Giustizia: la galera serve… a chi sta fuori di Ascanio Celestini Left, 25 agosto 2015 "Tutti parlano di reati. Reati commessi per davvero o inventati. Reati passati, ma anche futuri. Quelli che faranno appena escono. Se mettono i microfoni nelle celle ci danno l’ergastolo a tutti". Questo mi racconta un detenuto siciliano. "Quando m’hanno messo dentro ho detto al direttore: voglio stare in cella con un italiano! E quello m’ha fatto: sei di Palermo, ti metto con un catanese. Adesso sto tranquillo, mi faccio la mia pena". Il detenuto siciliano parla così, ma non lo so se è vero quello che dice. Veramente ha parlato col direttore del carcere e quello l’ha trattato come un confratello massone? Anzi sono sicuro che s’è vantato e basta. Mi ha detto solo scemenze che fanno il paio coi suoi muscoli pompati. "Qui siamo peggio delle femmine" mi dice un anziano che mi indicano come appartenente alla famosa banda della Magliana. Significa che ci tengono all’aspetto. Sbarbati, profumati, abiti puliti e possibilmente un po’ di marca. Niente di costoso perché qui sono quasi tutti senza una lira, ma hanno una dignità che somiglia a quella di certi abitanti di borgata che girano in tuta da ginnastica, ma non quella scrausa del mercatino. Questa è gente che si stira le mutande con la moka scaldata sul fornelletto nell’angolo della cella accanto al cesso. Cos’altro dovrebbero fare durante il giorno se per loro lo stato spende quotidianamente poco più di 5 euro per il cosiddetto "trattamentale"? Sarebbe un pezzo di quel lavoro che dovrebbe riportarli nella società, ma in quella banconota verdina ci devi mettere i trasferimenti da e per i tribunali, gli impacchettamenti e gli spacchettamenti per portarti in altre galere. Appena entrano in carcere comincia il loro teatro. Si mettono un costume di scena e incominciano a recitare. I reati veri o finti sono parte della stessa recita. Il capello tagliato alla moda e la maglia colorata con la virgola della Nike, il tatuaggio impeccabile accanto a quello fatto in cella con l’inchiostro della penna. Nella commedia del carcere ognuno ha il suo personaggio. La società gliel’ha insegnato. Stanno lì dentro per recitare la parte dei cattivi. Serve a quelli che restano fuori che altrimenti non riuscirebbero a sentirsi buoni. L’articolo 27 è uno dei tanti che riempie le prime pagine della Costituzione con i suoi geroglifici non decodificabili. In Italia quelle prime pagine fanno ridere, figuriamoci in questo ghetto sbarrato. Chi sta in galera conosce un’altra legge. Gli chiedi ignorantemente "perché stai dentro?" e ti rispondono "per un errore. Un errore mio o del giudice" e ridono. Ma il carcere lo conoscono meglio di tutti. Meglio dei cittadini pagatori di tasse che vorrebbero vedere tutti dietro al blindato. Meglio dei politici che ogni tanto ci finiscono e nonostante quest’esperienza non imparano nulla e si sentono pure perseguitati (una volta i padri costituzionalisti si vantavano di aver conosciuto la prigione!). Meglio dei giudici che ce li mandano e pure delle guardie che li controllano pensando che la prigionia sia tutta gestita da loro. No, la galera è un fatto personale. Il detenuto se ne rende conto dopo poche ore. È fatta di droga se ti serve e c’hai i soldi, psicofarmaci a pioggia, un po’ di sesso da solo o con qualcun altro se non ti fa troppo schifo. In cella cerchi di farti tutto, costruisci il frigo col ghiaccio della ghiacciaia comune e il tetrapack del latte. La grappa con la serpentina di penne Bic mezze squagliate, il vino con l’uva marcita. La cocaina e l’eroina arriva nei maglioni messi a mollo nell’acqua con la robba. Il parente te l’asciuga e tu te lo rimetti a mollo per fartela. Chiedo a uno che in carcere c’ha passato una vita "ma la maggior parte si perde?" "No, per niente" risponde lui indicandomi la percentuale stimata di robba recuperata. Pure la frutta e la verdura gli hanno sequestrato una volta perché la siringavano di acidi. La galera è così. Abolire il carcere è un libro da regalare a quelli che straparlano al bar con la preghiera di leggerselo per davvero e smettere di dire sciocchezze. Ogni riga ribadisce in maniera incontestabile l’inutilità di questa istituzione stupida e nazista. Renzi sostiene che l’articolo 18 della legge 300 è vecchio, lo paragona al gettone nell’era dell’iPhone. Figuriamoci la galera! Una robba inventata molto prima del telefono di Meucci. Perché il Renzi non se ne disfa come del gettone? Forse la galera gli serve. Serve a lui che ha il Paese dalla parte del manico e a tutti quelli, di destra e sinistra, che stanno fuori. Ammazzare la gente mettendola in queste tombe per i vivi serve ai cittadini per non sentirsi morti del tutto. Giustizia: c’era una volta il sogno di riformare la magistratura di Beniamino Migliucci (Presidente dell’Unione delle Camere Penali) Il Garantista, 25 agosto 2015 Qualche piccolo passo avanti è stato fatto, ma ancora oggi non si interviene su questo tema per evitare di incorrere in atti di belligeranza verso i giudici. L’articolo di Sabino Cassese, pubblicato ieri sul Corriere della Sera, "La Giustizia che si deve ritrovare", è la sintesi perfetta e condivisibile sullo stato della giustizia in Italia ed una indicazione puntuale della strada che occorre intraprendere per migliorarne le condizioni. L’autorevolezza della fonte conforta la diagnosi da anni formulata dall’Unione delle Camere Penali Italiane. Il paradosso di una giustizia che è al tempo stesso al massimo della sua inefficienza e al massimo della sua invadenza è denuncia che dovrebbe comportare riflessioni pertinenti e soluzioni adeguate. Procure e Corti che intendono dettare l’agenda della Politica, magistrati in politica e fuori ruolo, ricorso eccessivo, e spesso strumentale, alla custodia cautelare, conflitti interni e disfunzioni del CSM, dominio delle correnti, irragionevole durata dei processi costituiscono elementi di fatto posti a base della analisi che vanno affrontati con decisione per restituire fiducia nella giustizia con benefici consequenziali per cittadini, società ed economia. Allo stesso modo non possono essere dimenticati altri fattori di inefficienza che pure Sabino Cassese prende in esame: dalla inadeguatezza delle indagini, all’utilizzazione spropositata dello strumento intercettativo, dal numero dei processi e dei ricorsi, alla professionalità di tutti gli attori del processo. Se è vero, in proposito, che il numero degli avvocati è in Italia ancora molto alto (sebbene nello scorso anno si sia registrata una flessione di oltre il 20 per cento nelle iscrizioni alla facoltà di giurisprudenza), su una cosa non debbono esserci equivoci: la irragionevole durata dei processi o gli altri mali della giustizia non sono certo determinati dal numero degli avvocati che, semmai, devono curare adeguatamente la propria formazione e specializzazione, per fornire al cittadino la più accurata ed alta assistenza possibile e per essere autorevoli interpreti del giusto processo. Riqualificare i soggetti del processo, riformare la leva della magistratura significa porre le condizioni del cambiamento. Ma il ritardo nella riforma della giustizia è determinato nel nostro Paese anche da luoghi comuni, da timori e da tabù inconfessati, da incrostazioni ideologiche e dall’errato convincimento che alcune riforme possano essere interpretate come un atto di belligeranza nei confronti della magistratura cui da tempo la politica ha delegato funzioni improprie, pensando magari che ciò avrebbe garantito un vivere più quieto. Secondo questo luogo comune la giustizia è dei magistrati ed ogni riforma che la voglia restituire ai cittadini è un atto eversivo. E per questo motivo, e sull’onda di simili equivoci, che spesso si pongono in essere rimedi che sono peggiori dei mali. Non vi è chi non veda che la ricetta per evitare che i processi si prescrivano non può certamente essere quella di renderli interminabilmente lunghi. Non è la mitezza delle pene a incrementare i delitti, ma la altissima probabilità di non essere scoperti. Non è la durezza delle pene detentive ma il lavoro e la diffusa applicazione delle misure alternative ad incrementare la sicurezza dei cittadini. Ha ragione il professor Cassese, anche se lentamente, "qualcosa si muove", e questo va riconosciuto al ministro della Giustizia. La ripartenza va incoraggiata e non solo per i giudizi ora negativi, ora positivi, che provengono dall’Europa, ma per la consapevolezza di dover affrontare il tema della giustizia sotto il diverso e più alto profilo della qualità della giurisdizione. E naturalmente a questo dibattito culturale che collochi al centro in maniera seria la politica giudiziaria devono partecipare tutti senza timidezze e senza la preoccupazione di essere etichettati come contigui alla criminalità o alla corruzione, laddove si auspichino interventi sulla disciplina delle intercettazioni o si sottolinei che la custodia cautelare debba essere utilizzata come extrema ratio; o ancora essere apostrofati come nemici dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura se si afferma l’ineludibilità della separazione delle carriere, come fisiologica attuazione dell’articolo 111 della Costituzione e della necessaria terzietà del giudice. Tale inevitabile riforma, come acutamente sottolinea il professor Cassese, è anche determinata dal semplice fatto "che accusa e giudizio sono mestieri diversi che richiedono preparazione e professionalità differenti". Immaginare dunque una riforma della giustizia che non sia ad un tempo un’opera di riequilibrio all’interno delle istituzioni e dei poteri dello Stato non sembra più possibile. Il processo moderno nasce e vive assieme con la democrazia e con l’idea laica e liberale dello Stato. L’idea di legalità, di giustizia e di libertà riescono a nutrire il processo solo se questo è collocato all’interno di un sano equilibrio dell’insieme delle sue istituzioni e di tutte le sue forze. Sono tutti temi, questi, che l’Unione discuterà al proprio Congresso straordinario nel convincimento che, sino a oggi, ostacolo a una vera riforma della giustizia sono stati la patologica debolezza della politica e i veti di una parte della magistratura. È arrivato oramai il tempo di affrancarsi dall’una e dagli altri. Giustizia: Balduzzi (Csm) "toghe in politica? sì, ma la scelta dovrebbe essere definitiva" di Gianni Santamaria Avvenire, 25 agosto 2015 "La giustizia è un pianeta complesso e le ricette troppo semplici non le si addicono". Ciò non vuol dire, dice il membro laico del Csm, Renato Balduzzi, che ricette per riformare il sistema non ci siano. "Per la lunghezza del processo civile basterebbe un taglio netto al sistema delle nullità e delle notifiche, che non sempre stanno a garanzia dell’equilibrio tra diritto della difesa e speditezza del processo, ma del garbuglio". Il costituzionalista ed ex ministro interviene così nel dibattito aperto da Sabino Cassese ieri sul Corriere della sera. "La misura di un articolo - commenta Balduzzi - può talvolta rendere un po’ sbrigative anche voci autorevoli. Cassese indica tre punti critici. Ma i primi due non toccano il mondo della magistratura. La qualità pessima delle leggi riguarda il legislatore. I troppi avvocati sono una disfunzione culturale e organizzativa, legata alla prima. C’è poi la terza, le correnti che dominerebbero il Csm. Il problema nessuno lo può negare. Ma è la degenerazione burocratica di quella discussione ideale, partita dagli anni Sessanta, che in gran parte è stata invece positiva". Come se ne esce? "Stiamo cercando di arrivare a regole le più trasparenti e condivise. Per sottolineare che il Csm deve svolgere un ruolo di garanzia autorevole non solo nei confronti della politica e delle componenti organizzate, che rischiano di implodere, ma di tutti gli oltre 9mila magistrati ordinari. I consiglieri togati non mi paiono contrari". E sulle toghe in politica il Csm sta in silenzio? "È questione tocca il legislatore. Da tempo si ipotizza che chi si candida o assume incarichi pubblici lo debba fare dopo tot anni dall’uscita dalla magistratura. O potrebbe mettere dei limiti al ritorno in magistratura. Se si entra in politica, la scelta dovrebbe essere definitiva". Le sentenze condizionano pure le scelte economiche? "Abbiamo stimolato la Scuola superiore della magistratura a discutere il tema. Ma evitiamo paragoni tra Csm e dipartimento di Giustizia Usa, che può fissare linee guida, vista la diversa organizzazione della magistratura requirente, che ha spesso natura politica, sovente elettiva". E la separazione tra le carriere? "Il nostro ordinamento si basava - e in parte ancora si basa - sul principio che chi ha fatto sia il giudice sia il pm possa capire meglio i profili di garanzia su temi come il carcere preventivo o la segretezza delle comunicazioni, insomma che anche il pm partecipa della cultura della giurisdizione. Non mi pare un’eresia. Ordinamenti partiti da posizioni opposte alle nostre, come quello francese, non a caso stanno avvicinando i due mondi". Giustizia: l’Italia è il paese dei Comuni sciolti per mafia di Giuseppe Baldessarro e Alberto Custodero La Repubblica, 25 agosto 2015 Da quasi un quarto di secolo ogni mese un municipio viene commissariato per infiltrazioni della criminalità organizzata: è questo il bilancio della speciale legge introdotta nel 1991. Una norma che oggi, sulla scia dello scandalo per il caso di Mafia Capitale, si sente l’urgenza di rivedere. Ma il problema, rivela la storia di questi anni, non è tanto nel testo del provvedimento, quanto nel fatto che troppo spesso è stato usato come strumento di lotta politica tra gli opposti schieramenti. Una legge tutta da rifare? A quasi un quarto di secolo dall’entrata in vigore della norma sullo scioglimento dei comuni infiltrati dalla mafia, politica, società civile, associazioni antimafia si interrogano oggi se lo strumento dello scioglimento sia ancora attuale ed efficace. O se non sia meglio cambiarlo o modificarlo. A proposito del caso Roma, su cui il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha promesso un pronunciamento del Viminale per il 27 agosto, è lo stesso presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi, del resto, a invocare addirittura un decreto legge che introduca strumenti ad hoc per affrontare le difficoltà di Comuni molto grandi. "Bisogna individuare una terza via - dice Bindi - fra scioglimento o non scioglimento, e potrebbe essere un tutoraggio dello Stato, un’assistenza verso l’ente "parzialmente infiltrato", senza che questo debba essere commissariato o debba perdere la guida politica". "È importante dunque anzitutto intervenire sulle norme in materia di scioglimento - sottolinea il presidente dell’Antimafia - alla luce di un’esigenza che ha avvertito lo stesso governo presentando un disegno di legge che è attualmente pendente al Senato in attesa di approvazione". Per capire cosa stia accadendo, è necessario fare un po’ di storia. La legge 221 nacque nel 1991 da una situazione di emergenza, come risposta alla decapitazione avvenuta a Taurianova di un affiliato alla ‘ndrangheta la cui testa fu lanciata in aria e fatta oggetto di un macabro tiro al bersaglio a pistolettate. La norma doveva avere valore preventivo, affidando al ministero dell’Interno il potere di sciogliere i Comuni in modo autonomo e svincolato dalle indagini della magistratura, lunghe e complesse. Da allora i governi hanno utilizzato questo strumento antimafia in modo altalenante, con una forte discrezionalità politica. Quasi mai sono intervenuti in via preventiva, quasi sempre hanno applicato la legge in seguito a indagini penali, snaturandone così il marchio di fabbrica. Hanno sciolto 258 amministrazioni locali e cinque Aziende sanitarie. Otto comuni hanno il record dei tre scioglimenti: Casal di Principe, Casapesenna, Grazzanise, Melito di Porto Salvo, Misilmeri, Roccaforte del Greco, San Cipriano d’Aversa e Taurianova. Trentotto sono stati commissariati invece due volte. Nel 2012 per la prima volta è stato sciolto invece un capoluogo di provincia importante come Reggio Calabria. Al Centro Nord gli scioglimenti sono più rari: pochissimi in Piemonte, uno, a Sedriano, in Lombardia, anche se secondo alcuni esperti non era quello più "infiltrato" dalla ‘ndrangheta. Quest’anno, poi, il prefetto di Reggio Emilia ha nominato la commissione per effettuare l’accesso nel comune di Brescello, il primo passo di una lunga procedura che deve valutare l’eventuale presenza di infiltrazioni mafiose nell’amministrazione comunale, un’anteprima assoluta in Emilia Romagna, quella che dal Dopoguerra in poi è sempre stata considerata la patria del buongoverno. E sempre quest’anno, per la prima volta "un accesso", come viene detto in gergo burocratico, ha riguardato Roma, la Capitale. Sotto le scure della legge non è mai caduto invece un Consiglio provinciale e allo stesso modo sono passati indenni anche i cosiddetti "enti terzi", come le società partecipate che, invece, sono sempre più strumenti di effettivo governo del territorio e, dunque, oggetto degli appetiti mafiosi. Ma i criteri di scioglimento non sono sempre stati gli stessi. I governi tecnici degli anni Novanta, così come quelli del Duemila, non avendo interessi e finalità elettorali da tutelare, hanno fatto il massimo ricorso alla legge senza guardare al colore politico delle amministrazioni infiltrate: nel triennio 1991-94 gli scioglimenti sono stati in media 30 l’anno, 36 in 17 mesi con il solo governo Monti. Ma quando al potere vanno i politici, le cose cambiano e lo scioglimento passa, se così si può dire, da strumento, a strumentale. Strumentale per "tutelare" i Comuni del proprio colore e per prendere di mira quelli di colore opposto. È il sociologo Vittorio Mete (autore del volume "Fuori dal Comune. Lo scioglimento delle amministrazioni locali per infiltrazioni mafiose", Bonanno, 2009), a scoprire nei suoi studi questo singolare aspetto. "I governi di centrodestra e di centrosinistra - ricostruisce - sembrano comportarsi in maniera non troppo dissimile: essi tendono a sciogliere più frequentemente (quelli di centro-destra ancor più di quelli di centro-sinistra) le amministrazioni locali di opposto colore politico". Gli scioglimenti, dunque (quanti, quali, dove) ci parlano certamente della mafia, ma ci parlano, anche, di come funzionano lo Stato e l’apparato dell’antimafia. E di come lo strumento sia al contempo strumento di contrasto alla mafia e strumento di lotta politica. Gli scioglimenti, infatti, dovrebbero rispondere a una sola logica: "Se le mafie condizionano o minacciano di condizionare un comune - spiega Mete - l’amministrazione comunale va sciolta. In caso contrario, no". Purtroppo, questi 25 anni di applicazione della legge ci raccontano una storia diversa fatta, per dirla con le parole di Raffaele Cantone, il magistrato a capo dell’Autorità nazionale anticorruzione, "di estenuanti mediazioni politiche sugli scioglimenti". Il riferimento, esplicito, è al caso del comune di Fondi, nel basso Lazio. Il municipio, amministrato dal Pdl e infiltrato da camorra, ‘ndrangheta e mafia, il cui scioglimento fu chiesto per due volte nel 2009 dall’allora responsabile del Viminale Roberto Maroni (Lega) con la seguente motivazione: "Il Comune di Fondi presenta forme di ingerenza da parte della criminalità organizzata tali da compromettere il buon andamento dell’amministrazione, con grave e perdurante pregiudizio per lo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica. Emergono significative circostanze di vicinanza e contiguità al sodalizio in relazione al sindaco, a diversi esponenti della giunta. La presenza e l’estensione dell’influenza criminale rende necessario il commissariamento per 18 mesi". Nonostante ciò, Fondi fu salvato per due volte dal Consiglio dei ministri del governo Berlusconi. La maggioranza del consiglio comunale, approfittando del mancato intervento del governo, si dimise in massa, evitando i 18 mesi di commissariamento. Il ministro dell’Interno leghista avallò l’escamotage senza batter ciglio. Il comune andò subito al voto e il Pdl, con quasi tutti gli stessi amministratori oggetto dello scioglimento (alcuni dei quali riconfermati assessori), tornò al governo del comune con il 65 per cento dei voti. Il sindaco che guidava l’amministrazione collusa, Luigi Parisella, fu poi eletto in consiglio provinciale. Bruno Frattasi, il prefetto di Latina che aveva chiesto lo scioglimento, fu oggetto di pesanti intimidazioni da parte dei vertici locali del Pdl: fu definito "pezzo deviato dello Stato" dall’ex presidente della Provincia di Latina, Armando Cusani. E il senatore Claudio Fazzone (ex Pdl, ora Fi), plenipotenziario di Berlusconi nel Pontino, minacciò di querelarlo, difese a spada tratta l’amministrazione infiltrata e invocò contro il prefetto addirittura l’apertura di una commissione parlamentare d’inchiesta. Fazzone, più volte citato nella relazione di Frattasi (in quanto socio del sindaco Parisella e di tal Luigi Peppe, "il cui fratello risultava in rapporti certi con una famiglia"), è attualmente componente della Commissione Antimafia che si sta occupando proprio di scioglimenti di consigli comunali. L’allora segretario Pd di Fondi, Bruno Fiore, infine, che si oppose con tutte le sue forze al mancato commissariamento, fu oggetto di un attentato intimidatorio fortunatamente fallito. Insomma, il caso Fondi ha segnato uno spartiacque, un precedente assoluto e gravissimo, ha profondamente segnato, e minato la credibilità della legge, perché in quel caso lo Stato s’è arreso di fronte alla criminalità. "E ora è a rischio - commenta l’avvocato Francesco Fusco, del comitato antimafia di Fondi - l’intero funzionamento degli anticorpi normativi ed esecutivi contro la mafia. Qualunque comune colluso con la mafia ricorrerà alle dimissioni per potersi ripresentare, ripulito, e più in forze di prima". Il dibattito sulla bontà della legge resta dunque aperto, ma, secondo Mete, il quadro va allargato ulteriormente. "L’analisi di alcune vicende - spiega il sociologo - fa emergere un altro aspetto, solitamente poco discusso: in molti casi di scioglimento per mafia il principale problema che pregiudica il buon andamento dell’attività amministrativa dell’ente locale non è quello mafioso". "Lo dichiara apertamente - aggiunge Mete - l’attuale Capo della Polizia che, in qualità di prefetto di Napoli, e riferendosi alla situazione campana, scrisse: "Anche nei Comuni sciolti per infiltrazione camorrista, il tasso di condizionamento camorrista è sempre inferiore rispetto a quello dell’illegalità non connessa al crimine organizzato. Insomma, sembra prevalere un bieco clientelismo finalizzato in via esclusiva ad alimentare un sistema affaristico imprenditoriale di natura parassitaria, rispetto al condizionamento o alla collusione con le cosche che operano sul territorio". Siamo sicuri, allora, che per risolvere i problemi delle collusioni mafiose nei Comuni basti una ennesima modifica della legge? Inseguire una nuova riforma normativa non è forse un alibi della politica per non affrontare il vero problema, che è il funzionamento della democrazia a livello locale in ampi territori del Paese? Da Reggio a Platì i tristi record della Calabria, di Giuseppe Baldessarro Dai piccoli municipi ai comuni come Reggio Calabria, capoluogo di provincia e città metropolitana. La legge sullo scioglimento delle amministrazioni "a rischio infiltrazioni mafiose" non ha fatto sconti. Una dopo l’altra, dall’agosto del 1991 allo scorso dicembre 2014, giunte e consigli mandati a casa su richiesta delle prefetture calabresi sono state complessivamente 79. Dati alla mano si tratta della seconda regione italiana nella quale la legge è stata applicata, con una situazione migliore soltanto alla Campania e leggermente peggiore la Sicilia. Un record per nulla invidiabile che si aggrava se si tiene conto della densità della popolazione (meno di 2 milioni di abitanti). Secondo gli ultimi dati ufficiali, in questo momento, i municipi commissariati e amministrati dai funzionari dello Stato sono 15, anche se in realtà il numero va aggiornato. Dopo le ultime amministrative di primavera infatti le urne hanno ridato un governo democraticamente eletto ai comuni di Melito Porto Salvo e Siderno (entrambi nella provincia di Reggio Calabria). Resta tuttavia un dato allarmante se si considera che in tutta Italia le gestioni commissariali per questioni legate alla criminalità organizzata sono complessivamente 27, e che quindi la metà di esse si trova in Calabria. Dopo 24 anni di applicazione della legge, anche in Calabria non sono pochi i dubbi sulla validità dello strumento ideato a suo tempo per difendere i comuni dall’aggressione della criminalità organizzata e per colpire le complicità di amministratori e dipendenti infedeli. Non ha caso da mesi il Procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, parla di legge che "va rivista e aggiornata alla luce degli anni di esperienza fatta sui diversi territori". Che la norma sia risultata spesso inefficace lo dimostrano i ripetuti scioglimenti di comuni come Lamezia Terme, Taurianova o Platì, tutti commissariati più volte. Per gli analisti è la dimostrazione che non sempre mandare a casa un’amministrazione e tornare alle urne dopo i 18 mesi (quando non ci sono proroghe) di amministrazione "controllata" sia risolutivo. In questo senso l’ultimo caso giunto alla ribalta delle cronache è quello di Platì, piccola comunità nell’entroterra della locride, nella quale nessuno vuole più fare il sindaco convinto che il comune sarebbe comunque sciolto per mafia a causa della nomea di paese ad alta densità mafiosa o delle parentele scomode che chiunque, in maniera diretta o indiretta, ha con personaggi più o meno legati alla ‘ndrangheta. Di fatto, tranne qualche breve parentesi, tra scioglimenti e dimissioni, a Platì non c’è un’amministrazione dal 2003 e anche alle ultime elezioni, la scorsa primavera nessuna lista è stata presentata. Il caso più eclatante resta comunque lo scioglimento del comune di Reggio Calabria nell’ottobre del 2012, quando per la prima volta è stato sciolto un capoluogo di provincia. Non un municipio qualsiasi, ma una delle dieci città metropolitane, considerata dal punto di vista della popolazione, delle influenze politiche ed economiche il municipio più importante della regione. Insomma la capitale, anche se soltanto di una regione. Uno scioglimento decretato "per la contiguità con alcuni ambienti mafiosi", e dunque ben oltre il semplice rischio infiltrazione. Piccole e grandi città azzerate dal ministero degli Interni, ma non solo. Nel corso degli anni nel mirino della legge sono finte anche l’azienda ospedaliera di Locri, sciolta dopo l’omicidio del vice presidente del Consiglio regionale Francesco Fortugno (primario del Pronto Soccorso), e l’Asp di Vibo Valentia pesantemente condizionata dai clan della ‘ndrangheta. Non ci sono solo le amministrazioni costrette a chiudere la loro esperienza prima del tempo per motivi drammatici come le infiltrazioni mafiose. Come ricostruiva il Sole 24 Ore di qualche settimana fa sulla base di dati del Viminale, dal 1990 ad oggi oltre 4mila municipi per vari motivi hanno interrotto la loro attività in via ordinaria, così come prevede l’articolo 141 del testo unico degli enti locali (Tuoel): dimissioni dei consiglieri (1309 volte dal 2001 ad oggi), approvazioni di mozioni di sfiducia (77 volte), dimissioni volontarie del sindaco (497 volte), mancata approvazione del bilancio (84 volte) e una serie di altri casi meno ricorrenti come il mancato rendiconto di gestione (3 volte). Tornando a guardare i numeri sull’intero periodo di applicazione della legge, il risultato è davvero impressionante: la media è di 175 enti sciolti ogni anno, vale a dire un comune commissariati uno ogni due giorni. Una volta stabilito lo scioglimento con un decreto del presidente della Repubblica, viene nominato contestualmente un commissario straordinario che resterà in carica fino alle successive elezioni, fissate solitamente alla prima data utile. Fanno eccezione i caso di scioglimento per impedimento permanente, rimozione, decadenza o decesso del sindaco, circostanze in cui il potere passa al vicesindaco incaricato, senza la designazione di un commissario, di condurre l’ente locale al voto per il rinnovo del consiglio. Giustizia: Calderoli (Ln) "grazia a un innocente e ritiro modifiche a riforma costituzionale" di Tommaso Ciriaco Corriere della Sera, 25 agosto 2015 Il vicepresidente del Senato offre un baratto: stop all’ostruzionismo in cambio della clemenza all’imprenditore bergamasco Monella, condannato perché uccise un ladro. Quanto vale un colpo di spugna ai cinquecentomila emendamenti leghisti alla riforma costituzionale? La grazia di un imprenditore condannato per omicidio volontario, a sentire Roberto Calderoli. "La smetto con l’ostruzionismo - giura solennemente il vicepresidente del Senato - se il ministro Orlando trasmette gli atti per il provvedimento di clemenza a Mattarella". Ma chi è il protagonista dello scambio proposto dal big leghista? La storia risale a quasi dieci anni fa. Il 6 settembre del 2006 alcuni ladri entrano nella villa del costruttore bergamasco Antonio Monella, ad Arzago D’Adda. Vogliono rubargli il Suv parcheggiato in cortile, lui spara e uccide il diciannovenne albanese Ervis Hoxa. Legittima difesa o volontà di ammazzare? Dopo anni di processi, arriva la condanna definitiva della Cassazione: sei anni e due mesi per omicidio volontario (escludendo però il dolo intenzionale). L’imprenditore diventa presto un simbolo: sostengono la battaglia per la grazia la Lega e molti suoi concittadini. Si organizzano raccolte di firme, il legale di Monella inoltra la richiesta di un atto di clemenza. Stessa mossa di Matteo Salvini, a luglio: anche per il numero uno del Carroccio si è trattato di un caso di legittima difesa. È a questo punto della storia che entra in gioco Calderoli, la mente del diluvio di emendamenti al ddl Boschi. Senatore, ma che cosa c’entra la grazia a un condannato con la riforma? Nulla, a occhio. "Non c’entra nulla. Però c’entra il fatto che Orlando fa parte di un governo impegnato nelle riforme. Il mio atteggiamento negativo rispetto al ddl costituzionale resta, non do certo il via libera a quel testo. Ritiro solo gli emendamenti in commissione, evito l’ostruzionismo. E dunque penso che sia interesse di Renzi e della Boschi esercitare pressione su Orlando affinché trasmetta a Mattarella la domanda. Anche perché non spetta al ministro decidere sulla grazia, ma al Presidente. Il ministero della Giustizia ha solo un ruolo istruttorio". Ha già parlato con il premier di questa "offerta"? "No, non ne ho parlato con lui". C’è chi non capirà. Molla la battaglia per la Costituzione per il caso di un singolo. Un baratto? "Nessun baratto, cedo solo sull’ostruzionismo. Restano quattro emendamenti, compreso quello sul Senato elettivo". Insomma, è davvero disposto a rinunciare a quella valanga di proposte già depositate? "Certo. Orlando avrebbe potuto dare il via libera alla pratica e finora non l’ha fatto, fermandola per quasi un anno. Voglio sperare che stavolta la cosa vada in porto. Io sto dietro a questa storia da settembre scorso, quando ancora c’era Napolitano. Poi è arrivato Mattarella. E l’iter al ministero non è ancora concluso!". Calderoli, a dire il vero il ministro della Giustizia fa sapere che la pratica non è bloccata, ma bisogna attendere il parere del tribunale di sorveglianza, chiesto ai primi di agosto. Dopo, il ministro potrà fare le proprie valutazioni e inviare l’istruttoria al Colle, presumibilmente entro inizio settembre. "Mi risulta che sia tutto pronto. E poi ricordiamoci che parliamo di uno che si è presentato spontaneamente in galera". Perché cavalcate questa vicenda? "È una battaglia di giustizia, non di politica. Monella si è difeso, magari ha ecceduto, però gli sono entrati in casa mentre c’erano moglie e figli. Io non so come reagirei, sinceramente. Per carità, ha sbagliato. Ma da un anno è in carcere. E ha anche risarcito le vittime". Calderoli, per caso Monella è un suo amico o un militante leghista? "Solo un bergamasco. Tutto questo non c’entra nulla con la politica". Giustizia: Calderoli e quel baratto tra gli emendamenti e la grazia per Antonio Monella di Roberto Gressi Corriere della Sera, 25 agosto 2015 La fantasia non manca al senatore leghista Calderoli. Né gli mancano doti professionali invidiabili. A volte si fa fatica a pensare che sia la stessa persona il Calderoli che liscia il pelo alla base elettorale con battutacce da osteria e il Calderoli inflessibile, rapido, equilibrato e imparziale che dirige, come spesso gli è capitato, i lavori dell’Aula di Palazzo Madama. L’ultima trovata è un baratto: via gli emendamenti per contrastare la riforma del Senato in cambio del sì a una domanda di grazia. Gli emendamenti sono 600 mila, l’atto di clemenza riguarda un imprenditore condannato per aver ucciso un ladro albanese che era entrato nella sua casa con altri due complici. Trovata demagogica, troppo spregiudicata, priva di buon gusto anche per una politica che spesso elegge il cattivo gusto a genere di consumo. Tra le invenzioni di Calderoli, quella dei seicentomila emendamenti non è stata particolarmente geniale, lui stesso se ne è accorto. C’è chi ha calcolato quanti alberi bisognerebbe tagliare per fare la carta per stamparli e quanti milioni di euro si spenderebbero. Uno scivolone, non è piaciuta. Quello del baratto deve essergli sembrato un buon modo per uscirne. E ovviamente gli emendamenti "veri", quelli importanti, resterebbero. Un po’ di teatro, insomma. Spiacevole che sia fatto su una riforma importante, ma soprattutto è sgradevole che si tratti con leggerezza una vicenda dolorosa. Nel 2006, ad Arzago D’Adda, l’imprenditore Antonio Monella, cinquantenne, sparò un colpo di fucile contro un ladro albanese, Ervis Hoxha, un giovane di 19 anni. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aspetta il parere del tribunale di sorveglianza, valuterà e poi deciderà se mandare l’istruttoria al capo dello Stato, Sergio Mattarella, l’unico che può decidere sulla grazia. Comunque andrà resterà il dolore di un uomo che ha ucciso un altro uomo, probabilmente senza volerlo. E resterà il dolore per la morte di un ragazzo così giovane. Non è cosa da baratti. Giustizia: i dem "la grazia ad Antonio Monella slegata dalle riforme" di Virginia Piccolino Corriere della Sera, 25 agosto 2015 "Nessun baratto sulle riforme". "Allora gli emendamenti saranno dieci milioni". Tutto era iniziato con Roberto Calderoli, senatore leghista, che dalla Berghem Fest, domenica, lanciava una proposta di "cessate il fuoco" al governo sulla riforma della sua Camera di appartenenza. Calderoli, autore di circa 600 mila emendamenti ostruzionistici che hanno bloccato l’iter del disegno costituzionale Boschi, si diceva pronto a ritirarli tutti. Ma solo nel caso in cui fosse stata data a breve la grazia all’imprenditore edile Antonio Monella, in carcere da undici mesi per aver sparato, uccidendolo, il 19enne albanese Ervis Hoxa che gli stava rubando il suv sotto casa. Con un colpo di teatro, Calderoli aveva rivelato l’esistenza di un sms del sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, che dava la chiusura dell’istruttoria sul caso per mercoledì. La Lega ha fatto di questa vicenda una bandiera dal giorno in cui l’imprenditore 52 enne è stato condannato in via definitiva a sei anni per omicidio. Nella richiesta al capo dello Stato, Salvini, il 15 luglio scorso, invitava a considerare l’uccisione di Hoxa come legittima difesa. Ieri la nuova puntata. Con la doppia smentita della trattativa, prima del sottosegretario Ferri: "Non c’è stata alcuna trattativa. Né potrebbe esserci: sono due questioni slegate. La Lega mi chiede da un anno dell’iter della domanda di grazia. Ha diritto a sapere". E poi del deputato Pd, Antonio Misiani, per cui "l’idea è strampalata". Minacciosa la controreplica di Calderoli, rilasciata al Corriere: "Se non verrà mostrata clemenza, chiudendo l’iter e inviando tutto al capo dello Stato, gli emendamenti sulla riforma si moltiplicheranno. Ho ancora tre settimane di tempo, credo di farcela ad arrivare a 10 milioni. A quel punto Renzi non pensi di far passare il ddl Boschi con la fiducia. So che si sono informati presso gli uffici del Senato, che li hanno sconsigliati: non è mai stata apposta la fiducia su un ddl costituzionale. Credo che se lo facessero, anche il silente presidente Mattarella avrebbe qualcosa da dire". Al ministero della Giustizia spiegano che riforma e grazia non sono collegati. Il ministro Andrea Orlando sta aspettando il parere del Tribunale di sorveglianza che deve dare atto della buona condotta in carcere dell’imprenditore. Un parere chiesto ai primi di agosto, che dovrebbe giungere entro i primi di settembre. Solo dopo il parere di Orlando, l’istruttoria sarà inviata al capo dello Stato che ha il potere di concederla. Tutto qui. Per Misiani, la questione si spiega così: "Calderoli, temendo la bocciatura in blocco dei suoi emendamenti-fotocopia, sta legandone il ritiro a una vicenda del tutto diversa. In realtà, come mi ha ribadito il ministro Orlando in un colloquio telefonico, il parere sulla richiesta di grazia sta seguendo l’iter previsto". Calderoli non replica ma fa sapere che non mollerà mai su quattro punti del ddl Boschi: "La funzionalità del Senato, quella delle Regioni, l’autonomia finanziaria degli enti locali e le modalità di elezione dei senatori, che devono restare espressione del popolo". Giustizia: Andrea Soldi non soffriva di cuore, è morto soffocato durante un Tso di Mauro Ravarino Il Manifesto, 25 agosto 2015 L’inchiesta sulla morte di Soldi, sottoposto con la forza al trattamento sanitario obbligatorio. Il risultato degli esami istologici ordinati dalla procura. Segni evidenti sul collo. Indagati per omicidio colposo tre agenti municipali e uno psichiatra. Andrea Soldi non soffriva di cuore, non aveva patologie cardiache pregresse. È morto a causa di una "ipossia", una carenza di ossigeno, prodotta dalla compressione del collo. A confermarlo è il risultato degli esami istologici, svolti dal medico legale Valter Declame, sui tessuti della vittima. Sono stati effettuati per ordine della procura di Torino. Andrea, 45 anni, soffriva di schizofrenia ed è morto il 5 agosto scorso durante un ricovero forzato, mentre se ne stava seduto su una panchina in piazza Umbria, non distante dal centro cittadino. La sua panchina, quella dove passava spesso i pomeriggi e che ora è diventata luogo del ricordo di un "gigante buono", presenza fissa per la gente del quartiere. Per il decesso di Soldi sono indagati per omicidio colposo gli agenti della pattuglia "Pegaso 6" della polizia municipale, Enri Botturi, Stefano Delmonaco e Manuel Vair, e lo psichiatra che aveva richiesto il Tso, Pier Carlo Della Porta. Dalle analisi, nonostante l’obesità, risulta che l’uomo godesse in generale di buona salute fisica. Secondo l’inchiesta coordinata dal pm Raffaele Guariniello, la sua morte sarebbe riconducibile a una compressione del collo, non a un infarto. Soldi, bloccato dai vigili, è stato caricato in ambulanza ammanettato e a faccia in giù: manovre che hanno determinato uno scarso afflusso di ossigeno al cervello e innescato la crisi mortale. Una concatenazione di effetti: l’ipossia ha portato a una anemia cerebrale acuta, alla perdita di coscienza e a un "danno cardiaco secondario", dovuto alla carenza di ossigeno. Su Andrea, durante il trasporto in ambulanza, non è stato eseguito nessun intervento di rianimazione. I consulenti medici delle difese avanzano, però, un’ipotesi alternativa: quella della forte scarica di adrenalina. Nessun soffocamento, nessun strangolamento. È stata una morte "aritmica", per usare il lessico degli specialisti, dettata da un "eccesso di iper-increzione". Uno spavento eccessivo. L’avvocato della famiglia e cugino di Andrea, Giovanni Maria Soldi, non concorda: "A me sembra improbabile. I segni della compressione del collo ci sono e sono evidenti: quell’intervento è stato troppo invasivo ed è stato protratto a lungo. In ogni caso, adrenalina o no, cambia poco. Un soggetto schizofrenico è più esposto a certi pericoli e deve essere gestito secondo modalità specifiche. Non si poteva procedere in quel modo". Se la relazione definitiva sull’autopsia, che arriverà al procuratore Guariniello, convaliderà l’ipotesi "ipossia", si avranno maggiori certezze sui tempi del decesso della vittima. Per ora, sembra sia avvenuta in tempi molto rapidi, persino prima del suo arrivo all’ospedale Maria Vittoria. La procura nei giorni scorsi aveva acquisito il protocollo che dal 2008 fornisce alla polizia municipale le indicazioni da seguire in caso di "accompagnamento coattivo in ospedale". I vigili devono "cercare di essere accondiscendenti e concilianti evitando di parlare ad alta voce e di usare modi bruschi". Tentando "per quanto possibile" di instaurare "un buon dialogo con il soggetto". La forza si deve usare solo come ultima risorsa, in caso di manifesta pericolosità, e per il tempo necessario a somministrare un sedativo. I carabinieri del Nas sostengono che quel giorno Andrea non dovesse essere trattenuto con la forza perché non era stato aggressivo né con altri né con se stesso. Come mai alla presenza di un agente di esperienza - uno dei tre era formatore regionale - e di uno psichiatra di lungo corso la situazione è così degenerata? Perché tale violenza, visto che l’unica forza esercitata da Andrea era quella di non staccarsi dalla panchina? E perché nessuno lo ha rianimato? Giustizia: Martina Levato potrà vedere suo figlio soltanto una volta alla settimana di Franco Vanni La Repubblica, 25 agosto 2015 La decisione al termine del primo incontro tra i servizi sociali e la famiglia Levato. Ancora da stabilire se gli incontri avverranno a San Vittore dove la giovane è detenuta. Sta a cuore a molti il futuro del bimbo partorito a Ferragosto da Martina Levato, la bocconiana condannata a 14 anni di carcere per un’aggressione con l’acido e a processo per altri blitz analoghi. Negli uffici del Tribunale per i minorenni di Milano, infatti, in questi giorni sono arrivate, da quanto si è saputo, decine di richieste di adozione del bambino. E ciò mentre i servizi sociali hanno stabilito che la donna, tornata venerdì scorso a San Vittore, potrà incontrare il figlio una volta a settimana e non nella Casa Famiglia dove è stato collocato, ma molto probabilmente in carcere. Soluzione questa che potrebbe essere adottata anche per regolare gli incontri tra il piccolo e il padre, Alexander Boettcher, anche lui condannato a 14 anni e detenuto a San Vittore. Anche se al momento né Martina, rappresentata dai legali Stefano De Cesare, Laura Cossar e Daniele Barelli, né Alexander, assistito dagli avvocati Alessandra Silvestri e Valeria Barbanti, hanno ricevuto comunicazioni con modalità e tempi delle loro visite. Nel penitenziario milanese, tra l’altro, c’è una struttura apposita che permette alle madri o ai padri detenuti di incontrare i figli, senza uscire dal carcere. E questa modalità di visita sarebbe stata scelta anche per esigenze pratiche, perché altrimenti ogni volta sarebbe necessario un permesso da parte del Tribunale per consentire a Martina e Alex di andare a trovare il figlio. Bimbo che tre giorni fa dalla clinica Mangiagalli, su decisione dei giudici minorili, è stato portato in una comunità per soli minori, in attesa che nei prossimi mesi si concluda il procedimento di adottabilità. Per gli avvocati che rappresentano i genitori di Martina e la madre di Alexander la vera partita si giocherà proprio in questo procedimento, perché sia i nonni materni che la nonna paterna, "concentrati ed uniti", come ha spiegato il legale Laura Cossar, "lotteranno senza polemiche" affinché il bimbo venga affidato a loro in vista dell’adozione e non ad una famiglia ‘terzà. Nel frattempo, appunto, decine di richieste di adozione sono arrivate da famiglie di varie parti d’Italia. Istanze presentate ai giudici mentre il destino della madre e del piccolo era proprio appeso alle decisioni, comunque per ora provvisorie, dei magistrati e aveva vasta eco mediatica. Intanto, i genitori di Martina hanno avuto un primo colloquio con due operatrici dei servizi sociali (il sindaco di Milano Pisapia è tutore provvisorio del bimbo) e a loro è stato spiegato che potranno andare a trovare il nipote nella comunità per due volte a settimana. Anche in questo caso, però, i tempi di visita non sono stati ancora messi nero su bianco. "I nonni erano tranquilli e sereni dopo l’incontro - ha spiegato l’avvocato Cossar - e sono molto determinati a lottare per il nipote". I servizi sociali dovranno depositare, stando a quanto disposto dal Tribunale, una relazione sul nucleo familiare entro il 30 settembre. Relazione che sarà utilizzata nel procedimento che si concluderà con la dichiarazione di adottabilità o meno del piccolo. Giustizia: Gabrielli "su Casamonica abbiamo sbagliato, in quel clan oltre cento arresti" di Viola Giannoli e Salvatore Lucente La Repubblica, 25 agosto 2015 Dopo il Comitato, conferenza stampa del Prefetto: "Le esequie vicenda gravissima". L’assessore capitolino alla Legalità Sabella: "Non torno dalle ferie per funerale cafone". "Le informazioni c’erano, seppure in maniera indiretta le informazioni c’erano. Ma come ho scritto nell’informativa al ministro, non hanno raggiunto i vertici delle strutture che avrebbero potuto assumere decisioni" queste le dichiarazioni del prefetto Franco Gabrielli dopo il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica convocato in seguito ai funerali-show di Vittorio Casamonica, celebrati nella capitale giovedì scorso, ed i chiarimenti richiesti dal ministro dell’Interno Angelino Alfano sabato. Oltre al prefetto, erano presenti al vertice il vicesindaco Marco Causi, il vice questore vicario Luigi De Angelis, il delegato alla Sicurezza del Campidoglio Rossella Matarazzo, il comandante provinciale dei carabinieri Salvatore Luongo, il comandante dei vigili urbani Raffaele Clemente e rappresentanti di Gdf e Forestale. "Oltre 117 arresti fatti, le forze dell’ordine non hanno conosciuto solo ora i Casamonica" ha continuato Gabrielli, sottolineando: "È stata una vicenda gravissima, che ha dato l’impressione di una città non controllata in cui certi soggetti hanno potuto fare ciò che volevano, ma lo sforzo delle forze di polizia non è stato vano in questi anni". Malgrado questo, e le polemiche infuriate in questi giorni sulle responsabilità, l’ex capo della Protezione civile ha precisato: "Non ho mai detto che sarebbero rotolate teste. Se necessario le teste sarà il ministro a farle rotolare". Aggiungendo infine: "Non ci sono rilievi che possa muovere ai vertici delle forze di polizia per quanto accaduto prima. Chiederò di verificare se ci saranno provvedimenti di carattere disciplinare se ci sono state delle mancanze". All’incontro, in cui si è discusso su nuovi procedimenti da adottare in casi simili e diversi modelli di organizzazione, è stata data particolare importanza al cortocircuito dei flussi di comunicazione a livello locale: "Bisogna fare in modo che non si ripeta mai più, come dice il ministro - ha sottolineato Gabrielli. "Ho proposto un nuovo modello di alimentazione delle informazioni all’autorità di pubblica sicurezza. Nelle prossime ore ci sarà una direttiva specifica". E per implementare l’operatività: "Verrà creato un gruppo di raccordo permanente, a cui parteciperanno prefettura, questura, carabinieri, polizia e vigili - ha aggiunto il prefetto - Per definire un ranking delle informazioni, delle notizie che servono, con una griglia che dovrà essere aggiornata ogni volta". Perché "è evidente che c’è stato un vulnus informativo". Intanto, ha precisato l’ex capo della Protezione civile: "Ho chiesto di svolgere adeguati accertamenti su profili di carattere disciplinare per verificare perché quel flusso informativo si è interrotto". E, riferendosi all’agente che ha comunicato il permesso di lasciare gli arresti domiciliari a tre membri del clan per partecipare alle esequie: "Difficilmente potremo muovere un rilievo disciplinare a quel carabiniere. Magari a qualcun altro di altri ambiti che non ha raccolto l’informazione. Serve un cambio di mentalità - ha aggiunto Gabrielli - bisogna prima di tutto restringere il novero delle notizie che interessano". Sulla sicurezza: "Se la gente percepisce insicurezza, dobbiamo porci qualche problema. Ecco il perché del gruppo di raccordo che ho proposto, che avrà un nuovo modello di controllo del territorio per aree e non per obiettivi - ha rimarcato il prefetto, rincarando