Trattare le persone con maggiore umanità è la strada più efficace per vincere il male Il Mattino di Padova, 24 agosto 2015 Il carcere duro per chi ha commesso reati nell’ambito della criminalità organizzata viene visto come necessario, e nessuno o quasi ha il coraggio di metterlo in discussione. Noi vogliamo provare a farlo, nella convinzione che uno Stato debba avere la forza di trattare da esseri umani anche i più feroci delinquenti. Solo così si sconfigge davvero la cultura mafiosa, non "imitando" i metodi dei criminali, ma rifiutandoli e dando ai loro figli la sensazione che le istituzioni sono forti perché rifiutano la violenza, SEMPRE. Quella che segue è la storia di un detenuto che per anni è stato trattato come un animale, e stava diventando realmente un mostro, poi per fortuna qualcosa è cambiato, qualcuno ha capito che trattare le persone con umanità è la strada per vincere il male. Dalla pena di tortura al reinserimento vero Durante i 17 anni in cui ho vissuto in carcere in regimi durissimi (41 bis e Alta Sicurezza), ero diventato una persona "animalesca". Non pensavo ad altro che a come fare sempre del male, soprattutto a certe persone delle istituzioni, volevo solo vendicarmi del male che avevo ricevuto durante la mia detenzione in quei regimi. Il mio cambiamento vero è avvenuto nel momento in cui sono giunto alla Casa di reclusione di Padova. Dopo un paio di mesi circa dal mio trasferimento riesco a entrare a far parte della redazione di Ristretti Orizzonti e mi viene data la possibilità di fare un percorso unico nel suo genere. Dopo qualche mese di attività vengo inserito in uno dei progetti della redazione, "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere". Un progetto che cambia radicalmente la mia vita. Ascolto i miei compagni mentre si confrontano con gli studenti con tanta sincerità, affronto una riflessione interiore. Inizio a chiedermi se davanti a quei ragazzi dovevo rimanere sempre quel mostro che ero diventato. In quel periodo ero impegnato a capire se ero così cattivo da continuare a mentire di fronte agli studenti e tenermi addosso quella maschera da duro. Ma non è possibile raccontare bugie davanti a quelle persone, non puoi dare dei brutti esempi, e il motivo è semplice, come per i tuoi figli non vuoi correre il rischio che un ragazzo provi ad imitarti. Se lo influenzi negativamente portandolo a sbagliare, porterai sulla coscienza questo tuo atto. Io non volevo avere ancora degli altri sensi di colpa. Questa è la spinta che mi porta a confrontarmi anch’io con quei ragazzi. Inizio a parlare con sincerità, finché comincio a percepire che stavo bene con me stesso, non ero più nervoso, riuscivo ad avere un approccio alla vita diverso. Poi iniziano le domande complicate degli studenti, dove vogliono delle spiegazioni. È stato il momento più difficile della mia vita, ma non potevo essere disonesto! Allora mi metto in gioco, trovo la forza di raccontare la mia vita, vedo che mi ascoltano con tanta attenzione, vedo nel loro viso trapelare espressioni di comprensione nei miei confronti, mi fanno sentire una persona, ero ancora qualcuno, un essere umano! Si, qualcuno di diverso da prima. Mi sentivo davvero libero, mi sentivo in pace con me stesso. Ho riconquistato il coraggio di parlare in pubblico, non sentendomi colpevole per sempre. Oggi non mi nascondo più dalla responsabilità del reato che ho commesso. Grazie a questo percorso trovo il coraggio di assumermi le responsabilità dei miei errori davanti alle mie figlie. Grazie a questo percorso ho ritrovato la vita, e con essa la speranza di un futuro. Svolgendo un’azione di volontariato mi sento di poter essere utile in qualcosa. Cerco di "assolvermi" un po’ dentro me stesso del male che ho provocato, mi sento ancora una persona che possa dare aiuto e sostegno a qualcuno. La differenza di una detenzione diversa Oggi dopo 17 anni di detenzione sono stato rivalutato da persone competenti, che in quella persona cattiva che ero trovano anche qualcosa di buono. E mi hanno concesso un permesso di necessità per incontrare la mia anziana madre ammalata. Non avrei mai creduto di poter pranzare ancora una volta con la mia famiglia. Mi ero convinto che mia mamma l’avrei rivista solamente al suo funerale. Di conseguenza immaginavo che non avrei mai conosciuto fuori "in libertà" i miei nipotini, men che meno vederli pranzare con me. Gioia immensa è stata rivedere mia figlia Veronica non in carcere, era piccolina l’ultima volta che abbiamo pranzato insieme. È stato come rinascere di nuovo. Il giorno del permesso arrivo nella Casa di accoglienza "Piccoli passi", incontro Egidio, il direttore della struttura. Mi offre un caffè in una tazza di porcellana. Sensazione strana bere il caffe in quel modo. Arriva l’ora di pranzo, a vedermi accerchiato da tutta la mia famiglia mi sentivo in un altro mondo. E che strano pranzare con posate di acciaio in piatti di porcellana! Il rumore delle posate che sbattevano sui piatti, per le mie orecchie erano tutti rumori nuovi. In questa occasione speciale, agognata da anni, mi sentivo pieno di gioia. Ma, nello stesso tempo, percepivo qualcosa di strano. Mi stavo accorgendo che stavo fingendo. Sembravo un ragazzo che doveva fare il perfettino davanti a delle persone a cui desideravo mostrarmi in una certa maniera, mi sono accorto allora che i miei familiari erano come degli estranei. Tutto questo diventa più evidente nel momento in cui arrivano a pranzare con noi tanti volontari che ho conosciuto in carcere. È allora che inizio a sentirmi veramente felice. Inizio a scherzare, quell’ironia che mi fa essere me stesso. La mia mamma si accorge di questo mio cambiamento e mi dice: "Figlio mio, devi capire che ora come ora hai più confidenza con loro, voi vivete tutti i giorni insieme, il sentimento di affetto ti lega più a loro che a noi". Nel frattempo mi ricorda un suo modo di dire: "Il genitore non è chi ti concepisce o ti fa nascere, ma chi ti cresce con la convivenza quotidiana. Figlio mio, tu sei cresciuto con loro, adesso devi abituarti a rientrare in un contatto di affetto vero con noi che siamo i tuoi cari". Un forte imbarazzo e tanta vergogna a dare spiegazioni ai miei nipotini Arriva il momento che mia figlia Veronica mi chiede di dare delle spiegazioni ai suoi figli e a suo marito, perché non sono stato mai presente nel loro matrimonio, non ci sono stato quando lei ha dato alla luce i suoi figli, non sono stato presente a un loro compleanno o durante una festa. Questa volta mi sono messo davanti ai miei occhi quei ragazzi delle scuole a cui tante volte parlo e ho capito che devo affrontare anche questo ostacolo. Ci sediamo intorno a un tavolo, c’erano i miei nipotini, Biagio junior e Domenico, mio genero e mia figlia Veronica. Inizio a spiegare il perché della mia assenza da 17 anni, il motivo per cui mi ritrovavo in carcere, per aver commesso un crimine, Domenico mi chiede che tipo di crimine, la mia risposta è stata che non importa il tipo di crimine, per il motivo che qualunque tipo di crimine si commette non è buono e porta la vita di una persona a deragliare. L’importante è non rimanere incastrato in certe circostanze della vita, non mettere il dio denaro al primo posto. Vedevo che mia figlia Veronica piangeva, ricordava il passato, le sue sofferenze. Allo stesso tempo si era liberata di un peso: quello di dover dare lei delle spiegazioni ai suoi figli e a suo marito. Mio nipote Domenico è andato via facendosi mille domande, ma prima di andarsene mi ha detto: "Nonno, adesso devi fare il bravo in modo che non ti perda ancora l’affetto della famiglia, devi venire per giocare con noi, ci devi accompagnare a scuola in modo che possiamo far vedere ai nostri compagni che nonno giovane abbiamo". Ma il contatto con mia mamma è stato il più commovente. La mia mamma è affetta da una grave malattia, la sua patologia principale è il diabete, deve fare di continuo l’insulina per mantenere la glicemia al di sotto di 300. Quel giorno le ero vicino mentre controllava il diabete: era nella media di 120. Così lei mi ha detto: "Sei tu che mi fai stare bene". Questo mentre me la curavo e la coccolavo come una bambina. Le massaggiavo le gambe che spesso le si gonfiano. Penso sia stato uno dei momenti più felici della sua vita. Poverina, mi è sempre stata vicina in tutti questi anni di detenzione. Sono convinto che il dolore più grande per un genitore è il perdere i propri figli. Mia mamma ne ha persi tre, di cui due deceduti. Oggi ne ritrova uno. Biagio Campailla La giustizia che si deve ritrovare, una riforma a ostacoli di Sabino Cassese Corriere della Sera, 24 agosto 2015 Qualcosa si muove nella giustizia. Le riforme avviate nel giugno 2014, articolate in dodici punti, dopo una pubblica consultazione, stanno dando qualche magro frutto: calo dell’arretrato civile, tempi più brevi dei processi. Ma la china da risalire è erta. Il contesto è difficile. La qualità delle leggi pessima (ma nessuno se ne dà carico). Gli avvocati troppi (ma continuano ad aumentare). Il Consiglio superiore della magistratura dominato da gruppuscoli denominati correnti (ma non c’è accordo per uscirne). La Cassazione intasata da un numero abnorme di ricorsi (ma le proposte di soluzione troppo timide). I magistrati troppo leggeri nel limitare la libertà personale (la Scuola della magistratura non dovrebbe fare qualcosa per insegnare che la detenzione cautelare, senza processo, va usata in casi estremi?). Troppe le carriere politiche di magistrati in carica e troppe le loro esternazioni (mentre il Consiglio superiore della magistratura sta a guardare). Eccessiva la tendenza di procure e corti a dettare l’agenda della politica e a stabilire i criteri della politica industriale, quasi fossero la coscienza del Paese e il governo della politica economica (perché il Consiglio non fissa linee guida non vincolanti, come fa negli Stati Uniti il Dipartimento di giustizia, e perché la Scuola della magistratura non promuove il ricorso all’analisi economica del diritto?). Palese l’inadeguatezza - con l’eccezione di alcune importanti procure - del contrasto alla criminalità organizzata. La criminalità organizzata si è diffusa in vaste aree del territorio nazionale (non varrebbe la pena di fare una analisi sulla preparazione di chi dirige le investigazioni, comprese le forze di polizia?). Sproporzionato il posto che il sistema giudiziario è venuto ad occupare nella vita civile, se rapportato al suo fallimento come erogatore del fondamentale servizio della giustizia (qui occorrerebbe una analisi distaccata e imparziale, alla quale tutti possano partecipare, promossa dal Parlamento). Al fondo, la crisi della giustizia in Italia non sta tanto nell’enorme numero di cause non decise e nei tempi dei processi, ma nel fatto che tutto ciò ha prodotto una vera e propria fuga dalla giustizia, a causa della sfiducia nei suoi tempi. Non vengono da ultime, in questo quadro, le proposte, recentemente ribadite, relative ad intercettazioni, carcerazione preventiva e separazione delle carriere. Prima ancora della loro divulgazione, è l’uso a volte eccessivo delle intercettazioni (specialmente di quelle indirette) come mezzo di prova che andrebbe disciplinato, ricordando che, secondo la Costituzione, la segretezza delle comunicazioni è inviolabile. La carcerazione preventiva è stata talvolta usata come mezzo di pressione, per ottenere ammissioni di colpa, anche qui mostrando le debolezze investigative nella raccolta documentale di prove. Per quanto la sua importanza sia diminuita dopo la distinzione funzionale, la separazione delle carriere, ambedue con indipendenza garantita, è dettata molto semplicemente dal fatto che accusa e giudizio sono mestieri diversi, che richiedono preparazione e professionalità differenti. Il governo italiano ha finora avuto giudizi molto negativi dalla Corte di Strasburgo e apprezzamenti sia dai commissari europei per le iniziative intraprese nel campo della giustizia, sia dal Consiglio d’Europa per la produttività dei giudici. Ma il tempo passa e risultati più consistenti sono attesi, non solo dai cittadini, ma anche dall’Unione Europea e dal Consiglio d’Europa. Non dimentichiamo che uno dei punti della decisione dell’Eurosummit del luglio scorso relativa alla Grecia, presa con la collaborazione dell’Italia, ha riguardato l’accelerazione delle procedure giudiziarie e la riduzione dei costi della giustizia. Giustizia: corruzione e Giubileo. Cantone: "bene il modello Expo, ma no alibi ai politici" di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 24 agosto 2015 Esposti, denunce e segnalazioni come se l’Autorità anticorruzione fosse diventata la Madonna di Pompei. Da mesi ormai la scrivania di Raffaele Cantone è inondata di esposti, lettere di denuncia, segnalazioni di abusi. Arrivano da tutta Italia, a centinaia. Chi racconta di una gara truccata, chi sospetta di corruzione chi gli ha soffiato l’appalto, chi semplicemente invoca protezione come se l’Autorità anticorruzione fosse diventata la Madonna di Pompei. Spesso è roba da prendere con le molle. Molti, anzi moltissimi, sono quelli che tirano il sasso per poi nascondere la mano: difesi dall’anonimato cercano semplicemente una facile vendetta nei confronti di un concorrente. Anche per questo non trascurabile dettaglio forse è troppo presto per interpretarlo