Giustizia: in un mese 6 detenuti suicidi, sovraffollamento calato ma i problemi restano Adnkronos, 22 agosto 2015 Roma Regina Coeli, Terni, Teramo, Pisa, Alba e Carinola. Sono le sei carceri italiane nelle quali, in soli trenta giorni, si tolti la vita altrettanti detenuti. E il dato oggettivo solleva le proteste del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Sei detenuti suicidi in soli 30 giorni dovrebbero fare riflettere seriamente. Altro che Stati Generali dell’esecuzione penale: qui ci vogliono soluzioni immediate e concrete", dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe. "In un anno la popolazione detenuta in Italia è calata di poche migliaia di unità, ma i problemi permangono ed in carcere purtroppo si continua a morire", aggiunge Capece. "Il 30 luglio scorso erano presenti nelle celle 52.144 detenuti, che erano l’anno prima 54.414. La situazione nelle carceri italiane resta ad alta tensione: ogni giorno, i poliziotti penitenziari nella prima linea delle sezioni detentive hanno a che fare, in media, con almeno 18 atti di autolesionismo da parte dei detenuti, 3 tentati suicidi sventati dalla Polizia Penitenziaria, 10 colluttazioni e 3 ferimenti. E questo determina condizioni stressanti per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, sempre a contatto con i disagi umani e con conseguenti fattori di stress. E allora servono soluzioni urgenti e concrete: non c’è il tempo di aspettare la fine dei lavori degli Stati Generali sull’esecuzione penale". Il leader del Sappe richiama un pronunciamento del Comitato nazionale per la Bioetica che sui suicidi in carcere aveva sottolineato come "il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere". "Ma" conclude Capece "fondamentale è eliminare l’ozio nelle celle. Altro che vigilanza dinamica. L’Amministrazione Penitenziaria, nonostante i richiami di Bruxelles, non ha affatto migliorato le condizioni di vivibilità nelle celle, perché ad esempio il numero dei detenuti che lavorano è irrisorio rispetto ai presenti, quasi tutti alle dipendenze del Dap in lavori di pulizia o comunque interni al carcere, poche ore a settimana. Eppure chi sconta la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4%, contro il 19% di chi fruisce di misure alternative e addirittura dell’1% di chi è inserito nel circuito produttivo. Tenere i detenuti fuori dalle celle buona parte del giorno a non far nulla è una scelta assurda e pericolosa. Dovrebbero lavorare, i meno pericolosi in progetti di recupero ambientale nelle città, pulendo i greti dei fiumi o i giardini pubblici, gli altri in attività dentro al carcere. Manca allora certamente la volontà politica ma questo è anche il risultato delle politiche penitenziarie sbagliate degli ultimi 30 anni, che hanno lasciato solamente al sacrificio ed alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle sovraffollate carceri italiane. Ed è del tutto evidente che se i detenuti non lavorano, il percorso del loro trattamento rieducativo è assai tortuoso e difficile. E gli eventi critici in carcere, primi tra tutti i suicidi, aumentano drammaticamente". Giustizia: in Gu ratifica Convenzione Onu "sparizioni di Stato crimine contro l’umanità" Public Policy, 22 agosto 2015 È stata pubblicata in Gazzetta ufficiale la ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 dicembre 2006. Ovvero la convenzione che tutela le persone dalle sparizioni messe in atto dalle forze di polizia, come fu per i Desaparecidos in Sud America durante la dittatura militare in Cile e in Argentina. La Convenzione configura infatti quale reato l’arresto, la detenzione, il rapimento od ogni altra forma di privazione della libertà commessa da parte di agenti dello Stato o da persone o gruppi di persone che agiscono con l’autorizzazione, il sostegno o l’acquiescenza dello Stato, seguita dal rifiuto di riconoscere la privazione della libertà o dall’occultamento della sorte riservata alla persona scomparsa e del luogo in cui questa si trova, ponendola al di fuori della protezione della legge. Nessuna circostanza eccezionale può essere invocata dallo Stato per giustificare la sparizione forzata. Il principale obbligo per gli Stati parte della Convenzione è dunque quello di prevedere, all’interno della legislazione nazionale, una norma che condanni come reato la pratica delle sparizioni forzate. Inoltre, l’art. 5 del nuovo strumento internazionale definisce il ricorso generalizzato e sistematico alle sparizioni forzate come crimine contro l’umanità. Ad oggi 93 Paesi hanno firmato la Convenzione e 40, di cui 7 sono membri dell’Unione Europea, l’hanno ratificata o vi hanno aderito. Questi sono: Albania, Argentina, Armenia, Austria, Belgio, Bolivia, Bosnia Erzegovina, Brasile, Burkina Faso, Cambogia, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba1, Ecuador, Francia, Gabon, Germania, Giappone, Honduras, Iraq, Kazakhstan, Lituania, Mali, Mauritania, Messico, Montenegro, Marocco, Nigeria, Olanda, Panama, Paraguay, Perù, Samoa, Senegal, Serbia, Spagna, Tunisia, Uruguay e Zambia. Giustizia: coppia dell’acido. Martina separata dal figlio. I giudici: non rispetta la vita di Alessandro Tittozzi Il Messaggero, 22 agosto 2015 La "vicenda criminosa" evidenzia da parte di Martina Levato "un’assenza di pensiero e di sentimento rispetto alla vita", scrive il Tribunale per i minorenni che spiega anche come il "progetto procreativo" di Levato e Boettcher si sia sviluppato "insieme al progetto criminoso". Nel provvedimento, infatti, il collegio, presieduto da Antonella Brambilla, ricorda come Martina nell’ambito del procedimento penale abbia sostenuto di "aver agito nei confronti della vittima", ossia Pietro Barbini (per questo caso è già stata condannata a 14 anni), "per purificarsi dai rapporti sessuali intrattenuti con soggetti diversi dal suo partner e poter così diventare una madre e una compagna degna". Ai fini del "presente giudizio", scrivono i giudici che hanno collocato il figlio di Martina presso i servizi sociali, "rileva come la donna avesse subordinato il progetto procreativo e genitoriale al programma criminoso, sprezzante, non solo delle possibili conseguenze sul piano della propria libertà personale, ma anche di quelle che sarebbero ricadute fin dai primi mesi di vita sul bambino, sulla propria possibilità di prendersi cura di lui in una condizione di normalità". E per i giudici rileva anche che Levato "pur consapevole del proprio stato di gravidanza, insieme al compagno, abbia ordito e commesso azioni gravissime, anche con l’uso di sostanze pericolose", l’acido, "potenzialmente dannose per la propria salute e per quella del bambino che portava in grembo". Il caso dell’aggressione a Barbini e gli altri blitz con l’acido, per i quali la giovane è ancora a processo, evidenziano, scrive il Tribunale, "sia nella loro gravità che nel complesso dei motivi che sembrano ad essi correlati, un’assenza di pensiero e di sentimento rispetto alla vita che si stava formando ed una completa preponderanza di aspetti inerenti alla dimensione aggressiva e rivendicativa". La Levato è stata dimessa dalla clinica e, dopo le terapie post parto, è tornata nel carcere di San Vittore. Il piccolo Achille, figlio della donna e di Alexander Boettcher, la coppia condannata a 14 anni di reclusione per l’aggressione con l’acido a Pietro Barbini, è stato dimesso dalla clinica Mangiagalli di Milano intorno alle 13. Il neonato (venuto alla luce il giorno di Ferragosto) è stato trasferito presso i servizi sociali del Comune meneghino, che ora dovranno individuare una comunità dove far crescere il bambino. Stabilite anche le procedure per vedere il piccolo. Secondo il provvedimento dei giudici minorili anche i nonni, oltre alla madre e al padre, potranno far visita al piccolo Achille, con modalità protette da stabilire da parte dei servizi sociali. Nell’ordinanza i giudici minorili citano la perizia psichiatrica che nel processo penale aveva valutato Martina Levato come "soggetto borderline e pericoloso socialmente", come Boettcher. Riferimenti alla perizia che, secondo l’avvocato Laura Cossar, legale dei genitori di Martina, non sono appropriati perché la perizia era stata disposta in un altro procedimento, quello penale. Martina Levato intanto continua a ribadire che vorrebbe essere trasferita assieme al figlio neonato in una delle comunità di don Mazzi o in alternativa all’Icam, l’Istituto per madri detenute con figli. La sua difesa formalizzerà una istanza in tal senso. Don Mazzi ha ribadito la sua disponibilità ad accoglierli in una delle sue strutture: "Siamo pronti ad accoglierli. Eravamo pronti anche prima che Martina partorisse". Don Mazzi ha detto di avere parlato con gli avvocati e con i genitori della ragazza. "Noi siamo pronti" ha spiegato il sacerdote convinto che "Martina deve stare con il bambino. Deve allattarlo perché questa è l’unica via per salvare la mamma e il bambino". Sul centro che potrebbe ospitarli, una della quarantina di strutture della fondazione Exodus sparse per l’Italia, don Mazzi ha preferito non dire molto. Giustizia: "devi ritornare in cella" e solo in quel momento Martina scoppia in lacrime di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 22 agosto 2015 L’auto azzurra, una Peugeot con i vetri posteriori oscurati, è entrata dal retro della clinica Mangiagalli a metà mattina. L’autista ha aspettato in un angolo defilato del cortile. Alle 12.32, preavvertito da una chiamata, è sceso, ha aperto la portiera e molto in fretta ha caricato un neonato tranquillo, stretto tra le braccia di una giovane donna, con un’altra funzionaria al seguito. Poi è uscita da via Francesco Sforza, spiazzando ratti quelli che aspettavano di vederla dall’altro lato. Fuori dai riflettori, "lontano dalla vicenda mediatica" come hanno scritto i giudici del Tribunale per i minorenni, è andato il figlio di Martina Levato e Alexander Boettcher, condannati per aver sfigurato con l’acido l’ex compagno di liceo di lei e indagati per altre "crudeli, impietose, premeditate" aggressioni. Il piccolo Achille, 3,8 chili e sei giorni di vita, è stato portato fuori Milano, in una comunità per soli minori, dì tipo familiare. Starà da solo, anche se potrà incontrare, "con modalità protette ed osservate", entrambi i genitori e i parenti. La sorte decisa per lui si è ripercossa nel giro di poco su quella della madre. Alle 15,15, sempre dal retro della clinica, a bordo di un Suv nero (mentre la camionetta della polizia penitenziaria era parcheggiata all’ingresso, per depistare i giornalisti), è uscita