Giustizia: gli assenti e i creativi, politici e magistrati (non solo) supplenti di Giuseppe Dalla Torre Avvenire, 23 agosto 2015 In questa calda estate ha tenuto banco in vari modi, anche per autorevole impulso e suscitando reazioni anche scomposte, il dibattito su compiti, ruolo e qualità della politica. Una politica italiana, pur in questa fase di faticosa tensione "riformatrice", ancora troppo intenta alla declamazione inutile o allo smercio di slogan corrosivi. Sembra utile tornare su due riflessioni non nuove per i lettori di questo giornale e che nelle scorse settimane sono state affrontate da opinionisti di valore. Il costituzionalista Michele Ainis, sulle colonne del "Corriere della Sera" del 25 luglio, ha denunciato l’assenteismo della politica italiana sui grandi temi emergenti, sottolineando come questo porti a un vuoto normativo insopportabile. Anche di qui, il sempre più accentuato interventismo dei giudici, che con le loro sentenze s’intestano un’opera di supplenza. Il tema è stato poi ripreso, in diversa prospettiva, da un sociologo autorevole come Giuseppe De Rita, che nello stesso quotidiano milanese, il 2 agosto, ha notato che la funzione giurisprudenziale sta prendendo il sopravvento sulla legislativa, osservando acutamente che quella che un tempo era una strategia minoritaria praticata dai radicali, ora è divenuta una importante tendenza di massa. Il primo, da giurista, ha sottolineato come i giudici non possano non rispondere alle domande di giustizia loro rivolte. Il secondo, da sociologo, si è soffermato sul fatto che il crescente ruolo giurisprudenziale è risposta al crescente dominio del concetto di equità, "ormai un comandamento sociale primario". Si tratta di analisi certamente utili e, in diversa misura, condivisibili, che dovrebbero far riflettere i politici italiani e indurli a cambiare sguardo e passo. Tutto bene, dunque? Direi proprio di no. Questa interpretazione della funzione giurisprudenziale rispetto alla politica appare a prima vista qualcosa di patologico rispetto a un corretto bilanciamento dei poteri, che è requisito di una sana democrazia. Ma c’è di più. In effetti, in molti casi la giurisprudenza non si è limitata a colmare un vuoto legislativo e quindi a supplire alla inattività del legislatore di fronte a fenomeni nuovi non normati. Mi riferisco alle derive di quella cosiddetta "giurisprudenza creativa", per le quali le sentenze non si limitano a colmare un vuoto, ma creano diritto disapplicando o innovando il diritto vigente. Gli esempi al riguardo potrebbero essere tanti: dal caso Englaro, alla giurisprudenza innovativa della Cassazione in materia di delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità dei matrimoni canonici. Ma qui basti ricordarne uno solo, che, guarda caso, è citato in entrambi gli articoli: quello della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Ainis nota che la competenza giudiziaria "in 11 anni ha macinato 33 sentenze sulla fecondazione assistita, riscrivendo l’intera normativa". Ecco il punto: questa giurisprudenza non ha colmato un vuoto legislativo, ma ha stravolto la volontà del legislatore (quindi di una maggioranza parlamentare, che dovrebbe riflettere una maggioranza nel Paese reale), espressa in una legge che tra l’altro ebbe una conferma popolare indiretta è fortissima in una serie di referendum clamorosamente fallito. Non voglio entrare, qui, nel merito se si trattava di una buona o cattiva legge. Noto soltanto che il secondo comma dell’art. 101 della Costituzione recita: "I giudici sono soggetti soltanto alla legge". Dunque non soggiacciono ad altri poteri o autorità, ma alla legge sì. È noto ancora che le leggi sono il frutto di un ampio dibattito nelle aule parlamentari e nel Paese, costituendo così convergenza del volere dei più intorno a regole condivise, cosa che non è possibile ai giudici. D’altra parte i parlamentari rispondono del loro operato agli elettori, mentre - e giustamente - i giudici sono sottratti a qualsiasi controllo (anche popolare), che non sia quello interno e limitato proprio alla giurisdizione. La realtà è che, seppure con le migliori intenzioni, questa "giurisprudenza creativa" stravolge nei fatti l’assetto costituzionale dei poteri. Ne abbiamo contezza? Crediamo davvero che sia bene così? Il nodo è serissimo ed è un fatto che si va aggrovigliando sempre più. Giustizia: carceri italiane, resta l’emergenza, i numeri del 2015 di Dario Borriello lettera43.it, 23 agosto 2015 I detenuti italiani sono 52.144, diminuiti solo di 2.270 unità dal 2014. Oltre 8 mila in attesa di giudizio. Gli stranieri sono 17.035. Pene alternative? Una chimera. Strasburgo ha già condannato l’Italia nel 2014 per le "condizioni inumane" in cui era costretta a vivere la popolazione carceraria. Il governo ci aveva messo una toppa nell’agosto dello stesso anno, con il decreto che avrebbe dovuto contribuire a sfollare le carceri (diciassettesima fiducia dell’era Renzi). A un anno di distanza, la situazione è cambiata veramente? Lettera43.it ha fatto i conti. Secondo i dati ufficiali dell’amministrazione penitenziaria, al 31 luglio 2015 i detenuti presenti nelle strutture del nostro Paese sono 52.144, ben 2.489 in più rispetto alla capienza regolamentare (9 metri quadrati a persona) di 49.655. Di questi, 2.122 sono donne e 17.035 stranieri. Rispetto a un anno fa la situazione è effettivamente migliorata, visto che nello stesso periodo del 2014 dietro le sbarre erano presenti 54.414 persone (di cui 2.333 donne e 17.423 stranieri) a fronte di una capienza regolamentare di 49.402 posti. In totale sono 2.270 in meno. Non male. Peccato però che i dati raccolgano solo i detenuti usciti per effetto della legge 199 del 2010, che risale all’ultimo governo Berlusconi, di cui era parte attiva la Lega. Resta sempre molto alto il numero di reclusi ancora in attesa di primo giudizio: sono 8.301, ovvero il 16% del totale della popolazione carceraria (52.144), dunque in diminuzione rispetto agli 8.665 del luglio 2014. La maglia nera di questa speciale classifica va alla Campania, con 1.279 detenuti (il 18% del totale della regione), seguita da Sicilia con 1.234 (22%), Lombardia con 1.037 (14%), Lazio con 854 (15%), Puglia con 724 (23%), Calabria con 571 (26%), Piemonte con 502 (14%), Emilia Romagna con 354 (13%), Toscana con 371 (12%), Veneto con 305 (14%), Liguria con 248 (18%), Sardegna con 159 (8%), Abruzzo con 158 (9%), Friuli Venezia Giulia con 144 (22%), Umbria con 136 (10%), Marche con 116 (13%), Basilicata con 53 (12%), Trentino Alto Adige con 30 (9%), Molise con 22 (8%) e Valle D’Aosta con 4 (3%). Un altro dato che fa balzare dalla sedia è quello relativo ai carcerati condannati non in via definitiva presenti nelle galere italiane: 9.074, ovvero il 17% del totale, comune meno degli 8.183 di un anno fa. Anche in questo caso il "cucchiaio di legno va alla Campania con 1.747 detenuti (pari al 25% degli ospiti dei penitenziari della regione), alle cui spalle si trovano la Lombardia con 1.360 (18%), il Lazio con 1.217 (21%), la Sicilia con 1064 (19%), la Puglia con 502 (16%), l’Emilia Romagna con 467 (17%), la Calabria con 464 (21%), la Toscana con 421 (13%), il Piemonte con 409 (11%), il Veneto con 315 (14%), la Liguria con 235 (17%), l’Abruzzo con 191 (11%), l’Umbria con 171 (13%), la Sardegna con 142 (7%), le Marche con 131 (15%), il Friuli Venezia Giulia con 106 (17%), la Basilicata con 53 (12%), il Trentino Alto Adige con 34 (10%), la Valle D’Aosta con 23 (18%) e infine il Molise con 22 (8%). Significativa anche la presenza femminile. Le donne dietro le sbarre, infatti, sono 2.122 (su un totale nazionale, compresi gli uomini, di 52.144), con 34 bambini "reclusi senza aver commesso reati", come ha già evidenziato Lettera43.it. In cima alla lista ci le 377 detenute in Lombardia, seguite dalle 365 nel Lazio, le 331 in Campania, le 158 in Puglia, le 128 in Toscana, le 119 in Emilia Romagna, le 117 in Veneto, le 116 in Sicilia, le 111 in Piemonte, le 64 sia in Liguria, sia in Abruzzo, le 42 in Calabria, le 37 in Sardegna, le 33 in Umbria, le 21 in Friuli, le 18 nelle Marche, le 13 in Trentino e le 8 in Basilicata. Nessuna detenuta, invece, in Molise e Valle D’Aosta. L’Amministrazione penitenziaria ha elaborato dati statistici sulla popolazione carceraria, suddividendola per tipologia di crimine. Al 30 giugno del 2015 al primo posto ci sono i reati contro il patrimonio (30.042), seguito da quelli contro la persona (21.562), per droga (18.312), per armi (10.088), associazione di stampo mafioso-416bis (7.023), reati contro la pubblica amministrazione (6.872), contro l’amministrazione della giustizia (6.026), la fede pubblica (4.384), reati per contravvenzioni (3.899), ordine pubblico (3.081), contro la famiglia (1.916), l’incolumità pubblica (1.483), le leggi sull’immigrazione (1.406), i reati contro il sentimento e la pietà dei defunti (1.110), lo sfruttamento della prostituzione (838), l’economia pubblica (733), la moralità pubblica (174) e quelli contro la personalità dello Stato (117). Gli altri crimini non catalogati, invece, sono 2.866. Ci sono anche le misure alternative, ma ancora pochi riescono a ottenere una punizione diverse dalla cella. In totale al 31 luglio 2015 sono 33.309 (nel 2014 erano 32.206), di cui 12.793 in affidamento in prova al servizio sociale, 723 in semilibertà, 9.936 ai domiciliari, 5.990 ai lavori di pubblica utilità, 3.673 in libertà vigilata, 189 in libertà controllata e 5 in semidetenzione. Dall’ultima condanna del Consiglio d’Europa, datata aprile 2014, l’Italia qualche timido passo in avanti lo ha dunque fatto. Ancora troppo poco, secondo i parametri stabiliti dall’Europa nonostante i ripetuti moniti dell’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Le misure previste nella delega fiscale sulla cancellazione della pena detentiva per chi evade fino a 150mila euro, dati dell’Amministrazione penitenziaria alla mano, alla lunga può rivelarsi una