come una dichiarazione di guerra della società civile alla corruzione. Certi segnali sono tuttavia ben visibili, come l’attivismo in queste denunce da parte delle associazioni di cittadini e delle opposizioni politiche nei consigli comunali. Segnali che l’indignazione e la voglia di non rassegnarsi ha trovato un’alternativa alle solite (e per vari motivi non sempre fruttuose) denunce alla magistratura? Forse. Ma probabilmente è pure il messaggio che in una situazione così disperante, con il Paese che non riesce a scrollarsi di dosso il marchio d’infamia di nazione fra le più corrotte d’Europa, anche affidarsi ai simboli può avere un senso. Quantomeno aiuta a non perdere la fiducia. L’Anticorruzione è stata istituita giusto un anno fa fondendo insieme due ectoplasmi: la vecchia e sostanzialmente inutile autorità di vigilanza sugli appalti pubblici, e l’altrettanto insignificante Civit, l’authority per la pubblica amministrazione. E a distanza di dodici mesi è impossibile non avvertire il cambio di passo, non soltanto sui grandi appalti al centro di scandali clamorosi, come l’Expo (rimesso in carreggiata in piena zona Cesarini) o il Mose (commissariato). Sarà per il timore che incutono le divise della Finanza, utilizzata dall’Anac per le ispezioni e i controlli. Oppure per qualche altra strana alchimia. Fatto sta che nei casi in cui l’autorità è finora intervenuta è risultato difficile reagire facendo spallucce, come invece avveniva regolarmente in precedenza di fronte alle osservazioni del garante dei contratti pubblici. Sempre più spesso le amministrazioni hanno dovuto accogliere i rilievi che erano stati formulati com’è accaduto a Napoli per gli appalti dei servizi di sicurezza della Asl 3 o a Ferrara per la gestione di alcuni servizi sociali affidati in precedenza senza gara alle cooperative. È vero che le resistenze non mancano, come si è sperimentato nel caso del piccolo Mose sul Lago di Como. Però è anche vero che il nuovo codice degli appalti, sempre se qualcuno non dovesse mettere i bastoni fra le ruote, consegnerà all’authority anticorruzione poteri maggiori, da quello di sospendere direttamente gli appalti considerati irregolari, alla tenuta dell’albo delle commissioni, fino alla fissazione di linee guida vincolanti sulle procedure di gara. Per non parlare dei collaudi, che dovrebbero essere assegnati mediante estrazione a sorte fra i nominativi presenti in un albo. E soprattutto eliminando quello sconcio delle verifiche cosiddette tecnico-amministrative che si risolvono nel collaudo delle carte, con relativa distribuzione di incarichi e prebende a funzionari dello Stato già ben retribuiti. Ma siamo sempre sul filo. Ecco perché a questo punto la cosa importante, ricorda sempre Cantone, "è non abbassare la tensione". Perché quelli che il presidente dell’Anac definisce "gli anticorpi" che si stanno innestando nel sistema attraverso principi apparentemente banali quali la trasparenza e la rotazione degli incarichi potrebbero essere in fretta debellati. Per azzerare anche i piccoli progressi che sono stati faticosamente raggiunti. Il Giubileo, per esempio, sarà un banco di prova fondamentale per verificare la tenuta di questi anticorpi. L’adozione del modello utilizzato per raddrizzare l’Expo, com’è stato ventilato anche per questo evento "non potrà rappresentare in alcun modo un alibi per la politica", secondo Cantone. Che ricorda il detto popolare: "Alla chiesa di Santa Chiara prima rubarono, poi misero le porte di ferro". Ma solo perché sia ben chiaro che qui le porte di ferro nessuno potrà metterle dopo il patatrac, com’è accaduto a Milano, se la corruzione dovesse colpire anche qui. Il danno risulterebbe "irrisolvibile". Dunque a Roma, dopo quello che è successo, bisogna tenere la guardia alta fin da subito. I pericoli ai quali si potrebbe andare incontro sono noti, tanto più dovendo affrontare il viaggio con una macchina che "non ha cambiato il motore". Le contromisure vanno adottate immediatamente e senza titubanze. Le vicende di Mafia Capitale, pensa il presidente dell’Anac, hanno offerto uno spaccato tragicamente illuminante della situazione. Per quanto "il meccanismo criminale non sia emerso in tutte le sue sfaccettature", e l’inchiesta in corso possa riservare molte altre sorprese, la metamorfosi della corruzione si è svelata in tutta la sua inquietante dimensione. Perché se prima il sistema corruttivo era a servizio della politica, concorda Cantone, oggi è talvolta la politica a essere strumento della corruzione. Il rapporto classico messo in luce da Tangentopoli adesso è completamente ribaltato. E questo anche a causa di alcune scelte elettorali, come quella di introdurre la preferenza unica alle elezioni comunali. Una decisione che ha consentito a certi soggetti di accumulare un potere enorme con la gestione di pacchetti di voti in grado di cambiare gli equilibri nelle maggioranze e nelle giunte locali. Pochi voti, ma determinanti, e chi li controlla detta legge. Quando poi il proprietario del pacchetto è emanazione di interessi che nessun rapporto hanno con la politica sana, come spesso succede soprattutto in alcune aree del Sud, e a Roma, allora sono dolori. È così che in certi ambiti locali i partiti si sono trasformati in comitati d’affari: con il risultato che la lotta alla corruzione si è fatta sempre più difficile e complessa. Giustizia: terrorismo, convivere con la paura è combattere il terrore di Guido Olimpio La Repubblica, 24 agosto 2015 Le minacce sono a basso costo, difficili da intercettare. Serve sicuramente più prevenzione, ma senza troppe illusioni: non si può controllare tutto, dai treni ai mezzi pubblici cittadini. È necessario difendere uno stile di vita il più possibile normale. Contro il terrorismo "facile", spesso condotto con un atto individuale, è difficile trovare la risposta. È questa la lezione degli episodi violenti che hanno insanguinato i Paesi occidentali, dagli Usa fino in Australia. Bisogna abituarsi a convivere con una minaccia a basso costo, una forma di estremismo dove il criminale spende poco ma ottiene il massimo dei risultati. Sparge angoscia, insicurezza, odio. La percezione del cittadino è che alla fine non c’è angolo della propria esistenza dove trovare riparo. I terroristi, purtroppo, fanno il loro mestiere. Non sono sofisticati come i prescelti da Osama bin Laden per l’assalto all’America dell’11 settembre. Oggi sono più agili e rapidi nel portare a termine missioni costruite sulla base di piani grezzi, quasi abbozzati, mai condivisi. Operazioni lanciate senza preoccuparsi delle vie di fuga, di nascondigli o della rete logistica. Ideazione ed esecuzione sono limitati al minimo, così come le armi. A volte non ci sono neppure quelle, visto che il jihadista si accontenta della sua auto per investire la folla. Niente grandiosità di un progetto che deve stupire, solo voglia di colpire. Si discute, anche aspramente, sulla necessità di nuove misure di protezione. E l’episodio del treno Amsterdam-Parigi spinge qualcuno a chiedere controlli simili a quelli adottati negli aeroporti. Ma è possibile vigilare su ogni convoglio ferroviario che attraversa i Paesi europei? La risposta è scontata. E se domani sparano su un tram invocheremo uno scudo anche per quello? Serve vigilare, stare in guardia, senza però pensare di riuscire a blindare luoghi dove si concentrano migliaia di persone. Molti degli attentatori erano noti alla polizia. Dettaglio che si porta dietro polemiche e strumentalizzazioni sintetizzate dalla frase "perché non lo hanno fermato prima". È giusto chiedere ai servizi di sicurezza una maggiore attenzione, è ingiusto pensare che possano parare ogni colpo. Per tre motivi. Una semplice segnalazione non trasforma un individuo in un terrorista. L’attentatore diventa tale solo nel momento in cui passa all’azione. I numeri da controllare sono imponenti, con personaggi altamente mobili. Oggi sono a Parigi, due giorni dopo li trovi al confine siriano. E viceversa. Al tempo stesso è evidente che "marcare" una persona come sospetta non è più sufficiente, la famose liste nere sono gonfie di nominativi. Per salvarsi l’anima lo inseriscono nell’elenco, così se qualcuno chiede conto potranno dire: lo avevamo detto. Questo però non disinnesca la bomba, non neutralizza le raffiche di mitra, non evita il peggio. Allora bisogna investire - con risorse concrete - nella prevenzione, nello scambio di dati tra Paesi amici per tracciare i movimenti, in un’intelligence capace di reclutare informatori, le vedette di una prima linea invisibile che dovrebbe aiutare a distinguere tra il pericolo potenziale e la falsa pista. Consapevoli, però, che non esiste la certezza che il signor X domani uscirà di casa e invece di recarsi al lavoro impugnerà il kalashnikov. È un killer ben mimetizzato. Quanto a noi la risposta migliore è quella della normalità. Sappiamo che c’è un pericolo (non l’unico e neppure il principale), ma dobbiamo superarlo vivendo. Il terrorista vuole negarci gli spazi insanguinando trasporti, ristoranti, strade. Chi lo ispira spera anche di provocare ritorsioni, leggi speciali, provvedimenti eccezionali. Vuole uccidere, dividere la società, esasperare i rapporti. Allora il dispetto più grande che gli possiamo fare è dimostrare che non abbiamo paura. Giustizia: al Tribunale del Mare di Amburgo l’ora della verità per i marò italiani Michele De Feudis Il Tempo, 24 agosto 2015 Il Tribunale del Mare si pronuncia oggi sulla sorte di Girone e Latorre. Una giornata cruciale per il futuro dei marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone e per gli equilibri nell’imminente arbitrato internazionale con l’India. Oggi il Tribunale del diritto del Mare di Amburgo si esprimerà sulla doppia istanza dell’Italia: il collegio dei ventuno giudici presieduto dal russo Vladimir Golitsyn dovrà deliberare sulla richiesta "provvisoria e urgente" di liberazione dei due fucilieri e sul congelamento dei procedimenti giudiziari che li riguardano in India. Il governo Modi, di contro, ha chiesto che le due opzioni italiane vengano globalmente respinte. La decisione assunta non sarà appellabile e le parti del contenzioso dovranno allinearsi alla sentenza. Alla Farnesina i nuovi sviluppi sono attesi con la massima cautela e con la convinzione di aver presentato le tesi italiane davanti ai magistrati nella maniera più efficace. Si arriva a questa tappa delicata nel contenzioso tra Italia e India dopo due giornate, il 10 e l’11 agosto scorso, nelle quali il confronto è stato molto spigoloso e serrato, con reciproche accuse. L’ambasciatore Francesco Azzarello, agente nel giudizio per il governo italiano, ha duramente criticato la condotta di Nuova Delhi dal febbraio 2012, perché da un lato ha configurato un disprezzo del "giusto processo", e dall’altro ha creato le condizioni per l’attuale impasse. I due militari italiani sono limitati nei proprio diritti fondamentali, pur non essendo stati ancora imputati di alcun reato. E se Latorre è a Taranto con un permesso sanitario della Corte Suprema al fine di curare i postumi dell’ictus che lo ha colpito un anno fa, Girone "è trattato come un ostaggio - ha spiegato Azzarello - costretto a restare in India nonostante non sia stato ancora incriminato", equiparato ad una "garanzia" per il possibile rientro a Nuova Delhi dell’altro militare. La posizione italiana - coordinata da Daniel Betlehem, già direttore del Servizio Affari Giuridici del Ministero degli Esteri britannico, in qualità di responsabile dell’intero team legale - si è caratterizzata per aver fortemente evidenziato come la querelle sia segnata "da una serie di violazioni del diritto internazionale da parte delle autorità indiane", in merito alla libertà di navigazione, agli obblighi della Convenzione del mare, senza dimenticare la giurisdizione esclusiva dello Stato sulla nave che ne espone la bandiera. Neeru Chadha, e l’avvocato francese Alain Pellet, per il governo indiano, hanno invece insistito sul ritenere che l’incidente tra le navi Enrica Lexie e St Antony sia avvenuto in acque nazionali, affermando di non avere alcuna intenzione di rinunciare alla propria giurisdizione sulla vicenda. La corte guidata da Golitsyn potrebbe accogliere tutte le richieste italiane, farne proprie solo una parte o respingerle: in quest’ultimo caso l’arbitrato internazionale inizierebbe sotto una cattiva stella, con la cristallizzazione della debolezza dei due fucilieri, le cui limitazioni sarebbero prolungate fino all’esito del nuovo giudizio, previsto in non meno di due anni. I fucilieri di Marina e le rispettive famiglie stanno affrontando l’ennesima tappa della loro odissea con discrezione e compostezza, anche se la vigilia è stata caratterizzata da forte apprensione per l’attesa di un pronunciamento che potrebbe restituire libertà e serenità ai militari, nelle more del completamento dell’arbitrato internazionale, appena avviato. Il popolo tricolore pro marò ha colorato di cartoline ben auguranti e murales con un uccellino che sussurra "Andrà tutto bene" le bacheche di Latorre e Girone, mentre hanno destato forti polemiche le provocazioni materializzatesi in rete con la comparsa nei giorni scorsi del videogame Marò Slut, una caricatura della liberazione dei soldati (ora rimosso), e soprattutto la violenta pagina Facebook "Impicchiamo i marò", messa