici di questa complessa questione, c’è il fatto che la legge ha previsto di chiudere gli Opg, ma non di smettere di internare le persone, con un concreto conflitto tra decisioni dei magistrati e possibilità di accoglienza nelle strutture, qui nello specifico quella di Castiglione. In più la tipologia degli internati sta cambiando. Le persone, autrici di reato, con problemi psichiatrici sono sempre meno. In aumento invece quelle con problemi di disagio, come i tossicodipendenti. Con il personale sanitario non in grado di far fronte a tutto, e in particolare non alle funzioni di custodia. "Questa partita di civiltà, a cui anche la Fp Cgil è impegnata da anni, si vincerà davvero attraverso forti investimenti sui servizi territoriali e sulle risorse umane che in essi operano - continua Vanoli. È intollerabile il ritardo delle istituzioni preposte, passa per negligenza. In gioco ci sono persone, e con la vita delle persone non si gioca". Lamezia: il Comune chiarisce su chiusura carcere presto incontro con il ministro Orlando lametino.it, 26 agosto 2015 In merito alle note pubblicate dal Comitato Riapriamo il Carcere di Lamezia Terme e dal consigliere comunale Rosario Piccioni, relative alla chiusura definitiva della Casa Circondariale ricadente nel territorio lametino l’amministrazione comunale evidenzia come "la responsabilità di tale gesto, oseremmo dire scellerato, sia imputabile, solo ed esclusivamente, alla vecchia Amministrazione Comunale ossia quella targata Gianni Speranza, e che nessun rimprovero, neppure a titolo di negligenza, può essere mosso nei confronti dell’attuale Amministrazione guidata da Paolo Mascaro. Risulta, infatti, riscontrabile come quest’ultimo, sin dai primi giorni dal proprio insediamento, abbia indirizzato la sua attenzione verso una molteplicità di problematiche che investono la macchina comunale, tra le quali, per l’appunto, la triste vicenda della chiusura della Casa Circondariale". "Per correttezza espositiva - precisano - si evidenzia come l’Amministrazione precedente in data 28 maggio 2015, con atto n° 211, abbia emesso una delibera di Giunta comunale con la quale si affidava l’incarico professionale al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per impugnare il Decreto del Ministero della Giustizia che sanciva la chiusura definitiva della Casa Circondariale. Ebbene, all’esito del conferimento di tale mandato, gli Avvocati fiduciari incaricati dall’amministrazione Speranza, redigevano parere pro veritate in forza del quale, escludevano la sussistenza dei presupposti per impugnare il Decreto ministeriale evidenziando, di contro, come l’unico rimedio per tentare di evitare la soppressione del carcere, sarebbe stato quello di impugnare, sin dall’anno 2012, la Circolare con la quale il Ministero di Grazia e Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nell’individuare le linee guida programmatiche per il riordino del sistema penitenziario, sanciva la chiusura definitiva della Casa Circondariale di Lamezia Terme. Solo una impugnativa in tal senso, infatti, avrebbe potuto produrre effetti giuridicamente rilevanti, su quelle che sarebbero state, poi, le determinazioni adottate con il decreto ministeriale emanato il 22 aprile 2015. Quale critica e rimprovero, quindi, può essere mosso nei confronti dell’attuale Sindaco Mascaro il quale - insediatosi in data 16 giugno 2015 e, pertanto, a pochi giorni dalla scadenza del termine ultimo per proporre impugnazione ordinaria avverso il provvedimento Ministeriale del 22 aprile 2015 - ha potuto solamente prendere atto della mancata presentazione del relativo ricorso giurisdizionale da parte della Giunta Speranza, nonché dell’esistenza di un parere negativo redatto dai legali incaricati dalla medesima giunta, con il quale, appunto, si escludeva l’esistenza dei presupposti giuridici per proporre tale impugnativa. Sbalordisce, quindi, quest’oggi, l’incredulità con la quale il Consigliere Piccioni accusa il Sindaco Mascaro di inoperosità, per non aver lo stesso adottato provvedimenti contro la chiusura del carcere, iter, in realtà, mai concretamente avviato dalla precedente Giunta Speranza". "La delibera cui fa riferimento il Consigliere Piccioni - prosegue la nota - ha ad oggetto, solo ed esclusivamente, il conferimento di un mandato al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per impugnare il Decreto del Ministero della Giustizia che sanciva la chiusura definitiva della Casa Circondariale. Alla luce delle su esposte considerazioni, e nonostante sia evidente l’insussistenza di valide motivazioni giuridiche per opporsi, oggi, concretamente al Decreto ministeriale, il Sindaco della Città di Lamezia Terme, in sinergia con tutta la Giunta, si è attivato cercando di porre rimedio alla stasi dell’Amministrazione precedente, analizzando la estrema possibilità di risolvere il problema, inoltrando un ricorso straordinario al Capo dello Stato, per il quale, non sono ancora spirati i termini decadenziali. La critica mossa al Sindaco Mascaro dal Comitato "Riapriamo il Carcere di Lamezia Terme", non ha valutato che l’intervento dell’amministrazione da poco insediatasi, non potrà che essere un intervento riparatorio che, in quanto tale, appare ancora più complesso e, per certi versi, di improbabile accoglimento". "Si fa presente - concludono dal Comune - che il Sindaco Mascaro ha già chiesto, con nota del 23 luglio 2015, un incontro personale con il Ministro Orlando al fine di comprendere con esattezza le reali intenzioni dello stesso, in merito alla nota ufficiale emanata da Via Arenula con la quale il Ministro di Grazie e Giustizia ufficializzava la sua volontà di porre rimedio alla chiusura della casa Circondariale di Lamezia Terme, ivi trasferendovi gli Uffici del Provveditorato regionale e la base logistica della Polizia Penitenziaria. Come si evince da quanto sopra detto, quindi, ciò che il Sindaco Mascaro predicava in campagna elettorale non è rimasto - così come si vuol far credere nella nota a firma del Comitato - un mero proclama elettorale ma tangibile dimostrazione di una politica del fare e non del predicare." Comitato: Lamezia Terme ha tutte le carte in regola per riavere il Carcere "Il Comitato Riapriamo il Carcere intende ringraziare il Comune di Lamezia Terme per le precise delucidazioni e spiegazioni fornite in merito alle azioni intraprese relativamente alla chiusura del carcere lametino. Nell’evidenziare che nessuna responsabilità era stata data alla giunta Mascaro per tale chiusura, ci preme sottolineare come le nostre note abbiano avuto il solo scopo di ottenere delle risposte che altrimenti non sarebbero mai arrivate. Allo stato, appare evidente come questo Comitato non si possa più confrontare con la vecchia amministrazione ma deve necessariamente cercare un dialogo con la nuova giunta per sollecitarne un’azione tempestiva e mirata e non solo "riparatoria", giacché puntare il dito su responsabilità ormai passate e risapute finisce col diventare più politica del "predicare" e non del "fare". "In merito poi al parere pro veritate con il quale lo studio legale ha liquidato il ricorso annunciato e deliberato dall’amministrazione Speranza, ci si permette di palesare ragionevoli dubbi considerato che questo stesso Comitato, avendo avuto un dialogo con lo studio interessato, lo stesso si era dimostrato entusiasta e convinto che non solo erano presenti i presupposti per l’azione legale ma che addirittura il ricorso sarebbe sicuramente stato vinto! E poi risulta quanto meno ingenuo da parte di una giunta comunale proporre una delibera di ricorso senza prima aver ottenuto dallo stesso studio legale, successivamente incaricato, un parere favorevole sulla base di preventivi approfondimenti giuridici, di dottrina e di giurisprudenza. O ingenuo è stato lo staff legale che doveva tutelare gli interessi del proprio cliente?!! Ma forse di queste piccole sfumature non è dato sapere! Questo stesso Comitato, anch’esso per correttezza espositiva, precisa che nel 2012 non era stato emanato alcun decreto di chiusura del nostro carcere ma che era stato inserito in quelli potenzialmente sopprimibili e pertanto