misura giusta a ridurre il sovraffollamento. I numeri, però, restano ancora pericolosamente alti e la spada di Damocle di Strasburgo è sempre in agguato. Perché nel 2012 peggio del nostro Paese aveva fatto solo Serbia, ma da allora a oggi non abbiamo certo cambiato verso. "Populismo penale: una prospettiva italiana", di S. Anastasia, M. Anselmi e D. Falcinelli di Guido Vitiello Il Foglio, 23 agosto 2015 Il populismo penale che non molla l’Italia, visto da un lettino in psicoanalisi. Da Durkheim a Borrelli, come da Manitù a Manipù. Non so se gli psicoanalisti applichino ancora il metodo junghiano delle parole-stimolo a cui il paziente deve associare la prima cosa che gli passa per la testa, ma ogni volta che sento la formula "populismo penale" - e grazie al cielo accade un po’ più spesso di prima - subito affiorano due ricordi, entrambi legati a Francesco Saverio Borrelli. Il primo è un piccolo ma spettacolare rovesciamento di frittata che il procuratore capo amava fare a metà degli anni Novanta in risposta alle accuse di giustizialismo. I nostri nemici non sanno neppure usare le parole, diceva pressappoco Borrelli, perché il justicialismo era l’ideologia di Perón, dunque è sinonimo di populismo, dunque il vero giustizialista (lui non faceva il nome) è Berlusconi. Il secondo ricordo, che ha tuttora il potere di guastarmi il sonno, è una frase sibillina pronunciata nei giorni trionfali di Mani Pulite: "Quando la gente ci applaude, applaude se stessa". Quasi un calco della formula di Durkheim secondo cui la religione è la società che adora se stessa. Se ne poteva dedurre che Borrelli attribuiva al pool una funzione sacra o totemica, di canalizzazione di energie collettive: invece di Manitù, Manipù. I due ricordi avranno senz’altro un legame segreto nei meandri della mia nevrosi garantista, ma ne hanno anche uno manifesto, ed è questo: il populismo penale, l’uso improprio di strumenti giudiziari per ricercare il consenso, è tanto più infido in quanto è acefalo o policefalo. A differenza dei populismi radunati attorno a un capo, può assumere molti volti più o meno effimeri, incarnarsi secondo le occasioni in un pm giustiziere, in un politico gracchiante, in un giornale di secondini, in una vittima esemplare che chiede riparazione esemplare, o può anche mimetizzarsi nelle sembianze anonime di una moral majority. Insomma, è un mostro proteiforme politico-giudiziario - e poi dice che uno non dorme la notte. "Populismo penale: una prospettiva italiana", il libro di Stefano Anastasia, Manuel Anselmi e Daniela Falcinelli appena pubblicato da Cedam, aiuta a far ordine tra questi pensieri sparsi. È un libro che raccomando a chi ha i miei stessi incubi, anche se più che di Borrelli parla di immigrati irregolari, consumatori di droghe e altre categorie bersagliate da campagne tanto eclatanti quanto povere di risultati o più spesso ancora gravide di disastri. Anselmi, autore del primo capitolo che acciuffa il mostro dal corno della discussione politologica (gli altri due lo affrontano dal versante giuridico e da quello della politica criminale e carceraria), dà ahimè consistenza ai miei fantasmi. Il populismo penale, scrive, è prima di tutto una questione sociale, non legata a un evento specifico o a un personaggio; si tratta di "tendenze collettive che resistono all’ascesa e alla caduta di singoli movimenti politici ma che determinano delle profonde distorsioni anti-democratiche su una parte del sistema istituzionale e amministrativo, nella fattispecie di quello giuridico". Ed è qui che la metafora psicoanalitica torna utile. Perché in ogni "analisi interminabile" che si rispetti - e un quarto di secolo di ossessione penale fa rientrare il caso italiano pienamente nella categoria - si presenta prima o poi il momento in cui il povero nevrotico, dopo centinaia di ore di costosissimi conversari con un freudiano per lo più muto, si accorge che sì, ormai conosce a perfezione ogni dettaglio del suo male, ma ancora non ha idea di come guarirne. Da qui il senso di sconforto che mi coglie sempre più spesso nel leggere libri sulla giustizia pieni di saggezza impotente. Nel caso del populismo penale, poi, alzarsi dal lettino è particolarmente difficile. Perché un capo è per definizione decapitabile. Ma un populismo acefalo, dove lo si aggredisce? Non ho una risposta e neppure il libro ce l’ha, ma offre un buon punto di partenza per cercarne qualcuna. E a proposito, il capitolo conclusivo di Anastasia, "Materialità del simbolico", dà l’ultima parola proprio a Durkheim, secondo cui la pena non serve a correggere i colpevoli ma a rinsaldare ritualmente il senso di rettitudine della società che li processa. O anche, come diceva il tizio dei miei incubi, "quando la gente ci applaude, applaude se stessa". Giustizia: Associazione Antigone; sesso per detenuti non sia premio, ma diritto garantito di Mario Valenza Il Giornale, 23 agosto 2015 Patrizio Gonnella: "Avere rapporti sessuali dietro le sbarre: non una censura, ma un diritto del detenuto". Il caso merita tutta l’attenzione, specie oggi che il sovraffollamento non è più un dramma. Meno persone in cella significa anche più "spazio vitale", la possibilità di reinventare il carcere in senso moderno con luoghi ad hoc disposti per gli incontri intimi dei detenuti con i partner". Ne è convinto Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, che si batte per un diverso modello di pena che non violi la dignità delle persone: i diritti umani fondamentali "vanno assicurati". "Bisogna cambiare il modello di pena, evitare che il carcere sia una fabbrica di recidiva: è necessario contrastare ogni resistenza", dice Gonnella. "Il fatto che ci sia più spazio vitale nelle carceri con il sovraffollamento in diminuzione, consente all’Amministrazione penitenziaria di poter programmare un diverso modello di pena, un tentativo che con gli Stati Generali sull’esecuzione della pena il ministero della Giustizia sta cercando di portare avanti", aggiunge. "La sessualità è un diritto", ha a che fare con la salute psicofisica della persona, "è assurdo che sia ancora legata al concetto di premio-punizione", osserva Gonnella ricordando che la riabilitazione del detenuto comprende anche la sfera dell’affettività". "Siamo uno dei pochi paesi europei che non regolamenta tale diritto - denuncia raccontando il caso di un ergastolano che ha potuto rivedere la moglie solo dopo vent’anni -. Fino ad oggi abbiamo considerato la sessualità come un premio, ovvero al detenuto che si comporta bene viene concesso (dopo anni) il permesso-premio che gli permette di vivere, all’esterno, anche la sua affettività. Una vessazione ingiustificabile". La novità oggi è legislativa "perché la commissione Giustizia della Camera ha approvato una norma in questo senso ma bisogna velocizzare il processo: in attesa dell’approvazione, l’Amministrazione penitenziaria si organizzi per adeguare le strutture altrimenti si rischiano tempi troppo lunghi", chiede Gonnella. Concretamente si tratterebbe di creare "unità negli istituti di pena che garantiscano la dovuta privacy per vivere rapporti di intimità familiare, senza quindi la sorveglianza della polizia penitenziaria". Chi finisce dentro è privato della libertà di movimento, ricorda infine Gonnella, non certo dei suoi diritti fondamentali, che "vanno assicurati". Giustizia: Casamonica. Tutti sapevano del funerale del boss, vi spieghiamo perché di Matteo Vincenzoni Il Tempo, 23 agosto 2015 Prende corpo l’ipotesi dell’errore umano. I carabinieri: "La polizia era stata avvisata il giorno prima". Dal nessuno sapeva niente delle prime ore si è passati al tutti sapevano tutto. Lo scandalo dei funerali del "padrino" del clan Casamonica, Vittorio, celebrati giovedì mattina in pompa magna nella chiesa di Don Bosco, alla periferia di Roma, ha gettato nel panico le istituzioni che a distanza di tre giorni dalla cerimonia continuano nel goffo tentativo di smarcarsi da presunte responsabilità, contorcendosi in dichiarazioni di facciata, a volte contraddittorie che hanno finito per complicare una storia semplice, nata, come dichiarato fin da subito dal prefetto Gabrielli, "da un errore". Ecco allora - nonostante le istituzioni anche ieri abbiano continuato a difendersi sottolineando il "se l’avessimo saputo..." - una lineare spiegazione dei fatti volta a dimostrare che tutti sapevano tutto, ovvero erano al corrente che alle 11 di giovedì, nella chiesa di San Giovanni Bosco, si sarebbero tenuti i funerali di Vittorio Casamonica, il "re di Roma", come ricordato dai suoi familiari nelle gigantografie appese sulla facciata del tempio. Il padrino Vittorio Casamonica si è spento nella sua lussuosa dimora all’Anagnina la mattina del 19 dopo aver combattuto contro un tumore. Il funerale viene fissato per la mattina seguente. In ventiquattro ore il clan riesce ad organizzare una cerimonia in pompa magna che prevede un corteo funebre che dovrà percorrere circa sette chilometri da casa fino alla chiesa. Da tutta Italia arrivano circa mille tra parenti e conoscenti. Il corteo è così composto: una carrozza d’inizio novecento affittata a Napoli trainata da tre pariglie di cavalli morelli (il cocchio non è dell’azienda Bellomunno come scritto ieri, ndr); una dozzina di furgoni pieni di corone di fiori; una Rolls Royce che trasporterà poi il feretro dalla chiesa al cimitero monumentale del Verano; circa duecentocinquanta automobili (secondo le stime fornite l’altro ieri dal comandante della Polizia locale di Roma, Raffaele Clemente), tra cui fuoriserie e suv con i vetri oscurati. Non solo. Un elicottero scaricherà sulla folla assiepata davanti a Don Bosco un carico di petali di rose. Il boss è servito. Ventiquattro ore, o giù di lì. Tanto basta (anzi avanza) all’avvocato Mario Giraldi, difensore di Antonio Casamonica, per presentare al Tribunale di sorveglianza della Corte d’Appello di Roma un’istanza di scarcerazione per permettere al figlio del boss, agli arresti