offline dagli amministratori dopo alcune denunce alla polizia postale presentate da sostenitori della battaglia per la libertà dei due Leoni del San Marco. Le sentenze sono definitive e vanno rispettate Cos’è il Tribunale del mare di Amburgo, l’organo che dovrà dirimere la controversia del caso marò? Il Tribunale internazionale del diritto del mare (Itlos) oggi si esprimerà e emetterà il proprio verdetto sulla complicata e spinosa questione dei marò che oppone Italia e India. Creato nel 1994 ed entrato in vigore nel 1996, il Tribunale del mare di Amburgo dirime le controversie sull’interpretazione o l’applicazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos), a sua volta adottata nel 1982 a Montego Bay ed entrata in vigore nel 1994. La Convenzione prevede infatti quattro modi di dirimere le controversie: il Tribunale del Mare, la Corte internazionale di giustizia, l’arbitrato in base alla sezione VII della Convenzione o l’arbitrato speciale in base alla sezione VIII. All’Itlos aderiscono 166 Stati Parte più l’Unione europea. Il Tribunale è composto da 21 giudici, con un mandato di 9 anni, che garantiscono una ripartizione geografica equa e una rappresentazione dei principali sistemi giuridici mondiali. L’attuale presidente è il russo Vladimir Golitsyn. Nel collegio arbitrale c’è anche un giudice indiano, P. Chandrasekhara Rao. Lo Statuto prevede che uno Stato parte coinvolto in un procedimento, che non abbia un rappresentante della propria nazionalità tra i membri del Tribunale, possa nominarne uno ad hoc. Finora, sono stati 24 i casi sottoposti a questo Tribunale speciale. L’ultimo è quello italiano sulla vicenda dei marò, denominato "L’incidente dell’Enrica Lexie (Italia contro India), misure preventive". In particolare l’Italia ha chiesto che il fuciliere di Marina Salvatore Girone possa rientrare in Italia, che Massimiliano Latorre possa restarvi e che l’India "si astenga dall’esercitare ogni forma di giurisdizione" sul caso. Le decisioni del Tribunale sono definitive e hanno carattere obbligatorio: tutte le parti devono rispettarle. Giustizia: per Roma norme delle città di mafia, "stretta" dopo il funerale di Casamonica di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 24 agosto 2015 Giovedì Alfano riferisce al governo: ipotesi di porre il Comune sotto la tutela del prefetto. Caso funerali: il Comitato per l’ordine e la sicurezza punta ad archiviare le esequie del capo clan (petali e note inclusi) alla voce "da non ripetersi". Insomma non sarà una sessione disciplinare ma propositiva quella fissata per le 15.30 di oggi negli uffici della prefettura. Questo non esclude automaticamente sanzioni nei confronti di chi ha commesso errori all’interno dei vari reparti. Lo strumento che dovrebbe evitare repliche del brutto film di giovedì scorso al quartiere Don Bosco viene chiamato "Comitato interforze". Più che un ufficio materialmente allestito si tratterà di una funzione individuata a monte. "Una riorganizzazione che prevede anche piani per il controllo del territorio" spiega una fonte interna al tavolo della prefettura. Una responsabilità in più in capo a un funzionario, reclutato presso gli uffici delle forze dell’ordine. Il funzionario in questione dovrà ricevere ogni informazione dell’autorità giudiziaria e delle forze di polizia. Permessi speciali per un detenuto, arresti eseguiti, misure notificate, nulla osta della polizia giudiziaria. Se il via libera della Corte d’appello recapitato singolarmente ai tre familiari dei Casamonica non ha innescato allarmi (e neppure un semplice ragionamento) avere il quadro d’insieme sarà invece utile. Una formalizzazione di questo incarico farebbe anche scattare sanzioni disciplinari se la comunicazione venisse saltata a piè pari. "Non cerchiamo un capro espiatorio, sarebbe ingiusto ma occorre voltare pagina" spiega la stessa fonte. Il capro, in teoria, sarà l’inerzia amministrativa, così come si è vista nei giorni scorsi. "Un coordinamento già c’è, ma l’intenzione del prefetto è quella di formalizzarlo come nei comuni ad alta densità mafiosa, ad esempio a Reggio Calabria". La nuova funzione potrebbe ricevere direttamente da Tribunale e Corte d’appello eventuali autorizzazioni. A quanto emerge l’autorizzazione ad Antonio Casamonica rilasciata senza che ne fosse informato direttamente il presidente della Corte d’appello ha fatto infuriare il Tribunale. Ma la motivazione politica di questo Comitato è un’altra. Ossia superare quanto è successo senza ulteriori traumi istituzionali di cui la città abbonda ultimamente. In una capitale che ha visto finire in carcere assessori e presidenti dell’assemblea capitolina in carica, un ex sindaco accusato di associazione mafiosa, bilanci rivoltati come calzini, sarebbe stato poco praticabile. Non mancano e forse non mancheranno polemiche. Domenica una troupe della trasmissione "Agorà" di Raitre è stata aggredita durante riprese al Quadraro. "Un uomo mi ha minacciato di morte ripetendomi "ti ammazzo se non mi dai la telecamera", siamo stati circondati da una decina di persone" ha raccontato Alfonso Iuliano. E la destra è tornata all’attacco: "A Roma vige una legge diversa da quella italiana?" è la domanda retorica rivolta da Daniela Santanché al ministro Angelino Alfano. Mentre l’assessore capitolino alla Trasparenza, Alfonso Sabella, annuncia: "Riporteremo la legalità". Quello di oggi è l’anticipo di una settimana impegnativa. Giovedì Alfano riferirà al governo sui provvedimenti da prendere in base alla relazione di Franco Gabrielli sulle infiltrazioni mafiose. Il caso "Mafia Capitale" insomma. Roma si salverà ma probabilmente sarà commissariato il litorale di Ostia. Sempre secondo le indiscrezioni Alfano proporrà di mettere l’amministrazione di Ignazio Marino sotto tutela del prefetto con controlli serrati sulle gare d’appalto e la revoca di tutte quelle assegnazioni fatte senza un regolare bando. Una cautela dettata anche dal calendario: l’8 dicembre si aprirà il Giubileo. Giustizia: Casamonica, aggrediti e spintonati cameramen della Rai Corriere della Sera, 24 agosto 2015 Una coppia appartenente alla famiglia Spinelli ha reagito alle riprese fatte alle abitazioni dove vive il clan. Sabato aggredito un altro giornalista che faceva domande all’eliporto di Terzigno sull’elicottero usato per il funerale di Vittorio Casamonica. Una troupe televisiva del programma Rai Agorà è stata aggredita a Roma mentre svolgeva delle riprese in via del Quadraro nel quartiere Appio davanti alle abitazioni delle famiglie Casamonica e Spinelli. I due operatori televisivi sono stati aggrediti da una coppia di coniugi di 30 anni appartenente alla famiglia Spinelli. Uno dei cameramen è stato ferito mentre il secondo è stato spintonato e la coppia è riuscita a sottrargli il telefonino con il quale stavano facendo alcune riprese alle abitazioni. Gli aggressori, hanno estratto dal cellulare la scheda di memoria. Sul posto sono giunte le volanti della polizia di Stato e il telefono è poi stato restituito alla vittima. I due coniugi trentenni sono stati arrestati dagli agenti del commissariato Appio. Solidarietà ai due cameramen aggrediti è arrivata dall’assessore alla Mobilità del Comune di Roma Stefano Esposito: "Sono vicino alla troupe di Agorà aggredita mentre esercitava il diritto di cronaca, un diritto in questo Paese sancito dalla Costituzione. Ma questo fatto conferma che i Casamonica e i criminali di stampo mafioso a loro associati si ritengono padroni del territorio. Per questo continuo a dire che vanno messi nel centro del mirino della legge. Ognuno faccia la propria parte, il Comune e le forze dell’ordine". Anche il vicesindaco Marco Causi ha commentato l’episodio e auspica che "le persone colpevoli dell’intollerabile azione di rapina e violenza vengano adeguatamente punite, come previsto in uno Stato di diritto". L’aggressione ai due cameramen romani arriva dopo un altro episodio di violenza accaduto sabato ad un giornalista di Fanpage.it, Alessio Viscardi, che è stato aggredito e minacciato di morte a Terzigno dove stava facendo un servizio dall’eliporto, in provincia di Napoli, dal quale è partito l’elicottero utilizzato per il funerale di Vittorio Casamonica. Dopo aver ripreso la superficie dell’eliporto, da cui era partito l’elicottero monomotore R-22, Viscardi stava cercando i titolari della struttura per chiedere come mai i Casamonica si fossero rivolti proprio ad un’elipista distante 200 km da Roma e perché il pilota - a cui l’Enac ha poi sospeso la licenza - abbia deviato dal piano di volo stabilito sorvolando una no-fly-zone vietata ai velivoli monomotore. Ma mentre era lì, sono arrivate quattro persone in auto e lo hanno aggredito. Nel corso della colluttazione registrata sono volate minacce pesanti: "Io ti uccido proprio, devi posare la telecamera, io ti atterro". Il gesto di violenza nei confronti di Viscardi, è stato duramente condannato dal sindacato dei giornalisti campani Sugc: "È inaccettabile che un giornalista, nell’esercizio della sua attività, venga aggredito, minacciato di morte e indotto al silenzio". Giustizia: caso Yara. Consulente Bossetti: sim telefono prova che corpo fu spostato Adnkronos, 24 agosto 2015 La sim telefonica del cellulare di Yara Gambirasio svela che il suo corpo fu trasportato sul campo incolto di Chignolo d’Isola solo poco prima del ritrovamento, avvenuto il 26 febbraio 2011. È quanto sostiene Ezio Denti, consulente della difesa di Massimo Bossetti accusato dell’omicidio della 13enne bergamasca. Un dettaglio che combacia - a dire del pool difensivo dell’imputato - con altri già emersi nel corso dell’indagine e che "fa ulteriormente vacillare" un impianto accusatorio in cui è la prova scientifica del Dna l’elemento fondante. "È sufficiente fare una prova empirica - dice all’Adnkronos il criminologo investigativo - per capire che una sim telefonica lasciata all’aperto non avrebbe l’aspetto di quella trovata, avvolta in un guanto umido, nella tasca destra del giubbotto di Yara. La parte in cui esistono i contatti in rame non ha nessuna patina, sembra ‘immacolatà e questo non si concilia con un corpo rimasto per tre mesi alle intemperie, neve compresa". Non solo: la sim telefonica "non ha conservato nessuna traccia della vittima, né di chi altro potrebbe averla tolta". Il ragionamento di Denti è semplice: "se si sostiene che la sim è stata protetta dal guanto allora bisogna spiegare perché non ci sono tracce di Yara. Il gesto volontario di toglierla dovrebbe portare a trovare una sua impronta, oppure di chi l’ha fatto al posto suo, invece chi ha maneggiato la sim è come se avesse ripulito tutto". Il consulente della difesa ha visto solo attraverso delle fotografie gli elementi trovati accanto a Yara e per questo chiede - "tramite un’istanza che sarà presentata dai legali di Bossetti" - di poter accedere agli stessi, "in modo da eliminare ogni dubbio", anche sull’Ipod che la 13enne aveva con sé. "Da un’attenta analisi magari si potrebbe capire se la vittima sia stata sorpresa mentre ascoltava la musica e se qualcuno abbia quindi tentato di strappargli via gli auricolari o l’Ipod. Nulla emerge su questo dall’inchiesta". Ipotesi, dettagli, che non possono essere lasciati al caso e che vanno analizzati nell’insieme. "Lo stato in cui è la sim - spiega Denti - mi convince che Yara sia stata spostata sul campo di Chignolo d’Isola solo poco prima del suo ritrovamento. A pochi giorni dalla scomparsa un elicottero sorvolò quell’area e non vide nulla, le ricerche non hanno trascurato la zona, la posizione della vittima è di chi viene trascinata da due persone, lo stato di conservazione non combacia con un corpo abbandonato per tre mesi". E se la 13enne di Brembate di Sopra non è morta lì, "qualcuno deve spiegare dove Bossetti - in carcere dal 16 giugno 2014 - ha nascosto il corpo". Un altro tassello del processo che riprenderà l’11 settembre prossimo. "Possiamo dimostrare che il furgone ripreso dalle telecamere non è quello di Bossetti, siamo sicuri che nulla emergerà contro di lui dall’analisi delle celle telefoniche o dalle testimonianze. Niente lega Bossetti alla vittima e - conclude Denti - sulla traccia mista di Dna continueremo a dare battaglia". Messa alla prova a maglie strette di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2015 Corte di Cassazione - sentenza 14112/2015. Tra i più discussi profili applicativi della messa alla prova (articolo 464-bis del Codice di procedura penale e 168-bis del Codice penale) c’è la possibilità di una sua applicazione "parziale", limitata cioè ad alcune imputazioni. La fattispecie, non espressamente disciplinata dalla legge, può ricorrere nella pratica in due ipotesi: • quella del soggetto nei cui confronti sono mosse plurime contestazioni, delle quali solo alcune relative a fatti-reato compresi nell’ambito operativo dell’articolo 168-bis del Codice penale; • quella dell’imputato di reati tutti rientranti nella previsione dell’istituto di probation che, tuttavia, formuli istanza di messa alla prova soltanto per alcuni di essi. Una prima giurisprudenza di merito si era indirizzata in senso favorevole all’ammissibilità della messa alla prova parziale. Tale orientamento è stato, tuttavia, recentemente sconfessato da un arresto di legittimità, che si è invece espresso in senso negativo (sentenza 14112/2015 ). La pronuncia