la giunta Speranza non poteva materialmente impugnare alcun atto ufficiale. A seguito di ciò il carcere è stato oggetto di ulteriori opere di adeguamento alle direttive europee e nella fattispecie a quelle della sentenza Torreggiani, adoperandosi per creare le cosiddette " sezioni bianche" e il servizio di vigilanza dinamica. Tra l’altro era stata prontamente allestita una Sala DNA all’avanguardia e una sala per le video conferenze. Tutto questo fatto con progetti approvati dal Provveditorato Regionale e con i soldi della Cassa delle Ammende. In ultimo, con l’inaugurazione in pompa magna dello Sportello lavoro per i detenuti della casa circondariale lametina, dove sono intervenute le più alte cariche politiche della regione, niente faceva presagire che il giorno successivo il carcere, con un autentico blitz, sarebbe stato chiuso. Correva il 28 marzo 2014 e in questo susseguirsi di eventi quali azioni poteva mettere in atto l’amministrazione comunale per evitare una così improvvisa e inattesa chiusura?". "Successivamente al fatto compiuto la pecca dell’ex primo cittadino è stata quella di chiedere più volte, troppo educatamente, di essere ricevuto dal Guardasigilli invece di compiere, dopo vane attese, un atto di forza presentandosi al Gabinetto del Ministro, che sicuramente a causa degli onerosi e molteplici impegni non conosceva direttamente la problematica, ed esponendo tutte le perplessità e mancanze relative alle motivazioni che hanno portato alla chiusura. Una scelta dovuta forse sì alla carenza di personale di Polizia Penitenziaria nel nuovo padiglione di Catanzaro ma che non risolveva alcun problema, anzi, alimentava la già difficile situazione relativa al sovraffollamento delle carceri visto che i detenuti sono stati spostati in altri istituti già, da questo punto di vista, in piena emergenza. Evidenziando infine al Ministro le peculiarità della città di Lamezia Terme e la sua posizione strategica nell’ambito di una corretta gestione delle risorse penitenziarie in ambito regionale si sarebbe facilmente potuti arrivare ad una serena rivalutazione rispetto a questa svantaggiosa e negativa chiusura sia per l’amministrazione penitenziaria che per quella comunale. Alla luce di ciò la città di Lamezia Terme ha tutte le carte in regola per riavere il suo carcere e se il Sindaco Mascaro ha nuovamente richiesto un incontro col Ministro e se intanto proporrà il ricorso straordinario al Capo dello Stato, nonostante i tempi brevi ma comunque fattibili, ci si potrà ricredere sul silenzio che era calato su una problematica tanto grave e dannosa per la città e al contempo gli elettori e cittadini tutti potranno finalmente tirare il fiato e aspettarsi risposte positive rispetto allo stato di legalità e giustizia che devono essere il punto fermo di ogni buona amministrazione". Parma: Sinappe; poliziotti al caldo e Totò Riina con l’aria condizionata pagata da noi di Alessia Pedrielli Libero, 26 agosto 2015 I poliziotti a crepare di caldo. Ma per il capo dei capi, Totò Riina, arriva il climatizzatore. E glielo paghiamo noi. Succede nel carcere di Parma, reparto di massima sicurezza: qui, tra gli altri detenuti con condanne a vita, c’è lui, il boss, che a quanto pare il caldo proprio non lo sopportava più. Riina, trasferito nel 2014 dal carcere di Milano a quello di Parma, è stato ricoverato più volte dallo scorso febbraio a oggi nel reparto detenuti dell’ospedale della città, perché cardiopatico. Ora, viste le condizioni climatiche estreme di questa estate bollente, appositamente per lui, la direzione del carcere ha fatto installare, nei pressi della sua cella un condizionatore di ultima generazione. A spese nostre, però. Per qualsiasi acquisto, infatti, gli istituti carcerari attingono ai fondi che, annualmente, assegna loro il ministero della Giustizia e così è stato anche per il condizionatore regalato al massimo esponente di Cosa nostra, in carcere dal 1993, sommerso dagli ergastoli, tra cui quello per la strage di Capaci e via D’Amelio, e ritenuto il vertice della trattativa Stato-mafia. Per l’acquisto, autorizzato (secondo la prassi) anche dal Provveditorato regionale, la direzione non avrebbe badato a spese: le indiscrezioni parlano di un 24.000 Btu che, da listino, è quotato oltre i mille euro. E, a quanto pare, si è trattato proprio di un "pensiero gentile" dell’Istituto carcerario verso uno dei suoi ospiti, visto che nessuna richiesta ufficiale sarebbe pervenuta da parte degli avvocati di Riina o dei medici che lo hanno in cura. Non altrettanto solerti sono state, invece, le attenzioni rivolte agli agenti di polizia penitenziaria che nella stessa struttura bollente passano le loro giornate a servire lo Stato. Loro, al contrario degli ergastolani, sono costretti a rimanere in piedi, in servizio per interminabili ore, in locali non climatizzati, vestiti di tutto punto, carichi di tensione e, vista la scarsità cronica del personale, senza nemmeno la possibilità di chiedere un cambio per andare a bere un goccio d’acqua. Eppure, le loro richieste rivolte all’Istituto carcerario per ottenere una minima climatizzazione delle zone di lavoro più esposte al sole e all’afa, non hanno mai ottenuto risposta. A denunciare il trattamento, quantomeno impari, è il Sinappe, Sindacato nazionale autonomo di polizia penitenziaria: "Più volte abbiamo proposto l’installazione all’interno delle sezioni detentive di climatizzatoli - spiega il segretario regionale dell’Emilia Romagna, - sollecitandone l’installazione almeno nei posti di servizio maggiormente esposti al sole", senza però ottenere risposta. Ora "con sommo stupore - continua - abbiamo appreso che l’invito del Garante ha ricevuto il giusto ascolto, tanto che nel reparto ove è allocato un noto boss mafioso è stato installato un climatizzatore di ultima generazione". Colpa della troppa solerzia del Garante dei detenuti di Parma, dunque, secondo i poliziotti, che avrebbe chiamato in causa contro il troppo caldo persino l’Ausi locale. Ma, le cose non stanno esattamente così. Il Garante dei diritti dei detenuti infatti, aveva sì fatto visita al carcere nel mese di luglio ed aveva, certamente, segnalato le elevatissime temperature che si registravano in tutti i locali e in tutte le celle. Un condizionatore ad personam, però, non era mai stato richiesto. Le misure anti caldo, sollecitate per tutti i detenuti, erano state ben altre e tutte a costo zero: dall’apertura dei blindi delle celle nelle giornate più calde, in modo da far circolare l’aria attraverso le sbarre, alla possibilità di fare docce anche nelle ore notturne, fino all’acquisto (questo, sì, a spese dei carcerati) di piccoli ventilatori portatili per alleviare la sensazione di soffocamento. Tutto qui. L’Istituito invece, applicati per gli altri carcerati i piccoli suggerimenti anti-caldo, avrebbe deciso di regalare a Riina il condizionatore, giustificandolo come un necessario "presidio sanitario". E non sarebbe la prima volta che il capo dei capi ottiene questo tipo di benefit: nel 2007, detenuto nel carcere Opera di Milano, Riina aveva ritenuto che, visto lo stato avanzato di età e la salute cagionevole, un po’ d’aria condizionata facesse parte dei suoi diritti. E, a quanto pare, anche in quel caso gli era stata concessa. Porto Azzurro (Li): detenuto in arresto cardiaco, salvato col defibrillatore tenews.it, 26 agosto 2015 Odissea di soccorsi per i volontari della Misericordia di Porto Azzurro: l’uomo è stato rianimato tre volte in mezzo al traffico bloccato sulla provinciale. Deve la vita al defibrillatore presente a bordo dell’autoambulanza medicalizzata della Misericordia di Porto Azzurro un detenuto della locale Casa di Reclusione che ieri mattina è stato colpito da un infarto. I soccorritori della Misericordia sono saliti a Forte San Giacomo per prendere in consegna il 40enne recluso originario di Casablanca, in Marocco, e dopo averlo stabilizzato sono partiti verso l’ospedale di Portoferraio, incappando però nei problemi di traffico che nella mattinata di lunedì 24 agosto hanno pesantemente condizionato la circolazione stradale su tutta l’isola. All’altezza di Cala di Mola il