anche lei, diretta a San Vittore che aveva lasciato il 14 agosto, solo per partorire. Mattina concitata, quella di ieri, per il personale della Mangiagalli. Cominciata presto. Nel momento in cui, alle 8.15, il direttore sanitario Basilio Tiso ha firmato le lettere di dimissioni per madre e figlio mandandole per conoscenza anche al Tribunale per i minorenni. Da quell’invio, ogni momento era buono per l’eventuale trasferimento "altrove". Prima delle 9 la telefonata del responsabile per il Comune, tutore provvisorio del bambino, che annunciava l’immediato arrivo di quattro assistenti sociali. Due giovani operatrici, accompagnate dal personale socio-sanitario della clinica, sono andate dal bimbo, che dormiva nel reparto di patologia neonatale, e lo hanno preparato per l’uscita. Mentre le altre due, col personale ospedaliero, attendevano "a minuti" il provvedimento del Tribunale per i minorenni. Ma dopo un’ora, alle io, orario in cui Martina aveva il permesso di incontrare ogni giorno il figlio, il fax che racchiudeva i destini di Achille ancora non era arrivato. Almeno venti persone lo stavano aspettando. Il direttore sanitario ha dato allora disposizione di portare la culla nella stanza piantonata giorno e notte dalle guardie carcerarie, come se nulla fosse. L’ospedale, intanto, si riempiva di poliziotti in borghese: almeno quattro, aggiuntivi rispetto al solito davanti alla stanza della Levato. Poco più in là, il consueto via vai di puerpere, carrozzine e neonati. II fax con il provvedimento dei giudici è arrivato alle 12.15, e a quel punto, come in un videogame in cui tutto è già stato previsto, le varie pedine si sono mosse, secondo i percorsi concordati. Due assistenti sociali del Comune sono andati a prendere il bimbo e lo hanno portato via con l’auto azzurra. Mentre le altre due, col personale ospedaliero, iniziavano a spiegare a Martina cosa stava succedendo. Che il figlio era stato portato in comunità e che lei potrà vederlo, forse non ogni giorno, Lei ascoltava, immobile. Si è scossa solo quando le hanno chiarito che sarebbe tornata in carcere. Li ha avuto la crisi di pianto violenta, incontenibile. Con lei è entrata in stanza la madre mentre una parte dei medici, tra cui il primario Alessandra Kustermann, non voleva farla uscire e l’avvocato, Stefano De Cesare, provava a sostenere la tesi di "condizioni postoperatorie non compatibili col carcere". Ma la lettera di dimissioni, pur con ogni cautela, parlava chiaro, ed è stata ribadita dal Tribunale. Giustizia: i "caporali" rubano un miliardo l’anno, arriva la denuncia della Flai-Cgil di Giuliano Foschini La Repubblica, 22 agosto 2015 Pizzo sulle paghe e contributi non versati il business dei nuovi sfruttatori. A Trani indagine su agenzie del lavoro e tour operator. Il ministro Martina: giovedì vertice straordinario con Poletti. Racconta Marco, un caporale bulgaro che raccatta braccianti a pochi chilometri dai campi dove è morta Paola Clemente, che ultimamente c’è una merce particolarmente preziosa nel loro speciale mercato: "Gli italiani. Prima erano spariti, c’erano soltanto neri o est europei come me. Il lavoro nei campi veniva schifato. Ora, invece, hanno di nuovo bisogno di soldi e allora sono tutti qui. Accettano poco, non protestano mai". Marco è uno del mestiere. E in effetti non sbaglia. Gli schiavi italiani sono diventati la parte più appetibile del grande business del nuovo caporalato, un’enorme macchina mangia soldi che fa invidia al traffico di droga: sugli otto miliardi annui di giri di fatturato all’anno dell’agroalimentare, stima la Cgil Flai che non meno di un miliardo viene mangiato dalla fabbrica dei caporali. Seicento milioni sono i mancati contributi versati all’Inps, non meno di 400 sono invece i milioni "rubati" ai braccianti per l’intermediazione, il trasporto, il vitto e l’alloggio. È qui che sta il cambio di passo. Negli anni i caporali hanno imparato che far lavorare gli stranieri, magari senza permesso di soggiorno, può essere molto pericoloso. Ci si espone ai controlli, la specializzazione è più bassa, è difficile tenerli sotto controllo. Sulla carta, invece, gli italiani si fanno lavorare in regola e dunque sono meno esposti alle verifiche. Questo nuovo caporalato è ben descritto nell’inchiesta "Sangue Verde", che due settimane fa la Guardia di finanza di Foggia ha portato a termine arrestando un italiano e denunciandone cinque: il primo, Antonio Celozzi, aveva ufficialmente una ditta di trasporti. E, secondo l’accusa, reclutava e sfruttava i lavori delle braccianti che venivano trasportate tra la Puglia, il Molise e l’Abruzzo. In questa occasione sono stati denunciati anche i proprietari dei campi perché consapevoli dello sfruttamento. È quello che ora vuole accertare anche il procuratore di Trani, Carlo Maria Capristo, che ha disposto l’acquisizione dell’inchiesta pubblicata ieri su Repubblica e ha allargato dunque l’indagine non soltanto alle cause della morte di Paola ma alle condizioni nelle quali era costretta a lavorare e alle modalità di reclutamento, tra agenzie interinali e "tour operator". "Quel giorno aveva dolore alla cervicale, prese una pillola - ha raccontato un collega di lavoro - Poi all’improvviso abbiamo sentito urlare e Paola con la bava alla bocca: non c’è niente da fare". Tutti gli operai confermano che c’è una discrepanza tra busta paga e quanto va davvero ai braccianti (tra gli 11 e i 15 euro a giornata, la procura ha acquisito ora le buste paga) e che il reclutamento viene fatto tramite l’agenzia di trasporto che, per conto dell’agenzia interinale, la portava sui campi: si tratta di quel Ciro Grassi, già indagato per omicidio colposo e per omissione di soccorso e che però ha respinto ogni tipo di accusa. Inoltre è stata disposta l’acquisizione del certificato medico che avrebbe dovuto essere rilasciato prima dell’assunzione. "Il problema - spiega il procuratore Capristo - è che il caporalato viene visto dagli stessi lavoratori come normalità. Mi chiedo: quali provvedimenti sono stati adottati fino a ora per evitare quello a cui stiamo assistendo?". La magistratura chiede dunque un nuovo intervento legislativo. E il governo è pronto a tornare a parlare di caporalato. Il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina, incontrerà il collega al Welfare, Giuliano Poletti. In calendario una discussione, anche in questa sede, sulle agenzie interinali e quelle di trasporti. "Sarà un vertice al quale inviteremo le organizzazioni sindacali, le imprese agricole, l’Inps e costruiremo immediatamente una riflessione condivisa per andare avanti. Io penso all’idea di costruire delle task force territoriali necessarie soprattutto in alcune regioni ". Giustizia: Casamonica. Giudici e carabinieri sapevano, il caso finisce in Parlamento di Francesco Grignetti La Stampa, 22 agosto 2015 Tre parenti agli arresti autorizzati a partecipare. Un ex militare guidava la banda. Dicono che nessuno sapeva, che non si poteva immaginare, che figurarsi se qualcuno ha autorizzato quel clamoroso funerale che sta facendo ridere tutto il mondo. Il prefetto di Roma, Franco Gabrielli, ha dato la colpa alla "falla comunicativa" che avrebbe impedito a lui e al questore d’intervenire preventivamente, e lo stesso sostiene il Vicariato di Roma così come pure il Campidoglio. Eppure qualcosa non torna. Già, perché forse è un caso che il maestro di banda, Francesco Procopio, alla guida dei fiati che suonavano la colonna sonora del Padrino, sia un carabiniere in pensione da due anni, ma è difficile credere che sia stato per sbadataggine se la Corte d’appello di Roma, in data 19 agosto, ha autorizzato tre membri della famiglia Casamonica, agli arresti domiciliari, a partecipare alle esequie. Autorizzazione che era stata richiesta nei modi e nei tempi giusti dagli avvocati dei tre e che è stata affidata poi ai carabinieri di Ciampino e di Tor di Valle per gli adempimenti necessari. Molti cittadini del quartiere hanno testimoniato che in piazza, oltre ai vigili urbani e alle squadre della nettezza urbana - ma il comandante dei vigili sostiene che del corteo funebre hanno saputo all’ultimo, e il direttore dell’Ama dice che hanno mandato una squadra di corsa perché con tutti quei petali di rosa c’era il pericolo che qualcuno scivolasse - ci fossero tanti carabinieri. E allora il sospetto è che questo funerale del clan sia stato tollerato perché era utile ai fini delle indagini. In certi casi è importante sapere chi c’è e chi non c’è. La presenza in piazza Don Bosco di molte macchine provenienti da Venafro (Isernia) e Terzigno (Napoli) ha già permesso a chi conosce la geografia del clan, di poter affermare che c’è in atto una riconciliazione tra il clan del Tuscolano con la famiglia Spada, altri malavitosi di origine zingara, affiliati ai Casamonica, ma ultimamente in rotta. Il funerale nella parrocchia di Don Bosco si lascia dietro comunque una scia di polemiche. I M5S sono insorti. Roberto Morassut, Pd, annuncia un’interrogazione parlamentare e perfino il renziano Federico Celli chiede perentorio spiegazioni ad Alfano. Il prefetto ha chiesto informazioni scritte perché deve preparare una relazione per il ministro. E il sindaco Ignazio Marino si dice preoccupato: "Si è voluto parlare anche altre organizzazioni criminali per ostentare la propria forza e il proprio prestigio?". Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia, intanto, insiste: "L’aspetto più grave continua a essere il negazionismo che ci accompagna. A Roma la mafia c’è come in altre parti d’Europa e del mondo. Dobbiamo attrezzarci per combatterla tutti, compresa la Chiesa. Abbiamo applaudito le parole di papa Francesco quando ha scomunicato i mafiosi, è necessario che sul piano pastorale si traggano le conseguenze delle parole del Papa". Giustizia: Casamonica. Corsi e ricorsi dei rapporti tra clan e chiesa di Luca Kocci Il Manifesto, 22 agosto 2015 Impegno altalenante, malgrado la scomunica pronunciata da papa Francesco. La sociologa Alessandra Dino: "Non si può dire "non sapevo". C’è una dimensione pubblica delle cerimonie che non si può ignorare". Nel 1990, nella stessa parrocchia di San Giovanni Bosco a Cinecittà che l’altro ieri ha ospitato il funerale di Vittorio Casamonica, furono celebrate le esequie di Renatino De Pedis, uno dei boss della banda della Magliana, il cui corpo venne poi tumulato - con l’autorizzazione del Vicariato - nella cripta della basilica di San Apollinare (dove è restato fino al 2012, quando poi fu cremato). Corsi e ricorsi storici che, al di là delle coincidenze, mostrano quanto le relazioni fra Chiesa e mafie siano state e siano ancora intrecciate. Una storia che comincia da lontano, e lontano da Roma, già nell’800, quando i livelli erano contigui. Fino al 1963, quando a Ciaculli c’è la prima grande strage di mafia, e la Chiesa comincia a porsi il problema, anche perché a Palermo il pastore valdese Panascia aveva preso una posizione pubblica netta, mentre il cardinale Ruffini minimizzava. Per arrivare alla prima svolta bisogna aspettare il 1993, con l’anatema di Giovanni Paolo II nella Valle dei templi e l’omicidio di don Puglisi (e, l’anno successivo, di don Diana, a Casal di Principe). Da allora la riflessione si sviluppa e le iniziative antimafia si moltiplicano, fino alla "scomunica" ai mafiosi pronunciata da Papa Francesco. Ma la consapevolezza non è unanime in tutta la Chiesa, così come l’impegno è a macchia di leopardo: accanto a preti e gruppi in prima linea, continuano ad esserci silenzi, omissioni, collusioni, feste patronali e processioni religiose guidate dai boss che in questo modo consolidano potere e prestigio, con la benedizione ecclesiastica (a giorni la Conferenza episcopale calabra pubblicherà le proprie linee guida sulle processioni proprio per evitare infiltrazioni). Il funerale del proprio familiare organizzato dai Casamonica - benché Roma sia una realtà sociale diversa - si colloca in questo contesto. "Tra i messaggi più persuasivi che le organizzazioni mafiose lanciano per raccogliere consensi c’è l’ostentazione dell’impunità e da questo punto è stato un capolavoro di promozione dell’immagine pubblica del defunto e dei suoi eredi immediati", spiega Augusto Cavadi, autore fra l’altro del saggio Il Dio dei mafiosi (Ed. San Paolo). "In una società ancora imperfettamente secolarizzata, l’impunità terrestre, per quanto rilevante, non è esaustiva. Allora con gli elicotteri e la carovana dei fuoristrada sbatto in faccia la mia superiorità rispetto ai poteri civili, ma con la ritualità religiosa tolgo ogni eventuale dubbio sulla mia impunità post mortem. La volontà del padrino è legge incontrastata in cielo come in terra". "Credo di aver fatto solo il mio dovere. Sono un prete, non un poliziotto e nemmeno un giudice", scrive sul sito internet della parrocchia don Manieri, che ha celebrato il funerale. "Se un signore mi chiede di celebrare il funerale di un suo congiunto lo celebro, non è scritto da nessuna parte che debba indagare su chi è, personalmente non conoscevo il nome del boss dei Casamonica per me poteva essere il più lontano dei parenti". Il vescovo del settore est di Roma (dove si trova la parrocchia), mons. Marciante, dichiara a Radio Vaticana di non essere stato informato - del resto anche il parroco ha ammesso di non aver informato nessuno -, spiega che "il funerale non si poteva proibire", ma aggiunge che "se avessimo saputo che dietro questo funerale c’era questo spettacolo avremmo suggerito di celebrare le esequie in un modo più discreto". Ed è quello che è già avvenuto in altre situazioni e in contesti più difficili rispetto a Roma, perlomeno sotto l’aspetto del controllo del territorio da parte delle organizzazioni mafiose. Nel 2007, per esempio, l’allora vescovo di Piazza Armerina, mons. Pennisi, non vietò il funerale al boss gelese Emmanuello, ma negò l’uso della chiesa principale e celebrò le esequie in forma strettamente privata nella cappella del cimitero. Il vescovo di Acireale, mons. Raspanti, invece nel 2013, ha emanato un decreto che proibisce in tutta la diocesi i funerali religiosi ai condannati per mafia. Un passaggio decisivo secondo Alessandra Dino, sociologa palermitana, autrice di numerosi saggi sul rapporto fra Chiesa e mafia, fra cui La mafia devota (Laterza): "Non si può più dire non sapevo o non avevo capito, c’è una dimensione pubblica che la Chiesa non può ignorare". Giustizia: Casamonica. Sabella: "Roma si scopre mafiosa, e ora faremo come a Palermo" di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 agosto 2015 Mafia Capitale. Parla l’assessore alla Legalità, Alfonso Sabella, già pm del pool antimafia. "I funerali del boss dei Casamonica sono l’oltraggio e il vaccino. Adesso tutto cambierà". "Certo che il funerale di Vittorio Casamonica è stato un grave smacco alla città e al Paese, certo che l’inequivocabile utilizzo dei rituali tipici delle organizzazioni mafiose, l’ostentazione di prepotenza e arroganza, dimostrano il potere di un clan che controlla di sicuro una parte della Capitale. Però paradossalmente sono contento che si sia verificato questo episodio, è stato una sorta di vaccino al negazionismo contro il quale noi operatori di giustizia combattiamo da anni. Adesso sono certo che un episodio del genere non potrà mai più accadere a Roma, perché d’ora in poi scatteranno tutti i campanelli d’allarme che non sono scattati in questa occasione. E le istituzioni faranno il loro lavoro e il loro dovere". Malgrado le notizie che arrivano da Roma stiano funestando la sua vacanza all’estero, l’assessore alla legalità Alfonso Sabella, già magistrato del pool antimafia di Palermo, prova a lanciare un "messaggio di speranza". Assessore, dunque Roma può essere attraversata da un corteo funebre di migliaia di persone e centinaia di auto, può essere sorvolata illegalmente con lancio di oggetti (proprio mentre si discutono le nuove norme sui droni, ipotizzandone l’uso criminale e terroristico) e si possono appendere mega manifesti sulle facciate delle chiese senza che nessuno se ne accorga. Oppure Vittorio Casamonica era davvero uno dei Re di Roma? "Beh, almeno adesso nessuno potrà più dire che a Roma la mafia non esiste. Il clan dei Casamonica, come quello dei Fasciani o degli Spada a Ostia, sono organizzazioni mafiose di vecchio stampo, che controllano il territorio. Con questo funerale sono stati mandati messaggi chiarissimi: la carrozza coi cavalli, tipica dei capi mafia siciliani degli anni 70, la Rolls Royce che non manca mai, la musica del Padrino che era pure la colonna sonora del video nel matrimonio di Leoluca Bagarella, il rapporto strano e anomalo con la Chiesa". Strano e anomalo? Basterebbe ricordare che il boss della banda della Magliana, Renatino De Pedis, era sepolto nella cripta della basilica di Sant’Apollinare. "Non ho mai visto una camera della morte, cioè quei posti dove venivano uccise e sciolte nell’acido le persone, che non avesse immagini sacre appese alle pareti. E quando ho arrestato Pietro Aglieri, detto u signurino, allora numero due di Cosa Nostra, l’ho fatto seguendo un frate. Insomma, i rapporti della mafia con la Chiesa non sono nuovi. Anche se questo caso credo sia diverso, certo però quel cartellone appeso all’ingresso della basilica di Cinecittà andava almeno rimosso. Comunque faccio l’assessore alla legalità, non al Vaticano". E come si riporta la legalità in una città così degradata, al di là delle poche violazioni di norme che si sono compiute durante questi funerali? "In ogni caso, per quanto riguarda la competenza comunale, quando tornerò mi voglio togliere una piccolissima soddisfazione: andare a verificare se si possono applicare sanzioni per aver insozzato Roma con lancio di oggetti dall’elicottero. Però mi faccia dire che questo evento è servito a far maturare gli anticorpi che eviteranno il ripetersi di tali situazioni. Mi spiego: al funerale di Luciano Liggio, capo clan assoluto di Cosa Nostra, sono andate al massimo venti persone e non c’è stato alcuno sfarzo. Perché in quel momento lo Stato era attento, aveva le antenne drizzate e messo in moto tutte le misure affinché quelle esequie si potessero svolgere nel modo più sobrio possibile". Dunque, in questo momento a Roma lo Stato è "distratto"? "Non è così: a Roma ancora non c’era una presa d’atto dell’esistenza della mafia. Non siamo a Palermo, a Platì oppure a Reggio Calabria. Qui dovevano funzionare diverse cose, tutte insieme, ma ne è saltata una e il meccanismo di allerta si è sfaldato. Così nessuno ha fatto niente per impedire una tale spettacolarizzazione nella capitale. Si sarebbe potuto intervenire con piccoli accorgimenti, come abbiamo fatto a Palermo, riuscendo a frenare questi fenomeni ancora prima di assestare colpi mortali alla mafia. È importante, perché si deve dimostrare a tutti che lo Stato è più forte dei clan. E soprattutto si sarebbe dovuto andare a monitorare chi c’era e chi non c’era, a questi funerali. Spero proprio che sia stato fatto: i vecchi brogliacci dei carabinieri, dove si prendeva nota delle presenze e delle assenze nelle cerimonie dei clan, erano materiale preziosissimo per capire gli equilibri interni alle mafie. Non dico che non ci sia la responsabilità un po’ di tutti: le istituzioni hanno commesso dei peccati, ma veniali: c’è stata una sottovalutazione, con l’attenuante di essere impreparati". Sta dicendo che malgrado il vaso di Pandora sia stato scoperchiato dall’inchiesta Mafia Capitale, finora nulla è cambiato nel sistema di allerta istituzionale? "Distinguiamo i fenomeni. Mafia Capitale è diversa dalle mafie più tradizionali: la sua forza non sta nel controllo del territorio, quanto delle amministrazioni. Buzzi e Carminati potevano avere rapporti con i clan, ma in sostanza Roma è una città più corrotta che mafiosa, anche se vede la presenza di associazioni mafiose. Però fino a qualche tempo fa ciò veniva radicalmente negato. D’ora in poi, sono sicuro, tutto cambierà. Adesso la capitale ha preso atto della propria fragilità. E paradossalmente credo che da questo momento in poi Roma diventerà più sicura". Giustizia: Casamonica. Potente, intoccabile e influente... i tre messaggi cifrati del clan di Valeria Di Corrado Il Tempo, 22 agosto 2015 "Se da quell’elicottero invece che petali di rose fossero piovute bombe? È inquietante che nessuno sapesse nulla del funerale". Per Otello Lupacchini, sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma e giudice istruttore dell’operazione che nel 1993 ha sgominato la Banda della Magliana, "la prevenzione non esiste più". Com’è possibile che sia potuto accadere quello che è accaduto? "È il sintomo di un’incuria generale rispetto al fenomeno della criminalità. I Casamonica non sono persone qualsiasi, dovrebbero essere tenute sotto controllo. Non può sfuggire che venga organizzato un funerale per un membro apicale del clan, con quel dispiegamento di mezzi". Addirittura un elicottero ha sorvolato la città senza un piano di volo. "In un Paese attanagliato da problemi che riguardano il terrorismo è inquietante che accada una cosa del genere. Come mai nessuno sapeva