della Suprema corte concerne il caso di due imputati ammessi dal Gup al rito abbreviato ma non alla messa alla prova, che pure avevano ritualmente chiesto al giudice ma che da quest’ultimo non aveva applicato (pur ritenendo ammissibile - in conformità al prevalente indirizzo della giurisprudenza di merito - l’istanza di messa alla prova parziale) ravvisando, nel caso concreto un contrasto con l’articolo 18, comma 1, prima parte del Codice di procedura penale, che preclude la separazione dei processi qualora la riunione dei medesimi sia valutata dal giudice assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti. Nel caso di specie, l’accertamento del reato associativo contestato si fondava, infatti, su una serie di fatti autonomamente integranti reato, che non consentivano una valutazione separata. La Corte di vertice ha confermato, anzitutto, l’esigenza della valutazione preliminare di compatibilità dell’istanza di messa alla prova parziale con le esigenze di cui all’articolo 18 del Codice, ma ha anche negato in radice l’ammissibilità di un’applicazione parziale del beneficio alternativo al processo. Le argomentazioni utilizzate dalla Cassazione hanno una particolare pregnanza, richiamandosi direttamente al principio della finalizzazione rieducativa della pena sancito dall’articolo 27, comma 3 della Costituzione. Precisamente, la Corte rileva che l’ipotesi in cui a un soggetto siano contestate plurime imputazioni, appare "appare stridente con la struttura del sistema e (...) con gli stessi presupposti dell’istituto che possa avvenire una "parziale" risocializzazione del soggetto interessato", data la "visione unitaria e complessiva della prospettiva di risocializzazione del soggetto che potrà realizzarsi attraverso la messa alla prova previa sospensione dell’intero "procedimento" ma solo quando ciò sia possibile in relazione a tutti i reati in contestazione". Corollario della pronuncia è la conferma del potere-dovere del giudice di valutazione discrezionale dell’istanza formulata dall’interessato sotto il duplice profilo delle esigenze processuali e della "meritevolezza" dell’imputato con riferimento alle possibilità effettive di recupero sociale del medesimo, il quale non è - pertanto - titolare di un diritto assoluto di accesso alla misura. La Cassazione sembra implicitamente chiudere la porta alla possibilità di concessione parziale della messa alla prova anche nel caso di reati tutti non ostativi, mentre pare lasciare spazio alla possibilità di messa alla prova "cumulativa" del beneficio quando si tratti di fatti-reato tutti ricompresi nell’elencazione dell’articolo 168-bis del Codice penale. La decisione suscita, peraltro, dubbi di compatibilità costituzionale, nella parte in cui - in assenza di specifici divieti di legge - introduce un’ipotesi di preclusione assoluta all’accesso al beneficio, laddove appare invece coerente con la ratio dell’istituto e con la Costituzione riservare al giudice di merito la possibilità di valutare in concreto, anche nelle ipotesi di accesso parziale al beneficio, le chance di risocializzazione del soggetto, in base ai parametri dell’articolo 133 del Codice penale. Tributario: no al raddoppio dei termini con denuncia dopo il quarto anno di Rosanna Acierno Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2015 Ctp Milano 5389/40/2015. È illegittimo l’utilizzo da parte del fisco del raddoppio dei termini laddove la notizia di reato sia stata inoltrata all’autorità giudiziaria tardivamente, cioè oltre il 31 dicembre del quarto anno successivo in cui è stata presentata la dichiarazione dei redditi. Inoltre, non può ritenersi fondata la presunzione di inesistenza delle operazioni se gli accertatori si limitano solo a contestare la genericità della descrizione nelle fatture dei servizi resi. Infine, non è corretto il comportamento dell’ufficio che, a fronte di un presunto utilizzo di fatture oggettivamente inesistenti, si limiti a contestare solo l’Iva, e non anche l’Ires e l’Irap. Sono queste le principali conclusioni cui è giunta la Ctp di Milano con la sentenza 5389/40/2015 (presidente Fugaggi, relatore Chiametti), allineandosi alla disciplina a regime prevista dal Dlgs 128/2015. La pronuncia trae origine da un avviso di accertamento e un atto di contestazione sanzioni relativi all’anno di imposta 2007, emessi nei confronti di una società a responsabilità limitata, con cui venivano rispettivamente contestate maggiore Iva e sanzioni per la registrazione di fatture afferenti operazioni oggettivamente inesistenti. In seguito al diniego da parte dell’ufficio dell’istanza di reclamo-mediazione con cui si chiedeva l’annullamento dell’atto impositivo, la società adiva la Ctp di Milano per chiedere il riconoscimento delle proprie ragioni. Secondo la tesi del contribuente, infatti, l’accertamento era stato emesso per un anno di imposta (2007) già decaduto, ma riaperto strumentalmente solo a seguito della denuncia della presunta notitia criminis all’autorità giudiziaria inoltrata nel 2014. L’ufficio, dal canto suo, resisteva, producendo la copia fotostatica della trasmissione di notizia di reato alla procura della Repubblica e affermando che il raddoppio dei termini opera automaticamente in tutti i casi di obbligo di denuncia penale all’autorità giudiziaria per i reati previsti dal Dlgs 74/2000. Accogliendo il ricorso della società, i giudici lombardi hanno innanzitutto precisato che non spetta il raddoppio dei termini nel caso in cui l’atto di accertamento sia stato emesso a termini già scaduti. È necessario, infatti, che la denuncia venga inoltrata alla Procura entro il 31 dicembre del quarto anno successivo in cui è stata presentata la dichiarazione dei redditi. Nel caso di specie, dunque, la decadenza del potere di accertamento è avvenuta il 31 dicembre 2012, perché i fatti contestati riguardavano il periodo di imposta 2007. Inoltre, secondo la Ctp, a fronte di un’imprecisata contestazione dell’ufficio circa la genericità della descrizione delle operazioni, la società ricorrente ha prodotto idonea documentazione da cui si evince inequivocabilmente che l’operazione è realmente avvenuta, trattandosi di normali forniture di servizi di consulenza tecnico-commerciale e di posa di un impianto di areazione forzata regolarmente fatturati, pagati e registrati in contabilità. Infine, il collegio giudicante ha precisato che l’operato dell’ufficio non può, in ogni caso, essere considerato corretto poiché, a fronte di presunte fatture oggettivamente inesistenti, la contestazione ha riguardato soltanto l’Iva e non anche le imposte dirette. Lettere: la storia minima di Antonio, il grande scandalo delle istituzioni di Francesca de Carolis Ristretti Orizzonti, 24 agosto 2015 Antonio, appena 19 anni, è stato mandato in un Ospedale psichiatrico giudiziario da una sentenza che lo ributta in un incubo iniziato per lui quand’era bambino. Ricordate la storia di "Stefano"? Ne abbiamo parlato due mesi fa. L’avevamo chiamato così, per tutelarne l’identità. Ma oggi la sua vicenda è approdata in Senato, dove la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, ha ascoltato Peppe dell’Acqua, l’ex direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste che questa storia dolente ha seguito e continua a seguire, e che si ostina a non voler abbandonare quel ragazzo al nulla a cui una sentenza lo vuole condannato. Pronunciarne il nome ora è forse già un po’ aiutarlo a uscire da quel nulla: Antonio Mottola. Antonio, dunque. Appena diciannovenne e una via crucis iniziata che era bambino, fra psicofarmaci, letti di contenzione, violenze delle istituzioni e delle psichiatrie che si fa fatica a raccontare. Un percorso di recupero finalmente avviato, spezzato dopo che in seguito a una reazione agitata nata dalla paura, un’ordinanza di misura di sicurezza provvisoria del Tribunale di Vicenza in meno di un mese l’aveva spedito a Castiglione delle Stiviere. E fra cartelle cliniche, relazioni, anamnesi, infine la sentenza di condanna a quattro anni di misura di sicurezza lo ha chiuso in un ospedale psichiatrico giudiziario. Oggi Antonio è nell’Opg di Reggio Emilia, dove non c’è contenzione, ma è isolato, chiuso in una stanza, perché non comprende (e come potrebbe essere diversamente?) perché è lì. La sua condizione peggiora. Qualche giorno fa ha avuto la visita dei genitori. Ha retto dieci minuti. Poi non li ha più accettati, ha reagito in maniera sconnessa. E il giorno dopo un giornale locale ha portato la "notizia" di un internato "violento" che ha fatto riproporre dai sindacati reintrodurre la contenzione che lì era stata da qualche tempo abolita. Una storia terribile, forse uguale a troppe altre che non hanno voce. Ritorna oggi che ancora afferra allo stomaco lo sguardo di Andrea Soldi, che "è stato un po’ soffocato" perché ha resistito a chi voleva portalo via per un trattamento sanitario obbligatorio, mentre ancora ci si chiede come possibile morire com’è morto Mauro Guerra, ventinove anni, ucciso sul finire di luglio mentre fuggiva, scalzo, dopo aver aggredito un carabiniere rifiutando, anche lui, il trattamento sanitario obbligatorio. Tso vissuti, e attuati, sembra, come mandati di cattura... Antonio, Andrea, Mauro... e gli altri che non sappiamo. Ad ascoltarla ora nell’audizione di Dell’Acqua, la storia di Antonio, che ancora aspetta di capire perché lo si vuole dannato…, diventa un percorso attraverso le contraddizioni di un processo di riforma mai completato. Una storia che può sembrare minima ma che, come sottolinea Dell’Acqua "squarcia un campo, quello delle istituzioni totali, davvero difficile e pure entusiasmante da attraversare". Una storia forse minima (e quanto minima è mai la vita di un uomo?) ma che racconta il tutto e mette in luce nodi enormi, questioni scandalose. Sullo sfondo la questione degli Opg e, soprattutto, la questione di norme che "persistono e sopravvivono alla legge 180, la rendono complicata e a volte anche alla mercé di interpretazioni abbastanza singolari". La storia "minima" di Antonio parla di trattamenti con neurolettici e contenzione nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (di Vicenza da quando aveva 12 anni. "Non ho potuto contare i mesi, i giorni della contenzione- dice dell’Acqua- forse un anno". Pensate, un anno da quando era poco più che bambino… Questione scandalosa quella della contenzione. Castiglione delle Stiviere, che la regione Lombardia non ha intenzione di chiudere, ad esempio, rimane luogo dove vi si ricorre "preventivamente, successivamente, durante. Non c’è luogo dove sia così facile essere contenuti" testimonia Dell’Acqua. Ma se Antonio, caso "troppo difficile da gestire lì", viene accolto a Reggio Emilia dove non c’è più contenzione, in Italia sono pochissimi i luoghi dove non vi si ricorre. La questione scandalosa è che secondo una verifica delle contenzioni fatta dal ministero della sanità, sui circa 300 servizi di diagnosi e cura solo nel 5 per cento di questi non si usa la contenzione. Una quindicina, pensate. Stiamo parlando di contenzione meccanica. Inchiodati a un letto, per ore e ore, giorni e giorni, legati mani e piedi. Provate a immaginare? E come puntualizza nel corso dell’audizione Luigi Manconi, che della commissione del senato è presidente, uno studio scientifico stima come il ricorso alla contenzione meccanica riguardi una percentuale tra il trenta e il quaranta per cento, non solo delle strutture psichiatriche degli ospedali, ma anche delle residenze per gli anziani… A tratti ne leggiamo e ce ne scandalizziamo. Ma questo dato dà la misura del buco nero nel quale affonda la vita delle persone più vulnerabili. La grande vergogna è che si tratta di una pratica senza statuto giuridico. Cioè nessuna norma la prevede né la vieta. C’è solo una forma di regolamentazione attraverso linee guida regionali, null’altro. Questione scandalosa, nella quale si affacciano tante altre storie minime. Come quella di Franco Mastrogiovanni, insegnante, morto nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania dopo 87 ore di contenzione, anzi 82, ricorda Manconi, le ultime cinque hanno contenuto il suo cadavere… Come quella di Giuseppe Casu, un venditore ambulante, morto anche lui, a Cagliari, su un letto di contenzione… Per la cronaca, se per la morte di Mastrogiovanni i sanitari sono stati condannati per sequestro di persona ( il trattamento è stato una specie di tortura, l’uomo è stato lasciato per tutto quel tempo senza acqua, senza nutrimento…) a Cagliari la struttura sanitaria è stata assolta, ma il lungo processo ha lasciato molti dubbi. Storie minime… Ma la questione scandalosa è che ancora c’è chi sostiene che la contenzione possa avere valenza terapeutica. Eppure, si ricorda, il Comitato Nazionale di Bioetica nell’aprile scorso ha licenziato un documento dove si precisano in maniera molto chiara sia le condizioni attuali sia la necessità di porvi mano. La conferenza Stato- Regioni ha licenziato un documento adeguato per andare verso una regolamentazione, che parla fra l’altro di un tempo non superiore a quello definito per lo stato di necessità, 5-7 minuti. Nelle linee guida di alcune regioni si accolgono le linee guida della conferenza, ma rimangono parole… linee guida del nulla… mentre ci sono regioni come la Toscana, Friuli Venezia Giulia che hanno deliberato l’abolizione del ricorso