la dose. Dobbiamo fare uno sforzo per dimostrare che non abbiamo alcuna paura dell’ambiente criminale, ma non in un’ottica di legge del taglione". Dichiarazione a cui ha fatto seguito una considerazione sull’elicotterista alzatosi in volo durante il funerale: "Se fosse stato un terrorista sarebbe stato un problema per tutti. Il tema del sorvolo è molto importante ed attiene alla sicurezza nazionale - concludendo - questi casi si risolvono solo con attività preventiva di intelligence". Tra gli errori di comunicazione interna e la grande esposizione mediatica che il clan è riuscito ad avere, la vicenda-funerale è stata complessa, e Gabrielli l’ha interpretata così: "Molto probabilmente tutti noi siamo stati strumento dei vari Casamonica. Sono stati gli stessi, probabilmente, a veicolare le immagini del funerale visto che non c’era stato neanche un tweet con la notizia. Abbiamo scritto una pagina davvero negativa. Quello che più brucia - afferma - è non essere intervenuti per tempo, facendo svolgere le esequie in un modo diverso". Il funerale di "zio Vittorio" si è svolto sostanzialmente in due ore "dalle 10.15, quando arriva la prima pattuglia dei vigili, alle 12 - ha detto il prefetto - poi c’è stato un buco fino alle 17". "Non soddisfatti della copertura che si era realizzata tra le 12 e le 17, sono loro che hanno veicolato le immagini, perché solo chi era presente poteva averle - ha spiegato Gabrielli - mi rifiuto di pensare che fossero state nella disponibilità di un professionista, che avrebbe certamente fatto uno scoop molto prima delle 17". Questo vuol dire, secondo il prefetto, che: "In quelle cinque ore, questi signori che avevano preparato le esequie con tanta cura, con macchine venute da tutta Italia e dall’estero, elicotteri e quant’altro, senza ricevere nemmeno un tweet, si sono dati da fare". Per evitare il ripetersi di episodi simili, un primo provvedimento è già stato preso, come ha informato il vice questore vicario Luigi De Angelis: "Stamani (lunedì mattina, ndr.) è stato emesso il divieto per le celebrazioni in occasione della messa di suffragio richiesta dai Casamonica per il 26 agosto nella parrocchia di San Girolamo Emiliani a Casal Morena, dove abitava Vittorio Casamonica". Aggiungendo: "Non si può vietare un funerale in un luogo di culto. Perciò la cerimonia si dovrà svolgere in forma strettamente privata". Intanto, è previsto per martedì un incontro tra il vicesindaco capitolino Marco Causi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti. La riunione, a quanto si apprende, è stata organizzata in vista del Consiglio dei Ministri del 27 agosto dove si discuteranno anche le norme per il Giubileo. Lo stesso Causi, dopo il vertice, ha lanciato un "appello alle forze civiche e sociali della città affinché si uniscano in questa battaglia", sottolineando la presenza di una "ondata di indignazione in città che deve essere la base di consenso per un’azione repressiva più forte". E sul piano di Gabrielli: "Sperimenteremo questo nuovo modello di selezione e trattamento notizie per due mesi. L’obiettivo è renderlo operativo definitivamente dal 1 dicembre". Il tribunale di Roma ha intanto convalidato i fermi ed emesso un’ordinanza di arresti domiciliari per Vincenzo e Loredana Spinelli, appartenenti a una famiglia imparentata con il clan Casamonica, accusati di rapina per essersi avventati domenica contro una troupe televisiva del programma di Rai 3 Agorà che stava girando un servizio sui Casamonica. I due trentenni, che avrebbero preso parte anche al funerale di Vittorio Casamonica, avevano strappato dalle mani degli operatori il cellulare con cui stavano effettuando delle riprese, restituendolo dopo averne cancellato la memoria. Entrambi si sono difesi invocando la violazione della privacy e precisando che se glielo avessero chiesto avrebbero rilasciato un’intervista, come fatto in precedenza con altri giornalisti. Il 31 agosto prossimo i coniugi Spinelli saranno interrogati dal pm. Prima dell’inizio del vertice, a rinfocolare la polemica sulla vicenda sono arrivate le dichiarazioni della senatrice del M5S Paola Taverna, che dal blog di Beppe Grillo ha scritto: "A me non frega niente se si è voluto commemorare un defunto con carrozze e petali di rosa. La cosa che mi fa schifo è vedere e leggere l’ipocrita indignazione di Orfini quasi a voler far dimenticare di quando con i Casamonica insieme a Buzzi e mezzo Pd, ci andavano a cena per finanziarsi la campagna elettorale". E sul vertice di lunedì: "Gli unici responsabili di questo disastro sono la classe politica corrotta e connivente, che ci sta governando, PD in prima fila. L’unica cosa che voglio sapere è quando si intenda riportare questa città e questa nazione sotto l’egida del diritto e della legalità". Intanto continua la polemica sulle vacanze lunghe del sindaco Ignazio Marino che dovrebbe rientrare a Roma a fine mese. A rispondere è stato l’assessore alla Legalità Alfonso Sabella, anche lui lontano dalla capitale in questi giorni. "Non trovo affatto incredibile che una persona che lavora ininterrottamente, giorno e notte, dal 23 dicembre, prenda dieci giorni di vacanza. Trovo incredibile che tante persone che adesso parlano sono state fuori per anni da Roma, mentre la mafia prendeva il controllo del territorio" ha risposto da Belgrado, in Serbia, ad Agorà su Rai 3. "Tornare dalle vacanze sarebbe stato dare un’ulteriore soddisfazione a questi signori che con il loro funerale cafone hanno voluto sfidare la città - ha detto l’assessore, magistrato antimafia in aspettativa -. Noi risponderemo con le regole". E a chi gli ha chiesto se Marino non tornerà quando il Consiglio dei ministri affronterà la questione Mafia Capitale (la relazione di Alfano è attesa per giovedì, 27 agosto), Sabella ha risposto: "Io ci sarò, il vicesindaco pure, il sindaco non so se farà in tempo a rientrare. Il Campidoglio è ben presidiato". Sui funerali, infine, ha aggiunto: "A me non risulta affatto" che i vigili abbiano scortato il carro funebre dei Casamonica quattro giorni fa fino alla chiesa di San Giovanni Bosco. "Mi sono fatto subito fare una relazione dai vigili - spiega - che hanno confermato di essere intervenuti su richiesta di alcuni cittadini che hanno segnalato ingorghi nel traffico. Hanno fatto quello che è il loro dovere, permettere la viabilità a Roma. Se fosse vero che hanno scortato la carrozza, sarebbe un fatto oltremodo grave. Appena tornerò in Italia, tra un paio di giorni, svolgerò i miei accertamenti ma dalla relazione dei vigili non emerge assolutamente questa circostanza". Proprietà intellettuale, la tutela penale all’esame-tenuità di Simona Lavagnini Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2015 L’efficacia dell’enforcement dei diritti di proprietà intellettuale è fondamentale per l’economia della conoscenza. Ma l’Italia non sembra seguire una linea chiara di sviluppo in questa direzione. Gli Stati Uniti ogni anno redigono una lista degli Stati ad alto tasso di illegalità (Special 301), da cui l’Italia è stata espunta solo recentemente, soprattutto grazie all’emanazione del regolamento Agcom per la tutela del diritto d’autore online. Ma a più di un anno da questo evento il nostro Paese sembra ancora una volta retrocedere nel livello della protezione assicurata ai beni immateriali. E tutto ciò nonostante l’emergenza pirateria. In questo contesto si è assistito - come detto - all’emanazione e alla prima implementazione del regolamento Agcom che consente di adire l’Autorità per ottenere la rimozione di contenuti illeciti o il blocco di siti internet illegali (soprattutto con riferimento a quelli all’estero). I primi risultati sono incoraggianti: l’Agcom riporta, nel primo anno di attività, 209 istanze ricevute e 134 procedimenti avviati, dei quali il 55% si è concluso a seguito della rimozione spontanea dei contenuti, mentre il 35% - relativo a violazioni gravi - a seguito di ordine di inibizione dell’accesso tramite blocco del Dns. Il blocco avrebbe riguardato soprattutto siti che mettevano a disposizione milioni di opere digitali diffuse illecitamente. Tuttavia, nel settembre 2014 il Tar Lazio, con due ordinanze gemelle (n. 1985/14 e n. 2184/14), ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale in merito all’enforcement amministrativo delineato dal regolamento rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero. La questione verrà discussa dalla Corte costituzionale nei prossimi mesi, e dalla sua decisione dipenderà la sopravvivenza del regolamento. Ancora, va menzionato il Dl 28/2015, che ha disposto l’esclusione della punibilità nel caso di reato con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, che sia caratterizzato da particolare tenuità e non abitualità della condotta (si tratta evidentemente di tutti i principali reati in materia di proprietà intellettuale). L’intenzione era di realizzare uno strumento deflattivo del contenzioso, limitato aa alcuni casi. Inoltre, è stato previsto che la persona offesa sia informata, e possa quindi presentare opposizione alla richiesta di archiviazione. Tuttavia la nuova riforma preoccupa. Si teme in particolare che, di fatto, questi reati (già scarsamente perseguiti) possano essere ulteriormente dimenticati, in quanto sostanzialmente ritenuti di per sé "tenui", e quindi non meritevoli di sanzione. È necessario, quindi, monitorare con attenzione gli effetti della norma, affinché eventuali correttivi possano essere adottati in tempi stretti dal Governo per scongiurare i rischi di una depenalizzazione - di fatto - dei reati in materia di proprietà intellettuale. Più in generale, è necessario insistere sull’importanza del riconoscimento di una tutela efficace dei diritti di proprietà intellettuale, per la competitività del nostro Paese, che è ancora inferiore alle potenzialità, proprio a causa dell’alto tasso di pirateria e dell’ancora insufficiente attenzione a un enforcement efficace e a tutto tondo nei confronti delle violazioni dei diritti. Negli incidenti autostradali colpa possibile anche a 130 km orari di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione IV - sentenza 24 agosto 2015 n. 35331. Nemmeno in autostrada il rispetto del limite di velocità (in questo caso, quello generale di 130 km/h) esenta dall’avere ulteriore prudenza. Lo ha affermato la Quarta sezione penale della Cassazione, nella sentenza 35331/2015 sul caso di un incidente mortale originato dal guasto di una vettura rimasta ferma al centro della carreggiata; nella confusione delle manovre di evitamento effettuate dai conducenti che seguivano, uno aveva violentemente tamponato un altro, anche perché la visuale della corsia occupata dal mezzo fermo gli era parzialmente ostruita da un camion. Proprio la ridotta visibilità ha indotto i giudici a disattendere un altro principio a volte enunciato dalla Cassazione, secondo cui in autostrada ci si può ritenere ragionevolmente al riparo da imprevisti e quindi si attenua l’obbligo generale di adeguare la velocità momento per momento alle condizioni della strada e del traffico. Bologna: Rems; 4 pazienti in libertà vigilata, nuovo inizio per chi ha commesso un reato di Marina Amaduzzi Corriere della Sera, 25 agosto 2015 Il direttore sanitario Fioritti: "È la dimostrazione della natura riabilitativa della struttura". Una donna di origini straniere ma residente a Bologna è uscita ieri dalla Rems di via Terracini. È la quarta paziente della struttura ad uscire, in poco più di quattro mesi di vita della Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria, una delle due aperte in Emilia-Romagna per arrivare alla chiusura dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Anche lei, come tutti gli ospiti già usciti o tuttora presenti nella Rems, è stata autrice di un reato nel passato. Reati che vanno dalla ripetuta resistenza a pubblico ufficiale fino all’omicidio. "Quattro dimissioni in quattro mesi e mezzo non era un risultato scontato ed è pari al numero di dimissioni che si hanno in altre strutture residenziali psichiatriche non forensi", spiega il direttore sanitario Angelo Fioritti, che ha seguito da vicino la nascita di queste strutture visto il suo precedente incarico di direttore del dipartimento di Salute mentale. "Consideriamo che siamo in un campo del tutto nuovo - prosegue, con uno scenario legislativo che è cambiato tra il 2010 e il 2015, oggi riscontriamo alcune cose non scontate. Con l’apertura delle due Rems in regione non c’è più nessun cittadino dell’Emilia-Romagna nell’Opg di Reggio Emilia, si è chiusa una stagione e sono stati avviati percorsi integrati nel servizio sanitario nazionale per il recupero di queste persone". Le Rems di Bologna e Parma oltre ad ospitare ex internati dell’ospedale psichiatrico di Reggio sono riuscite a soddisfare anche alcune richieste per pazienti provenienti dal resto dell’Italia su richiesta dei gip, con misure di sicurezza provvisorie. Questo grazie ai posti che si sono liberati con le quattro dimissioni. "Due sono state trasformazioni in libertà vigilata: un uomo è andato in un’altra struttura residenziale ordinaria fuori Bologna e un altro è tornato al suo domicilio - spiega ancora Fiorini. Le altre due sono licenze finali esperimento, ovvero se le cose non vanno bene i pazienti tornano dentro: un uomo in comunità fuori Bologna e appunto la donna di Bologna. Gli uomini sono due bolognesi e un romagnolo". Insomma, dalla Rems si entra, ma si esce anche. La nostra regione è tra quelle più avanti nella realizzazione di queste strutture che portano al superamento degli Opg. "Per questo arrivano richieste dell’amministrazione penitenziaria, responsabile delle assegnazioni, per posti per città di altre regioni - sottolinea il direttore sanitari. L’assessorato regionale, che lavora in stretta collaborazione con la magistratura di sorveglianza, ribadisce la natura regionale della Rems, per cui è stata soddisfatta solo una richiesta proveniente dalla Toscana che sta finendo di realizzare la sua Rems che sarà pronta in un paio di mesi. Sta prendendo corpo l’idea di un coordinamento nazionale con base a Bologna dei professionisti di questo settore". I pazienti delle Rems, compatibilmente alle loro condizioni, seguono programmi riabilitativi. Otto di loro seguono progetti concordati con la magistratura che prevedono uscite per andare in piscina 0 a vedere mostre e musei. Ovviamente non sono sempre rose e fiori, visto che si tratta di pazienti psichiatrici seri, impegnativi, "Ci sono state alcune situazioni che hanno richiesto l’intervento di medici reperibili, 5-6 volte nell’arco di 4 mesi - confida Fioritti. C’è stato anche un Tso per una situazione clinica dieci giorni fa, ricoverato all’Ottonello ma ora già rientrato. Il clima tra gli operatori è mediamente buono. Gli episodi di aggressività e violenza sono rari, al pari di quelli che vediamo nelle altre strutture residenziali psichiatriche". Ieri una donna è uscita. Ne restano due, insieme a 12 uomini (uno entrato ieri). In attesa di una futura riabilitazione. Bologna: Rems; 100 giorni tra appelli e dubbi, ma ora tutti i medici saranno reperibili di Maria Centuori Corriere della Sera, 25 agosto 2015 Il direttore Bartoletti: "Rilancio positivo. Ma senza cambiare il codice è una rivoluzione a metà". Sono trascorsi i primi cento giorni dall’apertura della Rems dì Bologna, una delle prime residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria ad essere operative per la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Oggi alla Casa degli svizzeri in via Terracini gli internati provenienti dall’Opg di Reggio Emilia sono tredici. Il più giovane ha vent’anni, il più anziano sessanta. Un posto si è liberato la scorsa settimana, perché un paziente) autore di rapina, è stato trasferito nella struttura di viale Pepoli, l’Arcipelago, che dal 2011 ha a disposizione anche cinque posti giudiziari. Mentre a un altro paziente è stato concesso il regime di libertà vigilata all’interno di una comunità psichiatrica. Ci sono dieci uomini e tre donne. La Rems di Bologna è l’unica struttura mista in Italia. I reati commessi sono molteplici: omicidio, maltrattamento, furto e rapina. Chi va nella Rems al momento del reato è incapace di intendere e volere, per questo considerato