magrebino è andato in arresto cardiaco, ed è stato rianimato grazie al defibrillatore direttamente sull’ambulanza, che aveva a bordo il medico del 118 dottor Giovanni Gay. Durante il tragitto per Portoferraio questa emergenza si è ripetuta per altre due volte, alle Picchiaie e sotto l’ingresso del Pronto Soccorso, e ogni volta, fortunatamente, il cuore dell’uomo ha ripreso a battere. Il 40enne detenuto è arrivato finalmente all’Ospedale, ma anche qui, dopo essere stato preso in consegna dai medici del Pronto Soccorso, l’arresto cardiaco si è ripetuto altre due volte. Stabilizzato dai medici del nosocomio elbano, l’uomo è stato trasferito con l’elicottero del 118 presso l’ospedale di Grosseto, dove si trova ancora nel reparto di rianimazione. Le sue condizioni sono stabili. Rimini: carcere e lavoro al Meeting. Boscoletto (Consorzio Giotto): "la persona al centro" agensir.it, 26 agosto 2015 "In ogni ambiente di lavoro, non importa dove questo si trovi, in un nuovo palazzo o in un carcere, l’elemento più importante è sempre e comunque la persona". È quanto ha affermato Nicola Boscoletto, presidente del consorzio Giotto, realtà in prima linea nel campo della formazione e del reinserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, che opera all’interno della casa di reclusione di Padova. Dal 1991 a oggi ha inserito nel mondo del lavoro più di 500 detenuti. Con importanti risultati: "Il tasso di recidiva, cioè di coloro compiono nuovamente reati dopo la detenzione, è normalmente attorno al 70% dei soggetti. Invece, si riduce al solo 2/3% per chi viene formato (9 mesi di durata media), viene assunto con un normale contratto di lavoro da una delle cooperative sociali del Consorzio e poi inserito in un contesto lavorativo anche all’esterno grazie alle misure alternative al carcere". Intervenendo al Meeting di Rimini, Boscoletto ha portato la sua testimonianza all’interno dell’incontro "Individuo, spazio, tempo, il luogo di lavoro per un nuovo umanesimo". "Oggi - ha detto - offriamo lavoro a più di 140 tra detenuti o disabili e mi piace pensare che da luoghi difficili come il carcere, da persone apparentemente meno performanti arrivi un messaggio che dice che come anche in condizioni difficili si fanno cose buone". "Non facciamo nulla di eccezionale - ha spiegato - facciamo cose normali, facciamo solo quello che è scritto nella Costituzione, facciamo ciò che si deve per aiutare chi è in difficoltà. Non dobbiamo pensare a qualcosa che dovrebbe essere normale come qualcosa di eccezionale. Quando metti al centro di una cosa le persone, accadono sempre buone cose. Anche in un carcere". Avellino: "Galeotto", il vino dei detenuti di Sant’Angelo dei Lombardi, ritorna all’Expo ilciriaco.it, 26 agosto 2015 Di Massa: "Torniamo all’Expo per manifestare un nuovo modo di fare impresa". Nella settimana dal 24 al 30 agosto torna nuovamente sui banchi di Expo 2015 il "vino dei detenuti", prodotto dai giovani della Cooperativa sociale Il Germoglio di Sant’Angelo dei Lombardi. Dopo il lusinghiero e meritato successo ottenuto a maggio, all’apertura dell’esposizione universale di Sant’Angelo dei Lombardi, l’etichetta "Galeotto" è ancora presente negli spazi di Cascina Triulza, sui banchi del padiglione dedicato alla società civile e all’economia sociale, di cui Confcooperative è official sponsor. Un ritorno alla grande, per testimoniare la forza e i valori della cooperazione nell’agroalimentare di qualità. Di recente il vino "Galeotto" è venuto alla ribalta dei media nazionali perché i giovani della Coop santangiolese lo hanno consegnato ai vertici dello Stato, dalla Presidente della Camera Laura Boldrini, al capo del Governo Matteo Renzi, al Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano; e poi ancora al Ministro di Giustizia Andrea Orlando e del Lavoro Giuliano Poletti. "Tra le tante personalità che abbiamo incontrato e che "hanno bevuto" Galeotto, complimentandosi per il nostro lavoro - dice Fiorenzo Vespasiano, della cooperativa Il Germoglio - certamente chi si è mostrato più interessato alle finalità sociali che persegue il nostro impegno è stato Papa Francesco, che in un lungo faccia a faccia nell’aula Nervi ha voluto sapere di più sul coinvolgimento dei detenuti della Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, dove gestiamo il tenimento agricolo. Un incontro emozionante che è servito a darci la carica per proseguire al meglio nel nostro impegno sociale prima che di produzione. Ed è per questo, grazie anche alla sensibilità di Confcooperative Campania e della presidente, Maria Patrizia Stasi, che ci supporta nello sforzo di promozione dei nostri vini, che siamo nuovamente qui a Expo". La cooperativa irpina, unica a produrre vini tra le imprese invitate, sarà protagonista della settimana con degustazioni guidate, laboratori e momenti di confronto assieme ad altre aziende sociali campane che producono olio, nocciole, carni, ecc. A spiegare la scelta di tornare ad Expo è Alfonso Di Massa, presidente della Fedagri Campania: "Torniamo ad Expo forti dell’esperienza di maggio e con il medesimo spirito, ovvero non di prendere necessariamente qualcosa, ma anche di testimoniare un modo di fare impresa. Riproporremo i nostri sapori ma con modalità nuove, ci relazioneremo con le persone come nella migliore tradizione cooperativa e cercheremo di comprendere i margini di sviluppo per il comparto, a partire dal valore qualità. Ancora una volta oltre a grandi nomi dell’ortofrutta, dell’olivicolo, della zootecnia e del vitivinicolo, valorizzeremo anche il contributo dirompente della cooperazione sociale che si dedica all’agricoltura in molte zone della Campania per inserire nel mondo del lavoro soggetti svantaggiati. Faremo rete e vivremo un’esperienza di certo arricchente". Immigrazione: profughi in Europa, tanta disinformazione e pochi diritti di Bernard-Henri Lévy (traduzione di Rita Baldassarre) Corriere della Sera, 26 agosto 2015 La maggioranza scappa da dittature e violenze. Noi fatichiamo a capirlo e rischiamo di indirizzarli verso una marginalità che può diventare criminale. In Europa, il dibattito sulla questione dei migranti sta via via assumendo connotazioni demenziali. Abbiamo cominciato costruendo un concetto contenitore, un mostro giuridico, ovvero "i" migranti, che non ha alcun senso e tende anzi a cancellare una differenza che sta al centro del nostro Diritto, oltretutto essenziale, tra immigrazione economica e politica, ovvero tra i rifugiati spinti dalla povertà e quelli scacciati dalla guerra, tra la famosa e universale "miseria del mondo" di cui nessuna società, per quanto solidale e generosa, potrà mai farsi carico interamente, e i superstiti dell’oppressione, del terrore, dei massacri, verso i quali abbiamo invece l’obbligo di offrire ospitalità incondizionata, che si chiama diritto di asilo. Quando ci si mette d’accordo su questa distinzione, lo si fa soprattutto per affrontare un altro travisamento, e cioè quelle affermazioni ingannevoli che vogliono far credere all’opinione pubblica europea impaurita e sconvolta che tutti quegli uomini, donne e bambini, che hanno pagato migliaia di euro per il privilegio di imbarcarsi sulle carrette del mare che vediamo sbarcare a Lampedusa o sull’isola di Kos, appartengono alla prima categoria, mentre nell’80 per cento dei casi essi fanno parte della seconda: sono profughi che fuggono dalle dittature, dal terrore, dalla guerra, dal fondamentalismo religioso, dalla jihad anticristiana in Siria, Eritrea, Afghanistan, e che la legge ci impone di esaminare non in massa, ma vagliando ogni singolo caso. Quando ci si metterà d’accordo e, cifre alla mano, non avremo altra soluzione che quella di ammettere che siamo davanti a gente che fugge, per la stragrande maggioranza, da persecuzioni mostruose e da morte sicura, allora innalzeremo - come ha fatto questa settimana il titolare della diplomazia russa - una terza cortina fumogena, affermando cioè che le guerre da cui fuggono i profughi sono le guerre in corso nei Paesi arabi da noi bombardati, mentre si tratta - sempre cifre alla mano - di un’immigrazione proveniente soprattutto dalla Siria, tra