alla contenzione. Eppure, si chiede e chiede Dell’Acqua, se a Trieste, a Udine, a Pistoia, a San Severo di Foggia non c’è contenzione, perché negli altri posti si ragiona diversamente? Ricordando che la contenzione è anti-terapeutica, produce negli operatori senso di frustrazione enorme e disaffezione, mentre chi la subisce fa fatica a parlarne. "È come la questione del ricordo nei campi di concentramento... la condizione di abiezione e annullamento è tale che si ha vergogna di parlarne...". Storie minime, che compongono una questione tremenda… La storia minima di Antonio racconta che dopo l’episodio che lo ha portato alla condanna, l’aggressione nei confronti del suo psicologo che ha procurato una frattura al polso, qualcuno chiama il 113 e Antonio, dopo una prima resistenza dice: "arrestatemi se ho fatto del male...". In realtà non viene "normalmente " arrestato. Viene legato alla barella, spedito in diagnosi e cura, ancora legato, riempito di farmaci… Il magistrato chiede parere al responsabile del servizio, chiede se Antonio è pericoloso socialmente, quasi quesiti propri di una perizia psichiatrica e non di una relazione sullo stato di salute. E se pure Antonio non ha mai commesso nessun atto contro cose e persone, fuori dai luoghi della cura, lo psichiatra risponde che è incapace di intendere e di volere e pericoloso socialmente. Scatta per il giudice l’articolo 206, la famigerata misura di sicurezza provvisoria, retaggio arcaico del codice penale... si aprono le porte del manicomio giudiziario. Poi anche il giudice di merito chiede perizia psichiatrica… La vita minima di Antonio annullata nell’altro grande nodo. Quello della incapacità e pericolosità sociale. Ma cos’è una perizia psichiatrica, su cosa si fonda? Purtroppo, sottolinea Dell’Acqua, parliamo di opinioni di uno psichiatra e della committenza di un giudice... Già, pensandoci bene… A riprova viene ricordato il caso Cogne. Ci avevate fatto caso? Erano stati nominati tre gruppi di periti, tre per la difesa, tre per l’accusa, tre dal giudice. Ebbene le tre commissioni hanno concluso ognuna secondo quella che poteva essere l’utilità del committente: capace, incapace, semi-inferma di mente. Per capire di cosa parliamo... La storia minima di Antonio parla di totale incapacità e pericolosità sociale, e anche se il perito nel corso del processo dice che sarebbe auspicabile una condizione non detentiva, il verdetto invia Antonio Mottola per ben quattro anni in un Opg. E come è stato calcolato quel tempo? Adesso capisco anch’io. In base a un’opinione. L’opinione che tutti hanno fallito e che tutti non potranno che fallire. Antonio Mottola, 19 anni, destinato a luoghi di alto contenimento che, a scorrere le vicende della sua vita, mai come per lui sono la causa e non la cura, chiuso alla vita per definizione. Una storia minima che si radica su un altro grande scandalo, quello delle norme del nostro codice, ancora Codice Rocco. che parlano di incapacità e pericolosità sociale. È partita da poco una campagna per la sua abolizione, ma intanto quelle norme sono lì. Come commenta l’avvocato Marco De Martino, del collegio difesa di Antonio: "uno strumentario irrazionale e non democratico come quello delle misure di sicurezza... che nascono con le teorie di Lombroso sulla base delle stesse teorie che distinguevano le razze. Quindi noi oggi abbiamo nelle aule dei tribunali quello stesso strumentario di origine totalitaria che vieta alle persone di circolare liberamente sul presupposto della pericolosità sociale...". In altre parole, al giudice si chiede di prevedere il futuro ( farà ancora del male?) mentre l’incapacità di intendere e di volere fa scomparire la persona come soggetto di diritti, rendendone la vita indegna di essere pronunciata… Perché, ci piaccia o no, questo è. La storia minima di Antonio parla della presentazione, da parte della difesa e degli operatori che lo hanno seguito, di un programma terapeutico riabilitativo individuale, di una piccola comunità disponibile ad accoglierlo, insieme a tutto il centro di salute mentale di Trieste, anche per allontanarlo dalle fallimentari esperienze di Vicenza. Tutto questo viene rigettato dal giudice, con la sola motivazione dei tempi del progetto… Nuovo ricorso, nuovo rigetto… oltre alla riconsiderazione solo delle vecchie cartelle cliniche, la motivazione che mancano adeguati controlli. Bèh questa sì farebbe ridere, se non fosse da piangere. Racconta dell’Acqua: "Il ragazzo ha detto una mattina svegliandosi a una guardia carceraria che aveva avuto un’erezione,... quindi siccome il ragazzo è in fase di maturità sessuale non può andare in un luogo dove ci sono anche ragazzine... il magistrato entra impropriamente nelle decisioni del gruppo terapeutico, che saprà bene come comportarsi, cosa scegliere... quale terapie se un giovane è maturo o non per controllare la sua sessualità" La storia minima di Antonio che, ahi lui ha un’erezione… Il grande nodo ben lo riassume Manconi, parlando di tentazione della razionalità astratta… "tanto più forte perché la follia, per tutti costituisce un fondo di inquietudine, una traccia di angoscia che quasi fatalmente porta all’esigenza di disciplinare, di costringere entro schemi rigidi, formalismo giuridico, palesemente impotente e spiegare il disturbo della sofferenza". La storia minima di Antonio ci dice, ultima cosa, oggi la più importante, che questo ragazzo continua a stare in un Ospedale psichiatrico giudiziario, oggi che non dovrebbero essercene più. Ci dice che sta subendo un enorme arbitrio. Che rischia di non essere più recuperabile mentre il Veneto continua a essere inadempiente nella costruzione di alternative agli Opg. Se fosse stato regolarmente processato per il piccolo reato commesso ( la lesione del polso fratturato dello psicologo che lo curava) non avrebbe avuto nessuna pena. Il nodo è tutto lì. La sottrazione al diritto di essere giudicato secondo le regole di uno stato democratico. Il diritto di essere persona. E oggi, cosa si può fare perché possa tornare in un ambiente di cura "e non di destino"? La risposta è in quello che la legge 81 indica a chiare lettere: un progetto riabilitativo individuale come quello più volte presentato dalla difesa. Ora si spera nella maggiore attenzione e umanità del giudice di sorveglianza. Ma guardando all’Italia tutta, le storie minime di Antonio e degli altri urlano contro il grande scandalo del decadimento dei servizi di salute mentale, mentre c’è un gran fiorire di strutture residenziali. Che piacciono tanto, se assorbono oggi più di tre quarti del bilancio delle aziende sanitarie per la salute mentale. Un esempio per tutti. A Foggia, 600mila abitanti, di 32 milioni di budget 25 vanno per le strutture residenziali che accoglieranno circa mille persone. Sette milioni per tutti gli altri, più di 10.000, che hanno a disposizione strutture fragilissime. Mentre le strutture residenziali, da tempo se ne parla con seria preoccupazione, stanno diventando simili a quello che chi ha combattuto per la chiusura dei manicomi voleva dimenticare. Ma chi svela questa verità? Le storie minime di Antonio, Andrea, Mauro e gli altri che non sappiamo… e ci raccontano che la 180 sembra bella e finita in parecchi posti... Permettete una piccola nota. Rivedendo il video dell’audizione in Commissione per la tutela e la promozione dei diritti umani. Sono tutti molto attenti e compresi della questione i membri della commissione. L’impegno è a muoversi in direzione di inchieste, di una riflessione seria sulle norme per ragionare di una loro modifica… A qualcuno affiorano ricordi… il senatore Mazzoni parla "di quando facevo il liceo e un compagno di classe, fino al quarto anno normale, poi un giorno si è asserragliato in un laboratorio di scienza, è finito in Opg e poi si è suicidato. Una storia di paradossi…e se sui giornali ci sono solo storie di ammalati abbandonati alle famiglie, qui siamo al paradosso contrario: una persona che potrebbe esser curata e che viene lasciata a marcire". Ma ha ragione Peppe Dell’Acqua. La storia non è finita, e non si fermerà mai. "Nessuno ha mai pensato di risolvere una volta e per sempre il problema del conflitto fra la follia e la normalità, tutto questo ci sopravvivrà. Si tratta di vedere di volta in volta quanto siamo in grado di rendere più adeguati i nostri modi di pensare intorno alla follia, di fare democrazia". Già, solo una questione di democrazia. Lettere: il carcere è punitivo, non terapeutico di Tania Careddu altrenotizie.org, 24 agosto 2015 Finalmente diminuiscono. Non sono, certamente, quanti quelli del 1991, in seguito al provvedimento di amnistia - l’ultimo del dopoguerra - ma nemmeno più di sessantotto mila come nel 2010. Sarà stata la paura per la condanna da parte della Corte europea che sul punto era intervenuta nel 2013, sta di fatto che il trend crescente del numero dei detenuti presenti negli istituti penitenziari italiani ha subìto una battuta d’arresto. Dal 2012 le riforme messe in campo e consolidate di recente sono state latrici di una situazione di minore affollamento. Che, invece, i riordini legislativi precedenti non hanno per niente agevolato. La riforma dell’Ordinamento penitenziario, nel 1994, e la preclusione all’accesso alle misure alternative, la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, nel 2003, le leggi sulle droghe e sulla recidiva, nel 2009, hanno fatto lievitare la popolazione detenuta. Anche se va meglio, a oggi, comunque, sono tremila e duecentotrentadue i detenuti oltre capienza massima. Vuoi perché l’area delle misure alternative al carcere, sebbene sia maggiormente applicata, non ha sostituito quella di reclusione, vuoi per la particolare condizione di tanti detenuti stranieri, i quali, nonostante ricevano un provvedimento di espulsione continuano a rimanere in carcere perché non viene eseguito (e la condizione di espulsi non consente loro di accedere ai permessi e agli altri benefici fruibili dai detenuti non extracomunitari). Sono in calo gli stranieri: dopo l’introduzione da parte della Corte di giustizia dell’Aja della disapplicazione del reato di inottemperanza all’obbligo di espulsione del questore, sono calati al 32,6 per cento, quattro punti in meno rispetto al 2010. E però, forse perché l’Ordinamento penitenziario è stato approvato quando la loro presenza non era percentualmente significativa da giustificare un trattamento particolare, si notano ancora situazioni di grande criticità. E non solo per loro. Visitando quaranta istituti penitenziari, gli operatori dell’Associazione Antigone hanno segnalato gravi carenze. In tema di dignità, per esempio. Mancano i beni essenziali: dall’acqua corrente potabile a Tempio Pausania al vitto insufficiente di Frosinone. Al Pagliarelli di Palermo sono obbligati a portare le maniche lunghe fino all’arrivo dell’estate, stabilito secondo l’arbitrio della direzione. Le otto ore fuori dalla cella, previste dal ministero della Giustizia in nome della dignità, non sempre trascorrono in occupazioni dotate di senso: a Isernia le attività sono del tutto convenzionali e poco utili ai fini del reinserimento sociale. O in tema di diritto al lavoro: a parte due realtà d’eccellenza, Massa Carrara e Lodè Mamone in Sardegna, in cui lavorano all’aperto praticamente tutti i centoquaranta detenuti, al Bancale di Sassari lavorano per pochi soldi, poche ore a settimana o per pochi giorni al mese; a Enna e a Brindisi, a lavorare sono meno del 15 per cento. Così, alla resa dei conti, a fine 2014, lavorava in carcere poco più di un quarto dei reclusi. Non va meglio sul fronte del diritto all’istruzione, fattore di emancipazione da scelte di criminalità: a Sassari Bancali non sono presenti convenzioni con istituti di istruzione superiore cosicché quelli interessati sono obbligati a chiedere il trasferimento alla casa circondariale di Alghero. A parte il caso specifico, la politica dei trasferimenti non tiene conto dei bisogni di continuità, evadendo il diritto alla territorialità della pena. Che tutelerebbe anche i legami affettivi. Il cui mantenimento è un diritto, lontanissimo dall’essere garantito per l’assenza di una modifica normativa. Dunque, gli istituti attrezzati con aree colloquio per famiglie sono ancora in minoranza, dando luogo a file chilometriche di parenti. Una carenza che altera i (già complessi) rapporti. Di persone già vulnerabili socialmente e in condizioni psichiche molto precarie. Disagio molto diffuso tra la popolazione carceraria che richiederebbe la presa in carico (latitante) da parte dei Dipartimenti di salute mentale, per non lasciare soli gli operatori penitenziari. Tanto per dirne una, a Tempio Pausania, lo psichiatra è presente in istituto solo per quattro ore a settimana per moltissimi detenuti. E dire che sarebbe necessario, considerato che i suicidi, in tutte le case circondariali della Penisola, sono stati ventiquattro nei primi sei mesi del 2015 su un totale di cinquantasette detenuti morti in carcere. E poi, ritardi nelle visite specialistiche o nei ricoveri ospedalieri, mancato rispetto della privacy o della terzietà del ruolo del medico. Troppi ancora gli ergastolani, e in crescita rispetto al passato, e troppo pochi i permessi premio: in sei mesi, tre soli permessi ogni dieci detenuti. La durezza delle pene non ha nessuna efficacia deterrente. Serve