nulla di questo funerale? Chi informano i Servizi segreti? Se sfuggono situazioni di questo tipo, possiamo stare tranquilli? È il segno di una grande approssimazione, sotto il profilo della prevenzione, più che della repressione". Secondo la Questura, Vittorio Casamonica era ai margini degli ambienti criminali. "Se i Casamonica sono stati perseguiti per 30 anni, un motivo ci sarà. Ci sono delinquenti che non sono mai stati condannati, vedi Al Capone. La prevenzione è cosa diversa dal processo, ma forse è trascurata perché non permette di costruire grandi carriere". La stessa chiesa che ha negato i funerali di Welby, li ha concessi a De Pedis prima e a Casamonica dopo. Il prete ha spiegato che lo rifarebbe. "Abbiamo visto noti personaggi criminali morti martiri e immediatamente sepolti in basilica. È in gioco la credibilità della Chiesa, oltre che quella dello Stato. A quanto pare i defunti non sono tutti uguali: chi "conquista" questo mondo (non si sa in quale modo) ha più diritto al funerale in chiesa di chi rifiuta l’accanimento terapeutico. Comunque il problema non è il funerale in sé, ma il modo in cui è stato celebrato". Lo sfarzo non è solo una questione di buon gusto, ma soprattutto un segnale di potenza. La musica del padrino non le sembra un’ostentazione della propria "mafiosità"? "Sono segnali devastanti, che si dovrebbe impedire di mandare. L’esposizione dei manifesti che incoronano Vittorio Casamonica re di Roma e dell’Aldilà sembrano minacciare il Padre Eterno. La carrozza trainata dai cavalli ricorda personaggi di altri tempi e altri luoghi. Le Rolls Royce sono il segnale di una potenza economica, costruita e mantenuta sulla pelle di qualcuno. Il messaggio è chiaro: "Siamo intoccabili, abbiamo un grande potere economico e una forza dal punto di vista elettorale". Qual è il curriculum criminale dei Casamonica? "Arrivano negli anni ‘70 a Roma e si distinguono come recuperatori di credito degli usurai. Con l’uscita di scena di altre organizzazioni, hanno iniziato la marcia di conquista sui mercati criminali romani. Così si sono ritrovati imputati in una miriade di processi". A febbraio 2014 la Corte d’appello ha dimezzato le pene e restituito i beni confiscati ad alcuni esponenti del clan. Questa sentenza può aver accresciuto il senso di impunità? "Il fatto che gli venga restituito qualcosa o il successo nell’ottenere scarcerazioni li rende ancora più forti. Fino al punto di riuscire a organizzare un funerale simile all’insaputa di tutti". Cosa vede di diverso tra la Roma di oggi, del duo Carminati e Buzzi, dei Casamonica, con la Roma della Banda della Magliana? "La differenza è una sola e abissale: una volta erano gli apparati a "signoreggiare" la criminalità, oggi è la criminalità a "signoreggiare" gli apparati o almeno a porsi sullo stesso piano". Le immagini del funerale hanno fatto il giro del mondo. Roma si scrollerà mai di dosso l’epiteto di città mafiosa? "Non saranno i processi, né l’eventuale scioglimento della giunta comunale ad aggiustare le cose. Occorre rifondare la classe dirigente, dopo 154 anni di corruzione. Al di là della qualificazione mafiosa, a Roma la penetrazione del crimine nella politica e nell’amministrazione dovrebbe far tremare le vene nei polsi di chi ha un minimo di coscienza pubblica. Se anche un funerale del genere non fa riflettere, allora attendiamo il diluvio" Giustizia: funerali zingari a cavallo, embè? ognuno seppellisce i suoi come crede di Giuliano Ferrara Il Foglio, 22 agosto 2015 A volte la stupidità, specie se al servizio della menzogna, esplode in modo feroce. Stanno cercando di convincerci, e da novembre se ne vedranno delle belle al processo contro Carminati e Buzzi, che a Roma tutto è in mano a una mafia la cui cupola veniva intercettata, mentre chiacchierava à la Tolkien di terre di mezzo e altre cazzate, su una panchina di un distributore di benzina di Vigna Clara, quartierino di Roma nord per affluenti e fighetta, cercando accordi e patti per locupletare di mazzette personale municipale corrotto in ordine a raccomandazioni, assunzioni, appaltini di una rete di cooperative umanitarie fino a ieri molto prestigiose e molto solidali. Ora i media e i politici di serie B che si occupano della faccenda, sulla scorta di una magistratura che li guida passo passo e li nutre di rivelazioni continue, perfino annunciando retate e arresti a un convegno romano del Partito democratico, stanno inscenando una chiassata balorda sui funerali kitsch-glamour di un capofamiglia Sinti, Vittorio Casamonica, immigrato in Italia negli anni Settanta, e installato con i suoi cari nella zona orientale della Capitale, dove si è radicata una rete di esattori di crediti (usura) e altre bellurie paracriminali certo non commendevoli, roba da cravattari di grido, magari fiancheggiando qualche boss della compianta banda della Magliana, ma che la mafia non c’entri un tubo sono proprio i funerali zingari a dimostrarlo. Premessa. Ognuno seppellisce i suoi familiari e amici come gli pare. E ai defunti tutti va portato il rispetto che magari non hanno legalmente meritato da vivi. Quando Veltroni sindaco, rivelando un bel vizio di forma della cultura fanatico-legalista della sinistra manettara, organizzò e plaudì al trasferimento della salma di un boss della Magliana, Enrico De Pedis, che i preti avevano ricoverato, parlo della salma, nella chiesa di Sant’Apollinare, noi da soli protestammo: il maltrattamento dei morti non fa onore ai vivi. E non c’è abisso retorico di legalismo che tenga: se il cristiano De Pedis aveva donato soldi e patrimonio alla chiesa e l’uso della chiesa prevede di considerare donazioni e pentimenti come viatico per una sepoltura onorevole anche di un boss pentito, lo scandalo non è lì ma nella pretesa dello stato di imporre una riesumazione e un trasloco evidentemente grottesco trent’anni dopo la morte del reo, una roba da inquisizione spagnola. Ora anche Orfini, la Bindi, destra e sinistra, fanno a gara nell’estorcerci indignazione per un carro funebre trainato da sei cavalli scuri, per un manifesto in cui il defunto è vestito alla papalina e si staglia contro un’immagine del Colosseo, per una Rolls Royce che ai matrimoni e ai funerali fa status, per un elicottero che lancia rose e altri elementi da Cinecittà sul Tevere o da centurioni abbindola-turisti vaganti dalle parti di piazza Venezia e ai Fori Imperiali. Tutti ma proprio tutti, compreso il solito don Ciotti che la solidarietà imprenditoriale la pratica in prima persona ed evidentemente non ama la concorrenza, hanno denunciato con toni tenorili le responsabilità dello stato (il prefetto Gabrielli si è detto preso alla sprovvista) e della diocesi di Roma (il parroco ha detto che non ne sapeva niente) per la messa in scena, tipicamente Sinti, di uno sfarzo e di un lusso funerario che fanno rivoltare nella tomba tutti i boss veri della mafia vera, i quali amano omaggi e saluti estremi popolari e cattolici, ma non precisamente di quella fatta. È pazzesco leggere certi commenti, certe cronache, certe dichiarazioni. Sembra che i Casamonica non possano seppellire come gli pare il loro capostipite. È una sfida allo stato, alla dignità della legge, alla purezza della chiesa. A me questo stato di sospensione della realtà, questo incubo a occhi aperti chiamato Mafia Capitale, come fosse un dipartimento del municipio, sembra la dimostrazione di una comunità, togati giornalisti e politici, che ha perso letteralmente il ben dell’intelletto. Penso che legge e ordine vadano fatti rispettare, in particolare quando si tratti di azioni di viventi, ma senza sceneggiare l’indignazione anticrimine creando dei "romanzi criminali" che sollecitano l’immaginazione più pigra e servono l’interesse di una casta di rispettabili, non della società liberale. Ma sicuramente mi sbaglio. Salerno: la storia di Pasquale, in carcere per evasione a 88 anni di Gaetano De Stefano La Repubblica, 22 agosto 2015 Si trova rinchiuso in una cella a 88 anni, abbastanza per salire sullo scranno di detenuto più anziano d’Italia. Deve scontare una condanna di otto mesi, per resistenza a pubblico ufficiale. E non può più avvalersi dei benefici di legge perché si è "macchiato" di tre evasioni dagli arresti domiciliari. "In casa vivo solo, non ho nessuno. Non potevo fare a meno di uscire" spiega da dietro alle sbarre al difensore Rosario Fiore. Fatto sta che quell’obbligo di stare imprigionato tra le quattro mura domestiche, nel comune di Pontecagnano Faiano, a ridosso di Salerno, gli è sembrato inspiegabile e ingiusto. Così Pasquale Rocco ha deciso di continuare a svolgere la vita di tutti i giorni, uscendo di casa com’era solito fare. Ma è stato sorpreso dai carabinieri. "Volevo fare la spesa e comperare le sigarette", si è giustificato dinanzi ai militari dell’Arma. Credeva che la giustizia avrebbe capito, invece per lui si sono aperte, alla soglia dei novant’anni, i cancelli del carcere di Salerno, dove è ormai da circa due mesi. La legge, infatti, non fa sconti e la terza evasione accertata gli è costata cara. Adesso divide una cella della prima sezione (quella dei reati comuni, che è anche la più sovraffollata del penitenziario salernitano) con altri tre detenuti, che lo trattano come un nonno e cercano di assecondarlo, nei limiti del possibile, nelle sue richieste. Anche perché l’88enne sostiene di essere affetto dal morbo di Parkinson, pure se dal carcere fanno sapere che le sue condizioni di salute sono compatibili con la detenzione. A puntare i riflettori su questa vicenda e a rendere pubblica la storia di Rocco è stato Donato Salzano, leader dei radicali salernitani. Che durante la visita al penitenziario salernitano ha incontrato l’anziano. "Tecnicamente - spiega l’avvocato Fiore, che ha assunto la difesa col gratuito patrocinio - Rocco non può avere più benefici, in quanto si è reso colpevole di tre evasioni. Dall’infermeria del carcere, inoltre, hanno comunicato che, paradossalmente, nel penitenziario riceve più cure rispetto a quando è in libertà, non potendo contare sull’aiuto e sul sostegno dei familiari". Per il 23 settembre è fissata l’udienza al Tribunale di sorveglianza, e c’è ancora qualche speranza che l’anziano possa scontare il residuo di pena non in carcere ma ai domiciliari. C’è bisogno, però, di un certificato di un medico legale che attesti la sua malattia. "L’unica arma che ha la difesa - evidenzia Salzano - è quella di una perizia di parte. Pasquale Rocco, tuttavia, non può permettersi il costo della consulenza. Perciò rivolgo un appello ai medici legali, affinché