domiciliari, di poter partecipare alle esequie del padre. Dopo poche ore il Tribunale acconsente e avverte la tenenza dei carabinieri di Ciampino di notificare il permesso ad Antonio Casamonica. L’Arma conferma e aggiunge: "Come da prassi, nella serata del 19, dell’avvenuta notifica del permesso temporaneo al detenuto è stato avvisato anche il locale commissariato di polizia", alla Romanina. Il prefetto Gabrielli parla di un "grave errore di comunicazione". Ora sappiamo che i carabinieri erano al corrente che l’indomani si sarebbe celebrato il funerale di Vittorio Casamonica. Anche la polizia sapeva, perché era stata avvisata dai carabinieri. Non solo. Antonio Casamonica non è stato l’unico ad ottenere, quel giorno un permesso dal Tribunale di sorveglianza: ne hanno beneficiato anche altri due parenti del defunto Vittorio. Tre occasioni, per carabinieri e polizia, per essere informati sui fatti in netto anticipo sulla cerimonia funebre. Solo il questore Nicolò D’Angelo avrebbe potuto evitare lo scandalo ravvisando possibili pericoli per l’ordine pubblico e adottando idonee misure di sicurezza. Ma la questura, che fin dal primo momento si è detta allo scuro di tutto, non sapeva. Possibile? Con l’aiuto di una fonte interna alla polizia proviamo a fare un paio di ipotesi. Potrebbe essere l’errore umano il vero responsabile del "black out" nelle comunicazioni tra gli uffici territoriali della polizia di Stato e la questura di Roma. I carabinieri della tenenza di Ciampino potrebbero aver comunicato solo nel tardo pomeriggio al commissariato Romanina la decisione del Tribunale di sorveglianza di permettere ad Antonio Casamonica di presenziare l’indomani mattina ai funerali del padre. La mattina del 20 agosto l’agente di polizia preposto a smistare le comunicazioni arrivate in commissariato potrebbe non aver lavorato subito la pratica ricevuta dall’Arma. In altre faccende affaccendato potrebbe essersi accorto troppo tardi dei funerali di Vittorio Casamonica e di conseguenza aver comunicato la notizia al suo superiore - in questo caso il sostituto del commissario in ferie - quando il corteo era già in marcia. La questura, che doveva essere avvisata dal reggente del commissariato, potrebbe aver avuto, a quel punto, le mani legate. La frittata, insomma, era fatta. La mancanza cronica di personale nei commissariati di zona, nella Capitale, potrebbe avvalorare l’ipotesi, ma questa è un’altra storia. L’agente preposto in commissariato a smistare le prime pratiche del mattino, il 20, giorno del funerale che si sarebbe tenuto di lì a un paio d’ore, avrebbe lavorato la comunicazione dei carabinieri di Ciampino senza saltare sulla sedia dopo la lettura del cognome Casamonica, o ancor più leggendo il nome del padre di Antonio, Vittorio. Non avrebbe, insomma, in gergo giornalistico, "capito la notizia", passandola ai colleghi senza sottolineare l’importanza di ciò che stava per accadare a Don Bosco. Di conseguenza la notizia non avrebbe mai raggiunto gli uffici della questura. A sostegno dell’ipotesi la nostra fonte spiega che Vittorio Casamonica non era più "attenzionato" da almeno una decina di anni. Qualcuno sapeva, a iniziare dai giornalisti e fotografi presenti alle esequie. Resta infatti il mistero (la notizia infatti non è stata confermata) della presenza di personale delle forze dell’ordine in borghese (carabinieri o poliziotti) alla cerimonia funebre. Del resto, il solo pensiero che il fior fiore del clan Casamonica si raduni per l’occasione sulla Tuscolana e le forze dell’ordine non ne siano a conoscenza fa rabbrividire. E qui il giallo s’infittisce. Lungi dal mettere in dubbio le parole del comandante del Corpo, Raffaele Clemente, che venerdì ha precisato che "la sala operativa della Polizia locale ha saputo del corteo già in marcia dopo la telefonata di alcuni residenti", allo stesso modo vanno prese per buone le parole di Luciano Casamonica, familiare del defunto Vittorio, che a Il Tempo ha rivelato: "La mia famiglia ha avvisato i vigili urbani che ci sarebbe stato un lungo corteo, tanto che ci hanno scortato". L’agenzia funebre napoletana Cesarano, che ha affittato il cocchio con i sei cavalli morelli alla ditta romana che ha organizzato per il clan i funerali, racconta una verità più vicina a quella di Luciano Casamonica che a quella del comandante Clemente: "Siamo arrivati con il camion all’Ikea Anagnina dove abbiamo scaricato cavalli e carrozza. Da lì ci hanno scortato i vigili urbani fino alla chiesa. Dietro il corteo funebre c’era un mezzo dell’Ama che puliva tutto". Ma cosa avrebbero potuto fare i vigili urbani se non deviare il traffico al passaggio del corteo? Poco e niente, visto che la decisione di vietarlo poteva essere presa solo dalla questura. La domanda piuttosto è: quando è stata avvisata la Polizia locale? La sera precedente o la mattina stessa del giorno del funerale? Il Vicariato anche ieri è tornato a sottolineare che se fosse venuto a conoscenza delle intenzioni dei Casamonica, non avrebbe permesso quella messa in scena, riferendosi probabilmente alla affissione delle gigantografie di Vittorio sulla facciata della Chiesa in stile Papa Francesco. Davvero il parroco don Manieri non si è accorto dei poster? Davvero non sapeva chi fosse Vittorio Casamonica? Possibile che quella misera offerta di soli "50 euro" abbia sviato il parroco non facendogli balenare per la testa che si trattasse del "padrino" del clan Casamonica? Se invece sapeva, possibile che non abbia prontamente avvisato il Vicariato per chiedere: "E mo, che faccio?" Giustizia: Casamonica. Irritazione di Renzi, ma il dossier Gabrielli non farà cadere teste di Francesco Bei e Mauro Favale La Repubblica, 23 agosto 2015 Sapevano tutti, ciascuno ha fatto il proprio "compitino burocratico" secondo regolamento, ma nessuno ha pensato di avvertire il proprio superiore. Tutti hanno una parte di responsabilità nell’aver consentito lo show in occasione del funerale del "Re di Roma" (così l’hanno voluto ricordare i suoi parenti), Vittorio Casamonica, esponente dell’omonimo clan che controlla il territorio a Roma sud tra usura, spaccio ed estorsioni. Ma proprio per questo, alla fine, nessuno pagherà. "Non ci saranno rimozioni", è la linea che filtra dal Viminale dopo la lettura della relazione preparata dal prefetto di Roma Franco Gabrielli per individuare le falle che hanno portato allo scandalo di una cerimonia funebre finita sui giornali di tutto il mondo. Né i funerali targati Casamonica influiranno sulle decisioni da prendere giovedì, nel consiglio dei ministri che esaminerà il "pacchetto Roma", tra misure per il Giubileo e la proposta del ministro Angelino Alfano su Mafia capitale. "Si tratta di due vicende diverse e sul funerale il sindaco non ha responsabilità", fanno sapere da Palazzo Chigi. Questo, tuttavia, non cancella la forte irritazione del premier Matteo Renzi per quanto accaduto il 20 agosto e per l’assenza di Ignazio Marino in un momento così delicato. Il primo cittadino della capitale si trova ancora in vacanza negli States e Renzi non poteva credere alle sue orecchie quando i collaboratori gli hanno riferito che Marino non sarà di ritorno nemmeno per il consiglio dei ministri dedicato alla sua città. L’ennesima frizione tra i due che, però, non avrà conseguenze politiche visto che - come ha confidato il capo del governo a un deputato del Pd - "dopo il rimpasto di fine luglio non lo possiamo più mollare". A maggior ragione dopo la decisione, ormai scontata, di escludere il commissariamento di Roma per mafia. Alfano, da parte sua, nella relazione che giovedì illustrerà in consiglio dei ministri, sta ultimando di predisporre le contromisure per evitare il ripetersi di infiltrazioni mafiose in Campidoglio. Dato per scontato lo scioglimento del solo municipio di Ostia, la proposta del ministro si articolerà su vari fronti: nuovi regolamenti sull’affidamento dei lavori pubblici e dei servizi, la revoca degli appalti assegnati senza gara, il controllo stretto sulla centrale unica degli acquisti, l’annullamento delle decisioni dirigenziali sospette, il rafforzamento dei controlli interni e un check di tutti i contratti con le municipalizzate a partire da Ama. in sostanza, l’attività di Marino e della sua giunta verrà messa sotto la lente d’ingrandimento della prefettura e non solo per i tre dipartimenti (verde pubblico, politiche sociali ed emergenza abitativa) oggetto della relazione della commissione d’accesso. A finire "sotto tutela", insomma, sarà tutta la macchina comunale, a maggior ragione alla vigilia del Giubileo di Papa Francesco che inizia l’8 dicembre. Prima, però, c’è da archiviare la grana-Casamonica. Domani Gabrielli ha convocato il comitato provinciale per l’ordine pubblico e la sicurezza. "Assuma tutte le decisioni necessarie per governare al meglio situazioni di questo genere - è il commento di Alfano - potenziando la circolarità dei flussi di comunicazione a livello locale, perchè quanto avvenuto non accada mai più". Il ministro, piuttosto, è preoccupato per quell’elicottero che si è alzato in volo per spargere petali di rosa al termine del funerale: "Si solleciterà l’Enac perchè avvii una valutazione dei requisiti per l’autorizzazione al volo e perchè preveda una revisione delle licenze già concesse". Soprattutto in vista dell’Anno Santo, con l’allerta terrorismo. Dal Viminale, insomma, non si punta il dito contro nessuno, né si chiedono "teste". Anche perchè, dalla relazione consegnata ieri dal prefetto al ministro emerge che tutte le forze dell’ordine erano state informate del funerale dei Casamonica. Lo sapevano i carabinieri di Campino, che hanno ricevuto nel pomeriggio del 19 agosto la comunicazione della Corte d’Appello che concedeva il permesso al figlio del defunto di lasciare i domiciliari per partecipare alle esequie del padre. Lo sapevano al commissariato di polizia della Romanina, avvertito via fax dai militari di Ciampino (le ricevute con gli orari di invio