socialmente pericoloso. A tracciare il bilancio, positivo nonostante 41 psichiatri dell’Ausi abbiano dubbi sulla sicurezza della struttura, è il direttore sanita-rio della Rems, Claudio Bartoletti: "Il bilancio è assolutamente positivo. È una terra incognita perché si tratta di una situazione non detentiva ma sanitaria. La Rems è una residenza socio sanitaria. Non c’è polizia penitenziaria e non ha nulla di carcerario". I pazienti, però hanno commesso un reato, non sono pazienti ordinari. Quali sono le misure di sicurezza? "Certamente la Rems ha delle misure di sicurezza un po’ più alte rispetto ad altre residenze sanitarie, con un impianto di video sorveglianza non interno perché abbiamo voluto fosse solo perimetrale. Ci sono 13 videocamere con ripresa 24 ore su 24 ore e una guardia giurata che controlla e sorveglia dal monitor". Pensando al dimissionario trasferito alla struttura intensiva Arcipelago, è possibile la convivenza tra pazienti ordinari e giudiziari? "Non c’è alcun timore. I pazienti ordinari sono assolutamente al corrente. La valutazione sul paziente dal carcere viene fatta da noi clinici e dal carcere. Di base arrivano in piantonamento con la polizia penitenziaria ma non ci sono mai state lamentele". Dopo poco dall’apertura c’è stato un primo allontanamento. Chi è responsabile? "È capitato che un paziente sia fuggito, senza però alcun intento bellicoso. Chi fa una professione sanitaria deve occuparsi di persone che stanno male prendendosi cura di loro. Nella Rems la situazione è identica. Se una persona si sta gettando dalla finestra e non cerco di trattenerlo, sono imputabile". Perché allora 41 psichiatri dell’Ausl non si sentono al sicuro? "Il punto centrale è la reperibilità. Dall’apertura ad oggi noi primari abbiamo verificato l’andamento della Rems. Da ieri tutti i medici dell’Arcipelago sono reperibili. Chi lavora in pronto soccorso e al centro diagnosi e cura del cittadino corre più rischi: lunedì scorso un collega in reparto ha preso una testata da un paziente". Pensando alla Rems in questi primi mesi e a quel che sarà fino a una struttura definitiva nel 2017, crede che stiamo assistendo a una rivoluzione? "Dopo 150 anni saranno chiusi gli ospedali psichiatrici, è un gran passo. Ma se non verranno rivisti anche il codice penale e il concetto di pericolosità sociale avremo una rivoluzione a metà". Lamezia Terme: il Comitato "Riapriamo il Carcere" chiede al Comune lumi sul ricorso lametino.it, 25 agosto 2015 "È veramente calato il sipario su una vicenda già definita kafkiana, ma che, accettata con un immobilismo originato forse da convenienze di compromesso tra diverse forze politiche, ha portato al nichilismo del sistema carcerario a Lamezia Terme". È quanto dichiara in una nota il Comitato Riapriamo il Carcere. "In una città definita da uno degli ultimi rapporti della Dda come ad alta densità mafiosa, ci si permette il lusso di chiudere un presidio di legalità che operava da oltre un secolo in un comprensorio vastissimo, con una popolazione di oltre 140 mila abitanti e con cosche mafiose attive, con un’economia minata dal pizzo e dalle estorsioni, con negozianti messi puntualmente in ginocchio da lotte per la conquista del territorio dove perpetrare crimini e violenze. Se è vero che il rullo compressore della politica nazionale sta tagliando tutto è anche vero che un governo sano e lungimirante non può "risparmiare" sulla sicurezza dei cittadini e sullo stato di legalità di un’intera città, perché laddove nulla osta al ridimensionamento di determinati presidi vi deve essere il contrappeso del mantenimento e del relativo potenziamento di strutture, come quella penitenziaria della città di Lamezia Terme, che garantiscano la presenza dello Stato e la vicinanza delle istituzioni nella lotta al malcostume." "Assurdo e inaccettabile quindi il silenzio che è calato dopo il 14 luglio 2015, allorquando è stato messo il lucchetto esterno all’ingresso del carcere lametino e una ditta privata ha provveduto a svuotarlo di tutti i suoi arredi con la velocità di chi sa di compiere una forzatura mostruosa nei confronti della città e dei suoi abitanti. Ma la responsabilità non è di chi fa il colpo grosso ma di chi, come in questo caso, lo permette! Infatti è pur vero che l’amministrazione comunale precedente ha cercato in tutti i modi un incontro diretto col Ministro della Giustizia, che ha contattato Sottosegretari e Capo del Dipartimento Penitenziario ottenendo promesse o di passaggio del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria da Catanzaro nella città di Lamezia Terme o di riapertura del carcere, ma è anche vero che la risposta finale è stata la firma del Decreto di chiusura del carcere avvenuta il 22 aprile 2015. Questo dopo oltre un anno di silenzio e di interrogazioni parlamentari, nonché di interventi a favore della riapertura del carcere da parte del Consiglio Regionale della Calabria, di varie promesse d’impegno fatte da politici del calibro dell’onorevole Ernesto Magorno che si sarebbe dovuto attivare per sollecitare il Ministro, del Consigliere regionale di Forza Italia Nazzareno Salerno secondo il quale si sarebbe dovuto riparare all’errore compiuto con la chiusura del carcere, senza tralasciare il grande fervore profuso in questa triste vicenda dal Consigliere Regionale, tutt’ora in carica, Arturo Bova. Viene da pensare che tutti gli impegni presi e le dimostrazioni di solidarietà siano stati esclusivamente di facciata e della solita propaganda politica che hanno solo fatto perdere tempo portando all’inevitabile conclusione della chiusura del carcere e all’amara constatazione che negli esponenti politici non c’è mai corrispondenza tra il dire e il fare". "Ora l’ultimo baluardo per il carcere di Lamezia Terme è rappresentato dal ricorso che l’amministrazione Speranza ha presentato con deliberazione del 28 maggio 2015 dando mandato allo staff legale de Comune di avviare ogni azione opportuna, sia in via amministrativa e/o giudiziale, avverso il Decreto del Ministro della Giustizia di chiusura del carcere. Infatti l’allora sindaco Gianni Speranza nell’apprendere dalla stampa la sua "condivisione" per tale chiusura, messa nera su bianco su un atto ufficiale, ha immediatamente dichiarato che " l’affermazione contenuta nel decreto di chiusura è falsa ed assurda e quindi il decreto è per noi irricevibile e deve essere annullato". Purtroppo ad oggi lo staff legale del Comune non ha ancora presentato il ricorso e tra pochi giorni ne scadranno anche i termini. Chiediamo quindi all’attuale Sindaco Paolo Mascaro come mai non si è portata avanti un’iniziativa così importante considerato anche che in sede di campagna elettorale mettere mani alla situazione del carcere sarebbe stata una delle priorità della nuova amministrazione comunale. La stessa domanda la poniamo al consigliere Rosario Piccioni che in qualità di assessore nell’allora Giunta Comunale che ha votato all’unanimità per il ricorso, ad oggi non ha sollecitato lo studio legale, stante l’urgenza, per la celere presentazione di tale ricorso. Nella falsità di tutti i grandi contesti politici se la città perde anche l’impegno e la determinazione di chi la deve amministrare e tutelare ci si chiede - conclude il Comitato - come noi lametini possiamo ancora credere nelle promesse di rilancio economico di questa città se non si sanno battere i pugni e credere veramente che il carcere ci deve essere necessariamente ridato e che la legalità e la giustizia devono continuare ad essere i promotori e i garanti di questa grande Piana, sempre usata e bistrattata per interessi personali e di poltrone". Salerno: scarcerato Pasquale Rocco, 88 anni, era il detenuto più anziano d’Italia di Roberto Di Giacomo La Città di Salerno, 25 agosto 2015 Il detenuto più anziano d’Italia non è più dietro le sbarre del carcere di Fuorni a Salerno, ma al regime dei domiciliari per altri quattro mesi, ciò che resta di quel "definitivo pena" per resistenza a pubblico ufficiale che agli inizi dell’estate lo aveva portato in carcere a 88 anni. Originario di Benevento, don Pasquale - così lo conoscono nella frazione di Faiano dove abita in solitudine - si è separato dalla moglie qualche anno fa ed è padre di tre figli. A chi lo incontra per la prima volta si presenta come un anziano estremamente arzillo, lucido e molto cordiale, che non ha remore nel raccontare di una vita che i binari della legge li ha oltrepassati più di una volta. "Ho precedenti per rapina, furto e resistenza a pubblico ufficiale" confessa. E proprio un atto di resistenza nei confronti di un agente della polizia municipale lo ha portato alla condanna di otto mesi che a giugno è divenuta definitiva in Cassazione, costringendolo a varcare alla soglia dei novant’anni i cancelli del carcere e a divenire, suo malgrado, il "nonno dei detenuti d’Italia". In gioventù la vita in cella l’aveva già provata più volte, celle trascorrendo nelle patrie galere ben trent’anni della sua esistenza. Ora però si dice "pentito per tutto quello che ho fatto" e chiede aiuto alle istituzioni per poter affrontare la vecchiaia. "Se potessi tornare indietro - confida - non rifarei tutto quello che ho fatto. Anzi, tutt’altro. Chiedo scusa a tutte le persone a cui ho fatto del male". Quindi l’appello: "Nell’appartamento dove vivo sono senza luce e senza gas da un bel po’. Sarei molto contento se il Comune di Pontecagnano Faiano si prendesse cura di me. Sono disposto a lasciare la mia casa e a spostarmi in una residenza per anziani, dove posso trascorrere gli ultimi anni della mia vita con più serenità". Ancora pochi giorni e Pasquale Rocco la sua abitazione dovrà lasciarla per forza, perché nei suoi confronti è stato emesso un avviso di sfratto che a breve potrà diventare esecutivo. Forse nel giro di tre settimane l’ufficiale giudiziario provvederà allo sfratto dal suo modesto appartamento e lui non saprà dove andare. I proprietari dell’immobile sono stati comprensivi a lungo, ma l’anziano avrebbe diverse mensilità arretrate da pagare e non sa come fare. "Non posso vivere con una pensione sociale - spiega - l’affitto mi costa 350 euro al mese, a cui vanno sommate le spese per le bollette dell’acqua e del gas". Per questo vivrebbe da diversi mesi senza elettricità né gas per potersi riscaldare o prepararsi un piatto caldo. Fin qui il racconto dell’88enne. Ma a chiedere con urgenza un intervento dei servizi sociali sono anche le tantissime persone che lo conoscono. "Fate presto - dicono alcuni conoscenti - un uomo non può vivere solo nell’indifferenza di tutti e soprattutto in queste condizioni igienico sanitario. Il sindaco - conclude una signora - deve passare dalle parole ai fatti, prima che sia troppo tardi". Un appello che sembra destinato a essere raccolto. A promettere un aiuto concreto all’ex ospite della casa circondariale sono stati sia il sindaco Ernesto Sica che l’assessore alla sicurezza Mario Vivone. "Confermo ancora una volta la mia totale disponibilità nei confronti del concittadino Pasquale Rocco - ha dichiarato ieri il sindaco - "Aspetto al più presto una visita da parte dell’avvocato dell’anziano ed insieme al responsabile dei servizi sociali del Comune programmeremo il percorso più adatto alle sue condizioni di salute". Gli fa eco anche stavolta l’assessore Vivone, secondo cui "è dovere di ogni buon amministratore prendersi cure dei propri cittadini, a maggior ragione dei bambini, degli anziani e degli "ultimi". A sollevare il caso Rocco è stato Donato Salzano, responsabile del partito Radicale di Salerno, che qualche giorno fa è stato nel carcere di Fuorni insieme ad altri militanti, per la consueta visita organizzata a ridosso di ferragosto, ed è rimasto sconcertato dal trovare in una cella del penitenziario un detenuto di quasi novant’anni. Da quell’incontro è partita la campagna per la scarcerazione dell’anziano, una battaglia a cui seguirà adesso quella per cercare una collocazione dove "don Pasquale" possa continuare a vivere con serenità e con un’assistenza adeguata a una persona della sua età. Per lui i difensore Rosario Fiore auspica una sistemazione in una residenza assistita: "Spero possa essere ospitato in qualche struttura, un ospizio o una casa di cura, che si occupi di lui. Sarebbe la soluzione migliore" ha commentato. Per adesso chi ha preso a cuore la sua vicenda incassa il risultato della scarcerazione e guarda avanti: "È il trionfo dello Stato di diritto" ha sottolineato ieri pomeriggio Donato Salzano, che tuttavia non abbassa la guardia: "La vicenda di Rocco - ha tenuto a ribadire - è solo la punta dell’iceberg. C’è ancora tanto da lavorare per garantire ai detenuti l’efficacia dei livelli essenziali di assistenza". Ancona: il Garante chiede servizio bus per Barcaglione, indispensabile per visite familiari Ansa, 25 agosto 2015 In una lettera inviata nei giorni scorsi ai vertici della Conerobus e agli assessorati competenti della Regione e del Comune di Ancona, il Garante dei detenuti Italo Tanoni sollecita l’attivazione di un servizio autobus per i parenti in visita ai detenuti del carcere. Già in passato l’Autorità di garanzia aveva avanzato l’istanza, oggi ritenuta più urgente per l’accresciuto numero di reclusi presenti nella struttura del capoluogo. "L’esigenza di istituire urgentemente questo servizio - scrive Tanoni - oltre a rispondere a un bisogno dei familiari, solitamente in situazione di estrema indigenza, copre le esigenze di una fascia di utenza che, rispetto al passato, è diventata sempre più consistente, considerato il numero dei ristretti attualmente presenti nella struttura". La casa di reclusione a vigilanza dinamica di Ancona ospita attualmente circa 130 detenuti. "La richiesta - specifica Tanoni - è quella di istituire almeno tre corse di bus: alle 9, alle 12 e alle 15, studiando un possibile prolungamento del percorso già effettuato dalle linee che collegano il capoluogo all’Ospedale regionale di Torrette, in quanto il carcere si trova sulla stessa direttrice stradale, a distanza di pochi chilometri". "Ho illustrato il problema sia all’assessore regionale ai Trasporti Angelo Sciapichetti che all’assessore del Comune di Ancona Ida Simonella - dichiara Tanoni. Entrambi hanno dato disponibilità per individuare una soluzione". Mantova: catturato in Romania l’omicida evaso dall’Opg di Castiglione della Stiviere Gazzetta di Mantova, 25 agosto 2015 Lucan Valcelian si era rifugiato nella propria abitazione. Scoperto grazie al lavoro del nucleo investigativo dei Carabinieri di Mantovae e dell’Interpol. Il 29enne era ricoverato per aver ucciso la moglie a bastonate sotto gli occhi dei figli. Lucan Valcelian, il 29enne di origine romena, evaso il giorno di Ferragosto dall’Opg di Castiglione delle Stiviere dove era ricoverato per aver ucciso a bastonate la moglie, è stato catturato. L’omicida era nella sua abitazione in Romania. A individuarlo è stato il lavoro della squadra investigativa dei Carabinieri coordinata dal luogotenente Claudio Zanon in collaborazione con l’Interpol. Non si hanno per il momento altri dettaglia sull’operazione. In una nota, l’azienda ospedaliera spiega che l’evasione di Lucan Valcelian è legata all’elevato numero di pazienti: "Sono 260 contro i 160 previsti. Abbiamo aumentato le misure di sicurezza, ma la vera soluzione è ridimensionare le presenze". Valceliani era ricoverato nella struttura da sei mesi, da quando cioè, il 19 febbraio, era stato fermato per l’omicidio della moglie Magda, uccisa a bastonate davanti ai figli della coppia, nella ex fabbrica Altissimo di Moncalieri. Dopo l’omicidio, era fuggito nudo a bordo di un bus, ma era stato ritrovato dai carabinieri solo 24 ore dopo e aveva ammesso l’uxoricidio. Valcelian era ricoverato nella struttura di Castiglione perché affetto da problemi psichiatrici gravi. Terni: nuova aggressione nel carcere di Sabbione, colpito agente di Polizia penitenziaria umbriadomani.it, 25 agosto 2015 A sole tre settimane dal suicidio di un detenuto nel carcere di Terni, un altro grave evento critico caratterizza il penitenziario ternano. L’ennesima aggressione contro un poliziotto penitenziario da parte di un detenuto scatena infatti la reazione del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, Sappe. L’episodio è