qualcuno di loro possa offrire le sue prestazioni gratuitamente". Reggio Calabria: l’Assessore regionale al Welfare Roccisano visita la Casa circondariale ildispaccio.it, 22 agosto 2015 Conoscere da vicino le problematiche della popolazione penitenziaria, ascoltare le esigenze e le richieste della Direzione dell’Istituto e degli operatori. È’ la motivazione della visita alla casa circondariale di Reggio Calabria effettuata stamane dal l’assessore regionale al Welfare Federica Roccisano. Con la guida del Direttore e del comandante dell’istituto ha visitato le varie aree del carcere ed ha potuto verificare l’importante lavoro svolto per migliorare le condizioni di vita dei detenuti ed in particolare nelle sezioni detentive maschili e femminili completamente ristrutturati, nell’area colloqui e in quella sanitaria. Il Direttore Maria Carmela Longo, anche nella veste di coordinatrice del Tavolo Penitenziario, si è fatta portavoce dei bisogni dei detenuti e delle loro famiglie, ha chiesto una maggiore vicinanza e presenza della Regione soprattutto in quelle iniziative di sua competenza come la formazione professionale e l’accompagnamento sociale finalizzate al recupero ed al reinserimento lavorativo. In particolare ha evidenziato l’opportunità’ di proseguire il lavoro già’ avviato con la Provincia ed il Comune dell’esperienza della agenzia d’inclusione sociale, apportando quelle modifiche che in base alla sperimentazione si rendono necessarie per garantire dei processi di transizione al lavoro certi e duraturi. La Roccisano ha dato atto alla Direzione di una gestione umana ed illuminata di uno dei più’ complessi carceri d’Italia, che ormai da oltre 10 anni viene retto dalla Direttrice Longo assieme a quello di Arghillà, del lavoro svolto assieme a tutto il personale con grande umanità’ e professionalità. Si è’ impegnata a farsi carico come Regione della problematica carcere ed in particolare per una messa a sistema del lavoro avviato con questa prima sperimentazione dell’ Agis, integrandolo con tutte quelle misure aggiuntive richieste. Ha ribadito l’importanza del lavoro educativo finalizzato a contrastare la recidiva ed in particolare a quello che si rivolge ai giovani a cui bisogna dare una alternativa di vita rispetto alla devianza ed alla criminalità’ organizzata. Mario Nasone, assistente volontario penitenziario di Agape, ha sottolineato il ruolo prezioso che sta svolgendo il volontariato sia a S. Pietro che ad Arghillà per ascoltare, sostenere le persone detenute e le loro famiglie nei loro percorsi di revisione critica e nei progetti finalizzati all’acquisizione di responsabilità e di autonomia. Un servizio svolto in sinergia al gruppo degli educatori guidato da Emilio Campolo e dei cappellani don Giacomo D’Anna e don Francesco Megale. Il prossimo appuntamento per l’assessore sarà’ l’istituto di Arghillà che per spazi e tipologia di detenuti presenta grandi potenzialità rispetto alla possibile programmazione di attività lavorative e sociali. Teramo: due agenti feriti a Castrogno, aggrediti da un detenuto con problemi psichiatrici emmelle.it, 22 agosto 2015 Ricorderete il detenuto con problemi psichiatrici che nei giorni scorsi aveva tentato di aggredire un infermiere della Asl, nel carcere di Castrogno, dove è rinchiuso. Oggi, denuncia il Sappe (il sindacato autonomo di polizia penitenziaria), lo stesso uomo ha aggredito due agenti, che hanno dovuto ricorrere alle cure del pronto soccorso dell’ospedale di Teramo. Scrive il Sappe: "Nella giornata odierna, all’interno del reparto Infermeria della Casa Circondariale di Teramo, un detenuto italiano N.R. di anni 45, affetto da patologie psichiatriche e recidivo per analoghi comportamenti scorretti e aggressivi verso compagni e operatori penitenziari (lo stesso che giorni addietro aveva tentato di aggredire un infermiere), si è scaraventato improvvisamente contro gli agenti in servizio che lo riaccompagnavano nella cella, colpendoli ripetutamente su vari parti del corpo tanto da dover far ricorso alle cure sanitarie presso il pronto soccorso dell’ospedale civile di Teramo". "L’avevamo annunciato, era questione solo di tempo - dice ancora la nota - a nulla purtroppo sono valsi i nostri tentativi di richiamare l’attenzione degli organi superiori dell’Amministrazione penitenziaria e dei politici locali, della gravissima situazione lavorativa che stanno vivendo le donne e gli uomini del Corpo della polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Teramo". Questi "gravissimi episodi accaduti a distanza ravvicinata di tempo altro non sono - spiega il sindacato di polizia penitenziaria - che la punta di un iceberg di un problema, quello della gestione dei detenuti psichiatrici, mai risolto dall’Amministrazione Penitenziaria Regionale che si protrae da diversi anni, invero, solo a spot hanno annunciato di porvi rimedio, così come l’allestimento di idonee stanze e reparti dove ubicare soggetti detenuti sofferenti di questa patologia ma mai costruiti, lasciando l’ingrato compito di sorvegliarli, curarli e contenerli senza alcun strumento al malcapitato personale della polizia penitenziaria di turno che di certo non hanno la necessaria preparazione professionale per farlo. Sarebbe auspicabile, vista l’escalation di aggressioni nei penitenziari italiani nell’ultimo anno, che il Parlamento approvi al più presto la legge per dotare la polizia Penitenziaria della pistola elettrica Taser". Il Sappe conclude: "Oramai i poliziotti teramani sono abituati a vivere sulla propria pelle certe vicende e sicuramente non si aspetta alcun ringraziamento da parte dei "Garantisti a intermittenza" per il delicato compito svolto a tutela della sicurezza e del rispetto della legalità in un luogo dimenticato da tutti, tranne quando devono puntare il dito in occasione di presunte denunce di maltrattamento come la nota e tristissima vicenda "Cucchi" purtroppo, ha insegnato". Aosta: tenta di evadere dall’ospedale, piantonato per aver ingerito ovuli durante arresto aostasera.it, 22 agosto 2015 Ha cercato di scappare dall’Ospedale regionale Parini dove è ricoverato da martedì pomeriggio il 29enne senegalese, arrestato aver ingoiato una quindicina di ovuli, secondo la questura contenenti eroina o cocaina. A riferirlo in una nota è il Sindacato autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe) in una nota. L’uomo era stato fermato martedì per un controllo sul treno Torino-Aosta, poco dopo Saint-Vincent. Alla vista degli agenti della squadra mobile, ha dato in escandescenza e ha ingoiato gli ovuli. L’uomo è ora piantonato in ospedale. A sventare l’evasione ieri mattina intorno alle 5 sono stati gli agenti di Polizia Penitenziaria i quali, riferisce il segretario del Sappe Donato Capece, sono stati "aggrediti dallo stesso" prima di immobilizzarlo. Durante la colluttazione i due agenti hanno riportato lesioni giudicate guaribili in 4 giorni in un caso e in 7 nell’altro. "Merita di essere evidenziata l’estrema prontezza ed efficacia dell’intervento dei colleghi che malgrado l’evento sia accaduto alla fine del loro turno notturno hanno dimostrato l’alta professionalità con cui opera la Polizia Penitenziaria. Grazie all’attenzione e alla professionalità dei Baschi Azzurri, dunque, una clamorosa evasione è stata sventata in tempo" conclude Capece. Immigrazione: l’urlo dei profughi siriani "fate passare almeno i bambini!" di Niccolò Zancan La Stampa, 22 agosto 2015 Tra i disperati alla frontiera: in 5 mila lottano corpo a corpo con gli agenti. Scontri tra migranti e polizia al confine: in serata gli agenti hanno fatto entrare piccoli gruppi, dando la precedenza a donne, bambini e anziani. Ogni tanto lanciano in aria una bottiglietta d’acqua misericordiosa, ogni tanto parte una manganellata a casaccio. Un colpo secco, giù nella calca, sulla testa e sulle spalle di qualcuno. C’è un militare con i capelli biondi a spazzola che non smette un attimo di urlare: "State seduti! Giù! Giù!". Le donne si siedono, ricurve su se stesse per farsi un po’ d’ombra. Gli uomini, invece, resistono in piedi, madidi di sudore, con gli occhi enormi e le caviglie intrappolate in mezzo al filo spinato. "Fateci passare!", urla Mohamed Salha, un tempo tassista in Siria. Tiene sua figlia Afrah sulle spalle: "Vi prego, fate passare almeno mia moglie! Sta male! Non respira! Ha bisogno d’acqua". La moglie si è accasciata in mezzo ai nostri piedi, esanime fra bucce di cocomero e sassi ferroviari. E nella ressa, se ti giri, vedi qualcuno che sta piangendo, qualcun altro che si concentra a pregare. Senti i bambini strillare sfiniti - e quanti ce ne sono, bambini, neonati, ragazzini soli - a questa frontiera del mondo. Da una parte finiscono i campi di girasole, finisce la Grecia. Dall’altra cominciano le vigne, ed è già un altro Stato. Da due giorni, il confine della Macedonia lo segnano i mezzi blindati dell’esercito. Vanno avanti e indietro con una lentezza esasperante, lungo 50 chilometri di strade secondarie e sterrati agricoli. Sono stati mandati dal governo di Skopje per fare una specie di muro. Qualcosa che si veda bene. Qualcosa che serva da monito. "Non possiamo sobbarcarci tutto il problema da soli", dice un poliziotto. Il problema sono questi cinquemila profughi che premono con la forza di un’onda, un uomo sull’altro. Arrivano sempre di più. E arrivano qui perché questa è considerata una strada più sicura di quella che contempla le torture dei trafficanti libici, il Mare Mediterraneo, l’Italia. Arrivano qui dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan, soprattutto. Hanno viaggiato per mesi, sostato in Turchia, raggiunto le coste, attraversato il mare su piccoli canotti a remi. Sono sbarcati sulle isole dei turisti, Kos, Lesbo e Symi. Non hanno mai perso la speranza. Vogliono raggiungere il Nord Europa: la Germania, la Svezia, l’Olanda. Non immaginavano di ritrovarsi bloccati in mezzo a questi binari, dove nessuno li vede. Ancora una volta. Da Salonicco, bisogna percorrere poco più di cento chilometri. È un paesaggio di villaggi abbandonati, camionisti balcanici e pecore. Poi, all’improvviso, una visione surreale: sbucano dai campi. Corrono impauriti. Camminano in fila indiana. Marciano. A gruppi. A sciami. Ragazzi. Genitori. Famiglie con sette figli. Bambini per mano. Passeggini. Nonne anziane. Tutti lungo la statale E75, che porta alla frontiera. Seicento metri prima della dogana, incroci una piccola strada a sinistra, un ponte scavalca la ferrovia, percorri un rettilineo, e sei arrivato a Idomeni: 92 abitanti. Un paese