sono allegate alla relazione ) e coinvolto, la mattina dopo, nella comunicazione di altre due licenze dai domiciliari per altrettanti esponenti del clan. Lo sapevano i vigili urbani, fin dalle prime ore del 20 agosto, quando sono intervenuti sulla Tuscolana, all’altezza del Raccordo, per contenere il corteo funebre ("Che ci fate qui? Ci pensiamo noi", è stata la nervosa reazione dei Casamonica alla vista dei caschi bianchi) con tanto di cavalli, carrozza e suv. Nessuno, però, soprattutto tra carabinieri e polizia, ha pensato di avvisare il livello superiore. Né il comando provinciale dei carabinieri è stato avvertito né il gabinetto del questore. Una comunicazione che, formalmente, non era obbligatoria e che, per questo, salva tutti, derubricando la questione a una "mancanza di sensibilità" e a un "difetto di comunicazione". "Un eccesso di burocrazia", è il senso della relazione di Gabrielli. Che è costato una brutta figura davanti a tutto il mondo. Giustizia: né pericoloso boss, né mafioso, vi racconto io chi era Vittorio Casamonica di Valeria Di Corrado Il Tempo, 23 agosto 2015 "Non era un santo, ma nemmeno un boss mafioso". Per l’avvocato Mario Giraldi, legale di Vittorio Casamonica dal lontano 1981, il funerale in stile "Padrino" non nascondeva nessun messaggio mafioso, ma solo la "fame di fama" della sua famiglia. Qual è il curriculum criminale di Vittorio Casamonica? "Ha subito non meno di 15 processi, ma sempre per reati contro il patrimonio: truffa, appropriazione indebita ed emissione di assegni a vuoto". E come si sono conclusi questi processi? "Alcuni con sentenze di condanna, altri con l’assoluzione, altri con la prescrizione. La pena massima che gli è stata inflitta è stata 3 anni di reclusione". Quindi lei sta dicendo che era un santo, tanto da conquistare il Paradiso? "No, assolutamente. Non era un santo, ma nemmeno un mafioso. Non è stato mai inquisito per fatti di mafia, violenza, possesso o commercio di droga". Quante volte è stato arrestato? "Più di una volta. Uno dei periodi più lunghi di detenzione (circa 8 o 9 mesi) risale agli anni ‘80 quando per il rapimento di un giovane della zona. Insieme a lui finirono in manette molti giostrai di Mestre. Ha subito un processo per sequestro di persona a scopo di estorsione, ma è stato assolto per non aver commesso il fatto. Un altro processo per il quale era stato detenuto si è svolto presso il Tribunale dell’Aquila. Era imputato per violazione della legge sulle sostanze stupefacenti". Quindi un precedente per droga lo ha avuto. "Solo quello, ma è stato assolto. Poi non ha mai più subito inchieste o processi per spaccio. Vittorio era un nemico giurato di qualsiasi tipo di droga. Tanto che l’unica volta che ha alzato le mani è stato per dare degli schiaffi ai suoi consanguinei che si erano messi nel traffico di stupefacenti. Era molto indignato per questo, mi diceva: "Vedi un po’ se questi giovani devono rovinare il mio cognome"". Eppure uno dei processi più importanti ai Casamonica è quello che a ottobre 2013, in primo grado, ha visto condannare 6 esponenti del clan a 81 anni per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio. "Giuseppe e Guerino erano imputati in quel processo, ma non Vittorio. Poi ci sono altri Casamonica pluricondannati per associazione a delinquere. Sono circa 180 le persone, sparse per il Lazio, che portano questo cognome. Molti di loro si sono avvicinati al business della droga, ma Vittorio no, era fatto di un’altra pasta. Non era un fiorellino di campo, ma nemmeno come è stato dipinto". La musica del Padrino e i manifesti sulla chiesa, però, parlano da soli. "Nell’etnia rom questo tipo di funerali sono una costante. Quando muore una persona importante usano fare cerimonie pacchiane e sfarzose, per appagare la loro fame di fama. È stato lo stesso per i suoi genitori, soprannominati il "re e la regina degli zingari". Si spiega così quell’appellativo di "re di Roma" dato a Vittorio. Anche quando nel ‘61 è morto il padre, Guerino, c’erano carro, cavalli e auto di lusso. Lo stesso è successo nel ‘76 per la madre Virginia: i suoi funerali hanno fatto epoca. Cantone e Marino, prima di parlare di messaggio mafioso, dovrebbero informarsi". Quindi non è stata una provocazione, a due mesi e mezzo dall’inizio del processo per Mafia Capitale? "È assurdo pensare che abbiano fatto quel tipo di funerale come una provocazione. Non hanno questa arguzia. È il loro "modus moriendi" quello di morire nello sfarzo. Fanno lo stesso per i battesimi". Non crede nemmeno sia un modo per affermare la loro egemonia a Roma, dopo l’uscita di scena di Carminati? "No, assolutamente. Non sono atti che denotano onnipotenza e nemmeno il predominio del proprio casato". Vittorio aveva dei rapporti con il "Cecato"? "Non gli ho mai sentito nominare Carminati. L’inchiesta Mafia Capitale ha sfiorato solo il nipote, Luciano Casamonica. Anche se, da povero diseredato, Luciano nella vicenda si era ritagliato una piccola parte: era una sorta di buttafuori nei campi rom. Infatti non è indagato nell’inchiesta". E che mi dice del suo rapporto con Enrico Nicoletti? Con Nicoletti erano buoni amici, tanto che questi aveva ceduto a Vittorio un autosalone sull’Anagnina. È una balla che riscuotesse per lui i prestiti usurari". Sta dicendo che Vittorio non aveva nessun precedente per usura? "Forse uno lontanissimo, ma non è mai stato condannato o processato per questo. La sua vera attività era acquistare auto, nuove o usate. Poi non le pagava oppure le pagava con assegni a vuoto: questo era Vittorio Casamonica. Non ha mai commesso reati tali da essere definito come un boss". Che vita faceva? Amava la vita brillante, frequentava via Veneto e si presentava nei ristoranti con le sue auto lussuose. Poi spesso non pagava il conto. Faceva feste clamorose alla periferia di Roma, a Capannelle, come è stato per il nipote Vittorino: invitava 50-80 persone e poi lasciava assegni scoperti". Quand’è l’ultima volta che lo ha sentito? "L’ho frequentato fino ad aprile, quando ha cominciato a stare male. Poi è andato a Milano per operarsi al tumore. Circa 15 giorni fa mi ha chiamato e mi detto: "Mariù, mi raccondo ad Antonio". È il figlio che sta agli arresti domiciliari per estorsione, lo stesso per il quale ho chiesto alla Corte d’Appello di Roma il permesso per farlo partecipare al funerale. Le forze dell’ordine hanno effettuato un sopralluogo nella casa di Antonio. Impossibile, dunque, sostenere che non sapessero nulla". Toscana: sulla tragica realtà carceraria… a Renzi e Boschi a Lotti e Ferri (e a Orlando) di Valter Vecellio articolo21.org, 23 agosto 2015 Il presidente del Consiglio Matteo Renzi è un fiorentino doc; toscanissima il ministro Maria Elena Boschi: di Montevarchi, legatissima alla "sua" Laterina. Il collega Luca Lotti, è nato a Empoli; di Pontremoli il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri; della vicina La Spezia il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Insomma, alcune delle personalità di spicco del Governo sono tutte toscanissime, ministro Orlando a parte, che comunque lo si può considerare di "area": come s’usa dire, di "territorio". Curioso, ma anche indicativo, che nessuno abbia mostrato una briciola di interesse per uno dei non frequenti casi di donne detenute che si sono tolte la vita; e si parla di Ramona C., 27 anni, originaria di Grosseto. Detenuta nella sezione femminile del carcere don Bosco di Pisa, Ramona è in cella dal 31 luglio. Una manciata di giorni. L’accusa che l’ha portata in cella parla di "maltrattamenti familiari, dopo una precedente detenzione domiciliare per stalking". In carcere beneficia del cosiddetto "regime aperto": otto ore quotidiane di socialità. Divide la cella con altre detenute. Chissà cosa le passa per la testa, chissà perché prende quella decisione; che non è certo improvvisa: è un pensiero che martella dentro, un’"ossessione" che l’accompagna da tempo, e che ha cura di occultare, che nessuno se ne accorga, possa dare l’allarme. Paziente attende. Attende il momento in cui si trova da sola in cella. La corda con cui impiccarsi è già pronta, ricavata da un lenzuolo. Un attimo, e Ramona "evade" dalla vita. L’Osservatorio sul carcere dell’associazione "Ristretti Orizzonti" fa sapere che quello di Ramona è il ventinovesimo suicidio in cella dall’inizio del 2015. I suicidi sono la punta emergente di una più vasta e drammatica realtà. La descrive Donato Capece, segretario generale di uno dei sindacati della polizia penitenziaria, il Sappe. Riferendosi alla specifica situazione in Toscana rileva che "dal 1 gennaio al 30 giugno 2015 nelle 18 carceri toscane si sono contati due suicidi di detenuti in cella, altri tre suicidi sono stati sventati dagli uomini della polizia penitenziaria, e si registrano ben 501 atti di autolesionismo: il numero più alto in tutta Italia posti in essere da detenuti. Ancora più gravi i numeri delle violenze contro i nostri poliziotti penitenziari: parliamo di 213 colluttazioni e 39 ferimenti. Ogni giorno, insomma, le turbolenti carceri toscane e italiane vedono le donne e gli uomini della polizia penitenziaria fronteggiare pericoli e tensioni e per i poliziotti penitenziari in servizio le condizioni di lavoro restano pericolose e stressanti". È vero quanto dice Capece? Perché se non è vero, andrebbe smentito, le sue affermazioni contestate; se al contrario è vero quello che dice, Renzi e Boschi, Lotti e Ferri, per non dire del ministro Orlando, dovrebbero trovare il tempo di occuparsi anche di quello che accade in una parte poco "illuminata" del "cortile di casa loro" (e che comunque fa parte del nostro più generale "cortile"). Se quel tempo lo trovano, lo hanno trovato, sarebbe gradito un tweet, un sms, una qualsiasi loro cosa per farci sapere cosa intendono fare, e come, e quando. Velletri (Rm): Sippe; detenuto tenta il suicidio con un cappio ricavato dalle lenzuola castellinotizie.it, 23 agosto 2015 Ha tentato di togliersi la vita