accaduto ieri, nell’infermeria del carcere, quando un detenuto appartenente al circuito Alta Sicurezza ha colpito violentemente un poliziotto penitenziario. "È uno stillicidio costante e continuo: i nostri poliziotti penitenziari continuano a essere picchiati e feriti nell’indifferenza delle autorità regionali e nazionali dell’amministrazione penitenziaria, che è costretta a confermare l’aumento delle violenze contro i Baschi Azzurri del Corpo nonostante il calo generale dei detenuti ma che non adotta alcun provvedimento concreto perché queste folli aggressioni abbiamo fine, ad esempio sospendendo quelle pericolose vergogne chiamate vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto", denuncia il segretario generale del Sappe Donato Capece, che rivolge al poliziotto ferito "la solidarietà e la vicinanza del primo Sindacato dei Baschi Azzurri". Terni è un carcere nel quale, alla data del 30 luglio scorso, erano detenute 461 persone, 35 in meno di quelle che c’erano lo scorso giorno del 2014 (496). Ma ciò nonostante i problemi sono costanti, a Terni. "Sembra che a nessuno, a parte noi - aggiunge il segretario regionale Sappe dell’Umbria, Fabrizio Bonino - interessa e preoccupa che quasi ogni giorno in un carcere qualche poliziotto penitenziario venga picchiato. Certo non all’amministrazione penitenziaria dell’Umbria e di quella nazionale che nonostante le centinaia di casi in tutta Italia e le decine in Regione, non adottano alcun provvedimento per porre fine a queste ignobili colluttazioni, adottando ad esempio pesanti sanzioni disciplinari contro i responsabili. Forse pensano che siamo da macello, che disarmati e senza alcuna tutela abbiamo quasi il dovere di prendere schiaffi in servizio". Immigrazione: il vero muro da abbattere di Laura Boldrini (Presidente della Camera dei deputati) La Repubblica, 25 agosto 2015 Ha ragione Jean-Claude Juncker: l’Europa che vogliamo non è quella dei muri. Apprezzo molto il fatto che il Presidente della Commissione europea abbia preso una posizione cosi netta. Una posizione così chiara a proposito di un tema tanto delicato e importante, che rappresenta uno dei cardini del nostro sistema comunitario e dell’Europa di domani. Concordo con Juncker: neanche io voglio l’Europa dei muri. E non solo perché sarebbe davvero una bruttissima Europa. Un’Europa che rinnega i valori che l’hanno resa una grande protagonista della storia e un’esperienza unica agli occhi del mondo. Ma anche perché la politica dei muri sarebbe fallimentare. Non solo moralmente inaccettabile, ma politicamente impraticabile e perdente. Nessun muro - né quelli d’acqua del Canale di Sicilia e dell’Egeo, né quelli di filo spinato tra Grecia e Macedonia e tra Ungheria e Serbia - può infatti impedire a donne e uomini che lasciano contesti di guerra e regimi dittatoriali di conquistare un diritto al quale nessuno di noi sarebbe disposto a rinunciare al diritto a vivere in pace e sicurezza. È questo che non capiscono, anzi fingono di non capire, gli "spacciatori" di paura e di demagogia che, un po’ ovunque in Europa, lucrano consensi elettorali chiedendo in modo ipocrita che i rifugiati vengano "aiutati a casa loro": come se non sapessero che quella casa non c’è più, distrutta dalle bombe o presidiata dagli aguzzini di regime. Gli stessi "spacciatori" che, in Italia, vogliono far credere che gli immigrati "vengono tutti da noi": tacendo che, a fronte delle 30mila domande d’asilo registrate qui nei primi 7 mesi del 2015, la Germania ha già quasi raggiunto quota 200mila. Le migrazioni forzate come quelle che si sviluppano oggi in molte parti del mondo non si impediscono con i muri, ma con le soluzioni. Cioè con la politica, mobilitandosi per porre fine ai conflitti. Le guerre si possono fermare, se c’è la volontà di farlo. Ma non sembra che oggi il mondo sia interessato a fare di più per evitare i massacri in Siria e in Iraq, la violenza in Somalia, la dittatura in Eritrea, per citare alcuni casi. Eppure noi Europei, più degli altri, dovremmo aver memoria degli orrori delle guerre. Non ce ne ricordiamo abbastanza, ma è l’Europa che ci ha garantito 70 anni di pace. Siamo figli di conflitti mondiali che per due volte in 30 anni avevano ridotto il continente ad un cumulo di macerie, con decine di milioni di morti e altrettanti di rifugiati e sfollati. È l’Europa che ci ha dato sicurezza, libertà e benessere, proprio ciò che manca a coloro che oggi ci chiedono protezione. Certo, il presidente Juncker fa bene a sottolineare che nessuno Stato può regolare questo flusso da solo e che per farlo ci vuole un approccio europeo da mettere in atto senza indugi. È apprezzabile lo sforzo della Commissione, che per la prima volta ha indotto gli Stati membri ad una gestione condivisa degli arrivi dei rifugiati. Ma non basta. L’asilo è uno dei terreni sui quali è più evidente la necessità di una maggiore integrazione politica, per arrivare ad un unico sistema di regole e di standard di assistenza. Contro i costruttori di muri, bisogna uscire da una timorosa subalternità psicologica e rivendicare più Europa. Ma un’Europa diversa, che "cambi marcia", che la smetta di farsi additare come problema quando è invece la soluzione, l’unica possibile: per l’immigrazione come per l’economia, per la difesa come per la politica energetica. Un’Europa che sia attenta ai bisogni dei cittadini, che non trascuri più l’impatto sociale delle misure finanziarie, che ponga crescita ed occupazione come obiettivi prioritari delle proprie scelte. Perché se le persone sono gravate dalla disoccupazione, dai sacrifici e dalla mancanza di futuro, dell’Europa e dei valori che l’hanno ispirata non sanno che farsene. E risuona lontana, incomprensibile, la passione che animò appena poche generazioni fa i padri fondatori, capaci di concepire sotto il frastuono delle bombe il sogno di un continente unito. Verso quel progetto abbiamo tutti un debito, che è nostro interesse saldare al più presto. Ma farlo spetta soprattutto ai leader politici, se avranno la lungimiranza di accelerare nel processo di integrazione europea e di non farsi schiacciare dal quotidiano sondaggio nazionale. La solidarietà - tra gli europei, e con gli altri esseri umani che bussano ai nostri confini - non cresce spontanea, soprattutto ai tempi di una crisi economica tanto prolungata. È un sentimento che la politica e le istituzioni - comunitarie, ma anche dei singoli Stati membri - devono saper coltivare e far crescere, dimostrando che solo insieme si esce da problemi complessi e sovranazionali. A dispetto dei demagoghi e delle loro semplicistiche ed ingannevoli ricette. Immigrazione: Merkel e Hollande "asilo comune nella Ue" di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 25 agosto 2015 Francia e Germania avvertono Italia e Grecia: entro l’anno devono essere aperti i centri di registrazione nei paesi di primo sbarco, come deciso a giugno. La minaccia dell’estrema destra paralizza l’Europa, che ha invece bisogno di immigrati per far fronte al drammatico calo demografico. L’Europa deve "unificare" il diritto d’asilo e le procedure di accoglienza, per arrivare a una "politica migratoria comune, con regole comuni" per far fronte a "una situazione eccezionale, destinata a durare". Lo ha detto a Berlino François Hollande, alla conclusione della prima parte dell’incontro con Angela Merkel, che è poi proseguito sulla crisi ucraina, con la presenza del presidente Piotr Poroshenko, altra questione sempre aperta in Europa ma messa in secondo piano a causa dell’emergenza migranti. Francia e Germania prevedono di "dare un nuovo impulso" congiunto per arrivare a una risposta europea, perché "per il momento", dicono all’Eliseo, le decisioni della Ue sono "non sufficienti, non abbastanza rapide e non all’altezza" nella loro applicazione. Nel mirino di Hollande e Merkel, prima di tutto, c’è l’inerzia dei paesi di primo sbarco - Italia e Grecia - nell’apertura di centri di registrazione dei migranti: il principio era stato approvato nel giugno scorso, ma per il momento nessuno è stato aperto. "Non possiamo tollerare questo ritardo", ha aggiunto Merkel, che ha sottolineato che i paesi europei devono applicare "il più rapidamente possibile" le regole del diritto d’asilo, che solo sulla carta sono più o meno simili nella Ue. Poi, ha precisato Hollande, seguirà una "ripartizione equa" dei rifugiati, come prevede la Commissione. Ma il presidente francese ha già messo le mani avanti: con un sistema unificato di asilo nella zona Schengen si eviterà che "alcuni paesi ne accolgano più di altri". Non c’era da aspettarsi una proposta di soluzione dall’incontro tra Merkel e Hollande, ma Berlino ieri è stata una nuova occasione per confermare l’approccio dominante in Europa, concentrato sull’improbabile separazione tra "rifugiati" e "migranti" (economici, climatici ecc.), i primi ufficialmente da accogliere da parte della "generosità" europea, i secondi da respingere e rimandare a casa, "riaccompagnati con dignità" ha precisato Hollande. Germania e Francia prevedono di aggiornare una lista comune per individuare i paesi "non a rischio", i cui cittadini verrebbero così automaticamente esclusi dal diritto d’asilo (contravvenendo la Convenzione del 1951, che prende in considerazione situazioni di persecuzione individuale). Un’armonizzazione europea di questa lista sarà destinata a "fare chiarezza" sulle differenze di trattamento a cui sono sottoposti in particolare i cittadini di paesi balcanici nei vari paesi Ue. Il ministro degli esteri francese, Laurent Fabius, ha annunciato che "nei prossimi giorni" ci sarà una riunione dei ministri degli Interni e degli Esteri della Ue sulla questione dei migranti. Dovranno trovare un delicato equilibrio per conciliare i timori che alcuni governi in carica hanno dell’estrema destra (altri, come in Ungheria, hanno già passato il Rubicone) e la paura che l’Europa perda "l’anima", come ha affermato il ministro degli esteri Gentiloni. La Germania accoglie oggi di più della Francia, ma Parigi ribatte di avere su questo fronte un passato più pesante alle spalle. Merkel ha condannato ieri le violenze degli "ubriaconi" neo-nazi in Sassonia, il vice-cancelliere Sigmar Gabriel accusa l’Europa di essere caduta in un "sonno profondo" e punta il dito contro i paesi che voltano le spalle a problema e dicono "non ci riguarda". Finora, i paesi europei hanno cercato di scaricarsi il "fardello", come la Francia verso l’Italia a Ventimiglia o la Gran Bretagna verso la Francia a Calais. La tendenza è di liberarsi del "fardello" dando dei soldi (Londra per esempio ha deciso di versare 10 milioni di euro in più alla Francia oltre ai 15 stanziati nel 2014 su tre anni per delegare a Parigi i respingimenti a Calais). La minaccia dell’estrema destra sta paralizzando i governi europei. Secondo Frontex, 340mila persone sono entrate senza visto nella Ue nei primi sette mesi di quest’anno. La Ue avrà sempre un maggior bisogno di immigrati per far fronte al drammatico calo demografico, problema a cui sfugge praticamente solo la Francia (con 1,9 bambini per donna, mentre in Europa la media è di 1,55, con punte minime in Spagna con 1,27, mentre in Italia in 35 anni la popolazione con più di 65 anni sarà moltiplicata per sei). Immigrazione: l’accoglienza va in tilt, è crisi anche a Berlino di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 25 agosto 2015 Problemi "tecnici" e risorse insufficienti, ma anche partiti con le spalle al muro. Tecnicamente inadeguata, finanziariamente ora insufficiente, perfino politicamente impreparata. Di fronte all’emergenza rifugiati, la Germania si scopre nuda e impotente: impossibile assorbire (davvero) 800 mila nuovi "arrivi" previsti nel 2015, continuare a gestire il 40% dei richiedenti asilo dell’intera Unione europea e rispettare fino in fondo le clausole del trattato di Dublino. Dentro al Bundestag il problema è già più drammatico della "tragedia greca" con gli alleati Spd & Cdu che fanno scintille anche a livello locale, i Verdi alle prese con la Realpolitik e la Linke obbligata a rispondere alla più leniniana delle domande. Fuori dal Parlamento, i sondaggi restituiscono la fiducia dei tedeschi sulla tenuta del Paese mentre rimbalza l’eco del ministro dell’interno Thomas de Maizière, convinto della capacità della Germania (cioè del governo) di resistere nel breve periodo all’"imprevedibile" ondata di profughi. Peccato che il "bubbone" sia già scoppiato e il default di Berlino - con buona pace dei cantori del mito dell’efficienza - ormai conclamato. Flop in piena regola che ammacca l’immagine del modello-guida dell’Europa e raggiunge Bruxelles, a cui la Repubblica federale chiederà con urgenza (proprio come Italia e Grecia…) il sistema delle quote. Tuttavia il fallimento nella gestione dell’emergenza ha cause e responsabilità tutte made in Germany: dalle previsioni sballate al budget che copre appena metà del necessario; dalla mancanza di personale specializzato alla corrispondenza non più biunivoca fra stato centrale e i comuni lasciati soli di fronte al problema; fino ai minori non accompagnati che verranno "spalmati" nei Land a partire dal 2016. Il tilt strutturale si tocca con mano ad appena due chilometri dalla Cancelleria, nel cortile dell’Ufficio di stato per gli affari sociali di Berlino (Lageso) a Moabit dove si vagliano le pratiche dei rifugiati. Qui dall’inizio di agosto la coda dei richiedenti asilo si è già trasformata in accampamento macedone e l’assistenza è possibile solo grazie ai volontari Caritas, ai paramedici del Johanniter e agli stessi migranti che danno una mano a "smaltire" uomini e carte. Sarebbe bastato connettere il database centrale con le periferiche locali per evitare la clamorosa forbice tra previsione e realtà: a far saltare la stima degli esperti è stato il sistema di misurazione tutt’altro che preciso. Alla base, pratiche di asilo inoltrate dai Land ai comuni prima della trasmissione al Bundesamt für Migration und Flüchtlinge (Bamf) l’ente federale competente. Risultato: ritardo nella "lavorazione" di oltre 400 mila richieste e raddoppio di stima che sconvolge anche i piani finanziari. Finora lo stanziamento governativo si limitava a circa 5 miliardi di euro, il conto aggiornato ammonta a 8-10 miliardi con il vice cancelliere Spd Sigmar Gabriel che garantisce l’invio di 3 miliardi di pronto impiego. Duplicazione a beneficio degli enti locali: nell’incontro del 24 settembre chiederanno al governo la revisione del contributo federale: non più assegno forfettario incardinato sulla stima di profughi (finora sempre superata) ma rimborso individuale in base alle spese realmente sostenute, cioè in media 10 mila euro a persona secondo l’associazione dei comuni. In più il ministro de Maizière ha dovuto promettere "l’invio di maggiore personale" per velocizzare l’iter burocratico e incassare l’urticante denuncia dei volontari sull’assenza di medical-care per i profughi. In Germania lo smacco organizzativo è già un problema politico. E al Bundestag non basteranno i moniti del presidente Norbert Lammert (Cdu) né gli auspici "per un dibattito sereno e senza scaricabarile" del capogruppo dell’Union, Volker Kauder, a contenere la deflagrazione. Gli alleati di Koalition litigano a Berlino (con la ministra Spd Manuela Schwesig contro de Maizière) ma anche a Monaco, dove il sindaco Spd Dieter Reiter è ai ferri corti con il vice Josef Schmid della Csu per la (opposta) visione dell’emergenza in Baviera. Tutto mentre la nuova legge sull’immigrazione naviga in alto mare e il "piccolo cabotaggio" della maggioranza entra nel mirino dell’opposizione. Il 18 agosto i Verdi hanno presentato il "Piano per migliorare la politica sui rifugiati" e chiesto alla Germania di saper guardare "oltre la paura". Tra le priorità dei Grünen - che sono al governo in 9 dei 16 Land tedeschi - accelerare le procedure di riconoscimento fino alla media di tre mesi, assumere 2.000 nuovi impiegati al Bamf, mettere in campo alternative all’asilo per i profughi dei Balcani occidentali (permesso di soggiorno temporaneo) ed estendere i corsi di integrazione con altri 1.000 mediatori culturali, in attesa di "una nuova normativa che renda più facile ai migranti rispettare i criteri". Progetto ambizioso, forse