una cura, per i cinquantaduemila e settecentocinquanta detenuti. E non solo per loro. Lettere: il requiem della Capitale di Gian Marco Chiocci Il Tempo, 24 agosto 2015 Romanzo funerale. Quanta ipocrisia nel requiem Capitale, quanti ridicoli distinguo per le esequie di don Vincenzo, quanta rabbia per lo scaricabarile, le promesse, le minacce, le svolte, i proclami, gli annunci roboanti della politica sul fatto che adesso basta, tutto cambierà. Certo, come no. Cambierà. In un Paese normale, senza gattopardi, le più alte autorità sarebbero già state rimosse, gli amministratori locali licenziati col jobs act, vigili, marescialli e funzionari di ps sollevati e mandati a poltrire altrove. In un altro mondo, che non è quello di mezzo, il Pd degli indagati, degli arrestati, dei dimissionari, dei collusi e dei ciechi che non vedevano quel che accadeva loro intorno, salvo vedendoci benissimo quando da Buzzi intascavano mazzette o contanti per gli stipendi del partito, dovrebbe evitare proclami a lunga scadenza (governiamo fino al 2023) solo perché il sindaco è onesto, perché abbiamo fatto piazza pulita, perché l’assessore è un Pm con la pistola, perché - diciamolo - la superiorità morale della sinistra è cassazione dai tempi di Berlinguer. In quest’altro mondo a casa, subito, senza se e senza ma, dovrebbe andarci anche il partito-coalizione dell’opposizione inesistente, che si è seduto allo stesso banchetto delle coop permettendo lo scempio e il saccheggio della città eterna. Nel mondo che verrà, se Roma è mafiosa (come ha accertato la commissione d’accesso) allora va sciolta per mafia indipendentemente da ciò che direbbero di noi all’estero visto che già dicono tutto il male possibile. Sciogliere il paesello di Sacrofano e non il Campidoglio, punire i funzionari periferici per salvare la centralità istituzionale del Palazzo Senatorio, dare la sensazione di interpretare la legge con gli amici anziché di applicarla solo ai nemici: così si alimenta l’antipolitica, il boom dei grillini dè noantri, la voglia di ramazza senza distinzione di ruoli e responsabilità. Nella Roma degli scandali, delle inchieste, del degrado, dell’inefficienza cronica, nessuno paga, nessuna testa rotola se non quella dell’ultimo sfigato, ieri un funzionario dipartito della minoranza Dem oggi l’elicotterista dei petali di rosa paracadutati sulla bara del boss. Adesso scopriamo pure l’affittopoli dei Casamonica, una quarantina di alloggi comunali nella disponibilità del clan dopo gli immobili che a centinaia, gratis o a prezzi irrisori, sono finiti agli amici degli amici. Almeno ora il sindaco Marino renda pubblici i nomi di tutti gli inquilini. Altrimenti, continuiamo così, facciamoci del male. Liguria: nominare il Garante dei detenuti, unico baluardo nell’inferno carcerario di Alessandra Ballerini La Repubblica, 24 agosto 2015 I detenuti ristretti nelle carceri italiane, secondo il pre-rapporto dell’Associazione Antigone, al 30 giugno 2015 erano 52.754. Meno, sicuramente meno degli oltre 68.000 mila del 2010, quando il sovraffollamento era tale che parlare di tortura con riferimento alla condizione dei detenuti non appariva affatto un’esagerazione. Meno, dunque, i detenuti, ma sempre troppi anche perché i posti regolamentari sono decisamente inferiori al numero effettivo di ristretti. E, sempre troppi, a prescindere, è quello che si pensa dopo aver visitato qualsiasi carcere o dopo aver parlato con qualcuno che il carcere lo abita o lo ha abitato e certamente è quello che si impara dopo aver letto l’illuminante saggio: "Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini: abolire il carcere", scritto a più mani da ottime penne (Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federico Resta) con la postfazione di Gustavo Zagrebelsky il quale ci ricorda che "la Costituzione non identifica la pena con il carcere" e che il carcere non è soltanto privazione di libertà ma anche di "prospettive" e dunque di dignità. E lo Stato non può mai permettersi di privare i propri abitanti della dignità se non mortificando e compromettendo i diritti e la sicurezza di tutti i cittadini, liberi o ristretti. A Marassi il problema del sovraffollamento è endemico. E non è evidentemente l’unico problema, almeno a leggere le cronache recenti: un detenuto vittima di una violenta aggressione da parte di una guardia penitenziaria, un maldestro tentativo di incendio e, da ultimo, il furto dei beni dei detenuti custoditi presso l’ufficio matricola. E se questo succede in poche settimane, nonostante l’ottima direzione del dott. Mazzeo, figuriamoci cosa accade giornalmente negli altri luoghi di privazione della libertà. Un altro libro, terribile e necessario, sempre di Manconi e Calderone, ci ricorda le tragiche storie di persone che entrano nelle carceri, nelle caserme e nei reparti psichiatrici e ne escono morte. Nelle nostre carceri, solo nei primi sei mesi di quest’anno, sono morte 57 persone, spesso giovani. Morte nel luogo che dovrebbe essere il più sicuro al mondo perché gestito dallo Stato, che dovrebbe essere uno Stato di diritto. E cosi troppo spesso di Stato si muore o si resta oltraggiati e feriti. Il G8 di Genova dovrebbe averlo insegnato bene. Anche per questo, per vigilare sull’integrità dei ristretti e della nostra democrazia, è tanto più preziosa la figura del garante dei diritti dei detenuti con funzioni di tutela delle persone private o limitate della libertà personale. Nella nostra regione e nelle nostra città questa tutela ancora manca. Ma forse si può iniziare a sperare. Come mi riferisce il Consigliere Gianni Pastorino di Rete a Sinistra, in questi giorni in Regione è stata ratificata l’attività svolta per l’anno 2014 dal Difensore Civico della Regione Liguria dott. Lalla che in Liguria cumula anche la carica di Garante per l’Infanzia e che per tali ragioni metteva in guardia dalla pericolosa tendenza, giustificata da risparmi di spesa, di unificare nella figura del Difensore Civico funzioni che spetterebbero ad altri istituti. Purtroppo ad oggi sono "rimaste nel cassetto" da circa 8 anni diverse proposte di legge (e tra queste quella a firma di Matteo Rossi che con me tante volte ha voluto visitare le carceri liguri) per l’istituzione del Garante per i Detenuti in Liguria che resta così una delle poche regioni in Italia a non vantare questa figura di tutela. Durante la campagna elettorale, Pastorino ha pubblicamente promesso che si sarebbe battuto per l’istituzione del garante per i diritti dei detenuti in Liguria e oggi, nel raccontarmi di questi spiragli apertisi in aula, mi ribadisce di "credere fermamente che questa arretratezza culturale e politica debba in questa legislatura essere superata; a tal fine ho già contattato altre forze politiche per trovare consenso sui testi di disegno legge che giacciono in Regione e dare finalmente alla popolazione carceraria della Liguria una figura di riferimento per contrastare le tante storture del sistema di detenzione del nostro Paese". Benevento: ultranovantenne detenuto, ora è in ospedale senza scorta della penitenziaria di Enzo Spiezia ottopagine.it, 24 agosto 2015 Ancora novità per il caso dell’ultranovantenne di San Leucio del Sannio arrestato a giugno. Da oggi non è più sotto scorta della polizia penitenziaria. Del resto, a novant’anni suonati e con una frattura del femore, è davvero complicato che possa decidere qualche colpo di testa. È ricoverato in una stanza del reparto di ortopedia del Rummo, alla quale è approdato anche grazie al ‘pressing’ del suo difensore, l’avvocato Eugenio Capossela, ed è in attesa dell’intervento chirurgico, che potrebbe essere eseguito lunedì. Sono le ultimissime novità che riguardano l’anziano di San Leucio del Sannio arrestato lo scorso 23 giugno dalla squadra mobile dopo che una condanna a suo carico è diventata definitiva. In carcere è rimasto fino ad un paio di giorni fa, quando è rimasto vittima di una caduta dalla sedia a rotelle che gli serve a superare le difficoltà di deambulazione. Da qui - come anticipato ieri da Ottopagine che sta seguendo il caso dall’inizio - il trasporto in ospedale. Prima di allora il pensionato era rimasto nell’infermeria della casa circondariale di contrada Capodimonte, dove aveva saputo del no del magistrato di sorveglianza di Avellino, pronunciato sulla base di una relazione sanitaria, alla richiesta del suo legale di differire l’esecuzione della pena con un provvedimento temporaneo, visto che il Tribunale di sorveglianza di Napoli si occuperà della vicenda a dicembre. Montefredane (Av): al via il progetto con Bellizzi per detenuti in lavori di pubblica utilità irpinia24.it, 24 agosto 2015 Si concretizza il progetto, messo in campo dal Comune di Montefredane in collaborazione con la Casa Circondariale di Bellizzi Irpino, finalizzato all’impiego di detenuti in lavori di pubblica utilità, con particolare riferimento alla manutenzione, pulizia e decoro urbano dei siti di pubblico interesse. I due lavoratori-detenuti, soggetti interessati del progetto, avvieranno la loro collaborazione a Montefredane martedì, 25 agosto. Saranno impegnati per la manutenzione del Castello Caracciolo e del cimitero. Presteranno il loro lavoro, volontariamente e gratuitamente, durante la giornata e rientreranno in carcere a fine giornata. Il progetto sperimentale, realizzato con la collaborazione tra gli enti e le amministrazioni operanti nel territorio, è utile a realizzare percorsi di reinserimento sociale dei condannati e a ridurre e azzerare fenomeni di conflitto sociale. L’esperimento, inoltre, consente ai lavoratori in regime di detenzione l’acquisizione di conoscenze e competenze professionali ritenute necessarie nella fase post-detentiva e alla collettività di usufruire delle risorse di una popolazione detentiva ancora attiva e produttiva. Lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità da parte dei soggetti interessati al provvedimento è gratuito e non costituisce in alcun modo rapporto di lavoro con l’Amministrazione Comunale che avrà il solo onere dell’assicurazione degli stessi contro gli infortuni e le malattie professionali, nonché la copertura della responsabilità civile verso terzi anche mediante polizze collettive. Benevento: carcere di Capodimonte, aggredito un agente colpito al volto da un detenuto ottopagine.it, 24 agosto 2015 Un agente della Polizia Penitenziaria è stato aggredito ieri nella Casa circondariale di Capodimonte. A darne notizia è il sindacato Uspp. Secondo l rappresentanti sindacali un detenuto ha richiamato con una scusa l’agente e poi l’ha afferrato per la divisa e scaraventato verso le inferriate della cella. Il poliziotto, stordito, è stato poi ripetutamente colpito al volto. Prontamente soccorso da altro Personale, l’Agente è stato dapprima condotto presso l’infermeria della stessa Casa Circondariale per le prime cure e poi successivamente condotto all’Ospedale Rummo dove i medici hanno diagnosticato una prognosi di 6 giorni. Il sindacato inoltre racconta che in seguito alcuni detenuti avrebbero inscenato una sorta di protesta, rifiutandosi di entrare in cella. In una nota la preoccupazione del sindacato: "Nel più assordante silenzio dei Superiori Uffici Regionali e Dipartimentali- dichiarano i Rappresentanti Sindacali nella nota- Il Personale della Polizia Penitenziaria di Benevento, continua per banali questioni, ad essere fatto oggetto di violenze premeditate da parte dei detenuti. Una triste conta che sembra oramai aver assunto i connotati di una normale routine puntualmente derubricata con leggerezza e superficialità a "casi sporadici ed isolati". Il senso d’impunità già denunciato in passato dalle Organizzazioni Sindacali di categoria e costato anche una denuncia per 20 di loro, poi archiviata dalla Magistratura, è certamente foriero di simili azioni. Molti di questi episodi di pura violenza, non sono dettati da condizioni di vita dura all’interno dell’Istituto di pena Sannita, ma da una precisa volontà di farsi beffa delle regole umiliando i tutori dell’ordine. È oramai evidente come, l’aumento esponenziale di concessioni e attività ludico/trattamentali attuato in questi ultimi anni, non abbia condotto ai risultati sperati, favorendo per contro una crescente ed arrogante tracotanza da parte dei ristretti, come a dire: a volte certe "cure" sono peggiori della malattia stessa. Occorre dunque riportare equilibrio tra attività ludico-trattamentali e sicurezza. Cassino (Fr): detenuto lo colpisce con uno sgabello, agente ricoverato in ospedale corrierequotidiano.it, 24 agosto 2015 Uno sgabello lanciato da un detenuto contro un assistente di polizia penitenziaria del carcere di Cassino, ha costretto l’agente, colpito in pieno volto, a un ricovero ospedaliero. Dell’episodio, avvenuto sabato, dà notizia oggi la Fns Cisl del Lazio. Attualmente sono recluse a Cassino 225 persone, 124 italiani e 104 stranieri. La Fns Cisl lamenta che "i poliziotti penitenziari continuano ad essere picchiati e feriti nell’indifferenza delle varie autorità dell’amministrazione penitenziaria le quali hanno solo come scopo quello di parlare di calo di detenuti nelle carceri, legittimo, ma è auspicabile anche a prendere provvedimenti affinché tale aggressioni possano essere evitate e pensare anche al personale di polizia penitenziaria". Verona: prova a introdurre eroina e una scheda Sim