i Paesi arabi, dove né l’Europa né il mondo hanno voluto affrontare una guerra che avevamo il dovere di fare, in virtù del diritto internazionale, quando un dittatore pazzo, dopo aver sterminato 240 mila suoi concittadini, si è messo in mente di svuotare il suo Paese. Abbiamo ancora ben impresso, grazie alle immagini e ai filmati televisivi, il mito di un’Europa-fortezza presa d’assalto da ondate di nuovi barbari mentre, se consideriamo il solo caso della Siria, non è verso l’Europa che si rivolgono di preferenza i profughi, bensì verso Turchia e Libano - due milioni nel primo caso, un milione nel secondo (su una popolazione di tre milioni e mezzo). Nel frattempo, in Europa la somma dei nostri egoismi ha sancito il fallimento di un piano di ricollocamento e ridistribuzione di 40 mila rifugiati! Per quei pochi che scelgono comunque la Germania, la Francia, la Scandinavia, il Regno Unito e l’Ungheria, nessuno sembra rendersi conto che siamo davanti a una popolazione non di nemici, venuti per distruggerci o per vivere alle nostre spalle, ma di candidati alla libertà, innamorati della nostra terra promessa, del nostro modello di società, dei nostri valori, che inneggiano "Europa! Europa!" proprio come milioni di emigranti europei, sbarcati a Ellis Island, gridavano "America! America!". E non voglio nemmeno far cenno a quelle infami dicerie che questo assalto immaginario sarebbe orchestrato dagli strateghi clandestini di un travaso di popolazioni venute a soppiantarci, o peggio ancora, da una jihad internazionale che avrebbe trovato la filiera perfetta per infiltrare i suoi futuri terroristi nei Thalys di domani. Conseguenza di questi tentennamenti è un Mediterraneo abbandonato agli scafisti che sono i veri beneficiari del vuoto giuridico in cui ci dibattiamo, e che abbiamo la vana pretesa, per di più, di voler combattere "senza tregua". Il risultato è un Mare Nostrum che si va trasformando in un gigantesco cimitero marino - 2.350 annegati in mare solo dall’inizio di quest’anno. E quando sfuggono all’inferno, questi individui restano senza nome e quasi senza volto, e la società dello spettacolo, così pronta a confezionare una celebrità al giorno, da riciclare instancabilmente da una rete d’informazione all’altra allo scopo di dare spazio e voce a qualsiasi crisi del maiale, sciopero dei camionisti 0 rivendicazione dei tassisti, la società dello spettacolo - dico - non è stata capace, in questa occasione, di interessarsi a uno solo di quei destini. Sono uomini e donne che si mettono in cammino seguendo le orme di una certa principessa Europa giunta da Tiro sulle nostre sponde qualche migliaio di anni fa, ma contro i quali l’Europa, stavolta, innalza i suoi muri. Nasce così una popolazione di senza diritti della quale Hannah Arendt già a suo tempo osservava che avrebbe finito, prima 0 poi, per considerare l’illegalità e la caduta nella criminalità paradossalmente come l’unica via percorribile per accedere al mondo di coloro a cui i diritti sono garantiti. In breve, siamo davanti a un’Europa ripiegata sulle sue contraddizioni, aizzata da nazionalisti e da xenofobi, travagliata da mille insicurezze, un’Europa che volta le spalle ai suoi valori perché ha semplicemente smarrito la sua identità. Per chi suona la campana? Anche per l’Europa, che vediamo agonizzare sotto i nostri occhi. Immigrazione: profughi, 100mila arrivi in Italia nel 2015, solo 16mila le domande accolte di Guido Ruotolo La Stampa, 26 agosto 2015 Il governo: numeri in linea con quelli dell’anno scorso. Di dieci che ne arrivano, quattro chiedono lo status di rifugiati. Di tutte le domande presentate dal primo gennaio di quest’anno, ne sono state esaminate il 75%. E del totale esaminato, solo poco meno della metà ha ottenuto la protezione umanitaria. Ma tutti gli altri dove sono finiti? Secondo i dati del Dipartimento immigrazione e diritti civili del Viminale, fino al 21 agosto sono state presentate 44.784 richieste di asilo, a fronte di 110.136 arrivi (al 25 agosto). E finora delle 33.834 richieste esaminate, solo 15.666 sono state accolte contro le 16.921 respinte. Mettendo a confronto i dati tra gli sbarchi e le domande di protezione umanitaria, colpisce la "scomparsa" di intere etnie. La grande crisi umanitaria arriva dal Medio Oriente, da Turchia, Libano e Grecia. Popoli in fuga dalla guerra e dalle violenze (siriani e iracheni). In queste ore Germania e Francia si interrogano sulla necessità di introdurre un sistema unificato per il diritto d’asilo mentre dalla Commissione Juncker cominciano a chiedersi se sia il caso di rivedere il piano delle 40.000 "ricollocazioni" di siriani ed eritrei sbarcati in Italia e Grecia. In meno di due anni quasi 300mila migranti sono arrivati da noi dalla Libia, soprattutto. Popoli ed etnie arcobaleno. Dall’Africa subsahariana a quella centrale. Dal primo gennaio quasi trentamila eritrei, ottomila somali, settemila sudanesi, tredicimila e passa nigeriani. E poi i ghanesi, i maliani, i senegalesi. Ma dove sono finiti i siriani? I 6.295 siriani sbarcati dal primo gennaio scorso ad oggi? Solo in 194 hanno chiesto protezione umanitaria, e solo 115 l’hanno ottenuta. Gli altri seimila siriani dove sono finiti? Il prefetto Mario Morcone, a capo del Dipartimento Immigrazione del Viminale, ammette che la situazione "è pesante", per l’alto numero di immigrati da accogliere, spiegando che complessivamente si tratta "solo" di mille migranti in più rispetto al 2014 (da 109.131 a 110.136). E obietta alla Cancelliera tedesca, Angela Merkel, che ha chiesto all’Italia e alla Grecia di attivare subito i centri di registrazione (identificazione e foto segnalamento) che "l’Italia il suo dovere lo sta già facendo". Nigeria, Cambia, Pakistan, Senegal, Ucraina, Mali, Siria, Somalia. È lungo l’elenco dei paesi di provenienza dei migranti che hanno seguito la rotta del Canale di Sicilia. Non possiamo cancellare le loro vite, i loro racconti. Migliaia di colloqui davanti alle commissioni miste che devono esaminare le loro domande di protezione, sono un racconto collettivo di una storia di guerre, violenze, discriminazioni, povertà. Forse adesso l’Europa comincia ad accorgersene. E comincia a capire che se i siriani o gli iracheni, gli eritrei o i nigeriani che sbarcano in Italia vogliono raggiungere i loro cari, i loro amici o parenti sparsi in altri Parsi europei, nessuna Convenzione di Dublino riuscirà a trattenerli in Italia o in Grecia. Quasi 14.000 nigeriani sono arrivati dal primo gennaio. Duemila hanno ottenuto la protezione, 3.500 no. Ma tutti gli altri ottomila dove sono? È già, forse il muro di Dublino è già caduto e non tutti se ne sono accorti. Immigrazione: gesto di solidarietà tedesca, Berlino non applica più Dublino II per i siriani di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 26 agosto 2015 Berlino non applica più Dublino II per i siriani e non rimanda chi chiede asilo nel paese di prima accoglienza. La Commissione approva e avverte i 28: troppo pochi 40mila profughi da redistribuire. Berlino non applica più Dublino II per i siriani e non rimanda chi chiede asilo nel paese di prima accoglienza. La Commissione approva e avverte i 28: troppo pochi 40mila profughi da redistribuire. Ma la Bulgaria manda i blindati al confine con la Macedonia e in Ungheria Orban afferma che da lunedì, con la fine della costruzione della barriera alla frontiera con la Serbia, non passerà più nessuno. La Germania, il paese che oggettivamente ha maggiore bisogno di immigrazione - per la combinazione tra potenza economica e invecchiamento drammatico della popolazione - comincia a muoversi. Il Bamf (Ufficio federale dell’immigrazione e dei rifugiati) ha confermato ieri l’informazione diffusa dall’ong Asylum Information Database: Berlino ha sospeso per i cittadini siriani in cerca di rifugio l’applicazione delle regole di Dublino II, accordo del 2003 che prevede la possibilità di rinvio dei richiedenti asilo nel paese di prima accoglienza. Di fronte alle mancanze di applicazione delle decisioni prese a giugno da parte di Italia e Grecia, paesi-frontiera, come hanno sottolineato lunedì a Berlino Angela Merkel