non così condiviso, almeno secondo Boris Palmer, sindaco Verde di Tubinga, che richiama il partito alla Realpolitik: "Giusto che i Grünen continuino a essere il partito dell’umanità, ma oggettivamente non si può ampliare l’accoglienza mentre aumenta il numero di profughi. Già in passato abbiamo perseguito nobili obiettivi senza occuparci della realtà". Da qui la richiesta-choc di "prepararsi al rimpatrio dei richiedenti asilo che verranno respinti". La posizione della Linke è riassunta dalla portavoce per la politica interna Ursula "Ulli" Jelpke che riporta l’analisi dell’emergenza profughi dall’effetto alle cause. "Di fronte a 800 mila richieste bisogna fermare l’attuale dibattito improduttivo. Germania e Unione europea devono capire che i rifugiati continueranno ad arrivare in gran numero, fino a quando esisteranno i motivi della loro fuga". Del resto, per la deputata della Linke il prezzo da pagare è dovuto: "Per guerre civili, povertà e mancanza di opportunità nei paesi d’origine Europa e Bundesrepublik devono sopportare il peso delle loro responsabilità. Libia e Siria sono investite di un conflitto alimentato con armi europee" ricorda Jepke, "Così come europee sono le flotte che pescano davanti alle coste africane, e privatizzazioni e austerità che producono disoccupazione di massa e povertà". Per la Linke dunque "Che fare?" è chiaro. Come un po’ meno. Intanto, i neonazi hanno tenuto in scacco la polizia (30 agenti feriti negli scontri) a Heidenau, vicino a Dreda, dove c’è un centro di accoglienza per rifugiati siriani. Durissima la reazione di Angela Merkel attraverso il portavoce Steffen Seibert: "È disgustoso vedere come estremisti di destra e neonazisti hanno cercato di diffondere un messaggio d’odio. È infamante che addirittura famiglie con bambini abbiano partecipato alle dimostrazioni anti-profughi". Immigrazione: la protesta dei profughi che blocca la strada per Milano di Federico Berni e Alessandra Coppola Corriere della Sera, 25 agosto 2015 La protesta dei profughi del campo di Bresso: "Ci avete dimenticali". Salvini: via con il primo aereo. "Fa freddo d’inverno, caldo d’estate, e per tutto il giorno non abbiamo nulla da fare". Il nemico peggiore di Nassir è la noia, che s’alimenta dell’incertezza. Lui che a 19 anni ha lasciato Kabul, ha attraversato l’Asia e i Balcani per raggiungere l’Italia - "a piedi!" giura - ora vive in una tenda da campo nel centro d’accoglienza di Bresso, alle porte di Milano: "Da cinque mesi sono bloccato qua, senza risposte". In uno spazio angusto condiviso con altre sette connazionali. Ammassati in brandine da campeggio su materassi logori e lenzuola ingiallite, in condizioni igieniche precarie. I vestiti appesi al filo da bucato e un bollitore per l’acqua come unico lusso. C’era anche lui ieri mattina a bloccare le auto tra Milano e Sesto San Giovanni. Assieme a un centinaio di persone uscite dalle tende in strada: per un’ora hanno tagliato a metà viale Fulvio Testi, percorso ogni giorno da migliaia di pendolari che si riversano sulla città. Una manifestazione che era nell’aria, per il montare della frustrazione e dell’attesa. Sarebbe stata organizzata nei giorni scorsi da un gruppo più ristretto di profughi che hanno scritto a penna su pezzi di cartone, trascinando una massa spontanea: "No document, no freedom". Senza documenti sono costretti ad aspettare qui. Qualche momento di tensione con le forze dell’ordine, schierate con scudi e manganelli. Alla fine ha prevalso il dialogo. Tutti maschi questi sans papiers, per la gran parte giovani. Qualche afghano, pachistano e bengalese, ma in maggioranza provenienti dall’Africa subsahariana. Diwara, 34 anni, e Solo, 28, ivoriani, raccontano di essere in questo limbo da otto mesi. "Fa freddo d’inverno, caldo d’estate, e per tutto il giorno non abbiamo nulla da fare". Ma soprattutto: "Quando esaminano la nostra richiesta? Vogliamo cominciare a lavorare". Qualcuno mostrava fotocopie di passaporti da recuperare in Questura. Qualcun altro diceva di essere preoccupato per il rinnovo del permesso di soggiorno scaduto a inizio agosto. "Vogliamo il documento". E condizioni di vita migliori. "Il cibo è scadente, spesso la gente si sente male", dice Asad, 20 anni, della Guinea. Con le prime piogge, il fango ha cominciato a impastarsi con l’erba sui vialetti. Non ci sono dati ufficiali, ma fino a qualche giorno fa si contavano nell’hub di Bresso almeno 500 ospiti. Passano di qui, inviati dal Viminale, per essere smistati (priorità a donne e bambini). Solo in questi giorni ne sono arrivati un migliaio, in settimana se ne aspettano tremila. Le strutture d’accoglienza sul territorio lombardo sono sature. Le Commissioni che devono esaminare le domande sono sovraccariche. E tanti richiedenti asilo finiscono per restare qui, nella tendopoli, che dovrebbe essere solo una tappa provvisoria. In questo cortocircuito, trovano spazio le polemiche politiche. Il più veloce è il leader della Lega Nord Matteo Salvini su Facebook: "Vogliono i documenti? Col cacchio! Io li caricherei di peso sul primo aereo, e tutti a casa loro!". Da sinistra fanno notare che le responsabilità sono a Roma, ma anche in Lombardia dove "il governatore Roberto Maroni - accusa il segretario regionale del Pd, Alessandro Alfieri - non ha tenuto fede agli impegni presi". Immigrazione: dopo la protesta dei profughi, viaggio nella tendopoli di Bresso-Milano di Federico Berni Corriere della Sera, 25 agosto 2015 Le brandine ammassate, la gomma piuma logora, le lenzuola ingiallite e per armadio un filo da bucato tirato: nel centro di accoglienza vietato ai giornalisti dormono in cinquecento. Nassir, afghano di Kabul, non ricorda quanti confini ha varcato per entrare in Italia. Iran, Turchia, e poi i Balcani, fino a Udine. "L’ho fatta a piedi - giura - e per cosa? Per stare qua, cinque mesi senza risposte, in queste condizioni". La sua nuova casa è una tenda da campo con la scritta ministero dell’Interno, al Parco Nord: "Ho 19 anni, ma qui dentro sto invecchiando prima". Eccolo, il centro di accoglienza profughi di via Clerici, a Bresso. Quello che, per entrare, "serve l’autorizzazione del Viminale", come ricordano in modo piuttosto energico e stizzito alcuni addetti della Croce Rossa. Un accampamento tra il campo volo e il Parco Nord. Decine di tende per circa 500 persone. In quella di Nassir, si contano otto brande, sistemate l’una accanto all’altra senza soluzione di continuità, con dei materassini in gommapiuma verde e logora, coperti (non sempre) da lenzuola ingiallite. In condivisione con altri connazionali di Herat, Kandahar, e ancora Kabul. "Siamo andati via da casa, cresciuti con la guerra, gli americani, e poi i talebani, e tutte quelle storie: a fucking job", è la loro sintesi storica. Il loro "armadio" è un filo da bucato, appesantito da maglie e pantaloncini che pendono dall’alto. L’unico lusso è un bollitore per l’acqua del thè servito nei bicchieri di vetro, e una presa multipla per ricaricare il cellulare. All’ingresso si lasciano scarpe e ciabatte. È pur sempre una tenda, e ci si sforza di tenere pulito, visto che il fango s’è già insinuato tra le passerelle plastificate che corrono in mezzo alla tendopoli, tra carcasse di biciclette, scarpe e blocchi di cemento usati come sgabelli. La notte prima ha piovuto, e l’autunno deve ancora cominciare. I servizi sono all’esterno: docce e toilette ricavate in container da cantiere, una fila di lavandini all’aperto per l’acqua potabile, con un muro di silos bianchi della Croce rossa che, provenendo dall’ingresso del centro, copre alla vista le tende. E poi l’incertezza, la noia. Un presente sospeso in una specie di limbo giuridico. Quello dei "richiedenti asilo politico". Afgani, pachistani, bengalesi, e soprattutto africani (Mali, Senegal, Guinea solo per citarne alcuni). Solo maschi, in maggioranza giovani sui vent’anni, a parte qualche faccia più vissuta. Una comunità variegata e nascosta che ieri mattina ha deciso di uscire in strada. E urlare di rabbia. Verso le 10, poco più di un centinaio di persone ha bloccato viale Fulvio Testi per circa un’ora in entrambe le direzioni, all’incrocio del Parco Nord. Una lunga coda di automobili si è formata soprattutto da Cinisello Balsamo verso la città. I sans papiers di Bresso chiedono risposte. Vogliono lo status di "rifugiato", ma le pratiche per il "documento" sono ferme da mesi. La strada chiusa al traffico, la trattativa con le forze dell’ordine, e alle 10.55 il rientro verso il centro, in un breve corteo. Sembra che l’iniziativa fosse preparata da qualche giorno, da parte di un gruppo più ristretto di immigrati, che poi ha trascinato la massa. A parte qualche cartone scritto a penna, a prima vista è parso uno sfogo spontaneo, anche se qualcuno, tra gli africani lo ha promesso ad alta voce: "Domani ancora". Urla e nervosismo, soprattutto quando una parte di manifestanti ha provato a tornare su via Clerici. Alla fine, ha prevalso il buon senso. E il dialogo. Da una parte i rappresentanti di prefettura e questura, dall’altra una delegazione di profughi composta da 7 persone, in rappresentanza delle varie nazionalità. A Bresso, ieri, era giornata di arrivi, il numero degli ospiti sta lievitando, e la tensione sale. Anche per le condizioni di vita. "Ci vivreste voi italiani qua? Ve lo fareste un inverno in tenda? A gelare in una tenda?". Asad, un marcantonio africano in tuta rossa e felpa grigia che arriva dalla Guinea, a quanto pare ci ha provato. "Sicuro! Sono qui da quasi un anno, capisci? Prima un gelo terribile, d’estate non si respira, il cibo è scadente, i pasti freddi, e non possiamo prepararci niente". Per lui, come per Nassir l’afghano, l’ossessione è avere "il documento". E cominciare a farsi una vita. Droghe: nei "dispensari" di Denver dove il business è rinato con la marijuana libera di Francesco Guerrera La Stampa, 25 agosto 2015 Fatturati record dopo la legalizzazione dell’erba a scopo ricreativo. Ma il salto economico del Colorado è ancora frenato dai pregiudizi. La marijuana ha effetti imprevedibili. E non solo sulle persone. In Colorado - il bellissimo Stato delle montagne rocciose - la droga sta stimolando l’economia, creando una nuova industria e suscitando un dibattito sociale e culturale le cui conseguenze andranno ben al di là dei picchi che circondano Denver. Ho sfidato la noia delle praterie del Kansas, guidando ore e ore tra campi di grano senza segni di vita umana per piombare in un Colorado che di vita ne ha da vendere. Volevo capire se un’economia può veramente essere aiutata da una mossa radicale contro il proibizionismo. Ed essere testimone di un esperimento che ha già ispirato altri Stati e che potrebbe portare a cambiamenti profondi nel modo in cui gli Usa trattano le droghe leggere. Legge ricreativa La miccia di questa dinamite socio-economica fu accesa tre anni fa quando il Colorado, in un referendum, divenne il primo Stato degli Usa a legalizzare la marijuana per uso ricreativo, e non semplicemente medicinale, dal primo gennaio del 2014. Fu una decisione che fece scalpore a livello internazionale e provocò reazioni molto forti sia tra i fautori che tra gli avversari. Persino il governatore del Colorado John Hicknelooper, un democratico, si oppose. "Se avessi avuto una bacchetta magica, avrei cancellato il risultato" e dichiarò: "Non è una buona idea", ammiccando alle zone rurali e conservatrici del suo Stato. Ma attivisti come Rachel Gillette, uno dei pochi avvocati che aiutano il nuovo settore, considerano la vittoria nel referendum solo un piccolo passo verso il Sacro Graal: la liberalizzazione della marijuana a livello federale, per tutti gli americani. "È inevitabile che un giorno questa sostanza verrà trattata come l’alcol o il tabacco", mi ha detto. La tensione è comprensibile: la regolarizzazione di una sostanza stupefacente non è più una storia lontana, da raccontare dopo un viaggio in Olanda o una teoria da discutere dopo cena, ma una realtà che si può toccare, annusare, inalare. Dall’anno scorso, basta avere 21 anni per andare in uno dei tanti negozi del Colorado e comprare fino a un oncia di erba pura, di "sigarette" al vapore o di caramelle piene di marijuana. I "turisti del fumo" che hanno voglia di uno spinello devono solo prenotare l’aereo per Denver. E chi in Colorado ci vive, può persino coltivare le proprie piante, per quei giorni uggiosi quando proprio non ti va di andare al negozio. Un mondo che è stato sempre nel buio, agli angoli delle strade, tra sguardi furtivi e fasci di banconote, è diventato parte dell’ economia ufficiale, con regole, tasse e punti vendita accanto a lavanderie, fast food e meccanici. Business di successo Dopo meno di due anni, i numeri sono incoraggianti per il Colorado e gli altri tre Stati, più il distretto federale di Washington, che lo hanno seguito nella liberalizzazione totale (24 Stati più il distretto di Washington hanno liberalizzato la marijuana per uso medico). L’industria della marijuana del Colorado ha avuto un fatturato diretto - senza contare i benefici del turismo, i ristoranti ecc., di circa 700 milioni di dollari nel 2014, stando alle stime ufficiali. L’anno prossimo dovrebbe superare il miliardo di dollari. Non è tantissimo quando si considera che il prodotto interno lordo dello Stato è circa 300 miliardi di dollari, ma le tasse sulla marijuana, che in certi casi arrivano fino al 40% e che vanno a costruire scuole e altri progetti sociali, hanno già portato circa 80 milioni nelle casse dello Stato. La statistica forse più interessante, perché dà un’idea della domanda per il prodotto, è che il numero di negozi è raddoppiato da 156 a più di 300 nello spazio di dodici mesi. Dietro al bancone Ed è da lì che comincio. Da una casetta di legno di Boulder, la cittadina linda e pinta famosa per le fantastiche passeggiate di montagna e una mezza maratona che attrae concorrenti da tutto il mondo. Il piccolo edificio è un "dispensario", parola che è un retaggio del passato, quando la marijuana si poteva vendere solo a chi aveva la ricetta medica. Oggi è un mini-supermercato del fumo. Il proprietario mi chiede di non rivelare il nome perché le autorità del settore non amano gli articoli sui giornali. Annuisco, un po’ sorpreso da questa pignoleria per le regole in un settore che è tradizionalmente "contro". Ma è solo l’inizio. La signorina al bancone sembra una nipote dei fiori, con i capelli lunghi, gli stivaletti e il vestito con le margherite arancioni, ma è più fiscale di un arbitro di calcio. Mi chiede il documento due volte e si inventa pure una nuova regola che "per gli stranieri devo anche vedere il passaporto". Benvenuti nella nuova era della marijuana "libera": dove una volta c’era il "free love", Woodstock e le canzoni di Joan Baez, ora c’è il controllo del passaporto. Dopo un po’, si apre un’altra porta e sono assalito da un odore pungente. Non quello tipico degli spinelli - nei dispensari, come in tutti i luoghi pubblici, non si può fumare. È più un effluvio di erbe misto a zolfo, come se qualcuno avesse versato troppa candeggina sul pavimento. Proviene dai tanti barattoli di vetro che mi circondano. Sono i contenitori dei "boccioli" di marijuana, pezzetti di pianta che somigliano a cavolfiori in miniatura. Mi viene presentato Charles, il mio "budtender" o "droghista", un barista della marijuana che mi può consigliare su cosa sia buono oggi. Charles ha una ventina d’anni, faceva il contadino in Georgia e, mi dice, aveva sempre avuto "la passione e l’interesse per il fumo". Ci credo, e non solo perché Charles non sbatte mai le palpebre. Il ragazzo è un’enciclopedia della cannabis. Mi spiega che il sistema è simile a quello della frutta e della verdura: dal coltivatore al negozio all’utente. "La differenza è che le regole su come far crescere la marijuana sono più toste. Non possiamo usare pesticidi o altre sostanze chimiche", dice come se stesse descrivendo una pesca. Mi chiede che cosa mi piaccia e quando gli rispondo che sono un novellino in questo campo, non si scompone. Mi elenca tutti i possibili effetti dei vari boccioli. "Questo ti tira su, ma riesci anche ad andare al lavoro, e nessuno dei tuoi colleghi se ne dovrebbe accorgere", dice usando le pinzette per mostrarmi un germoglio che