minuscolo. Ma adesso è come un campo di sfollati. Un concentrato di ferite e sogni, scarpe consumate, cannucce nei succhi di frutta da bambini. E i vecchi del villaggio guardano tutto questo fiume di gente passare. "Io non ce l’ho con loro" dice Maria Papatanasiu, 20 anni, studentessa di ingegneria meccanica a Kozani, venuta qui in vacanza a trovare sua nonna. "Io li capisco, al loro posto scapperei anche io. Però la situazione è davvero complicata. Ci sono rifiuti dappertutto. I migranti entrano nei nostri campi di mais per dormire, mangiare, fare i loro bisogni". A tre metri da noi, c’è un bambino che sorride soddisfatto rosicchiando una pannocchia fresca. Il padre ha in testa un cappellino del Barcellona. Sono di Aleppo. E sembrano proprio felici. "Ciao". "Grazie". "Bella l’Italia". "Bella l’Europa". Ancora non sanno quello che li aspetta. La stazione ferroviaria di Idomeni è un relitto. Passano due treni al giorno. Uno arriva da Salonicco, l’altro parte per Skopje. È tutto in disgrazia, vecchio e fuori uso. Tranne un cartello, sistemato da poco, di colore azzurro: "Il campeggio è permesso solo nelle aree assegnate". Da qui passavano. Passavano e ripartivano a piedi, attraversando i campi fino a Gevgelija, la prima città macedone oltre la frontiera. Dove i treni sono più frequenti, ed è più facile proseguire il viaggio: 43 mila profughi a luglio, oltre 50 mila ad agosto. Ma ora basta, adesso non passano più. "Andate via! Tornate indietro!", gridano i militari al confine. Hanno tirato il filo spinato nei campi. Lanciano lacrimogeni. Granate assordanti. Una ragazza sviene per il caldo. Una donna anziana si sente male, le tastano il polso. Un bambino in calzoncini corti è in preda alle convulsioni in mezzo alle traversine, gli mettono le dita in bocca per tirare giù la lingua e permettergli di respirare. Succede fra pannolini sporchi, gente che grida, feriti che rinculano, qualcuno che vuole sfondare, qualcuno che prova a dormire. Altri che arrivano proprio adesso, e non capiscono. "I militari macedoni hanno sparato anche proiettili di gomma", dice Anthonis Rigas, responsabile di Medici Senza Frontiere. Sono gli unici ad occuparsi di questo lembo d’Europa. Sono in quattro. Distribuiscono acqua e sacchi a pelo per la notte. "Abbiamo medicato dieci feriti, quattro migranti sono stati trasportati in ospedale. Un ragazzo è stato picchiato. Siamo qui dall’inizio di marzo, ma non abbiamo mai visto niente del genere". Alle cinque di pomeriggio ci sono 39 gradi. Ogni tanto i militari lasciano passare qualcuno. Ogni tanto lanciano una bottiglia d’acqua per non vedere altri stramazzare al suolo. Volano bottiglie, le braccia si alzano, partono altre manganellate. Dall’altra parte del confine, lavora un’équipe dell’Unhcr, l’Onu. Non sono più di dieci persone. Hanno montato otto bagni chimici. I feriti stanno stesi a terra. Ci sono crisi di pianto irrefrenabile. Un infermiere corre a verificare se quella donna, laggiù, è morta o solo svenuta. E ti vergogni, ti senti colpevole di poter scappare via in qualsiasi momento, di avere un passaporto in tasca. Eppure lì, nella calca, davanti agli scudi dei militari schierati, tutti ti aiutano, ti sorreggono, ti danno la mano se l’onda rischia di travolgerti e schiacciarti, ti offrono un sorso d’acqua dalla bottiglia. Ecco Samir Sabbagh, 22 anni, siriano, studente di ingegneria: "Arrivo da Aleppo. Sono scappato dall’Isis e dai bombardamenti del governo di Bashar Assad. Non c’è più speranza, nessuna possibilità di vita. Credetemi, io amavo il mio Paese. Ma non esiste più. Voglio andare a continuare gli studi in Germania". Sorride, ringrazia ad ogni parola: "Vorrei chiedere al governo della Grecia di aiutarci. Devono aprire un corridoio per far passare almeno le donne e i bambini. Io sono forte, posso aspettare… ". Così finiscono per accamparsi ovunque. Anche Samir Sabbagh si tira indietro, aspetta un altro giorno. Cinquemila persone dentro avvallamenti di terra morta, sotto i pini, nei campi, fra cumuli di immondizia e bottiglie vuote. I ragazzi costruiscono delle capanne. Arriva una signora anziana su una sedia a rotelle, le ruote non girano più. Il figlio la prende in spalle e si incamminano per un sentiero che non porta da nessuna parte, fra i blindati e i primi fulmini di un temporale in arrivo. Immigrazione: polizia ed esercito macedone attaccano, gas e granate contro i profughi di Leo Lancari Il Manifesto, 22 agosto 2015 Polizia ed esercito macedone attaccano i migranti rimasti bloccati dopo la decisione di Skopje di chiudere la frontiera con la Grecia. Dieci i feriti. L’Ue non condanna ma stanzia nuovi fondi per i rimpatri. "Non so perché ce l’hanno con noi. Io non ho un passaporto, non posso tornare indietro e da ieri non posso neanche andare avanti. Non cosa fare, resterò qui fino alla fine". Disperato, Mohammad Wahid non sa spiegarsi perché la polizia macedone lo tratti come il peggiore dei criminali. Lui e altri tremila profughi che come lui vorrebbero raggiungere l’Europa e che invece da giovedì sono bloccati nella terra di nessuno tra Macedonia e Grecia dopo che il governo di Skopje ha deciso di chiudere la frontiera per mettere fine al grosso flusso di profughi in arrivo dalla Grecia. E ieri polizia e esercito macedone, spedito in fretta e furia al confine neanche dovesse fronteggiare chissà quale nemico, hanno mostrato il loro volto peggiore attaccando uomini e donne che insieme a vecchi e bambini premevano lungo la frontiera per poter passare. Durato pochi minuti, l’assalto è stato violentissimo. Gli agenti hanno lanciato gas lacrimogeni e granate assordanti contro una moltitudine di disperati che non ha potuto fare altro che darsi alla fuga. Bambini di pochi mesi, a volte di pochi giorni, presi in braccio e trascinati via da genitori contro i quali si sono accaniti gli agenti. Una decina i migranti rimasti feriti, molti colpiti dalle schegge delle granate assordanti lanciate dagli agenti in tenuta antisommossa. "Io voglio solo andare in Germania per cercare di rifarmi una vita, perché in Siria ormai è tutto distrutto", ha spiegato alla France Press Amina Asmani mentre stringeva la mano del marito tenendo in braccio il loro bambino di appena dieci giorni. Amina e suo marito alla fine ce l’hanno fatta. Impietositi dal piccolo che la donna aveva tra le braccia gli agenti macedoni hanno permesso loro di salire sul treno che dalla stazione di Gevgelija li porterà al nord, fino in Serbia. Per una famiglia che ce la fa, però, altre centinaia restano ferme in questo pezzo di terra diventato un limbo per disperati sorvegliato da poliziotti e militari. La situazione al confine meridionale della Macedonia è precipitata giovedì, quando il governo ha deciso di dichiarare lo stato di emergenza inviando sul posto i militari. La Macedonia è proprio in mezzo alla rotta balcanica che da mesi profughi e migranti percorrono nel tentativo, spesso inutile, di arrivare in Europa. Una rotta battuta da un numero sempre maggiore di disperati e che solo a luglio ha fatto registrare 39 mila passaggi, il doppio rispetto al mese precedente. Si tratta soprattutto di siriani e afghani che dopo essere arrivati nelle isole greche dalla Turchia ripartono diretti verso al Macedonia. Per mesi la tutti la meta è stata Gevgelija, prima località che si incontra una volta oltrepassato il confine con la Macedonia e punto di partenza dei treni diretti a nord. Gli arrivi sono stati talmente tanti che a giugno Skopje ha deciso di modificare le sue leggi permettendo il passaggio ai migranti senza documenti a patto che lasciassero il Paese entro tre giorni. Decisione che ha avuto come conseguenza un vero assalto ai treni e messo in crisi le ferrovie macedoni spingendole a rivolgersi ai Paesi vicini chiedendo vagoni e treni. Senza però ricevere neanche una risposta. Poche ore dopo il confine era chiuso e per temila disperati, tra i quali tantissimi bambini, è cominciato l’inferno. Appoggiati ai muri della stazione, stesi lungo le banchine o nei campi circostanti hanno passato la notte all’aperto in mezzo a cumuli di immondizia, senza acqua né cibo. Al risveglio, ieri mattina, hanno cominciato a premere lungo la frontiera chiedendo di poter entrare in macedonia. Lacrimogeni e granate assordanti è stata la risposta. Secondo Anthonis Rijas, coordinatore locale di Medici senza frontiere, la polizia macedone avrebbe "usato pallottole do gomma e disperso i migranti a colpi di bastone". L’associazione riferisce di dieci feriti, tra le quali una donna incinta con dolori e un’emorragia, un bambino siriano di un anno che pochi mesi fa aveva subito un intervento chirurgico e necessitava di cure ospedaliere e un migrante picchiato. "In questo momento alla frontiera ci sono tremila perone - ha proseguito Msf - Di fronte la blocco di ieri tra rifugiati e migranti si è diffuso un forte sentimento di frustrazione e rabbia". Come sempre avviene in questi casi, tra Atene e Skopje è cominciato il solito rimpallo di responsabilità. "Purtroppo la Grecia non solo non controlla la sua frontiera, ma organizza delle trasferte illegali di migranti fino al nostro confine", ha accusato Ivo Kotevski, portavoce del ministro degli Interni macedone. da parte dell’Unione europea ci si sarebbero aspettate parole di condanna per quanto accaduto, che invece non sono arrivate. "Abbiamo visto quanto sta accadendo in Macedonia e stiamo ricostruendo i fatti", si è limitata a dire una portavoce dell’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini. La Commissione europea ha invece già stanziato 90 mila euro alla Macedonia per la gestione dell’immigrazione, mentre a settembre prender avvio un programma di interventi anche con la Turchia che prevede uno stanziamento di otto milioni di euro per l’identificazione dei migranti, lo scambio di informazioni e i rimpatri. Come al solito più repressione che aiuti concreti. nel frattempo la chiusura della frontiera macedone incrementerà ulteriormente gli affari dei trafficanti di uomini. Immigrazione Riccardo Noury (Amnesty) "viaggiano in condizioni disperate" di Carlo Lania Il Manifesto, 22 agosto 2015 È la Western Balkan Route, la rotta dei Balcani occidentali, quella hanno percorso le migliaia di uomini e donne bloccati da giovedì alla frontiera macedone. Partendo dalla Grecia attraversa Macedonia e Serbia fino ad arrivare in Ungheria, ultimo checkpoint per chi sogna l’Europa. Da molti mesi ormai sempre più migranti e rifugiati - principalmente siriani, afghani, iracheni, eritrei e somali - scelgono di intraprendere questo