e François Hollande, la Germania applica la "clausola di sovranità" di Dublino II. Il portavoce del Bamf, Mehmet Ata, ha precisato che le procedure di espulsione per i siriani "attualmente non sono più applicate in pratica" e che fino a fine luglio solo 131 siriani erano stati respinti nel quadro di Dublino II. A Bruxelles, la Commissione ha accolto la decisione tedesca con sollievo, "un atto di solidarietà europea". Per la portavoce Natasha Bertaud, per la Commissione "questo significa riconoscere il fatto che non si possono lasciare gli stati membri situati alle frontiere esterne gestire da soli il gran numero di richiedenti asilo che cercano rifugio in Europa". La Commissione, che entro fine anno deve presentare un piano di redistribuzione tra i 28, di fronte alle forti reticenze di un gran numero di paesi (soprattutto all’est), sottolinea che la decisione presa a giugno su 40mila profughi da accogliere in modo equo è ormai "una cifra proporzionalmente molto piccola rispetto al numero di persone che arrivano". La Commissione "spera di avere il sostegno delle capitali quando entro fine anno" presenterà "un meccanismo permanente di redistribuzione". Per Bruxelles, la domanda di Merkel e Hollande per una politica di asilo comune nella Ue è "incoraggiante". La strada è lunga e in salita. Solo nella giornata di ieri, la Bulgaria (che non è nello spazio Schengen) ha inviato dei blindati al confine con la Macedonia, un "rinforzo preventivo" che potrà venire aumentato ai 4 posti di frontiera se aumenterà il flusso. Nelle ultime 24 ore, più di 2mila persone hanno attraversato il confine tra Serbia e Ungheria. Ma il governo di Victor Orban promette che lunedì il problema non ci sarà più poiché la barriera di 175 km sarà terminata entro il 31 agosto. L’Ungheria ha già l’estrema destra al potere, che malgrado il muro non ha potuto bloccare gli arrivi (100mila richieste di asilo quest’anno, già il doppio del 2014, 1500 persone al giorno entrate nel paese). In Germania, dopo le violenze neo-nazi a Heidenau in Sassonia di venerdì scorso (appoggiate anche da "brava gente" secondo il sindaco della Cdu), nella notte tra lunedì a martedì è stato dato alle fiamme e distrutto un centro sportivo a Nauen, a una ventina di km da Berlino, che era destinato ad accogliere dei rifugiati. Merkel sta definendo una linea in bilico tra l’accoglienza dovuta per i rifugiati dalle guerre e il rifiuto dei migranti economici. "In Europa c’è una situazione non degna dell’Europa", ha affermato nel corso di una visita a Duisbourg nella Ruhr, "uomini e donne che hanno diritto all’asilo, per esempio i siriani, devono essere redistribuiti in modo equo in Europa". Merkel ha ammesso che "un paese come la Germania, più forte economicamente di altri, deve assumere una parte maggiore", ma ha sottolineato che "3-4 paesi su 28 non possono da soli assumersi questo carico, questa non è l’Ue che desideriamo". Il ministro degli Interni, Thomas de Maizière, ha affermato che l’Europa "ha bisogno di un altro sistema" per far fronte alla crisi attuale. La Cancelliera, però, ha insistito sul fatto che bisogna "rinviare chi non ha diritto all’asilo, è difficile, ma Serbia, Albania, Kosovo non sono paesi dove per il momento c’è una guerra civile". Di fronte alla previsione di arrivi-record quest’anno in Germania di 800mila rifugiati e per contrastare le reazioni ostili, l’ex ministro Joschka Fischer, sulla Süddeutsche Zeitung ha ricordato che "gli europei invecchiano, sono sempre meno numerosi, per questo hanno bisogno di immigrazione". Ma se non verrà trovata una soluzione, "la Ue sarà totalmente travolta dalla crisi dei rifugiati e si mette in pericolo a causa della propria incompetenza". I dati di Frontex parlano di un po’ più di 100mila arrivi irregolari nella Ue a luglio, un fenomeno destinato a durare. Amnesty International ricorda che attualmente, nella più grave crisi dopo la seconda guerra mondiale, ci sono 19 milioni di rifugiati nel mondo, l’86% accolto in paesi in via di sviluppo (il 25% nei paesi più poveri). Immigrazione: morto a 15 anni per le torture degli scafisti, arrivati già ottomila minori di Stefania Piras Il Messaggero, 26 agosto 2015 Era talmente stremato che è morto a bordo della nave Dignity. Aveva poco più di 14 anni il somalo soccorso l’altro ieri nel canale di Sicilia insieme ad altri 300 profughi, tra cui 5 bambini e 39 donne. È morto stroncato da un edema polmonare acuto, nonostante gli sforzi dell’equipe di Medici senza frontiere che dai primi di maggio opera con due navi proprie sul Mar Mediterraneo e finora ha salvato 12mila persone. Era malnutrito, aveva infezioni e problemi respiratori. Addosso, i segni evidenti delle percosse e delle sevizie subite in Libia, dove i trafficanti lo avevano costretto ai lavori forzati, senza cibo né acqua, per conquistarsi il diritto a salire su un barcone. "Su quei gommoni si vede di tutto - dice Loris De Filippi presidente di Msf Italia - ustioni procurate dal contatto con la benzina stoccata nelle taniche che viaggiano accanto alle persone, piaghe, occhi infossati per la disidratazione". Ma come questo quindicenne rischiano la morte migliaia di ragazzini che salgono su un barcone da soli, senza genitori. Dall’inizio dell’anno sono arrivati almeno 7.600 minori non accompagnati. Molti partono senza neanche avvertire le famiglie. Contrattano con i trafficanti e una volta in Libia "sopportano lunghi periodi di detenzione e subiscono ogni genere di abusi". Gli operatori di Save the Children presenti in Sicilia raccontano storie di un inferno ordinario. A, 16 anni, è partito dal Senegal, è stato picchiato così forte che gli hanno rotto un braccio. Anche I.B., 16 anni, subiva continue bastonate sulle piante dei piedi mentre M., 15 anni, del Gambia, ha confidato che quando si è azzardato a chiedere la paga per il lavoro da magazziniere gli hanno frantumato due dita con un martello. Sui barconi pagano prezzo intero. L’accesso gratis, raccontano gli adolescenti afgani, è previsto solo se accetti di essere usato dai trafficanti per guidare i gommoni dalla Turchia alla Grecia. Quando sbarcano rimangono delusi se scoprono che, qui in Italia, a quell’età non si può lavorare. I minori non accompagnati più piccoli hanno 9 anni, sono soprattutto eritrei, egiziani e somali. Gli eritrei puntano alla Svezia o alla Germania. Scappano per sfuggire alla dittatura e al servizio militare. Gli egiziani provano a fermarsi in Italia per riscattare il debito lavorando. Secondo Save the Children, dal 1 gennaio al 30 giugno 2015 risultano solo 143 minori non accompagnati egiziani arrivati via mare. In compenso, sono oltre 1.892 quelli segnalati al ministero del Lavoro e ancora presenti al 30 giugno 2015, mentre 1.239 sono quelli che, alla stessa data, risultavano essere irreperibili. Sono ragazzi molto poveri. Le famiglie li spingono a partire perché dall’Italia contribuiscano al bilancio domestico. A Roma lavorano negli autolavaggi anche 12 ore, nelle pizzerie o nelle frutterie. Ma anche al Mercato del Pesce o nei ristoranti cinesi: turni no stop dalle nove del mattino all’una di notte, a 1,5 euro all’ora. "Un sacco di gente del mio villaggio era tornata dall’Italia e aveva costruito grandi case e aveva belle macchine - racconta il diciottenne Ahamd - così con mio fratello sono andato a incontrare un mediatore e abbiamo concordato il pagamento per essere portato da Alessandria in Italia via mare. Sono stato in mare per 12 giorni. Ora ho appena compiuto 18 anni, dormo in strutture per adulti qui a Roma e sto cercando lavoro. È impossibile trovarlo, ci sono sempre almeno 50 ragazzi per un solo lavoro. Mi piacerebbe tornare a casa, ma bisogna pagare e io non ho i soldi. Ho detto ai miei amici in Egitto, tramite Facebook, di non venire, che non ci sono posti di lavoro. Ma pensano che io sia egoista e che non dico la verità perché voglio tutto il lavoro per me. Verranno di persona e si renderanno conto. Quando sono partito pensavo che stavo per guadagnare un sacco di soldi, che stavo arrivando in paradiso. Ma ho lasciato l’Egitto per un altro Egitto". Droghe: canapa medica, Italia all’avanguardia di