impiccandosi con un cappio ricavato dalle lenzuola, sfruttando le inferriate della finestra della propria cella. Questo l’insano gesto di cui è stato protagonista un detenuto, costretto alla prigionia nel Carcere di Velletri. L’aspirante suicida, un giovane di nazionalità italiana, ha cercato di sfruttare la distrazione dei suoi compagni di prigionia, ma è stato fortunatamente salvato detenuto e portato immediatamente presso l’ infermeria del carcere per le cure del caso. Decisivo il tempestivo intervento degli agenti in servizio, che hanno effettuato immediatamente le manovre di rianimazione, affidando il detenuto alle cure dei medici, prontamente intervenuti a scongiurare il peggio. L’episodio si è verificato nella notte tra venerdì 21 e sabato 22 agosto e a renderlo noto, nella stessa giornata, è stato il sindacalista del Si.P.Pe Ciro Borrelli, che non ha ovviamente perso l’occasione per denunciare ancora una volta le difficili condizioni in cui opera il personale della Polizia Penitenziaria all’interno della Casa circondariale di Velletri. Un gesto estremo di disperazione che ancora una volta ha richiamato l’attenzione sulla necessità di rimpinguare l’organico degli agenti in servizio. Allo stato attuale il carcere di Velletri accoglie 525 detenuti, pur avendo una capienza che supera di un soffio le 400 unità, con ovvie difficoltà di gestione da parte della Polizia Penitenziaria, costretta anche a fare i conti con le carenze strutturali del carcere. "Questi gesti di disperazione - ha dichiarato il sindacalista del Si.P.Pe. - mettono a dura prova il personale di Polizia Penitenziaria che giornalmente affronta le sofferenze dei detenuti che, afflitti, privati della libertà e in condizioni di solitudine, decidono spesso di togliersi la vita. Questa notte il detenuto è stato salvato solo grazie al tempestivo intervento degli agenti in servizio, che ancora una volta hanno salvato la vita ad un altro essere umano. Nonostante la cronica carenza di personale e nonostante tutte le condizioni di disagio la Polizia Penitenziaria continua con spirito di abnegazione e sacrificio a svolgere il proprio compito in modo impeccabile. "La Direzione di Velletri e le Autorità competenti - ha concluso Ciro Borrelli - devono prendere atto della grande professionalità che mette in campo la Polizia Penitenziaria. Il personale va tutelato, incentivato, motivato e non abbandonato a se stesso". Gli agenti presenti, 51 unità in meno rispetto il numero regolamentare, non sono sufficienti a garantire un adeguato controllo dei detenuti. Il quadro che emerge del carcere di Velletri, come altri istituti penitenziari in Italia, è quello di un luogo in cui si vive e si lavora con troppi disagi. "La Direzione del Carcere di Velletri - hanno aggiunto dal Si.P.Pe. - deve tutelare, incentivare e motivare il Personale di Polizia Penitenziaria, non abbandonarlo a se stesso, preoccupandosi solo della rimozione delle antenne TV della caserma agenti". Mantova: 29enne evade dall’Opg, uccise la moglie davanti ai figli di Francesco Loiacono fanpage.it, 23 agosto 2015 Lucan Valcelian, 29enne romeno detenuto nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, è evaso dalla struttura intorno a Ferragosto. L’uomo, a febbraio, aveva ucciso a bastonate la moglie davanti ai suoi figli. Ricerche in tutta Italia e in Romania. Da Ferragosto non si hanno più notizie di Lucan Valcelian, 29enne romeno detenuto nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. L’uomo, lo scorso febbraio, si era macchiato dell’omicidio della moglie, Magda Valcelian, avvenuto in circostanze tragiche: il 29enne l’aveva infatti uccisa con un bastone davanti ai suoi figli, all’interno di un ex fabbrica di Moncalieri (Torino) divenuta un rifugio per sbandati e disperati. Dopo la sua cattura, avvenuta al termine di una fuga durata un giorno, l’uomo aveva ammesso il delitto. I giudici, sulla base dei problemi psichiatrici dell’uomo, ne avevano disposto la detenzione all’interno della struttura di Castiglione delle Stiviere, che proprio durante la detenzione del romeno ha affrontato il passaggio da Opg a Rems - residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza - previsto dal governo tra marzo e aprile scorsi ma rimasto in molti casi inattuato o rimandato. Non a Castiglione, però, il cui direttore Andrea Pinotti in un’intervista al Fatto quotidiano affermava: "A Castiglione non ci sono agenti di custodia, non ci sono celle, gli internati si muovono liberamente e hanno a disposizione bar, campo da calcio, palestra, piscina, laboratori ricreativi, una comunità esterna dove le persone con psicosi meno gravi lavorano e sono retribuite". Adesso le ricerche per ritrovare l’uomo proseguono incessantemente, sia in Italia sia in Romania, dove vivono alcuni suoi parenti e l’uomo si potrebbe essere diretto. Milano: Expo, l’esperienza "oltre le sbarre" dei detenuti di Bollate di Silvia Morosi Corriere della Sera, 23 agosto 2015 Tra i padiglioni in cerca di riscatto per rinascere. A portare a #CasaCorriere la loro esperienza di volontariato sotto il decumano sono stati Lella e Antonio. Dal primo maggio, insieme ad altri cento detenuti provenienti da diversi case circondariali lombardi, ogni giorno vengono a Expo e aiutano i visitatori e lo staff. Ce la mettono tutta, per vedere un’altra possibilità, per tornare, grazie al lavoro, alla vita. In comune hanno il sorriso e una luce particolare negli occhi, quella di chi sta lavorando con gli altri e per gli altri. "Si tratta di un’opportunità per stare in mezzo agli altri, per sentirsi utili - forse per la prima volta - ed essere immersi nel mondo", racconta Antonio. Il progetto di inserimento dei carcerati come lavoratori all’interno dell’Esposizione è nato con un protocollo siglato nel 2009 tra la Società e il Ministero della Giustizia con la volontà di creare e favorire un percorso che potesse offrire alle persone selezionate la possibilità di fare ingresso nella società gradualmente, dopo un periodo di detenzione. "Sono rinata, ho una possibilità reale e concreta di poter cambiare il mio percorso di vita. Quando la sera torniamo, sono in tanti a chiederci di questa esperienza", spiega Lella. "C’è un buon rapporto con tutti gli altri lavoratori", continua Antonio. All’incontro ha portato la sua testimonianza anche il commissario unico Giuseppe Sala, che ha voluto sottolineare come l’iniziativa avvenga "in un luogo unico e accogliente come Expo. In questi quattro anni di collaborazione non abbiamo mai avuto problemi, ma solo soddisfazioni nella collaborazione con le carceri". L’augurio, quindi, "è che quest’esperienza possa essere una delle buone pratiche dell’evento che lasciamo alla città e che possa essere portata avanti anche in futuro. La finalità principale del programma, infatti, è offrire ai detenuti la possibilità concreta di proporsi in una vita nuova". Salerno: detenuto a 88 anni, il Sindaco di Pontecagnano gli offre aiuto salernonotizie.it, 23 agosto 2015 Il Sindaco di Pontecagnano Faiano (Salerno), Ernesto Sica, è pronto ad aiutare Pasquale Rocco, di 88 anni, recluso nel carcere salernitano di Fuorni dopo aver violato per tre volte gli arresti domiciliari. "Non conosco nel dettaglio la vicenda", che è stata riferita dai quotidiani "La Repubblica" e "La Città di Salerno" - ha detto il sindaco - ma vista l’età del detenuto e le condizioni generali che lo riguardano, mi metto a disposizione per trovare una soluzione compatibile per la sua età e la sua salute. Ovviamente - ha aggiunto - sarà necessario che mi confronti con il legale, le autorità competenti e gli assistenti sociali". Il legale dell’anziano, l’avvocato Rosario Fiore, ha presentato un’istanza al Tribunale di Sorveglianza auspicando che siano trovate delle soluzioni alternative alla detenzione in carcere. Il caso, a quanto si apprende, sarà discusso nell’udienza che si terrà il 23 settembre prossimo. "Il mio cliente - afferma il legale - ha detto di essere ammalato ma la cosa non è documentata. Abbiamo richiesto una consulenza medica di parte che ci fornisca un’esatta diagnosi della sua condizione di salute. Frattanto, i sanitari della casa circondariale sostengono che le sue condizioni non sono incompatibili con il regime detentivo, anzi hanno assicurato ogni cura", spiega il legale, precisando però che gli arresti domiciliari si potranno ottenere solo in presenza di specifici motivi di salute. L’avvocato Fiore precisa che "tecnicamente non ci troviamo di fronte a un’ingiustizia. Il mio cliente è evaso dai domiciliari". La vicenda di Pasquale Rocco è venuta alla luce grazie a Donato Salzano, esponente dei radicali salernitani. "Nonostante avesse a disposizione due ore la mattina, dalle 9 alle 11 - aggiunge l’avv. Fiore - il mio cliente è uscito ed è stato sorpreso in un bar. Questo, avendo trasgredito ben tre volte, gli ha fatto perdere il beneficio degli arresti domiciliari". Ma Rocco è solo. Per questo motivo il legale lancia un appello affinché "possa essere ospitato in qualche struttura, ospizio o casa di cura, che si occupi di lui". Viterbo: detenuto ai domiciliari dà fuoco all’appartamento e s’impicca viterbooggi.it, 23 agosto 2015 Erano intervenuti per domare un incendio divampato in un appartamento. Credevano che fosse disabitato, ma quando sono entrati, i vigili del fuoco hanno trovato il corpo senza vita di un uomo, appeso per il collo a una corda. C’è voluto poco agli stessi vigili del fuoco e ai carabinieri del posto per accertare cosa era successo l’altra notte, intorno all’una, a Oriolo Romano, nei pressi della stazione ferroviaria: un uomo avrebbe appiccato il fuoco alla sua casa e subito dopo si sarebbe impiccato. La vittima, residente da qualche tempo a Oriolo Romano, sarebbe stata un detenuto agli arresti domiciliari. A dare l’allarme erano stati alcuni automobilisti in transito che hanno notato delle lingue di fuoco uscire dalle finestre insieme a un denso fumo. Hanno subito chiamato la sala