percorso in alternativa alla traversata del canale di Sicilia. Entrambe le rotte, quella di terra e quella di mare, hanno in comune una cosa: sono estremamente pericolose per chi è costretto a seguirle. Nonostante i rischi, però, sono sempre di più i profughi che scelgono di fuggire attraverso i Balcani. "Abbiamo registrato un picco enorme nella prima parte dell’anno, quando abbiamo avuto praticamente gli stessi numeri di flussi sia via Mediterraneo che lungo la rotta balcanica", spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. "Nel periodo luglio 2014-marzo 2015 sul confine tra Serbia e Ungheria sono arrivati 60.602 migranti con un aumento di oltre il 2.500% rispetto al 2010". In che condizioni sono costretti a viaggiare i profughi lungo la rotta balcanica? "In condizioni disperate. Non basta avere i piedi in terra anziché essere a bordo di un gommone per essere più sicuri perché sia lungo strade che lungo la linea ferroviaria e soprattutto quando si attraversano confini l’illegalità è diffusa". Amnesty ha denunciato la presenza di corruzione nella polizia macedone. "Sì, ma in generale anche in Serbia abbiano riscontrato episodi di corruzione. Sicuramente in questo meccanismo di gioco dell’oca in cui i migranti vengono rispedito indietro, un passaggio fondamentale è quello di Skopje dove i migranti vengono detenuti per mesi e mesi nel centro di Gazi Baba dove vengono riuniti tutti quelli rispediti indietro dalla Serbia e quelli bloccati all’interno della Macedonia. Ma come abbiamo verificato nelle nostre missioni la corruzione, con poliziotti che chiedono soldi per far passare i migranti e poi magari neanche mantengono la promessa, è diffusa. Così come abbiamo accertato la presenza di bande criminali che lungo il percorso, specie nel tratto serbo, assaltano i migranti rapinandoli". C’è un problema di legislazione sul diritto di asilo per quanto riguarda i Paesi balcanici? "Certo, ed è l’aspetto che come Amnesty abbiamo messo più in evidenza. Nel 2014 solo dieci persone hanno ottenuto lo status di rifugiato in Macedonia, in Serbia una, in Ungheria 240, percentuali irrisorie perché sommate sono in tutto 251 persone a fronte di decine di migliaia di richieste di asilo. Quindi c’è un problema intanto di non obbligo, per quanto riguarda Serbia e Macedonia, di rispettare la normativa dell’Unione europea. Qualunque cosa si decida a Bruxelles o a Strasburgo non interessa a Belgrado o a Skopje. L’Ungheria, che dovrebbe essere quella vincolata alla Ue, abbiamo visto che ha eretto un muro e introdotto una legislazione che elenca una serie di oltre venti Paesi cosiddetti sicuri, tra cui la Serbia, nei quali rimandare chi chiede asilo se prima è transitato in uno dei Paesi della lista. Essendo la Serbia al confine, vengono tutti rimandati lì". Cosa chiede Amnesty? "Intanto abbiamo chiesto alla corte costituzionale ungherese di pronunciarsi sulla incostituzionalità di tutte queste misure e in particolare sulla normativa relativa ai Paesi terzi sicuri. E ai Paesi che non sono vincolati dalle norme europee ricordiamo che esiste un diritto internazionale dei rifugiati che stabilisce garanzie, come la possibilità per ogni persona che abbia titolo di vedere la sua domanda di asilo esaminata con una procedura equa e trasparente, che la detenzione sia considerata solo come ultima risorsa, che ci sia particolare tutela per i minori non accompagnati. Questo per quanto i Paesi interessati dalla rotta. L’Ue ha il suo tornaconto nel vedere che c’è una rotta parallela a quella del canale di Sicilia in cui vanno a finire come dentro un imbuto persone che così l’Europa non la raggiungeranno mai". La decisione della Macedonia di chiudere la frontiera aumenterà gli affari dei trafficanti di uomini? "Ogni provvedimento di chiusura, in Macedonia come a Calais o in qualunque altra parte del mondo provoca un meccanismo di ricerca di nuove strade. Fino a quando le persone non avranno che l’illegalità come modo per poter entrare in Europa e cercare riparo il risultato è che si metteranno nelle mani dei criminali. E purtroppo questo aumenterà il numero delle vittime". Immigrazione: 1.679 le vittime accertate della tratta dal 2012, moltissime sono minorenni di Carlotta Bellini Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2015 Bambini e bambine migranti sfruttati, forzati alla prostituzione o preda dello sfruttamento sul lavoro. Anche ai mercati generali di Roma. Sfuggono da fame, guerre e violenze con la speranza di una nuova vita, ma diventano schiavi. Ragazze nigeriane forzate a prostituirsi e adolescenti egiziani sfruttati sul lavoro. Il Dossier 2015 "Piccoli schiavi invisibili" di Save the Children solleva un velo su questa tragedia: dal 2012 a oggi sono 1.679 le vittime accertate in Italia e tra questi molti sono minori. Il dato, però, non tiene conto dei bambini e adolescenti che rimangono invisibili e non vengono identificati. L’Italia è il Paese dove è stato segnalato il maggior numero di vittime accertate e presunte. Fuggono dalla guerra tanti minori non accompagnati Quest’anno, in particolare, è cresciuto di molto il numero di persone che hanno raggiunto l’Europa attraverso il Mediterraneo. E a fuggire sono tanti i minori non accompagnati : 7.357 dal 1 gennaio al 18 agosto 2015 solo in Italia, secondo i dati del ministero dell’Interno. Sono bambini e adolescenti soli che rischiano di cadere nella trappola dello sfruttamento. Dal 2012 Save the Children ha avviato il progetto `Vie d’Uscita´ per la protezione, recupero e reinserimento sociale di minori vittime di tratta, in cooperazione con istituzioni e altre associazioni partner. Nel primo semestre del 2015 ha permesso di raggiungere e supportare 200 ragazze. Bellini: rafforzare la rete di "case di fuga" "Lo sfruttamento e le costrizioni a cui sono sottoposte queste adolescenti sono talmente intense da rendere difficilissima la loro uscita dal circuito della tratta", ha sottolineato Carlotta Bellini, responsabile protezione minori Save the Children Italia. È necessario quindi, prosegue, "rafforzare la rete delle "case di fuga" che sono uno degli strumenti principali del nostro sistema di protezione e assistenza alle vittime di tratta" e "stroncare il traffico nei paesi di origine, con un lavoro interforze, e in Italia intensificare il contrasto all’intero sistema di sfruttamento". La tragedia delle ragazze nigeriane A convincere le minori nigeriane a partire con l’abbaglio di grandi guadagni sono spesso un uomo o una donna chiamati `sponsor´ o `trolley´ che ne organizzano il viaggio. La meta è l’Europa. Hanno nel cassetto il sogno di diventare parrucchiere, modelle o baby-sitter. E invece vengono sfruttate fin dal transito in Niger, dove vengono forzate alla prostituzione `indoor´ e in Libia dove, rinchiuse in guest house, sono costrette a prostituirsi per mesi prima della partenza per l’Italia. "Per chi arriva via mare - spiega Save the children - la tappa successiva è solitamente Napoli, dove avviene la compravendita delle ragazze che non hanno già una destinazione prefissata. Per chi giunge in aereo, invece, la meta è Torino. Ad aspettarle c’è la maman, una sfruttatrice nigeriana che gestirà le loro vite, quando e dove prostituirsi per ripagare il debito contratto dalle famiglie per il loro viaggio e il loro lavoro: 30-60mila euro, una cifra che vincola le ragazze per 3-7 anni a lavorare a ritmi intensi e per circa 20 euro a prestazione. E se le ragazze si ribellano può essere la stessa maman a usare violenza fisica e psicologica nei loro confronti. E non solo lei. Le ragazze nigeriane sono costrette a pagare perfino l’"affitto" periodico del marciapiede sul quale si prostituiscono, a un canone che va dai 100 ai 250 euro. Tante ragazze dall’Est adescate con la promessa di un lavoro E ci sono anche molte ragazze dell’Est. Sono soprattutto adolescenti tra i 16 e i 17 anni, provenienti da contesti molto poveri e marginali di Paesi come Romania, Albania, Bulgaria, Moldavia, adescate da conoscenti o giovani uomini che le portano in Italia con la promessa di un lavoro. Poi ci sono i minori egiziani. Povertà e carenza di opportunità lavorative nel loro Paese li spingono a venire in Italia. Quattrocento giunti via mare solo tra giugno e agosto: "un campanello d’allarme che non dobbiamo sottovalutare", ha detto Carlotta Bellini. Partono da Alessandria o dalla Libia e una volta approdati in Italia vengono collocati in strutture di accoglienza da cui però solitamente scappano per raggiungere Roma, o altre grandi città del Nord Italia. Le famiglie si sobbarcano pesanti debiti di viaggio con i trafficanti, fra i 2.000 e i 5.000 euro. E i ragazzi, schiacciati dal peso di dover ripagare il debito diventano `preda´ dello sfruttamento lavorativo. "A Roma vengono impiegati nei mercati generali di frutta e verdura: 10 euro per caricare un camion di frutta e verdura e 50 centesimi per ogni cassetta riempita. Ma anche negli autolavaggi lavorano ininterrottamente anche per 12 ore, per 2-¡3 euro all’ora, così come nelle pizzerie e frutterie". Immigrazione: in Egitto matrimoni con italiane povere, per guadagnarsi l’ingresso in Ue di Antonio Pitoni La Stampa, 22 agosto 2015 L’Antiterrorismo indaga su nozze sospette in Egitto. La chiameremo Barbara: ha 33 anni e sta per sposarsi per la terza volta. È in attesa dei mille euro di anticipo che le sono stati promessi. Poi prenderà il volo verso II Cairo, Egitto, dove conoscerà l’uomo con cui convolerà a nozze. Lei incasserà il resto della somma pattuita, novemila euro in tutto, lui il permesso di soggiorno per l’Italia. Francesca (altro nome di fantasia), invece, la prima volta non l’ha fatto per soldi. "Ma per mia figlia: anche se non amavo più il padre della bambina, gli ho dato la possibilità di restare a Roma", racconta. Stavolta, invece, aspetta un biglietto, sempre per Cairo, mille euro in contanti come anticipo e il via libera del suo broker italiano che a sua volta si è sposato in Iran, attraverso lo stesso sistema, con una donna eritrea. È la legge del contrappasso che si abbatte contro un’Europa che sbarra la strada al Sud del mondo, e dove ora sono i poveri italiani a traghettare i migranti, senza scafisti, per qualche migliaio di euro grazie al sistema dei matrimoni combinati, pianificati con viaggi nei Paesi di origine. Un business gestito da organizzazioni criminali, il lasciapassare più rapido per ottenere la cittadinanza italiana, sul quale ora cala l’ombra delle infiltrazioni terroristiche. Specie dopo il sospetto aumento di offerte di denaro registrato