Marco Perduca Il Manifesto, 26 agosto 2015 Il 18 settembre 2014, i Ministri della Difesa e della Salute hanno firmato un memorandum per un progetto pilota di "produzione nazionale di sostanze e preparazioni di origine vegetale a base di cannabis" a fini medico-scientifici. Per la coltivazione delle piante fu scelto lo Stabilimento farmaceutico militare di Firenze per le "competenze del personale militare e civile" e "le capacità produttive e di controllo qualità proprie di una industria farmaceutica", unite al "livello di sicurezza di un’installazione militare". Per quanto nel 2010 con la senatrice radicale Donatella Poretti avessimo invitato il governo Berlusconi a favorire un simile accordo - il nostro ordine del giorno in occasione dell’adozione della legge sulle cure palliative fu accolto col parere favorevole di Giovanardi! - l’idea che una medicina dovesse esser prodotta dai militari in strettissimo regime di monopolio non m’ha mai convinto. Mi son dovuto ricredere da quando, all’inizio di agosto, ho visitato l’Istituto di Firenze. Ho scoperto una realtà che è fondamentale per rispondere a certe emergenze e crisi medico-farmaceutiche planetarie. Nel giugno scorso a Firenze è stato effettuato il primo raccolto sperimentale. Le cinquanta piante di canapa, le cui talee erano state selezionate dal Centro di ricerca per le colture industriali di Rovigo (altra eccellenza italiana misconosciuta), hanno prodotto due chilogrammi di infiorescenze che, pare, contengano principi attivi di qualità tale da consentire un prodotto standardizzato privo di muffe, funghi o altri agenti contaminanti. A seguito delle ispezioni dell’Aifa, l’Agenzia del Farmaco, e il via libera del Ministero della Salute, da settembre si potrà finalmente partire con la produzione vera e propria in anteprima mondiale. Da gennaio 2016, si potrebbe passare a 200 metri quadrati di serre per ottenere fino a 100 chili l’anno di prodotto da inviare alle farmacie che ne faranno richiesta. L’Italia diverrà il primo e unico Stato membro dell’Onu a gestire la produzione di cannabis in strutture pubbliche. Occorre adesso che il ministero della Salute, nell’interesse della collettività, esprima un parere favorevole a questa sperimentazione e si assuma la responsabilità di adottare delle linee guida per la prescrizione di questi cannabinoidi medici "made in Italy": sulla scorta dell’ampia letteratura scientifica che ne conferma il positivo utilizzo in patologie gravi e altamente invalidanti come, tra le altre, la sclerosi multipla, quella laterale amiotrofica, il glaucoma, le malattie neoplastiche, gli spasmi muscolari, il dolore. A otto anni dall’adozione della legge, i quadri normativi nazionali e regionali restano sconosciuti agli operatori se non boicottati sottilmente. Perché da liberista e antimilitarista sono a favore di questo avvio di produzione in regime di monopolio militare? Intanto perché, a differenza di quanto avevo visto in Colorado, la qualità e la cura della coltivazione è nel pieno rispetto degli obblighi europei degli Api (Active Pharmaceutical Ingredients) cioè della produzione di ingredienti attivi farmaceutici - cosa che neppure il Bedrocan olandese garantisce; in secondo luogo, perché grazie all’inevitabile espansione esponenziale della domanda di cannabis medica dei prossimi anni, che dovrà vedere il ministero della Difesa pronto a quintuplicare (almeno) gli investimenti iniziali nel 2016, le entrate della cannabis made in Italy potranno concorrere a sostenere la benemerita produzione fiorentina dei cosiddetti farmaci "orfani" (per le malattie rare, la cui ricerca non è sostenuta dai privati): un vero e proprio "servizio pubblico" mondiale che avviene in Italia senza il meritato riconoscimento. India: caso marò; fui il primo a chiedere l’arbitrato, ora i fatti mi danno ragione di Corrado Passera Il Tempo, 26 agosto 2015 La sentenza della Corte di Amburgo su Salvatore Girone e Massimiliano La-torre contiene una novità rilevante: è stato sancito il principio che non tocca alla giurisdizione indiana il compito di valutare i fatti e dunque giudicare i due fucilieri di Marina italiani. È una decisione che va nella direzione dell’arbitrato internazionale, strada da me caldeggiata da tempo e che i governi italiani hanno a mio avviso poco saggiamente trascurato per troppo tempo. Ritengo inutile giudicare con il senno di poi quanto accaduto in passato. Anche relativamente ai primi, convulsi momenti di quel febbraio 2012, quando le prime fasi della vicenda furono gestite più direttamente, coni ‘era logico che fosse, dal Ministero della Difesa, dal Ministero degli Esteri e da Palazzo Chigi. Certo, ad alcuni di noi suonò strano che fosse stata fatta entrare la nostra nave in un porto indiano se veramente il presunto incidente era avvenuto in acque internazionali, come pure la non sufficiente forza nel rifiutare la giurisdizione indiana e addirittura il pagamento di indennizzi alle famiglie dei morti. Tuttavia, nel corso del tempo abbiamo assistito ad una ripetuta strumentalizzazione dei fatti, specialmente per quanto riguarda il rientro dei marò in India dopo il periodo di permesso in Italia. L’Italia aveva dato la sua parola di Paese al governo di Nuova Delhi che Girone e Latorre sarebbero rientrati in India nei tempi concordati, dopo una permanenza in Italia di alcune settimane. Un impegno ufficiale che il nostro governo aveva assunto e che, dopo le necessarie verifiche nelle sedi istituzionali, confermò, come era giusto, di voler rispettare con una decisione collegiale, presa all’unanimità. Da parte mia non posso che ribadire, oggi come allora, un principio: un grande Paese come l’Italia non può non tener conto degli impegni presi né, tantomeno, disattenderli con una mossa unilaterale, pena uno smacco di credibilità interna ed internazionale inaccettabile. Salvaguardare l’onore e il rispetto dell’Italia, infatti, per il governo di cui facevo parte era un tutt’uno con la priorità di tutelare le condizioni dei due Marò. A questo punto, sottrarre la vicenda di Latorre e Girone dalla giustizia indiana come stabilito dal Tribunale del Mare di Amburgo vuol dire eliminare il principale ostacolo che finora, tra lungaggini e rinvii poco comprensibili, aveva impedito di accertare in maniera obbiettiva eventuali responsabilità o colpe. Privare persone della loro libertà per anni senza che il processo sia neanche cominciato non è accettabile. Sotto questo profilo, chi parla di "morte della credibilità e della politica estera del Paese "per la decisione della Corte dà una riprova di scarso senso istituzionale e carente conoscenza dei meccanismi giudiziari internazionali. Allo stesso tempo, la sentenza di Amburgo fa piazza pulita di alcuni facili entusiasmi disinvoltamente accreditati dal nostro Governo. La partita fondamentale comincia ora e sarà necessario che lo Stato Italiano dia il meglio di sé nel seguire l’arbitrato e, contemporaneamente, la diplomazia italiana sappia mettere in campo tutti gli sforzi necessari per ricercare anche soluzioni ancora possibili tra i due Paesi. L’Italia e l’India, infatti, hanno tanti interessi comuni e rapporti solidi, ed è ancora auspicabile il raggiungimento di un accordo che consenta, nel rispetto delle giurisdizioni e delle regole internazionali, il positivo esito di questa tormentata vicenda. Latorre e Girone debbono poter contare sullo sforzo corale di tutte le forze politiche e istituzionali italiane - senza più pretestuose divisioni - per arrivare ad una giusta conclusione. India: l’ex ministro Giulio Terzi "lobby fuorigioco, sui marò deciderà il diritto del mare" di Domenico Letizia Il Garantista, 26 agosto 2015 La vicenda dei marò torna ad arroventare il dibattito dopo la pronuncia del Tribunale di Amburgo: "L’Italia e l’India devono sospendere ogni iniziativa giudiziaria in essere e non intraprenderne di nuove che possano aggravare la disputa". È questo il verdetto del Tribunale del Mare sulle vicende di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, ritenuti responsabili dalla giurisdizione indiana dell’uccisione di due pescatori al largo delle coste dello Stato