in carcere, ma viene arrestata veronatoday.it, 24 agosto 2015 Durante lo svolgimento delle normali visite ai detenuti, una donna ha cercato di consegnare della droga e una Sim card al suo compagno in carcere per detenzione di droga e spaccio. Una donna ha cercato durante la giornata di sabato 22 agosto d’introdurre in carcere, durante la consueta visita ai detenuti, una dose di eroina, da far pervenire al compagno in condizioni di arresto. Il tentativo non è del tutto inusuale, anzi è pratica abbastanza diffusa e per questo le guardie carcerarie e gli agenti di polizia sono ben avvertiti in merito. Così la donna è stata scoperta sul fatto dagli agenti della penitenziaria durante la fase del filtraggio, con il personale femminile che l’ha poi perquisita, rinvenendo oltre alla droga anche una scheda Sim. Merce quest’ultima molto ambita dai detenuti, in quanto consentirebbe di poter comunicare all’esterno, ma proprio perciò rigorosamente proibita. La donna è stata prima arrestata e poi rilasciata. Come rivelato anche dall’Arena, il compagno della donna è Slim Mamouti, un ragazzo tunisino di poco più di trent’anni che è carcerato dopo essere stato beccato mentre spacciava droga nei confronti di un connazionale. Quando era stato perquisito, gli agenti avevano rinvenuto ben 27 grammi di eroina in suo possesso. Droghe: fa discutere la posizione del Provveditore Sbriglia a favore della legalizzazione di Francesco Vigato Il Mattino di Padova, 24 agosto 2015 Il "nuovo" Icatt piace anche, ma non a tutti, i sindacati di Polizia. Il progetto della Regione Veneto, che permette ai detenuti del carcere Due Palazzi di intraprendere un percorso terapeutico di disintossicazione dagli stupefacenti in una sezione a custodia attenuata, non riesce a mettere d’accordo Sap, Coisp e Sappe. E non fanno en-plein di consensi nemmeno le dichiarazioni del provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto, Enrico Sbriglia, che ha auspicato la legalizzazione del consumo di droghe, attraverso "un governo della dipendenza per un consumo controllato e vigilato". Parole forti, quelle di Sbriglia, sulle quali, però, il segretario del Coisp Fausto Fanelli è in completo disaccordo: "Non penso che la legalizzazione sia la strada giusta" afferma Fanelli. "Non è detto che ci sia sempre un nesso di causalità tra l’uso di sostanze stupefacenti e i reati cosiddetti predatori. Il sistema giudiziario italiano è fin troppo garantista attraverso gli sconti di pena, le condizionali o la stessa "non punibilità per particolare tenuità". Non è con ulteriore buonismo che si risolvono i problemi". Ben venga, invece, il progetto Icatt: "L’importante, però, è che la volontarietà del percorso terapeutico sia reale e non strumentale. Se un detenuto vuol fare il furbo sottoponendosi al trattamento per ottenere uno sconto di pena e tale espediente viene smascherato, deve restare in carcere fino all’ultimo giorno". Il segretario del Sap Mirco Pesavento si allinea al collega, promuovendo l’Icatt ma bocciando le dichiarazioni di Sbriglia. "Le forze dell’ordine devono prevenire e reprimere" aggiunge Pesavento. "Il legislatore, invece, dovrebbe intraprendere un percorso ragionato che tuteli prima di tutto la collettività". Chi, invece, sostiene che la legalizzazione limiterebbe il numero di reati legati alla droga è Giovanni Vona, Segretario regionale del Sindacato di Polizia Penitenziaria: "Oramai anche l’Italia, alla luce dell’incostituzionalità della famosa legge Fini-Giovanardi e degli interventi in materia della Corte di Cassazione, dovrebbe intraprendere un percorso sulla scia degli altri Stati europei, in cui la legalizzazione ha permesso di controllare numerosi fenomeni legati al consumo e allo spaccio di sostanze. Non mi convince, invece, il progetto Icatt: non è strutturato e mi sembra l’ennesimo esperimento senza seguito". Promuove il percorso terapeutico interno e, manco a dirlo, la legalizzazione, l’avvocata ed ex consigliere comunale Aurora D’Agostino: "La mia posizione è nota da anni e vedo che, finalmente, pure le istituzioni si stanno accorgendo che il proibizionismo esasperato non porta lontano" commenta. "Ben vengano progetti che aiutano i detenuti a uscire dalla dipendenza, anche se è strano che per questo tipo di iniziative ci siano fondi mentre i Sert a disposizione di tutti sono ospitati da strutture fatiscenti con medici, infermieri e psicologi costretti a lavorare in condizioni ai limiti della dignità". Droghe: il girone infernale… la testimonianza di una tossicodipendente in carcere di Pierluigi Vergineo (Psichiatra, Servizio Tossicodipendenze ASL Benevento) insalutenews.it, 24 agosto 2015 Il sistema penitenziario è al collasso. E quanto più si supera la soglia, tanti più suicidi vengono portati a termine. Quotidianamente le cronache riportano arresti per droga. Voglio subito precisare che non è pensabile trattare dentro una casa circondariale ragazzi tossicodipendenti (rappresentano il 33% dei detenuti e, insieme al 35% di extracomunitari, è la fascia maggiormente rappresentata). Si tratta di giovani, vittime prima di se stessi e poi delle istituzioni. Prima della Legge 180, negli ospedali psichiatrici erano ristretti moltissimi alcolisti e tossicodipendenti. Per loro la reclusione in O.P. era una salvezza in quanto impediva di trasformarsi in barboni, vagabondi, di svolgere una esistenza degradata di sporcizia, di abbandono e di violenza. Lo Stato si occupava di loro per salvaguardare l’ordine e il pubblico decoro. Ovviamente, anche se questi pazienti erano sottoposti a terapie, non si trattava di una risposta adeguata in quanto il manicomio era una condanna a vita. Oggi la reclusione di giovani tossici mi sembra invece una "condanna a morte senza processo" (il 44 % è in attesa di giudizio). Sovraffollamento delle carceri, con un numero di detenuti sproporzionato rispetto a quello dei poliziotti penitenziari, tantissimi i suicidi in carcere. Il sistema penitenziario è al collasso. E quanto più si supera la soglia, tanti più suicidi vengono portati a termine. Ma le morti non interessano solo i detenuti. Anche i poliziotti, per l’over-stress legato alle difficili condizioni lavorative, si suicidano. A Napoli, nel carcere di Poggioreale, nella sezione "transito" si arriva sino a 16 ristretti per cella con letti a castello a tre piani. Gli agenti suicidi in genere si uccidono con la pistola di ordinanza. Altri invece si impiccano come hanno visto fare all’interno della casa circondariale. Addirittura a Sulmona la direttrice Miserere si è suicidata, mentre in Calabria lo ha fatto il coordinatore regionale degli istituti penitenziari (dott. Quattrone). Dopo tutte questi morti, anche per evitare una condanna della commissione Europea, l’Italia ha deciso di consentire gli arresti domiciliari ai ristretti che devono scontare solo un anno di reclusione. Si tratta di poche migliaia di detenuti. Non si può continuare così. Bisogna fare qualcosa. Bisogna dare la possibilità ai tossicodipendenti di trascorrere la detenzione nelle comunità terapeutiche. La spesa per lo Stato sarebbe di gran lunga inferiore. Un tossico in comunità costa circa 70 euro al giorno, mentre un detenuto oltre 400 euro al giorno. Purtroppo, oggettivamente, l’Istituto di pena si è trasformato in un "girone infernale". Dobbiamo fermare questa macelleria di detenuti e operatori di giustizia. Dobbiamo fare qualcosa per stimolare le coscienze della nostra classe politica al cambiamento. L’unico modo che ho è quello di dare spazio alla testimonianza di chi è stato detenuto. Si tratta di una donna, l’unica sopravvissuta di una famiglia di tossicodipendenti. Vorrei ritornare a una vita normale Sono Elvira, ex tossicodipendente. Frequento il gruppo del dott. Vergineo da alcuni anni. Ho superato diversi mesi di sobrietà e questo mi fa sentire una donna molto diversa dalla cocainomane eroinomane di prima. Sono vedova (mio marito è morto per overdose). Ho due splendide figlie, studiose e serie. Io non le ho cresciute a causa della droga. Mia madre si è interessata di loro. Non ero in grado di dialogare, avendo sempre il cervello in tilt. La mia storia è quella di tutte le donne schiave della droga. Sono sopravvissuta ad una sorella morta tragicamente dopo un volo dal quarto piano. Mio fratello è deceduto per aver ingerito molti grammi di cocaina. Voleva evitare di essere arrestato dalla polizia che lo controllava agli arresti domiciliari. Ho conosciuto il carcere e voglio dirvi che è bruttissimo. Ho sofferto tanto. La mattina sveglia alle sei e trenta. Il rumore della battitura delle sbarre con il "ferro". L’obbligo della pulizia della stanza e della preparazione del letto. Il carrello che arriva alla sette per la colazione e la paura che qualcuna ci ha sputato dentro per sfregio. La mancanza di soldi per la "spesina" che deve andare allo Spaccio del carcere. L’ora d’aria nello stretto cortile sempre buio. La visita medica per avere qualche Tavor. Il pranzo "freddo e scotto". L’ora di socializzazione che dovevo evitare per via di alcune storie di gelosia con altre detenute. La TV che dopo pochi minuti diventava insopportabile. La paura di parlare con le altre detenute per non offendere "qualcuna". Il caldo insopportabile dell’estate. Il sudore che si appiccica addosso e la doccia una volta a settimana. La vergogna di essere ristretta e di non trovare le parole per spiegarla ai tuoi cari. Una lotta continua, giornaliera. Il dolore che non riuscivo ad esprimere e che solo i bicchieri di vino delle amiche allentavano. Adesso sono quasi sobria. I problemi di salute ci sono, ma vorrei tanto ritornare ad una vita normale. Mia figlia deve sposarsi e vorrei esserci al matrimonio. Chiedo perdono a mia madre per il dolore che le ho dato. Ringrazio gli amici del gruppo per il sostegno che mi danno. Scrivere queste righe di verbale mi ha fatto bene. Vi abbraccio tutti con affetto. Immigrazione: l’Europa in cui voglio vivere non è quella dei muri contro i profughi di Jean-Claude Juncker La Repubblica, 24 agosto 2015 Il presidente della Commissione Ue critica il populismo degli Stati: "Questa gente fugge dalla guerra e dalla disperazione". Considero l’Europa una comunità di valori di cui possiamo andar fieri, ma raramente lo siamo. In Europa vantiamo i massimi standard mondiali di accoglienza dei profughi, mai rifiuteremmo asilo a chi necessita della nostra tutela, lo stabiliscono le nostre leggi e gli accordi stipulati. Mi preoccupa però il fatto che l’accoglienza sia sempre meno radicata nei nostri animi. Quando parliamo di migrazioni parliamo di esseri umani, come noi, solo che queste persone non possono vivere come noi perché non hanno avuto la fortuna di essere nati in una delle regioni più ricche e più stabili del mondo. Parliamo di persone costrette a fuggire dalla guerra in Siria, dal terrore dell’Is in Libia, o dalla dittatura in Eritrea. Mi preoccupa vedere che una parte della popolazione le respinge. Campi profughi dati alle fiamme, barconi rimandati indietro, violenze contro i richiedenti asilo o semplicemente l’indifferenza di fronte alla miseria e al bisogno. Non è questa l’Europa. Mi preoccupa quando i politici di estrema destra e di estrema sinistra alimentano un populismo che produce astio soltanto e nessuna soluzione. Discorsi pieni di odio e esternazioni avventate che mettono a rischio una delle nostre maggiori conquiste - la libertà di circolazione nell’area Schengen e il superamento delle frontiere al suo interno. Non è questa l’Europa. C’è però fortunatamente anche l’Europa dei pensionati di Calais che mettono a disposizione i generatori così che i profughi possano ascoltare un po’ di musica e ricaricare i cellulari. L’Europa degli studenti di Sigen che hanno aperto il campus della loro università ai richiedenti asilo. L’Europa del fornaio di Kos che ha distribuito pane alla gente affamata e spossata. Questa è l’Europa in cui voglio vivere. Naturalmente non esiste una risposta unica e tantomeno semplice al problema dei flussi migratori. Come sarebbe poco realistico pensare di aprire semplicemente i confini dell’Europa a tutti i vicini, è altrettanto fuori dalla realtà credere di poter chiudere le frontiere di fronte al bisogno, alla paura e alla miseria. È però chiara una cosa: non esistono soluzioni nazionali efficaci. Nessuno stato membro può regolare le migrazioni efficacemente per suo conto. L’approccio deve essere più europeo e non c’è tempo da perdere. Per questo la Commissione Europea sotto la mia presidenza ha avanzato, già nel maggio scorso, proposte dettagliate per una politica comune nei confronti dei profughi e dei richiedenti asilo. Abbiamo triplicato la nostra presenza nel Mediterraneo per contribuire a salvare vite e a catturare gli scafisti. Sosteniamo gli stati membri inviando nelle regioni più interessate dal fenomeno squadre della Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne) dell’Easo (Ufficio europeo di sostegno per l’asilo) e della Polizia europea. Le nostre squadre aiutano le autorità locali, spesso oberate, a stabilire l’identità dei profughi, a registrarli e prelevarne le impronte digitali, nonché ad accelerare il disbrigo burocratico delle richieste di asilo. Interveniamo contro le reti dei trafficanti stroncando poco a poco la loro spietata attività commerciale. Dimostriamo solidarietà ai nostri vicini, come