operativa del 112, dalla quale è immediatamente partita la richiesta d’intervento per i vigili del fuoco, intervenuti da Bracciano e Viterbo. Quando sono entrati in azione i pompieri, le fiamme si erano già estese a gran parte dell’appartamento in cui viveva la vittima. In un primo momento era stato ipotizzato che l’incendio avesse avuto origine da un corto circuito o da un mozzicone di sigarette. Ma, come detto, nel volgere di poco tempo, il quadro è completamente mutato. Resta da accertare cosa abbia spinto l’uomo ad appiccare il fuoco alla casa e poi a impiccarsi. Nell’abitazione semidistrutta dalle fiamme non sarebbe stato trovato alcuno scritto lasciato dal suicida. I carabinieri stanno scavando nel suo passato recente per verificare se qualcosa o qualcuno lo abbia indotto direttamente o indirettamente a togliersi la vita. La procura della Repubblica ha aperto un fascicolo. Pavia: slitta l’apertura del polo psichiatrico in carcere, non c’è ancora il personale medico di Anna Ghezzi La Provincia Pavese Doveva aprire la prima settimana di settembre, il polo psichiatrico dentro il carcere di Torre del Gallo a Pavia: 24 posti contro i 90 previsti inizialmente, 10 posti per acuti. Ma l’apertura slitta ancora: "I lavori di ristrutturazione del padiglione procedono a spron battuto - spiega il consigliere regionale Giuseppe Villani che ieri è andato a visitare il carcere con l’assessore comunale ai servizi sociali Alice Moggi e Silvia Grossi del Pd di Voghera - ma l’Azienda ospedaliera non ha ancora bandito i posti di psichiatri e medici e infermieri necessari ad aprire la struttura. E non sono ancora stati fatti i corsi di formazione per gli agenti di polizia penitenziaria, per prepararli a gestire detenuti con problemi psichiatrici. Ci muoveremo verso Regione e Azienda ospedaliera per sollecitare l’apertura del reparto solo quando ci sarà il personale necessario". Nella struttura attualmente ci sono 563 detenuti, più della capienza complessiva che è pari a 544 posti. Nella vecchia struttura, che ha 244 posti, sono ospitati circa 340 detenuti, gli altri 220 sono nella nuova ala che dunque risulta meno sovraffollata. "Sono troppi - spiega Villani - Il personale è al di sotto degli standard, sono 264 tra agenti, impiegati e medici, dovrebbero essere il doppio. E il personale sanitario non è nelle condizioni di garantire assistenza di notte. La direzione ha chiesto di avviare un piano di riduzione dei detenuti e di bloccare i nuovi ingressi che nelle scorse settimane si sono susseguiti senza sosta da San Vittore". Si sta studiando anche di implementare la collaborazione tra Comune e casa circondariale per evitare in particolare i casi di detenuti che escono senza sapere dove andare, come avvenuto il 14 agosto: un detenuto è stato rilasciato e con le borse in mano si è avviato alla ricerca di un dormitorio. "Stiamo cercando di mettere in chiaro un percorso per collaborare sulle procedure di scarcerazione - spiega Moggi. Il detenuto scarcerato il 14 ore è in dormitorio da noi e mangia in mensa, ma bisognerebbe definire modalità di collaborazione per evitare ad esempio di mettere in difficoltà strutture e operatori con arrivi improvvisi di casi complessi da gestire. Col garante dei detenuti (Vanna Jahier, ndr), il terzo settore e l’Aler stiamo anche lavorando alla possibilità di progetti di accoglienza per quella fase tra la scarcerazione e l’eventuale rientro a casa o inizio di una nuova vita, per dare un supporto che non sia il dormitorio o il villaggio San Francecso, già stracolme di persone". Roma: il carcere fantasma di Ventotene, dove l’incuria cancella la storia di Jacopo Iacoboni La Stampa, 23 agosto 2015 La struttura fu fatta costruire nel 1795 da Ferdinando IV di Borbone come esperimento per la detenzione perfetta. La prigione monumento storico sta crollando nell’indifferenza generale. Fra queste mura, dove nell’Ottocento avevano sofferto i padri del Risorgimento, il regime fascista incarcerò Sandro Pertini, presidente della Repubblica". La lapide all’ingresso del carcere di Santo Stefano - l’isola deserta davanti a Ventotene dove furono prigionieri anche Umberto Terracini e Mauro Scoccimarro (Altiero Spinelli e Ernesto Rossi furono al confino nella vicinissima Ventotene) - ha i bordi in disfacimento, tra rovi, sterpaglie e mura pericolanti: ma non è ancora nulla. Il carcere-Panopticon, costruito nel 1795 da Ferdinando IV di Borbone come esperimento per la detenzione perfetta (forma a ferro di cavallo ispirata alle teorie di Bentham, controllo totale dei detenuti da una sola torretta centrale), un monumento inestimabile per la coscienza storica dell’Italia, vive ormai in uno stato di degrado irreversibile. Altro che Pompei: qui rischia di cadere tutto da un momento all’altro e fioccheranno i titoloni del giorno dopo. Se questo non è uno scandalo, di cui interessare tutti, dal governo Renzi alla presidenza della Repubblica, nulla lo è. Nel penitenziario di Santo Stefano è passata la nostra storia risorgimentale, liberale, anarchica, e infine antifascista (tra cui buona parte della Costituente). Dopo il 1848 ci vengono internati Silvio Spaventa e Luigi Settembrini. Nel 1900 viene spedito qui Gaetano Bresci, l’anarchico che uccide Umberto I, "il re mitraglia": Bresci "viene suicidato" dai secondini nell’infermeria del carcere. "È sepolto qui", racconta Salvatore Schiano di Colella, studioso e guida turistica. Ha l’incarico, per conto di un’associazione di Ventotene che ha ricevuto l’affidamento dal Comune, di provvedere ai lavori di manutenzione minima, tenere sostanzialmente aperto il sito. Ma Santo Stefano tutta è ormai quasi perduta. L’isola ha quattro perigliosissimi approdi, dunque è inutilizzabile turisticamente. L’area è di proprietà per tre quarti di un notaio napoletano-vicentino (che prova a venderla da anni senza risultato) e per un quarto del demanio pubblico: proprio nella zona di pertinenza del carcere. E qui comincia il vero scandalo. Questo che Giorgio Napolitano nel 2008 ha dichiarato patrimonio nazionale, e l’Unione europea dal 2013 decreta "patrimonio storico-artistico" da salvaguardare, presto sarà crollato. È questione di tempo. Nei tre piani del Panopticon, 33 celle ciascuno, 4 metri per 4, i pilastri di molte arcate non esistono più. Le porte delle celle sono divelte. I muri cadenti. Ruggine e ferraglie ovunque. Non c’è il minimo interessamento pubblico - Tesoro, Beni Culturali, Palazzo Chigi - ma non è una novità. "Negli anni - racconta Schiano di Colella - ci sono stati studi di fattibilità, sempre abortiti; un’azienda, la Promoter di Perugia, fece anche un piano, presto abbandonato. La politica? "Mai vista". Nel 2006 il governo promise qualcosa. Non realizzò nulla. "A parte la cappella centrale del carcere, ristrutturata orribilmente e con spesa folle, 397mila euro, dalla Regione Lazio nel 2010, gestione Polverini" Politici in visita? "Ai tempi del G8 a l’Aquila venne l’europarlamentare Tajani, disse che era da abbattere tutto e costruire ex novo". La nota sensibilità storico-cultuale del centrodestra berlusconiano. Del resto da queste parti ancora citano la battutona di Silvio Berlusconi ("Mussolini in fondo mandava gli oppositori a fare le vacanze a Ventotene"). Peccato che a Santo Stefano i detenuti vivessero in sette-otto in celle di 4 metri, ceppi ai piedi, e non vedessero il mare. Isolamento totale. Tassi di morte altissimi. Depressione. Follia. "Fine pena mai". Sandro Pertini ci stette quattordici mesi, nel 1929. Di qui passò nelle strutture di massima sicurezza del regime, a Turi, dove conobbe Gramsci, Pianosa, Ponza, le Tremiti, Ventotene (dove stette dal 39 al 43). Nel 1965 il carcere chiude. Nel 1992 il Tesoro lo dà in affidamento al Comune: pilatescamente, se ne lava le mani. Anche la parte privata dell’isola, se venduta, è totalmente antieconomica: l’intera area è sottoposta a vincoli di fascia A, non ci si può neanche fare il bagno. Quando si dice: ecco a cosa servirebbe un investimento pubblico; magari una fondazione mista totalmente a fondo perduto. Se esistesse in Italia uno Stato, o una cultura d’impresa. O forse anche la condanna italiana è un "fine pena mai". Immigrazione: i profughi "sfondano" la frontiera, la Macedonia chiede aiuto alla Ue Avvenire, 23 agosto 2015 ? Centinaia di migranti che erano bloccati al confine tra Grecia e Macedonia hanno sfondato il cordone di sicurezza e sono riusciti a passare la frontiera entrando in Macedonia. I migranti, soprattutto siriani in fuga dal Califfato, che da giorni attendevano nei pressi della stazione di Gevgelija in Macedonia per prendere un treno fino alla Serbia, sono riusciti a passare il confine. Gli agenti hanno lanciato granate stordenti per provare a bloccarli, ma non ci sono riusciti. I migranti sono entrati dopo una notte trascorsa nei campi sotto la pioggia e con scarso accesso a cibo e acqua. Sotto la pressione dei circa 3mila migranti in attesa a Gevgelija, il governo della Macedonia ha messo in funzione cinque treni al giorno, con capacità fino a 700 persone, che hanno l’unico obiettivo di trasportare le persone fino alla frontiera con la Serbia. I migranti vogliono arrivare in Serbia per poi entrare nella confinante Ungheria, Paese dell’Ue e dell’area Schengen. Per la maggior parte si tratta di cittadini provenienti dalla Siria, ma anche da Pakistan, Bangladesh e Somalia. Secondo i dati ufficiali, sono oltre 40mila i migranti arrivati in Macedonia negli ultimi due mesi. In Macedonia c’è lo stato di emergenza. Il Paese chiede un maggiore sostegno di Bruxelles e la partecipazione della Commissione europea per risolvere l’emergenza immigrazione. I migranti che entrano dalla Grecia sono passati da 500 a 3mila al giorno, ha detto il ministro degli Esteri Popovski, e l’ assistenza che riceviamo dalla comunità internazionale è simbolico, il peso principale è a carico delle istituzioni macedoni. Oltre duemila migranti hanno trascorso sotto la pioggia la notte tra