indiano nel febbraio del 2012. Una svolta importante, che l’ambasciatore Giulio Terzi, ex ministro degli Esteri, valuta positivamente per il nostro Paese, "nonostante i tentativi di affossarne l’importanza". Il governo italiano aveva chiesto, in attesa della conclusione del procedimento giudiziario, il rientro in patria di Salvatore Girone dall’India, e la permanenza in Italia di Massimiliano Latorre. Ma il tribunale di Amburgo ha invitato Italia e India a sospendere ogni iniziativa giudiziaria. Come va accolta questa decisione? "La richiesta che era stata avanzata al Tribunale del Mare di Amburgo era per l’adozione di misure cautelative che comportassero lo spostamento temporaneo al di fuori della giurisdizione indiana - in attesa di una decisione sul merito da parte di un tribunale arbitrale - nei confronti di Girone, rimandandolo in Italia o consegnandolo temporaneamente ad un paese terzo, e di misure cautelative nei confronti di Latorre isolandolo dalla giurisdizione indiana. Si trattava di chiedere delle misure cautelari nei confronti dei due marò. Il dipartimento ha consentito un’ampia esposizione delle posizioni italiane ed indiane per cedere a quelle che poi saranno "decisioni di sostanza". Cosa intendiamo con "decisioni di sostanza"? "Con "decisioni di sostanza" intendiamo la decisa posizione di un organo internazionale come il Tribunale del Mare di Amburgo. Oggi il Tribunale ha deciso che le misure cautelari possono solo essere adottate da un tribunale arbitrale, poiché, nonostante si sia detto non competente a decidere delle misure cautelari, ha ribadito che quest’ultime devono essere abbinate alla sostanza della decisione. Ovvero, non ha ravvisato quei motivi di urgenza e di immediatezza del danno che subirebbero Latorre e Girone nella situazione nella quale si trovano e ha ribadito che siccome l’Italia ha già avviato la procedura arbitrale, nel giro di poche settimane si aprirà un vero e proprio arbitrato su tutti gli aspetti di questa controversia. In quella sede, il tribunale deve decidere anche l’aspetto delle misure cautelari". Sostanzialmente che cosa ha riconosciuto il Tribunale di Amburgo? "Il Tribunale di Amburgo ha riconosciuto che queste misure cautelari debbano essere riconosciute da un tribunale arbitrale. Siamo all’inizio di un processo che porterà a una decisione definitiva il 28 Settembre sulla base di ulteriori elementi che il tribunale ha richiesto. Noi lo sapevamo fin dall’inizio: i tempi di decisione di questa prima fase del Tribunale di Amburgo erano di 60 giorni per giungere ad una conclusione sulle misure cautelari salvo l’aggiunta di altri 30 giorni per esigenze di approfondimento". Che cosa aspettarsi dal 28 Settembre? "Il governo italiano non ha ottenuto tutto quello che aveva richiesto, ovvero che Latorre e Girone fossero esclusi dalla competenza della giurisdizione indiana. Ma il nostro Paese è comunque riuscito ad ottenere alcuni punti di vantaggio che chi ha strumentalizzato la vicenda vuole affossare e ignorare". Perché ritiene che la vicenda sia stata strumentalizzata? "Quelli che vedono come fumo negli occhi questa internazionalizzazione della controversia cominciano ad essere in difficoltà. Chi ha cercato di affossare le procedure, come ha fatto con successo nel corso degli ultimi due anni, ora deve fare i conti con la realtà. Le lobby affaristiche hanno fatto in modo che la strada dell’arbitrato venisse annunciata un’infinità di volte nel susseguirsi dei vari governi e contemporaneamente ogni volta congelata. La strada dell’arbitrato era già stata avviata nel marzo 2013, tant’è che i comunicati dell’11 e del 18 Marzo 2013, presenti sul sito della Farnesina, ribadivano che il governo, e non il ministro Terzi, decideva di trattenere i marò fino all’attuazione di una decisione arbitrale che l’Italia aveva lanciato. È agli atti che l’arbitrato era stato avviato e non vi era il bisogno di misure cautelari, all’epoca, poiché si era deciso di trattenere i marò in Italia. Le reazioni negative che si leggono sulla stampa, in seguito alla decisione del Tribunale di Amburgo, sono forzature che contrastano con la lettura del documento del tribunale". Chi ci guadagna da queste manovre? "Si sfruttano questo tipo di controversie per trarre dei vantaggi più o meno loschi, non solo da parte italiana, per ribadire l’idea che l’arbitrato non funziona e che quindi è meglio qualche accordo sottobanco, consentendo all’India di processare i due marò in Italia per poi rimandarli nel nostro Paese. Uno scambio di detenuti, insomma, finalizzato a far tornare in India altre personalità indiane. Che ci sia ancora della gente che strumentalizzi con tali finalità è immondo. Purtroppo notiamo che autorevoli "penne" italiane si prestano a questo tipo di giochi. La cosa oggettiva è che l’avvio di questa procedura arbitrale è insoddisfacente sul piano delle misure cautelari ma positiva perché si delinea il riconoscimento, grazie ad Amburgo, che tale controversia deve essere regolata dalla Convenzione del diritto del mare. Su tale punto, l’India ha sempre sostenuto, al contrario di quello che dicevamo, che la legge indiana prevale sul diritto internazionale. Quello che deve far riflettere è la constatazione che la politica estera in Italia deve essere guidata dall’interesse nazionale del paese secondo le norme del diritto internazionale, secondo i trattati che abbiamo ratificato. È interesse nazionale avvalersi degli strumenti dati dal diritto internazionale - in questo caso la Convenzione del mare - per ribadire il principio dell’eguaglianza tra gli Stati. Quanto affermato da alcuni esponenti del nostro governo come il sottosegretario Sandro Gozi, che ha affermato di voler rimandare i marò in India perché lì dovevano essere processati, è viceversa controproducente". Come valuta l’operato delle Nazioni Unite in merito alla vicenda? "Il coinvolgimento delle Nazioni Unite vi è stato fin dall’inizio, innanzitutto su nostro impulso. Abbiamo parlato dei marò al Segretario Generale e ai suoi funzionari un’infinità di volte. La questione è stata sollevata però dopo il marzo 2013; il governo italiano non si è reso più parte attiva nell’azione diplomatica ad ampio raggio che era stata condotta. Il nostro ambasciatore in India, nel marzo 2013, aveva visto come una grave lesione della propria immunità diplomatica l’ordine dato dal governo indiano a tutti gli aeroporti di limitarne la possibilità di movimento; una lesione all’immunità diplomatica che non si era mai vista dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. In quell’occasione l’Unione Europea è stata molto energica nella difesa dell’Italia. Non vi è alcun dubbio che noi siamo parte lesa. I due marò hanno visto lesi i loro diritti umani. Non c’è stato un giusto processo, non c’è stato un riconoscimento del compito che svolgevano, e sono stati vittime di ricostruzioni astratte messe in campo dall’India per motivi politici". Il caso dei due Marò sarà oggetto di studio e dibattito per gli esperti di diritto internazionale. Secondo lei cosa rimarrà di tale vicenda dal punto di vista giurisdizionale? "Spero che vi sia almeno il consenso in ambito parlamentare all’avvio di una Commissione parlamentare di inchiesta. Le esperienze parlamentari delle Commissioni di Inchiesta non sono state sempre entusiasmanti negli ultimi venti anni e spesso sono state create semplicemente per assegnare qualche poltrona. Però, il minimo che si possa fare è accertare le responsabilità di quello che è avvenuto con quella scellerata giravolta del marzo 2013 e come si è giunti a tali vicende. Si tratta di capire chi ha compiuto degli errori e addirittura di appurare perché ci sono state delle pressioni che non avrebbero dovuto esservi. Occorre avviare un’indagine seria, non soltanto uno studio. Un’analisi che comporti conseguenze per chi ha commesso errori, e ne ha tratto anche dei profitti personali, proprio come scritto da Toni Capuozzo nel suo libro che presenta un elenco di tutti coloro che hanno ottenuto incarichi dopo questa vicenda. Sul piano dell’approfondimento giuridico sicuramente questo è un caso che rimarrà un importante precedente". Stati