si chiama "Flo". "Questo è forte, ti dà le palpitazioni e va usato solo quando vai a una festa", dice di un altro con un nome un po’ più minaccioso: "La nebbia del treno fantasma". Scelgo di non salire a bordo di quel treno ed esco senza aggiungere niente al fatturato dell’industria della marijuana. Più del fumo, mi interessano le storie di chi ha deciso di lasciare quello che stava facendo e prendere un rischio su un settore che rimane nella penombra tra il lecito e l’illecito. I percorsi dei tre o quattro padroni dei dispensari con cui ho parlato non sono tanto diversi da quelli dei piccoli imprenditori nel campo del cibo, del metano e della tecnologia che ho incontrato in altre puntate di questo viaggio: la voglia di lavorare per se stessi, la passione per il prodotto, il desiderio di fare qualche soldo. Lo stigma sociale Ciò che è diverso in questo caso è che, nonostante le leggi e i benefici economici, il "prodotto" è spesso stigmatizzato a livello sociale. Tom, il proprietario di un negozio di marijuana al centro di Denver, faceva il pizzaiolo ma non guadagnava abbastanza e aveva voglia di fare qualcosa "di più utile alla gente". Purtroppo per lui, non tutti erano della stessa opinione. Mi racconta che all’inizio le banche si rifiutavano di fargli credito, che è stato costretto a finanziare tutto con i suoi soldi e che i clienti potevano solo pagare in contanti. "Era come se fossimo ancora nel mercato nero. Che senso ha?" esclama con malcelata esasperazione. Rachel, la legale che prima si era specializzata nelle tasse, mi racconta che all’inizio c’erano solo cinque avvocati in tutto lo Stato disposti ad aiutare il business della marijuana con le 700 pagine di nuove leggi sulla marijuana. "Anche noi facevamo una cosa tecnicamente illegale perché la deontologia professionale non ci permette di lavorare su casi che violano la legge federale". Da allora, la dottrina è stata chiarificata, tanto che ora Rachel insegna in un corso universitario in giurisprudenza della marijuana alla University of Colorado. Ma Rachel e gli altri professionisti della marijuana sanno che cambiare la legge non significa cambiare la mentalità, i luoghi comuni e le paure della gente. L’esperimento economico del Colorado - e di tutti gli altri Stati e Paesi che lo vogliono seguire - può funzionare solo se la marijuana "libera" viene accettata a livello sociale. Le regole severe in questo caso aiutano. Fumare erba in Colorado è praticamente impossibile al di fuori delle case private. Gli hotel - a parte qualche "Bed & Breakfast" ribattezzato "Bud & Breakfast", bocciolo e colazione, non lo permettono, i bar meno che meno e nei parchi pubblici è assolutamente vietato. ("I turisti di solito trovano un angoletto tranquillo o vanno sulle montagne", dice Tom). I negozi non possono essere vicini a scuole e altri edifici con bambini, e guidare quando si è "fatti" è punito molto duramente. Ma la situazione non è perfetta. Gli Stati limitrofi si lamentato degli influssi di marijuana "importata" dal Colorado. Gruppi religiosi e di genitori in altri Stati stanno facendo grandi campagne per evitare referendum simili a quello del 2012, mettendo in luce gli effetti nefasti della cannabis su ragazzi e adulti. Persino a Denver, dove non ero stato da quattro anni, c’è stato un notevole aumento nel numero dei senzatetto - gente che gira per strada chiedendo soldi e che di notte si accalca in tendopoli fatiscenti non lontane da ristoranti e bar chic. Ho provato a chiedere ad alcuni di loro se fossero venuti a Denver per la droga, come dicono gli avversari della marijuana, ma non ho ricevuto risposte coerenti. Fautori come Rachel Gillette dicono che è un’accusa assurda, che i poveracci hanno sempre trovato il modo di procurarsi la droga e che non possono comprarla senza carta d’identità. "Tutto il contrario. L’esperienza del Colorado ha fatto moltissimo per contraddire lo stereotipo del "fattone" che sta sul divano a non fare niente", mi dice. "Io fumo due, tre volte a settimana. I miei amici fumano a cena, a casa dopo il lavoro e quando siamo insieme e abbiamo tutti vite normali, pure noiose". Noiosa normalità Forse ha ragione. Forse dopo decenni di proibizionismo, l’America è pronta a considerare la marijuana normale e noiosa. A prendersi la responsabilità per le proprie azioni, a credere ai medici che dicono che l’alcol è una droga peggiore e a scommettere su un nuovo settore economico. Ma non è certo. È vero che l’ultimo sondaggio, del prestigioso Pew Institute, dice che il 53% degli americani è a favore della legalizzazione ma è anche vero che quella cifra non è cambiata dal 2013, un segno che, per ora, la rivoluzione dello spinello non la vuole fare nessuno. E anche il futuro non è chiaro. La gran maggioranza dei giovani - la generazione dei "millennial", quelli nati dalla fine degli Anni 80 - non avrebbe problemi a legalizzare la cannabis, ma meno della metà degli ispanici - il gruppo demografico che sta crescendo più velocemente negli Usa - sono d’accordo, forse per via della loro fede cattolica. Per ora, la marijuana non può essere considerata un settore economico stabile o con delle prospettive fantastiche. Siamo agli albori di un cambiamento e i primi passi sono sempre lenti, difficili e non sempre nella stessa direzione. Ma l’esperienza del Colorado, il miliardo di dollari in fatturato, il lavoro di Rachel, Tom, Charles non sono uno spreco, anche se la cannabis è destinata a rimanere una curiosità per pochi, e un’aberrazione per tutti gli altri. L’America ci insegna: i pionieri sono sempre utili, anche quando viaggiano in mezzo alla nebbia del treno fantasma. Caso Marò: nessun processo in India ma Girone non può tornare in Italia di Antonella Rampino La Stampa, 25 agosto 2015 I giudici del tribunale di Diritto del Mare di Amburg: la competenza del caso è dell’Aja. Gentiloni: "Stop alla giustizia indiana è un risultato utile". Delrio: "Speravamo in esito diverso". Vittoria a metà per India e Italia al Tribunale del Mare di Amburgo, dove per la prima volta una corte di giustizia si è espressa sulla vicenda dei marò. New Delhi, come chiesto dall’Italia, dovrà "sospendere l’azione giudiziaria" fino a che l’Aja, il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, non avrà emesso la sua sentenza in sede di arbitrato internazionale. Al contrario, i giudici di Amburgo hanno deciso - a maggioranza - di non concedere la sospensione delle misure cautelari imposte dall’India ai fucilieri di Marina poiché questo significherebbe già entrare "nel merito" della contesa. E dunque uno pari. Una soluzione di "equilibrio" che delude il padre di Girone ("siamo un po’ arrabbiati") e lascia, in parte, l’amaro in bocca al governo: "L’Italia - dichiara il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio - sperava in una sentenza diversa". Anche se il verdetto di Amburgo, argomenta il titolare della Farnesina Paolo Gentiloni, è "un risultato utile". Ma andiamo con ordine. Tradotto dall’algido argomentare tipico della giurisprudenza internazionale, Salvatore Girone dovrà restare in India, mentre Massimiliano Latorre non può contare sulla permanenza in Italia al termine del periodo in patria concessogli dall’India per ragioni di salute. Un punto, questo, che suscita la "delusione" dell’Agente del governo italiano, Francesco Azzarello. Che ha subito rimarcato come l’Italia stia "valutando di rinnovare le richieste relative alla condizione dei fucilieri davanti alla Corte arbitrale, non appena essa sarà costituita". Come dire, non finisce qui. Detto questo, Roma non esce a mani vuote dal braccio di ferro giudiziario e a ricordarlo è il ministro Gentiloni. Che da Rimini, dove si trova per partecipare al tradizionale meeting di Comunione e Liberazione, nota come il Tribunale di Amburgo abbia stabilito "in forma definitiva il principio molto importante che non sarà la giustizia indiana a gestire la vicenda dei Marò. Per noi è un risultato utile. Sarà l’arbitrato internazionale, come l’Italia aveva chiesto, a gestire questo caso". La sentenza, ad ogni modo, si presta a diverse interpretazioni. Se Amburgo ha prescritto che i due paesi "sospendano l’esercizio delle azioni giudiziarie e non ne intraprendano di nuove che possano aggravare o allungare la disputa stessa", scrive il giudice Francesco Francioni nominato ad hoc dall’Italia al Tribunale del Mare nelle sue valutazioni sul verdetto, "come possono essere efficaci tali misure - si domanda Francioni - senza che vengano revocate, pro tempore, le misure di limitazione della libertà individuale dei due marò italiani?". Ancora. Secondo Roberto Virzo, docente di Diritto internazionale all’Università del Sannio e di Organizzazione internazionale presso la Facoltà di Giurisprudenza della Luiss di Roma, l’India non potrà chiedere il rientro di Latorre, visto che Amburgo ha "congelato tutti i procedimenti in atto, anche quello sulla misura concessa al marò per motivi di salute". Insomma, se è vero che il "titolo" di giornata, al netto dei complessi risvolti tecnici della vicenda, non è quello a cui l’Italia puntava, i risvolti futuri potrebbero in realtà essere più favorevoli a Roma che a New Delhi. Che, d’altra parte, tira l’acqua al suo mulino. "Amburgo non ha preso in considerazione le due richieste presentate dall’Italia", ha detto il portavoce del ministero degli Esteri indiano, Vikas Swarup, precisando come il suo ufficio stia ancora "studiando la sentenza in dettaglio". Il giudice indiano dell’Itlos, Chandrasekhara Rao parla però di sentenza "sbilanciata contro l’India" e anche molti siti indiani esprimono insoddisfazione per l’esito di Amburgo. Il primo appuntamento che dovrebbe ora fare un minimo di chiarezza sul tipo d’impatto pratico che avrà questo primo round giudiziario è previsto per il 24 settembre, quando l’Italia e l’India dovranno presentare "un rapporto di ottemperanza con le misure previste" in seguito verdetto del Tribunale. Roma potrà contare sul sostegno della Ue che "continuerà a seguire da vicino e con grande attenzione il caso, in stretto contatto con il governo italiano" e che ribadisce il suo "appello per una soluzione in tempi brevi e nel rispetto delle persone coinvolte e del diritto internazionale". Marò, chi ha vinto e chi ha perso Per arrivare al giudizio arbitrale si prevedono anche due anni d’attesa. Con l’attesissima sentenza di oggi, il Tribunale del mare di Amburgo ha di fatto rigettato la richiesta italiana di veder rientrare in patria entrambi i marò per tutto il tempo che sarà necessario per arrivare al giudizio arbitrale (si prevede un anno o due, al minimo) nella contesa con l’India in seguito ai noti fatti dell’Enrica Lexie e della morte di due pescatori indiani tre anni e mezzo fa. Di fatto, è come quando si nega un provvedimento come i domiciliari o la libertà vigilata in un processo. In questo caso, infinitamente più complesso di un normale giudizio, l’Italia segna un punto a proprio sfavore: anche se quella arbitrale è una procedura a sé stante, tutte le valutazioni nell’attesa del giudizio del Tribunale di Amburgo di oggi convergevano sul fatto che un "sì" alle richieste italiane sarebbe stato quantomeno un buon viatico. Anche per questo, nel leggere la sentenza, il presidente del tribunale - il russo Vladimir Golitsyn, che ha votato a favore delle richieste italiane - ha sottolineato che le decisioni di oggi "non devono in nessun modo essere interpretate come un modo di appoggiare rivendicazioni di una delle due parti". Il pollice verso del Tribunale di Amburgo è particolarmente pesante nelle motivazioni: "non si considera appropriato prescrivere misure temporanee sui due marò", e Italia e India devono "sospendere iniziative che aggravino la disputa". Nel presentare il ricorso, Roma aveva sostenuto che i due marò erano "ostaggio" dell’India che "disprezza il giusto processo", Delhi aveva ribattuto che "la vita di Girone in India è confortevole", e che l’Italia "è in malafede". Con la votazione dei giudici - 15 contro 6 - la Corte ha evidentemente ritenuto di prendere una decisione di tipo salomonico di fronte a due nazioni che ricorrono alla procedura arbitrale continuando ad alzare i toni. Ora, la situazione dovrebbe rimanere congelata - con Latorre in Italia e Girone in India - almeno fino al 24 settembre, data entro la quale Roma e New Delhi dovranno "presentare un rapporto in ottemperanza con le misure previste". Al momento in cui scriviamo, alla Farnesina sono già al lavoro per presentare, a quella data, una nuova richiesta italiana di misure provvisorie per Girone e Latorre. Burundi: dall’ultimo rapporto di Amnesty nuove accuse di tortura per la polizia Nova, 25 agosto 2015 Le forze di sicurezza del Burundi hanno utilizzato tecniche di tortura - con l’uso di acido e di scosse elettriche - per estorcere confessioni agli oppositori del presidente Pierre Nkurunziza, che lo scorso luglio ha ottenuto un terzo mandato alla guida del paese acuendo la crisi politica in corso dal mese di aprile. Lo si legge nell’ultimo rapporto pubblicato dall’organizzazione non governativa Amnesty International. Il governo di Bujumbura non ha ancora risposto alle accuse contenute nel documento, che cita diverse testimonianze di attivisti dell’opposizione finiti in carcere durante le proteste degli scorsi mesi. Si tratta dell’ultimo di una serie di rapporti redatti da organizzazioni internazionali che accusano le autorità del Burundi di torture e crimini nei confronti degli attivisti dell’opposizione. Gli scontri degli scorsi mesi tra manifestanti e forze di polizia hanno provocato la morte di un centinaio di persone e hanno avuto il proprio apice nel maggio scorso, quando l’ex capo dell’intelligence Godefroid Niyombarè ha condotto un fallimentare colpo di Stato contro Nkurunziza. Turchia: ministero Giustizia, in carcere 126 membri Stato islamico Nova, 25 agosto 2015 Secondo il ministero della Giustizia turca nelle carceri del paese ci sono 126 membri dello Stato islamico (Is). Lo riferisce il quotidiano turco "Hurriyet". Di questi 121 sono stati arrestati in qualità di combattenti dello Stato islamico mentre cinque per altri reati. Secondo i dati forniti dal ministro in Turchia nell’ultimo anno sono stati compiuti 156 reati ascrivibili allo Stato islamico. Il governo turco, più volte criticato per non aver voluto o saputo contrastare efficacemente lo Stato islamico dall’inizio dell’anno ha intensificato le azioni contro i combattenti dell’Is. Nell’ambito di queste operazioni il 27 luglio è stato formalmente accusato, dopo essere stato fermato tre giorni prima Halis Bayancuk, un dirigente dell’Is conosciuto anche con il soprannome di "Abu Hanzala". Arabia Saudita: record esecuzioni capitali, Amnesty denuncia processi sommari Aki, 25 agosto 2015 L’Arabia Saudita sta conoscendo un’impennata nel numero di esecuzioni della pena capitale, arrivato già a 102 dall’inizio dell’anno, contro le 90 dell’intero 2014. Lo denunciano gli attivisti di Amnesty International, che parlando di un sistema giudiziario spesso sommario e non conforme agli standard internazionali. "Il ricorso alla pena di morte è orrendo in tutte le circostanze - ha affermato Said Boumedouha, responsabile di Amnesty per il Medio Oriente e il Nordafrica - e lo è particolarmente quando è applicata in modo arbitrario, dopo processi palesemente scorretti". "In molti casi - ha proseguito - agli imputati è negato l’accesso a un avvocato e spesso vengono condannati sulla base di confessioni ottenute sotto tortura o altri maltrattamenti". Tra le persone giustiziate, secondo l’organizzazione, si contano minori e persone con disagi mentali. Agli stranieri, che rappresentano la metà dei condannati, è spesso negato l’accesso a un servizio di traduzione e per questo finiscono spesso per firmare confessioni di cui non capiscono il contenuto, secondo il rapporto di Amnesty intitolato "Uccidere nel nome della giustizia". In alcune occasioni, sempre secondo il rapporto, le esecuzioni avvengono in pubblico e la testa della persona decapitata dal boia o il suo cadavere vengono esposti agli occhi di tutti i cittadini. Capita di frequente, inoltre, che i familiari vengano informati solo dopo che l’esecuzione è avvenuta o addirittura che lo vengano a sapere dai media.