la Turchia, la Giordania e il Libano, ospitando 20mila profughi da paesi extraeuropei. Collaboriamo con i paesi di provenienza o attraversati dai profughi In questo modo intendiamo aprire vie legali, sicure e controllabili per i migranti. Concludiamo accordi di rimpatrio che agevolano il ritorno al paese d’origine delle persone cui non viene riconosciuto il diritto di restare in Europa. E insistiamo perché sia posto in atto il sistema comune di asilo europeo deliberato recentemente da tutti gli stati membri - a partire dalle condizioni di accoglienza e dalla procedura di asilo fino all’obbligo di prelevare le impronte digitali dei profughi al loro arrivo in Europa La Commissione vuole "distribuire equamente" 40.000 migranti In maggio la Commissione ha proposto un sistema per distribuire equamente in seno all’Ue una parte delle persone che arrivano in Italia e in Grecia e necessitano di tutela. Era intenzione della Commissione smistarne 40mila, gli stati membri sono già stati in grado di accettarne più di 32mila. Vogliamo essere ancor più incisivi creando un meccanismo stabile, che in situazioni di emergenza possa entrare in funzione in automatico ogni volta che uno stato membro ne abbia necessità. L’esistenza di confini esterni comuni ci impone di non abbandonare al loro destino i paesi membri che si trovano in prima linea, bensì di affrontare le sfide delle migrazioni con spirito di solidarietà. Alcune delle misure proposte dalla Commissione hanno già trovato sostegno. Tutte le altre devono essere affrontate con urgenza dai 28 stati membri, anche da quelli che finora si sono rifiutati I drammatici avvenimenti di quest’estate ci hanno dimostrato che ormai dobbiamo mettere in atto senza indugio la politica comune europea nei confronti dei profughi e dei richiedenti asilo. Non servono solo i vertici straordinari dei capi di Stato e di governo. Si è già tenuto un vertice sulle migrazioni, a novembre ci rincontreremo a Malta. Dobbiamo far si che tutti gli stati dell’Ue approvino subito le norme europee necessarie, dando loro immediata attuazione. I paesi balcanici aspirano all’ingresso nella UE, ma non devono essere sicuri? Già nove anni fa la Commissione ha proposto una lista dei paesi di provenienza sicuri. Gran parte dei governi all’epoca bocciò l’iniziativa considerandola un’ingerenza nella propria sfera di competenza. Non è logico però che i paesi membri approvino la candidatura all’ingresso nella Ue dei paesi dei Balcani occidentali se al contempo non li classificano come sicuri. Quindi a settembre la Commissione degli stati membri presenterà una lista comune dei paesi di provenienza sicuri. Ciò di cui abbiamo bisogno e ancora ci manca è il coraggio collettivo di adempiere alle norme del diritto europeo e ai nostri obblighi nei confronti degli individui anche se farlo non è semplice e certo spesso impopolare. Invece vedo che si punta il dito contro gli ai-tri in un gioco a scaricabarile che può forse servire a guadagnare attenzione e voti ma non risolve i problemi La cancellerà tedesca recentemente mi ha segnalato come in Germania certi Lander e comuni considerino le norme europee sull’assegnazione di appalti pubblici di ostacolo alla pronta realizzazione di alloggi per i profughi. Abbiamo subito controllato e abbiamo potuto stabilire che non è esatto. L’Europa contribuisce alla sistemazione dei profughi e io sono pronto, a inviare i miei collaboratori a Berlino e nei vari Lander se dovessero insorgere problemi concreti L’Europa fallisce se la paura prende fl sopravvento. L’Europa fallisce quando gli egoismi hanno più voce della solidarietà presente in ampie porzioni della nostra società. L’Europa ha successo quando superiamo in maniera pragmatica e non burocratica le sfide del nostro tempo. Spero che assieme - gli stati membri, le istituzioni e le agenzie Ue, le organizzazioni internazionali e inostri vicini - riusciamo a dimostrare che siamo all’altezza delle sfide. Sono convinto che possiamo farcela. La nostra storia comune lo dimostra: l’Europa è un continente resistente, che di fronte alla minaccia di essere spaccato finisce per unirsi Questo dovrebbe esserci di incoraggiamento per le prossime settimane e mesi. Immigrazione: dubbi anche in Germania e Belgio, Schengen sotto assedio in Europa di Marco Zatterin La Stampa, 24 agosto 2015 Ue in allarme: governi divisi e "troppe gelosie fra i servizi". Gli accordi di Schengen tornano sotto assedio e il dono europeo della libera circolazione rischia grosso, pressato dall’ondata migratoria e rimesso in discussione dalla minaccia terroristica. "Copione già visto - commenta amara una fonte europea: la politica cerca un capro espiatorio". In effetti, ricorda, la Commissione Ue ha messo sul tavolo una serie di proposte per rafforzare le procedure di controllo sui movimenti interni, però il dibattito al Consiglio, cioè fra i governi nazionali, non è decollato. "A luglio ci si è scannati malamente sulle quote dei migranti da ripartire". E il resto è stato rinviato a ottobre. Adesso le cancellerie hanno riscoperto la fretta. Il ministro dell’Interno tedesco Thomas de Maizière ha assicurato che la Germania potrebbe sospendere Schengen "se i Paesi non rispetteranno le regole sui rifugiati". Ce l’aveva con la levità presunta delle verifiche alle frontiere meridionali dell’Unione, dove l’abbondanza del traffico fa dire ai funzionari di Frau Merkel che quest’anno la repubblica federale dovrà valutare 800 mila richieste d’asilo. Francesi e britannici duellano a Calais, però i secondi non sono in Schengen e questo suggerisce che il problema potrebbe essere altrove. "Aiuterebbe applicare bene le regole che ci sono", assicurano a Bruxelles. La conferma viene da Hoek van Hollande, temuto trampolino di migranti verso il Regno Unito. Il deciso intervento olandese ha scongiurato il pericolo sul nascere. Londra non ha potuto fare altro che ringraziare, per una volta. "È una sfida europea che richiede una risposta europea", mandano a dire Frans Timmermans e Dimitris Avramopoulos, la coppia di commissari Uè che segue il complicato dossier. "Abbiamo scritto delle proposte, contiamo sul coraggio e la dedizione degli stati", assicurano. È un buon auspicio o poco più. L’Agenda per l’Immigrazione è arrivata in maggio, poi la presidenza di turno lituana l’ha tenuta in ostaggio sino a fine giugno. Il passaggio semestrale del timone ai lussemburghesi ha solo prodotto un’intesa parziale sull’accoglienza "obbligatoriamente volontaria". "Dobbiamo far di più, meglio e rapidamente", è l’appello di Timmermans e Avramopoulos, anche perché "gestire le migrazioni è cosa da lungo termine". Dicono che le risposte sono nell’Agenda del Team Juncker. Oltre che sul consolidamento della vigilanza sulle frontiere esterne, puntano sul (controverso) meccanismo di trasferimento di emergenza permanente per chi ha diritto alla protezione, sull’applicazione rigorosa delle norme, sulla definizione dei paesi di origine sicuri per facilitare il rimpatrio, sull’obiettivo di esplorare come aprire canali legali per la migrazione. Niente di facile per un continente in crisi di identità e guidato da leader non proprio stabili. La tesi elaborata a Bruxelles è che "i governi dovrebbero incontrarsi invece che sfidarsi a distanza". Il guaio è che in molti Paesi, soprattutto nel nord e nell’est dell’Unione, la disponibilità a studiare un modo efficace per combinare solidarietà e responsabilità nell’affrontare il dramma migratorio è ridotta dalle vampate euroscettiche e meramente populistiche in cui cresce diffuso il sentimento che "l’altro" sia la radice di ogni male. Prendersela con Schengen sembra alla fine più facile che riunirsi e rischiare di fallire. Nel disaccordo generale, l’Ungheria fa da sola e costruisce 175 chilometri di muro con la Serbia. Il resto delle capitali rumoreggia e non risponde agli stimoli della Commissione. Si avanza a gruppi. Dopo la tragedia sfiorata sul Thalys il Belgio vuole un vertice con Francia, Germania e Paesi Bassi sulla sicurezza. "Rafforzare i controlli va bene purché non si tocchi Schengen", dice un portavoce Ue. Le amministrazioni dovrebbero coordinarsi e scambiare più dati: "Ci sono gelosie eccessive fra i servizi", insistono a Bruxelles, dove si chiedono decisioni e non risse. "La riforma di Schengen non è un’opzione", giura il Team Juncker. Un punto fisso. Sino a prova contraria. Immigrazione: frontiera aperta tra Macedonia e Serbia, passano migliaia di profughi La Repubblica, 24 agosto 2015 Dopo il tentativo di bloccare migliaia di persone, molti profughi sono riusciti a passare. La polizia ha rinunciato ad intervenire, priorità data a donne e bambini. La Croce rossa: "8mila rifugiati accolti dal centro di accoglienza a Presevo", nel sud della Serbia. Più di 1.500 migranti, bloccati da alcuni giorni in condizioni drammatiche al confine tra Grecia e Macedonia, dopo la riapertura parziale delle frontiere, sono riusciti a penetrare in territorio macedone. I poliziotti macedoni che per tutta la giornata hanno tentato di sigillare il posto di frontiera - dopo che Skopje ha dichiarato lo stato d’emergenza per 24 ore - e di impedire il passaggio, con manganelli e ordigni stordenti, hanno ceduto di fronte alla pressione dei migranti, fra i quali tantissime donne e bambini. La frontiera è praticamente aperta. La polizia lascia passare i profughi in 200 - 300 senza problemi. la priorità è data a donne con bambini e agli anziani La maggior parte di loro, esausti, affamati e in pessime condizioni igieniche, proviene dalla Siria, ma molti anche da Iraq, Pakistan e Bangladesh. Per i migranti che hanno passato la frontiera ieri durante la notte è stato organizzato il trasporto con autobus e minibus che li portano verso la Serbia, informano le agenzie locali. Jasmin Rexhepi della ONG macedone che dalle 19 a mezzanotte più di 50 pullman di profughi sono andati da Gevgelija verso il confine con la Serbia. Alla stazione ferroviaria di Gevgelija si trovano ancora circa 3.000 rifugiati in attesa. 8mila profughi in Serbia. Sono almeno 8mila i profughi accolti dal centro di accoglienza a Presevo, nel sud della Serbia, nelle ultime 24 ore. Come ha riferito il segretario della Croce rossa locale, Ahmet Halimi, la registrazione è durata tutta la notte. Al momento, circa 2.000 profughi sono situati dentro e intorno Presevo. Un nuovo centro di accoglienza è stato poi allestito nel villaggio serbo di Miratovce, non lontano da Presevo. Lo ha detto il ministro della Difesa serbo, Bratislav Gassich, che oggi si è recato sul posto. "A Miratovce ci sono già oltre 5mila migranti, ma ci aspettiamo nuove ondate di profughi nei prossimi giorni con la stessa intensità", ha detto il ministro spiegando che si lavora ininterrottamente per poter registrare tutti e che la situazione è allarmante in quanto "le forniture di acqua corrente sono sufficienti per solo due giorni". Tuttavia, precisa, "non ci sono stati disordini e si lavora in un clima disciplinato". Ai profughi vengono forniti cibo e acqua in attesa di essere trasferiti sugli autobus messi a disposizione da Unhcr che li trasporta a Belgrado, per poi raggiungere l’Ungheria, paese membro dell’Unione europea. Basich ha poi aggiunto che la Serbia sta lavorando per organizzare un altro centro di accoglienza vicino a Belgrado che si aggiungono ai due già esistenti, al confine con l’Ungheria. Il ministro ha sottolineato anche gli enormi costi che il Paese, già indebolito dalla crisi, si trova ad affrontare, e ha espresso l’auspicio che "la Ue reagisca rapidamente per aiutare queste persone". La stazione ferroviaria di Gevgelija, in Macedonia, ora è completamente vuota, situazione completamente diversa da ieri quando c’erano più di sei mila profughi. Nella Terra di nessuno, tra la Macedonia e la Grecia, si trovano ancora rifugiati che in gruppi di 100-200 persone entrano in Macedonia dove vengono registrati e poi trasferiti in Serbia. Da ieri sera, le autorità di Skopje e quelle di Atene hanno avuto diversi incontri in seguito ai quali hanno concordato collaborazione per affrontare l’emergenza profughi ed evitare i problemi alla frontiera dei giorni precedenti. Giovedì la Macedonia aveva dichiarato lo stato di emergenza e aveva chiuso le sue frontiere meridionali. Dopo scene di disperazioni e scontri, le autorità di Skopje avevano annunciato l’autorizzazione di ingressi contingentati di immigrati, ma ieri gli sbarramenti al confine erano crollati sotto la spinta della massa umana dei profughi. 2500 sbarcati al Pireo. Stamani sono sbarcati nel porto ateniese del Pireo i quasi 2.500 immigrati raccolti dal traghetto "Eleftheros Venizelos" nelle isole greche dell’Egeo meridionale, dov’erano giunti con imbarcazioni di fortuna dalla vicina Turchia. Secondo la Guardia Costiera greca, si tratta complessivamente di 2.446 persone, delle quali 628 provenienti da Kos, 75 da Kalymnos, 967 da Leros e 796 da Samo. L’agenzia greca Amna ha affermato che sono stati predisposti autobus per trasferire subito gli immigrati nelle più vicine stazioni della metropolitana, da dove potranno raggiungere la stazione ferroviaria e prendere i treni per il confine con la Macedonia. Frattanto il traghetto "Eleftheros Venizelos" si dirigerà verso l’isola di Lesbo, nota anche come Mitilene, per prelevare gli immigrati che si sono ammassati lì negli ultimi giorni.