Uniti: pena di morte; giudice sospende le esecuzioni capitali in Mississippi La Repubblica, 26 agosto 2015 La decisione dopo il ricorso di tre detenuti: "Viene usato un mix di farmaci che non garantisce la morte senza sofferenza". Uno spiraglio per chi si batte per l’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti. Un giudice federale americano ha temporaneamente bloccato lo Stato del Mississippi dall’eseguire le condanne alla pena capitale. Tutto è nato da una causa intentata da tre detenuti e basata sull’utilizzo di un mix di medicinali che, sostengono, non garantisce "una morte senza sofferenza" come dovrebbe. La sfida legale è possibile appellandosi all’ottavo emendamento della Costituzione americana, che proibisce punizioni crudeli e disumane. La questione è da tempo al centro del dibattito sulla pena di morte dopo che in diversi episodi l’anestetico utilizzato non è risultato efficace al 100%, sottoponendo i condannati a una dolorosa agonia. A giugno la Corte suprema si era schierata, con un solo voto di scarto, a favore del discusso mix di droghe usato da diversi Stati americani. Gran Bretagna: nuova stretta contro l’immigrazione illegale, carcere fino a 6 mesi Adnkronos, 26 agosto 2015 Il governo britannico annuncia un ulteriore giro di vite contro l’immigrazione illegale. In base alla nuova legge che verrà varata in autunno, riporta la Bbc, chi verrà scoperto a lavorare senza il necessario permesso in Inghilterra e Galles rischierà fino a sei mesi di carcere. Inoltre, sono previste misure specifiche contro gli esercizi commerciali come i ristoranti takeaway e le rivendite di alcolici che impiegano immigrati extracomunitari illegali. In questi casi ci sarà un inasprimento delle sanzioni, tra cui il ritiro delle licenze per i proprietari e il sequestro degli stipendi per i lavoratori. Il governo, ha detto il ministro per l’Immigrazione James Brokenshire, "continuerà a colpire duramente" gli abusi. Si starebbe anche valutando l’estensione delle nuove misure, delle quali si discute da diverse settimane, anche contro i gestori e gli autisti dei servizi di taxi privati, un settore nel quale è altissima la presenza di lavoratori immigrati. Per rendere più efficaci le misure, il governo intende anche ribaltare il concetto di onere della prova nei confronti di quanti impiegano lavoratori illegali. Il datore di lavoro non potrà più sostenere di non essere a conoscenza dello status dei suoi impiegati, ma dovrà dimostrare di avere effettuato controlli accurati nei loro confronti, per accertarsi che siano in possesso del necessario permesso di soggiorno. Le pene detentive massime verrebbero così aumentate dagli attuali due anni a cinque anni, in aggiunta alle sanzioni già previste. Nelle scorse settimane il governo conservatore di David Cameron aveva già annunciato che in base alla nuova legge i proprietari di immobili in Inghilterra saranno obbligati a sfrattare i cittadini extracomunitari senza permesso di soggiorno. Inoltre, i proprietari dovranno effettuare preventivamente i controlli sullo status dei loro inquilini. Le misure di sfratto saranno previste anche nei confronti dei profughi che si vedranno rifiutata la richiesta di asilo. Gli agenti dell’ufficio immigrazione, riporta la Bbc, si starebbero preparando ad effettuare in autunno una serie di controlli straordinari prendendo di mira in particolare i cantieri edili, le case di cura per gli anziani e le aziende di pulizie. Russia: il regista ucraino Oleg Sentsov condannato a 20 anni per "atti di sabotaggio" La Repubblica, 26 agosto 2015 È stato condannato a 20 anni il regista ucraino Oleg Sentsov, 39 anni, accusato di aver preparato atti di sabotaggio e terrorismo in Crimea, dopo l’annessione russa. L’accusa aveva chiesto 23 anni. A favore di Sentsov si era mobilitato il mondo della cultura, anche internazionale. Il regista era stato arrestato a maggio 2014, alcune settimane dopo che un referendum popolare non riconosciuto dalla comunità internazionale aveva deciso il ‘ritornò della penisola sul Mar Nero alla Russia. Sentsov, in apertura del processo, il 21 luglio scorso, si è dichiarato innocente e ha definito il suo caso come "politico", per le sue posizioni anti-russe. Insieme a lui, al banco degli imputati vi era anche l’ucraino Oleksandr Kolchenko, che ha respinto ogni accusa, è stato condannato a 10 anni di prigione. Con il regista, erano stati arrestati anche Oleksiy Chyrniy e Hennadiy Afanasyev, anche loro sospettati di pianificare attentati in Crimea e già giudicati colpevoli e condannati a sette anni di reclusione. Oltre a Sentsov e i suoi compagni, secondo stime del Moscow Times, sono almeno altri 10 i cittadini ucraini detenuti in Russia con accuse che vanno dal terrorismo allo spionaggio, da quando, nel febbraio 2014, il presidente ucraino Viktor Yanukovich è stato defenestrato dalle massicce proteste di piazza nel Paese. Kiev ha denunciato la difficoltà di avere contatti con i suoi connazionali, tra cui vi è anche la pilota "top gun" Nadia Savchenko, accusata di omicidio. La maggior parte di questi detenuti rischia pene superiori ai 20 anni e alcuni hanno denunciato di aver subito torture. Secondo Mark Feigin, avvocato russo della Savchenko ed ex legale delle Pussy Riot, è impossibile sapere il numero esatto di quanti potrebbero essere i detenuti ucraini. La Russia, però, ha negato la presenza sul suo territorio di prigionieri politici. Il portavoce del Comitato investigativo russo, Vladimir Markin, ha dichiarato al quotidiano Izvestia che nè il caso Savchenko, nè quello Sentsov hanno motivazioni politiche e ha bollato le accuse in questo senso come propaganda messa in circolazione dagli Usa. Iran: reporter Washington Post in carcere, Teheran esclude scambio detenuti con Usa Adnkronos, 26 agosto 2015 Il governo iraniano "non ha in agenda" uno scambio di detenuti con gli Usa. Lo ha affermato il vice ministro degli Esteri di Teheran, Hassan Qashqavi, commentando il caso del reporter del Washington Post Jason Rezaian, da oltre un anno in carcere nella Repubblica islamica con l’accusa di spionaggio, collaborazione con governo ostile e diffusione di propaganda nemica. "Uno scambio di Jason Rezaian non è in agenda. Ogni caso è separato dagli altri", ha dichiarato Qashqavi, citato dall’agenzia di stampa semiufficiale Tasnim. Nei giorni scorsi lo stesso vice ministro ha sottolineato che il governo di Teheran è al lavoro per ottenere il rilascio di 19 cittadini iraniani che al momento si trovano in carcere negli Usa. Secondo Qashqavi, si tratta di "prigionieri politici". Il vice ministro ha quindi precisato che l’Iran sta agendo a livello diplomatico anche attraverso un "terzo" paese per ottenerne il rilascio. È possibile che il paese in questione sia la Svizzera, che rappresenta gli interessi diplomatici Usa nella Repubblica islamica. Stati Uniti: drone per portare in carcere droga e film porno, due arrestati nel Maryland Adnkronos, 26 agosto 2015 Ora che è stato liberalizzato negli Stati Uniti l’utilizzo di piccoli droni per i privati, c’è qualcuno che ha pensato di usarli per contrabbandare in un carcere droga e film porno. È successo nel Maryland, dove la polizia ha arrestato due uomini a bordo di un auto a poca distanza del Western Correctional Institution di Cumberland. All’interno dell’auto è stata trovata droga sintetica e cd con materiale pornografico e, ovviamente, un piccolo aereo telecomandato che, secondo gli inquirenti, i tre intendevano usare per far entrare il materiale nel carcere. Nella conferenza stampa in cui sono stati annunciati gli arresti, le stesse forze dell’ordine locali si sono rese conto di quanto fosse incredibile la vicenda. "Cose del genere non si possono inventare", ha scherzato Stephen Moyer, segretario del dipartimento carcerario del Maryland. "Questa è un’indagine molto seria", ha precisato poi Mark Veneralli portavoce del dipartimento, spiegando che oltre ai due uomini che sono stati incriminati per possesso e spaccio di droga, si sospetta che almeno un detenuto all’interno del carcere sia coinvolto. Nella sua cella è infatti stato trovato materiale di contrabbando.