venerdì e sabato in una zona alla frontiera tra Grecia e Macedonia, controllati dalla polizia macedone, mentre altre centinaia continuavano ad arrivare. La maggior parte ha trascorso la notte in bianco o ha dormito sotto le stelle, alcuni hanno riposato nelle tende, in questa terra di nessuno tra il villaggio greco di Idomeni e la città macedone di Gevgelija. Fortissimo odore di fumo, persone che vagavano tra cumuli di rifiuti, sguardo fisso verso la frontiera dove le forze speciali della polizia sono dispiegate da giovedì: la Macedonia ha decretato lo stato d’emergenza per tentare di gestire il flusso migratorio. Durante la notte, malgrado le lacrime dei tanti bambini, la polizia ha raddoppiato lo spessore del filo spinato e ha spinto indietro la folla, che gridava "Aiutateci". Molti "non riuscivano a proteggersi dalla pioggia. Una madre ha perso sua figlia e ha gridato tutta la notte. Io sono qui da dieci giorni. Voglio andare in Norvegia", ha gridato Samer Moin, un medico siriano di49 anni. "Questi uomini sono senza cuore, a loro non importa della nostra tragedia", afferma uno dei tanti profughi siriani, Yousef, mostrando una bimba piccola ai poliziotti macedoni impassibili. L’uso della forza, ha spiegato a sua volta un poliziotto all’agenzia di stampa americana Ap, è dovuto agli ordini ricevuti dal governo di bloccare l’ingresso dei migranti in Macedonia, "fino a nuov’ordine, la situazione resterà così". L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha espresso oggi preoccupazione per la situazione sempre più precaria al confine tra Grecia e Macedonia. L’Alto Commissario ONU per i Rifugiati António Guterres ha parlato della situazione con Nikola Poposki, ministro degli Esteri della Macedonia, ed ha ricevuto assicurazioni sul fatto che in futuro i confini non verranno chiusi. L’Unhcr esprime particolare preoccupazione per le migliaia di rifugiati e migranti vulnerabili, in particolare donne e bambini, che si trovano ora ammassati nella parte greca del confine in condizioni che continuano a peggiorare. L’Agenzia, comprendendo le pressioni che sta affrontando la Macedonia e le legittime preoccupazioni sulla sicurezza, fa appello al Governo per mettere in atto meccanismi che consentano di garantire una gestione ordinata delle frontiere senza trascurare le esigenze di protezione. In particolare, l’Agenzia ha detto di aver incoraggiato il governo a lavorare con l’Unhcr per realizzare adeguate capacità di accoglienza nel paese, così come una procedura organizzata per la registrazione e l’identificazione. "L’Unhcr sta anche facendo appello alle autorità greche per rafforzare le modalità di registrazione e di accoglienza per le persone bisognose di protezione internazionale, per fornire assistenza urgente alle persone bloccate nella parte greca e per aiutarle a trasferirsi verso strutture di accoglienza lontane dal confine", aggiunge il comunicato. L’Unhcr ha detto di essere pronta a fornire assistenza ad entrambi i governi per affrontare tali gravosi impegni. "Reiteriamo i precedenti appelli all’Unione Europea affinché intensifichi il sostegno ai paesi interessati e coinvolti nel flusso dei rifugiati nell’Europa sud-orientale, anche attraverso una robusta attuazione dell’Agenda Ue sulla migrazione e l’aumento delle alternative legali per l’ingresso in Europa" riporta la nota. L’Unhcr ha infine invitato l’Europa ad agire insieme per rispondere a questa crisi crescente e aiutare i paesi maggiormente interessati, come Grecia, Macedonia e Serbia. Droghe: "ho iniziato a 16 anni e ho provato di tutto" di Elisa Fais Il Mattino di Padova, 23 agosto 2015 La testimonianza di un diciannovenne appena diplomato al liceo. Le risposte in un questionario: "I miei genitori? Sanno che fumo". Ha superato l’esame di maturità, guadagnandosi il diploma in un liceo scientifico di Padova con ottimi voti. La sua, è una famiglia come tante altre e nella vita non gli è mai mancato nulla. Eppure, questo ragazzo padovano, a soli 19 anni, si era già avvicinato al mondo della droga. Lo si evince dalle sue risposte a un questionario anonimo che avrebbe dovuto far parte di una ricerca. È una testimonianza singola, non fa statistica. Ma ciò che dice fa riflettere. Soprattutto dopo la morte del ragazzo al Cocoricò e della giovane sulla spiaggia a Messina, con il mondo delle discoteche messo sotto accusa. Soprattutto perché a Padova è partito un progetto (Icatt) per il recupero dei detenuti tossicodipendenti. E soprattutto perché il provveditore delle carceri del Triveneto Enrico Sbriglia dopo trent’anni mette in dubbio la validità dei metodi repressivi. Che tipo di droga hai assunto finora? "Cannabis, ketamina, mdma, lsd". Quando hai provato per la prima volta questi tipi di droga? "Ho iniziato a fumare cannabis a 16 anni, in vacanza. La ketamina a 18 anni, sempre durante una vacanza con amici. L’mdma a 18 anni a una festa. L’lsd, appena maggiorenne, a una festa casa di amici". Perché le hai provate? "Mi incuriosisce il modo in cui le sostanze psicotrope agiscono sul cervello e le sensazioni nuove che provocano. La cannabis ad esempio mi piace perché mi rilassa, possiede proprietà mediche". Cosa hai provato quando la droga ha fatto effetto? "Quando fumo cannabis percepisco rilassamento, ilarità, accumulo di molti pensieri". Cosa è successo quando hai esagerato? "Ho esagerato una volta sola con la cannabis. Sono stato abbastanza male, ma non abbastanza da chiamare i soccorsi. L’alcol mi fa stare molto peggio". Come ti senti il giorno dopo? "Sto bene, studio ed esco con gli amici come faccio sempre". Quante volte hai assunto droga? "Assumo solo cannabis. Gli altri tipi di doga li ho solo provati". Come ti procuri la droga? "L’acquisto per strada o fuori scuola. Mi rivolgo ad amici italiani o di origine marocchina". Ti dai delle regole per il consumo di droga? "Mi autolimito. Le droghe pesanti le rifiuto quasi sempre, se le assumo lo faccio perché sono curioso". Se la tua famiglia sapesse che hai fatto uso di stupefacenti, cosa pensi che accadrebbe? "I miei genitori sanno che fumo cannabis. All’inizio non riuscivano ad accettarlo e non mi appoggiavano. Poi, si sono informati e lo hanno accettato". Se qualcuno ti dicesse che sei un drogato tu cosa risponderesti? "Droga è qualsiasi sostanza che modifica le condizioni psicomotorie di una persona. Anche il caffè e gli alcolici son droghe secondo l’Fda Americana. Ogni sostanza presa in eccesso provoca dei danni. Le droghe sono sempre esistite e ci circondano ogni giorno (ad esempio i medicinali). Non mi ritengo un drogato o tossico perché la mia vera e unica dipendenza è dal tabacco. Le sigarette causano gravi malattie e milioni di morti, eppure non sono considerate una droga. Invece i casi certificati di morte per cannabis, semplicemente, non esistono". Droghe: il Provveditore Sbriglia "legalizzare il consumo, solo reprimere non serve" di Elisa Fais Il Mattino di Padova, 23 agosto 2015 Il Provveditore delle carceri del Triveneto: "In passato sarei stato contrario ma dopo trent’anni di lavoro ho dubbi sull’efficacia degli strumenti finora utilizzati". "Dopo tanti anni di esperienza, ho capito che le pene meramente detentive non servono a fermare la reiterazione dei reati legati alla tossicodipendenza. Quando una strategia non funziona, bisogna cambiare metodo. Quindi, perché non muoversi in un’ottica di legalizzazione del consumo delle sostanze stupefacenti?". Sono parole forti quelle di Enrico Sbriglia, provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto. La sua, è una riflessione che arriva dopo quasi trent’anni al servizio del Ministero della Giustizia. Nel nostro Paese, i consumatori abituali di stupefacenti rappresentano il 30% della popolazione carceraria. E chi commette un crimine legato alla droga, tende a rifarlo fuori dalle sbarre. Lo confermano i numeri: per un tossicodipendente il rischio di arrivare alla revoca della misura alternativa al carcere è di quasi quattro volte superiore ad un non tossicodipendente. Padova, assieme a Bologna, sono i crocevia della droga d’Italia. Gli ultimi dati sul traffico e il contrasto delle sostanze illegali in Veneto, diffusi dalla Direzione centrale per i servizi antidroga, registrano il non invidiabile primato: ben il 41% delle operazioni venete sono state effettuate alla città del Santo. Il fenomeno è in aumento. Si passa da 690 chili di sostanze stupefacenti sequestrate nel 2010 in Veneto, a 1663 chili nel 2014. Sempre l’anno scorso, solo a Padova, sono state segnalate per traffico illecito 616 persone delle quali 176 italiani e 440 cittadini stranieri. Quasi tutti sono passati dalla Casa circondariale di Padova, situata affianco al carcere Due Palazzi. La struttura, inaugurata negli anni 70, accoglie sia i detenuti in attesa di giudizio che i condannati con pene inferiori a cinque anni. Oggi, la metà dei reclusi nella Casa circondariale padovana è tossicodipendente. Nel novembre del 2014 è stata inaugurata una sezione speciale a custodia attenuata, denominata Icatt: un padiglione completamente rinnovato ospita trenta detenuti, per lo più giovani, con problemi connessi alla tossicodipendenza. Si tratta di un progetto pilota per la nostra Regione, che ha lo scopo di riabilitare chi sceglie volontariamente di intraprendere un percorso terapeutico. Si differenzia dalle altre sezioni perché i ragazzi sono coinvolti in attività di gruppo e sono quotidianamente seguiti da medici e psicologi dell’Ulss 16. Dottor Sbriglia, perché è nato il progetto Icatt? "Abbiamo modificato l’ambiente favorendo un trattamento sanitario della patologia. La detenzione è valida se riesce a far nascere un senso di responsabilità in queste persone. L’auspicio è che attraverso quest’esperienza, molto simile ad una comunità, possano liberarsi da un problema che a oggi le istituzioni stentano a governare con risultati effettivi, misurabili e soprattutto duraturi". Perché la gestione dei detenuti tossicodipendenti rimane un