subito dopo gli attentati in Tunisia e in Egitto. Una vicenda sulla quale sta indagando la divisione antiterrorismo della Questura di Roma. proprio per il rischio che quei matrimoni combinati possano aprire le porte di casa nostra ai responsabili di quegli attacchi. Le richieste arrivano infatti per la maggior parte dall’Africa e dal Medioriente attraverso il reclutamento di italiani disposti ad accettare l’offerta, tra le code dei poveri alle mense sociali. Ma anche tra i senzatetto della stazione Termini o tra gli abitanti delle case occupate, come nel caso di Barbara. Una volta trovato un lui o una lei disposti a partire vengono organizzati i viaggi. Costo medio tra i tre e i quattromila euro. Meta più gettonata l’Egitto. "Ne abbiamo organizzati recentemente almeno una decina", racconta all’Ansa un quarantenne broker italiano coinvolto nel traffico, che si occupa di sbrigare le pratiche e di procurare i documenti da portare all’ufficio anagrafe. "Dal Cairo, attraverso l’ambasciata italiana -aggiunge - arriva la richiesta di matrimonio e una volta ottenuti i documenti necessari si parte per l’Egitto". All’apparenza tutto nel rispetto della legge. In realtà, la faccia pulita della medaglia nasconde però quella sporca del giro di denaro e dell’inganno. Fino al divorzio, altrettanto combinato, non prima della registrazione dell’atto in Italia. Il permesso di soggiorno per motivi familiari è una pura formalità. Per la cittadinanza ci vorrà più tempo, ma nel giro di qualche mese l’extracomunitario potrà muoversi liberamente in tutti i Paesi dell’Ue. Difensore dei diritti o terrorista? Il giallo del legale algerino arrestato di Andrea Rossi La Stampa, 22 agosto 2015 Bloccato al confine italo-svizzero, Amnesty protesta. Chi è Rachid Mesli, l’uomo arrestato dalla polizia di frontiera in base a un mandato di cattura internazionale vecchio di 13 anni? Secondo le associazioni per i diritti umani, Amnesty International in testa, è un perseguitato. Per il governo algerino è un fiancheggiatore di gruppi terroristici. Avvocato, 68 anni, ha difeso i capi del Fronte Islamico di Salvezza, il partito che vinse le elezioni nel 1991 ma fu abbattuto un anno dopo da un colpo di Stato. Nel 1996 è stato arrestato con l’accusa di aver "incoraggiato il terrorismo". In cella per tre anni, ha dichiarato di essere stato torturato. Nel 2002 è stato condannato a vent’anni per lo stesso reato, ma due anni prima era fuggito a Ginevra. La Svizzera gli ha riconosciuto lo status di rifugiato politico. Mesli è stato arrestato al traforo del Gran San Bernardo: stava entrando in Italia in auto con la moglie e uno dei suoi tre figli. Oggi la Corte d’Appello di Torino, che è competente per distretto, dovrebbe decidere se convalidare l’arresto. Potrebbe farlo, eventualmente decidendo di scarcerare l’uomo, che ha passaporto francese, oppure non convalidare, come avvenuto in Germania e Gran Bretagna, quando fu rilasciato dopo essere stato fermato. Poi toccherà alla procura generale di Torino esaminare il caso e di nuovo alla Corte d’Appello esprimersi sulla richiesta di estradizione che, secondo la legge italiana, non può essere concessa per un reato politico né quando c’è ragione di ritenere che il condannato rischi atti persecutori o discriminatori. L’Algeria reclama Mesli per fargli scontare vent’anni di reclusione. "Sono sempre stato considerato una minaccia perché mi occupavo dei prigionieri politici", aveva raccontato Mesli qualche anno fa. "Non mi perdonano di aver trascinato l’Algeria davanti al gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria dell’Orni che nel 2001 ha definito ingiusto il processo ai leader del Fronte islamico". Nel 2004, in Svizzera, ha contribuito a creare Al Karama, una fondazione che denuncia la violazione dei diritti umani nel mondo arabo. Un milione di franchi svizzeri di budget, è sospettata da alcuni Paesi di legami con Al Quaeda tanto che l’anno scorso gli Emirati Arabi l’hanno inserita tra le organizzazioni terroristiche. C’è un altra vicenda che incombe su Mesli: la Commissione araba per i diritti umani, ong accreditata all’Orni dal 2004 e di cui è stato portavoce fino al 2008, nel 2002 ha partecipato alla pubblicazione di un opuscolo antisemita, "Il Manifesto giudeo-nazista di Ariel Sharon". Per chiedere il rilascio dell’avvocato algerino si sono mobilitate tutte le associazioni per i diritti umani. Amnesty gli ha fornito supporto legale, inviando alla Corte d’Appello di Torino una nota sulla sua vita. "Se torna in Algeria rischia di subire altre persecuzioni", dichiara il portavoce Riccardo Noury. Berardi lancia l’appello per altri tre italiani detenuti in Guinea Equatoriale di Paolo Signorelli lultimaribattuta.it, 22 agosto 2015 L’imprenditore Roberto Berardi è da poco più di un mese di nuovo nella sua Latina, dopo l’allucinante vicenda penitenziaria in Guinea Equatoriale, trattata più volte dall’Ultima Ribattuta. Due anni e mezzo di inferno, di torture e di sevizie che hanno messo a repentaglio la sua vita. Berardi ha raccontato molti aspetti della sua ingiusta prigionia, in un paese difficile come la Guinea Equatoriale. Nonostante adesso sia di nuovo un uomo libero, ha ricordato all’opinione pubblica che la sua battaglia continua. Chiaro e preciso è il riferimento agli altri tre italiani detenuti nel carcere di Bata, dove l’imprenditore di Latina ha trascorso gli ultimi due anni e mezzo di vita. Dalla sua pagina di Facebook l, Berardi ha lanciato un appello per la loro libertà. "Gentile Ambasciatore Giulio Terzi, caro amico Simone Di Stefano, Senatore Luigi Manconi, Onorevole Antonio Tajani abbiamo ancora del lavoro da fare, noi non dimentichiamo, sono ancora lì aspettiamo, le famiglie aspettano, tutti aspettano, non dobbiamo fargli vivere per forza quello che ho vissuto io". Si tratta di Fabio e Filippo Galassi e Fausto Candio. Sono tutti romani, arrivati in Guinea in cerca di fortuna nel settore edile, ma sono caduti nella trappola di "finti" amici del posto che si sono poi rivelati i loro aguzzini. Adesso che le Istituzioni si muovano davvero e in maniera concreta per evitare di trascorrere lo stesso incubo di Roberto Berardi. Iran: Teheran punta a rilascio 19 connazionali da carceri Usa, "sono prigionieri politici" Adnkronos, 22 agosto 2015 Il governo di Teheran è al lavoro per ottenere il rilascio di 19 cittadini iraniani che al momento si trovano in carcere negli Usa. Lo ha spiegato il vice ministro degli Esteri della Repubblica islamica, Hassan Qashqavi, precisando che si tratta di "prigionieri politici". Qashqavi, citato dall’agenzia di stampa ufficiale Irna, ha quindi sottolineato l’Iran sta agendo a livello diplomatico anche attraverso un "terzo" paese. Il vice ministro non ha precisato quale sia lo Stato in questine, ma è possibile che si tratti della Svizzera, che rappresenta gli interessi diplomatici Usa nella Repubblica islamica. Secondo il numero due della diplomazia di Teheran, il governo sta cercando di ottenere il rilascio anche di tre cittadini con doppia nazionalità, iraniana e americana. Tra i casi più noti c’è quello di Mannsor Arbabsiar, un irano-americano del Texas, condannato a 25 anni di carcere perché riconosciuto colpevole di aver pianificato l’omicidio dell’ambasciatore saudita a Washington. Il mese scorso, il presidente della Commissione Sicurezza nazionale e Politica estera del Parlamento iraniano, Alaeddin Boroujerdi, ha indirizzato una lettera al ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, per chiedere il rilascio di un "numero considerevole" di iraniani che a suo parere sono "ingiustamente detenuti" dalle autorità americane per presunte violazioni delle sanzioni. La dichiarazioni di Qashqavi riaccendono i riflettori anche sul caso del corrispondente del Washington Post, Jason Rezaian, arrestato oltre un anno fa in Iran con l’accusa di spionaggio, collaborazione con governo ostile e diffusione di propaganda nemica. Fonti giudiziarie iraniane, citate dall’agenzia di stampa semiufficiale Isna, hanno riferito che il verdetto del processo a suo carico non è imminente. Ci sono poi almeno altri due cittadini americani in carcere in Iran. Si tratta del pastore cristiano Saeed Abedini, imprigionato per aver condotto studi sulla Bibbia e Amir Hekmati, un ex marine accusato di spionaggio. Bolivia: Ong ProgettoMondo Mlal prosegue l’impegno italiano per la giustizia minorile Nova, 22 agosto 2015 L’Ong ProgettoMondo Mlal, grazie all’appoggio della Cooperazione italiana e dell’Unione Europea, ed in collaborazione con il ministero della Giustizia della Bolivia, ha presentato lo studio "Linee guida per i centri di orientamento e reinserimento sociale". Lo riferisce l’Unità tecnica locale del ministero degli Esteri italiano secondo cui la pubblicazione raccoglie le buone prassi dell’articolato programma di giustizia minorile realizzato dalla Ong italiana in Bolivia, la cui principale iniziativa ha riguardato la costruzione e successiva implementazione di un modello alternativo di riabilitazione all’interno del centro di riabilitazione di Qalauma, rivolto a giovani reclusi tra i 16 e i 25 anni. La Cooperazione italiana sta finanziando l’attuale fase dell’iniziativa con un contributo di 750 mila euro. La maggioranza degli adolescenti boliviani, anche coloro che commettono piccoli reati quali il furto o altri delitti contro la proprietà, vengono ancora privati della libertà e detenuti in carcere in attesa di giudizio. Una detenzione preliminare che, da sola può durare anche 2 o 3 anni. A questo periodo si aggiungeranno gli eventuali anni di pena da scontare in carcere. Ad esattamente un anno dalla promulgazione della nuova legge che proibisce la detenzione minorile in attesa di giudizio, la maggior parte delle istituzioni del sistema penale minorile di molte regioni della Bolivia dimostrerebbero quindi di non avere compreso la reale portata delle riforme realizzate dallo stato plurinazionale, o comunque non hanno manifestato la volontà di contribuire alla prevista costruzione di percorsi educativi e restaurativi alternativi al carcere per gli adolescenti in conflitto con la legge. La presentazione e consegna delle linee guida rappresentano un passaggio fondamentale per l’applicazione del nuovo codice dei minori, considerato che anche le amministrazioni regionali sono finalmente dotate di un documento di riferimento, utile non solo all’attivazione del processo di costruzione di tali centri, ma anche all’adozione di un modello gestionale di riferimento per promuovere un approccio educativo e restaurativo.