problema irrisolto? "Quando ci si confronta con le dipendenze, non è facile dare soluzioni. La lettura esclusivamente securitaria di contrasto alla tossicodipendenza, non pare aver portato buoni risultati. Non trovo fuori luogo pensare a soluzioni alternative preventive. Non si arriva in carcere solo perché si fa uso di droga. Ma lo stato di tossicodipendenza favorisce la commissione di taluni odiosi reati, spesso predatori, che più di altri allarmano la collettività. Bisogna chiedersi se una lettura diversa, in un’ottica di governo della dipendenza, possa essere una strada da percorrere. Parlo di una normativa che preveda la legalizzazione, e non la liberalizzazione, delle sostanze stupefacenti, per un consumo controllato e vigilato. In passato sarei stato fortemente contrario, ma dopo trent’anni all’interno delle carceri ho il dovere di mettere in dubbio l’efficacia degli strumenti finora utilizzati". Il Progetto Icatt "gli imprenditori ci aiutino con la produzione in carcere" L’Istituto a custodia attenuata per tossicodipendenti, che ha aperto le sue porte a novembre dello scorso anno all’interno della Casa circondariale di Padova, non può lavorare a pieno regime a causa della carenza di fondi e di personale, soprattutto di polizia penitenziaria. Ad oggi, i detenuti sono trentacinque e occupano un solo piano. Ma potrebbero essere molti di più, almeno ottanta. A dirlo è chi lavora full time all’interno del mondo delle carceri: il direttore della Casa circondariale, Antonella Reale; il vice commissario di Polizia penitenziaria, Antonio Zaza; il direttore dell’Ufficio trattamento detenuti, Angela Venezia e il responsabile dell’Area educativa, Domenico Cucinotta. "Facciamo appello a piccoli e grandi imprenditori perché spostino la loro produzione all’interno della Casa circondariale di Padova. L’ingresso di aziende in carcere farebbe da volano al progetto", dichiarano uniti. Un po’ come avviene già al vicino carcere "Due Palazzi", dove centinaia di detenuti sono impegnati in attività di ogni tipo: dalla pasticceria Giotto, al call center, all’assemblaggio di biciclette. Presso l’Icatt si svolgono diverse attività per la riabilitazione fisica e psichica dei tossicodipendenti, in collaborazione con l’Ulss 16. I detenuti che entrano nel programma speciale sono selezionati da un equipe e firmano un patto di trattamento. In caso di successo può fare da ponte a misure alternative al carcere. "Finora il programma ha dato ottimi risultati", specifica Antonella Reale, "è aumentato il numero di detenuti che ha ottenuto una misura alternativa e, una volta fuori, non ha avuto ricadute. Su 60 casi trattati, c’è stato un solo ritiro. Questo dimostra che si tratta della via da percorrere e sulla quale investire". I numeri del Sert: 1.287 persone in cura Il Servizio per le tossicodipendenze dell’Ulss 16 segue il numero di pazienti più alto del Veneto. Attualmente il Sert di Padova ha in carico 1.287 persone con problemi di droga. Quasi 140 i giovanissimi: si parla di ragazzi e ragazze di età compresa tra i 15 e i 24 anni. "Abbiamo avuto a che fare con una ragazzina che a 15 anni faceva già uso di eroina", dichiara Andrea Vendramin, direttore del dipartimento, "la giovane padovana a prima vista era insospettabile, dava l’impressione di essere una ragazza come tante altre: di bell’aspetto, non trasandata e sveglia. A volte ci troviamo di fronte a ventenni che rifiutano qualunque tipo di aiuto. Non intendono sottoporsi a colloqui con le educatrici e le psicologhe, ma accettano solo la terapia a base di metadone. La dipendenza ha già causato in loro una compromissione a livello mentale". Che diano effetti stimolanti, allucinogeni o dissociativi, il risultato non cambia: tutte le droghe agiscono sul sistema nervoso. E spesso, i danni sono irreparabili. Possono sopraggiungere episodi di epilessia, arresto cardiaco, danni celebrali e invalidità motorie. Secondo il dottor Vendramin è però indispensabile capire lo stile di consumo. "Per semplificare, esistono tre classi di consumatori di sostanze stupefacenti", spiega, "il primo profilo è rappresentato dal consumatore saltuario. Si stima che almeno il 20% della popolazione occidentale abbia provato almeno una volta ad assumere una sostanza stupefacente. Il secondo profilo si delinea nel consumatore abituale. Infine c’è il consumatore che ha perso il controllo e ha sviluppato una malattia sociale multifattoriale: per queste persone procacciarsi una dose diventa l’obbiettivo della giornata. È il dna di un individuo e l’ambiente in cui vive a influenzare la categoria di appartenenza". I protagonisti del progetto: "Lavoriamo su di noi per un futuro migliore" Dal capo della gang della Guizza al fratello della marocchina uccisa a bastonate dal padre. A venticinque anni, la maggior parte dei giovani padovani abita ancora con i genitori. Ma la storia di Denis, Hamza, Khalil e Ahmedè completamente diversa perché, a venticinque anni, si trovano rinchiusi in un carcere per spaccio e rapina. Vendendo droga in strada, hanno finito per provarla, cadendo così nel vortice della tossicodipendenza. E ora, dietro le sbarre, cercano un riscatto: hanno scelto di entrare nella sezione di custodia attenuata Icatt. "Io sono qua da tredici mesi e me ne mancano ancora un bel po’, in via provvisoria sette", spiega Pietro Denis Germanà Nucifora, 24 anni, di origini siciliane. "Ora sto cercando di lavorare sulla mia personalità per avere un futuro migliore. Perché una volta fuori, starà a me affrontare i problemi. Solo quando si vuole una cosa, si riesce a cambiarla. Se invece parti arrabbiato col mondo intero perché non è giusta la pena che ti hanno inflitto, ne esci sempre peggio". Una personalità, quella di Denis, che lo ha portato a essere prima il leader di una baby gang alla Guizza, poi il capo indiscusso di un gruppo di ventenni che costringevano i coetanei a rubare gioielli ai familiari per poi finanziarsi lo spaccio. Ora, Denis porta al collo un Tau legato ad un cordoncino rosso: la croce francescana simbolo di redenzione. Accanto a lui c’è Hamza Lhasni, 28 anni, che porta sul viso il tatuaggio di una lacrima. "In carcere faccio il barbiere, ma il mio sogno una volta uscito da qui è fare il personal trainer in una palestra", dice. "Andavo in palestra anche quando ero fuori, solo che iniziavo e poi smettevo: sai com’è. Sono in carcere da quasi otto mesi, sto capendo il valore della mia vita, i miei sbagli. Mi mancano ancora tre anni e mezzo". Hamza in passato è stato accusato più volte di rapina: l’ultima è avvenuta l’anno scorso ai danni di un’anziana scaraventata a terra mentre passeggiava in zona Sacra Famiglia a Padova. Ben più grave invece è il reato commesso dal padre di Hamza, che sta scontando una condanna di 14 anni al Due Palazzi per aver ucciso nel 2004 la figlia diciannovenne a colpi di bastone perché troppo occidentalizzata. Hamza era nella stanza accanto e all’epoca dei fatti era un adolescente. "Se ci fosse la possibilità di lavorare in carcere, lo farei. Per noi sarebbe più facile trovare un lavoro dopo, se uscissimo di qui con un attestato", sottolinea Hamza. E Denis aggiunge: "Non è scontato trovare un impiego fuori perché se hai precedenti non ti prendono". È invece dentro da dieci mesi Ahmed Gasmi, 27 anni, tunisino, per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Il giovane è stato sorpreso mentre cedeva marijuana a Loreggia. "Ho una bambina, devo per forza cambiare", ammette Ahmed, "Tutti qui abbiamo problemi di tossicodipendenza, tanti di noi hanno commesso reati sotto l’effetto di droga. Il mio lavoro futuro? Ho tanti sogni, ma devo prima chiarirmi le idee, quindi li tengo nel cassetto". Nei mesi scorsi i detenuti hanno seguito un corso d’arte, i loro disegni sono appesi in una sala comune. "Non avevo mai disegnato prima, però piano piano ho cominciato e ho fatto anche delle cose belle. Il maestro usa tecniche che non ho mai visto in tutta la vita", spiega Ahmed, "in questa sezione c’è più spazio rispetto all’ordinaria. Di là siamo stati in celle da nove dove la privacy non esiste, qui almeno siamo in quattro". Khalil Jamai, 25 anni, sta scontando una pena di cinque anni. Assieme ad altri compagni, spacciava nella zona di Piazza delle Erbe. "Spazio o no, un carcere rimane un carcere. Ci sono sempre le sbarre", conclude Khalil. Egitto: condannato all’ergastolo guida suprema dei fratelli musulmani Aki, 23 agosto 2015 Un tribunale egiziano ha condannato all’ergastolo la Guida Suprema dei Fratelli Musulmani, Mohamed Badie, e altri 18 esponenti del movimento al bando per terrorismo, in relazione ai fatti di violenza avvenuti a Port Said nell’agosto del 2013, sulla scia delle proteste contro la destituzione dell’ex presidente islamico Mohamed Morsi. Secondo i media locali, oltre a Badie, sono stati condannati al carcere tra gli altri Mohamed El-Beltagy e il predicatore islamista Safwat Hegazy. Badie è stato riconosciuto colpevole di aver istigato alla violenza e all’omicidio un gruppo di manifestanti pro Morsi che assaltarono a Port Said una stazione della polizia, uccidendo un agente e sottraendo armi. La Guida Suprema dei Fratelli Musulmani ha già ricevuto due condanne a morte in altri processi che lo hanno visto imputato. Uno riguarda un’evasione dal carcere. Nel secondo processo è stato riconosciuto colpevole insieme ad altri 13 imputati di aver "pianificato attacchi contro lo stato" durante l’estate del 2013. El Salvador: 14 membri stessa gang trovati uccisi in carcere Ansa, 23 agosto 2015 Almeno 14 membri di una stessa gang sono stati uccisi in un carcere nel nord di El Salvador, rendono noto le autorità locali citate dalla Bbc. I corpi delle vittime, tutti appartenenti alla famigerata banda Barrio, sono stati scoperti in due luoghi distinti durante un controllo di routine nella prigione di Quezaltepeque. Le morti sono ritenute il risultato di una faida interna. Le autorità carcerarie e la polizia hanno avviato un’indagine.