Giustizia: l'isolamento disciplinare continuo dei detenuti è illegale e dannoso di Emilio Quintieri (Radicali Italiani) Ristretti Orizzonti, 21 agosto 2015 Bruno Bossio (Pd) e Locatelli (Psi): "il Governo riveda l'isolamento disciplinare dei detenuti". Bisogna introdurre l'obbligo per l'Amministrazione Penitenziaria di interrompere, per almeno 5 giorni, l'esecuzione di plurimi provvedimenti applicativi della sanzione disciplinare dell'esclusione dalle attività in comune laddove questi eccedano la durata prevista dall'articolo 39, primo comma, numero 5, della Legge n. 354/1975, nonché la riduzione a 14 giorni, rispetto agli attuali 15, del limite massimo di durata dell'esclusione dalle attività in comune in conformità alle Raccomandazioni del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti ed in particolare in quelle contenute nel 21° Rapporto Generale (1 agosto 2010-31 luglio 2011). Lo prevede l'emendamento 30.158 al Ddl 2798-A, attualmente all'esame dell'Assemblea di Montecitorio, presentato dall'On. Enza Bruno Bossio, Deputata calabrese del Pd, cofirmato anche dalla collega bergamasca Elda Pia Locatelli del Psi, entrambe aderenti anche al Partito Radicale. Favorevole alla proposta anche l'Amministrazione Penitenziaria che nel frattempo, in assenza di espresse disposizioni legislative o regolamentari e dimostrando sensibilità nei confronti di tale problematica, ha emanato una lettera circolare (la n. 160093/2015 firmata dal Direttore della Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento Calogero Roberto Piscitello e dal Capo del Dipartimento Santi Consolo) con cui ha voluto adottare "un'interpretazione particolarmente attenta alla tutela della integrità psico-fisica del detenuto". Oggi l'esclusione dalle attività in comune, comminabile alle persone detenute ed internate, anche a quelle sottoposte a custodia cautelare, per non più di 15 giorni, è sanzione disciplinare dal contenuto eminentemente afflittivo perché implica l'isolamento continuo diurno e notturno. Proprio tale profilo di particolare penosità giustifica l'attuale assetto normativo dell'istituto, coerentemente circondato da una serie di cautele, a partire dalla necessità d'un costante controllo sanitario fino alla previsione di opportune ipotesi di sospensione della misura sanzionatoria. Il quadro normativo non disciplina, in modo esplicito, una ipotesi da non sottovalutare che è quella in cui una persona detenuta sia destinataria di plurimi provvedimenti disciplinari per un periodo eccedente i 15 giorni. Spesso, tali sanzioni, sono state applicate senza soluzione di continuità nonostante la giurisprudenza di legittimità, come spiega Alessandro Albano, Funzionario dell'Ufficio Studi e Ricerche del Dap, abbia fornito risposta negativa. Invero, la Cassazione, chiamata a pronunciarsi in merito, ha ritenuto "indiscusso che la misura dell'esclusione dalle attività in comune è sottoposta al limite temporale di quindici giorni ed al controllo sanitario e che non è consentita l'applicazione continuata di detto tipo di sanzione, anche con soluzioni di continuità minime, come quella di un giorno, poiché così operando si verrebbe a configurare un'aperta violazione del principio costituzionale che vieta trattamenti contrari al senso di umanità". Tale principio di diritto, si inserisce perfettamente nel solco di quanto affermato dal Cpt nel suo 21° Rapporto Generale. Secondo la predetta circolare, nel caso di più provvedimenti sanzionatori che comportino, per la stessa persona, "la sottoposizione ad isolamento per un numero di giorni superiore ai quindici", tale limite "va considerato inderogabile e, quindi, le Direzioni Penitenziarie non daranno esecuzione continuativa alle sanzioni in argomento ove il cumulo di queste sia superiore a quindici giorni". Ciò non significa che il detenuto responsabile di gravi illeciti disciplinari non debba espiare, per intero, le sanzioni che, legittimamente e doverosamente, gli sono state inflitte."Si deve, però, avere cura, allo scadere del quindicesimo giorno, di interrompere l'esecuzione di plurime sanzioni - e, dunque, dell'isolamento - per almeno cinque giorni. Soltanto all'esito di tale interruzione potrà applicarsi un ulteriore periodo di esclusione dalle attività in comune, sempre nel limite di durata di quindici giorni e, naturalmente, previa nuova acquisizione della certificazione medica ai sensi dell'Art. 39, comma 2, O.P.". Proprio sulla questione dell'isolamento, lo scorso anno, con l'Interrogazione a risposta in Commissione n. 5/03559 del 2014, all'esito dell'ispezione fatta con i Radicali alla Casa di Reclusione di Rossano (Cosenza), la Bruno Bossio aveva invitato il Governo Renzi ad assumere dei provvedimenti per assicurare che i detenuti venissero isolati soltanto in "circostanze eccezionali" e, comunque, nei soli casi tassativi stabiliti dal legislatore chiedendo, altresì, che venissero emanate delle direttive soprattutto per quanto concerneva l'esecuzione della sanzione. In numerosi Stati membri del Consiglio d'Europa, com'è noto, la tendenza va verso una riduzione della durata massima possibile dell'isolamento per motivi disciplinari. Il Cpt nel Rapporto del 2011 riteneva che "tale durata massima non dovrebbe eccedere 14 giorni per una particolare infrazione, e dovrebbe essere preferibilmente più breve ed inoltre si dovrebbe vietare d'imporre sanzioni disciplinari successive risultanti in un periodo d'isolamento ininterrotto che vada al di là di tale durata massima". All'epoca, il Prof. Hüseynov, Presidente del Cpt, dichiarò che "l'isolamento può avere effetti estremamente dannosi per la salute psichica, somatica e per il benessere sociale dei detenuti, e tali effetti possono aumentare proporzionalmente al prolungamento della misura e alla sua durata indeterminata. Un indicatore è rappresentato dal fatto che il tasso dei suicidi dei detenuti sottoposti a tale regime è più elevato rispetto a quello riscontrato nel resto della popolazione carceraria". La pratica dell'isolamento carcerario venne definita dal Prof. Juan E. Mendez, Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla Tortura durante la Terza Commissione dell'Assemblea Generale Onu del 2011, molto simile alla tortura e proprio per questi motivi venne chiesto a tutti i Paesi membri di mettere al bando la pratica della detenzione in isolamento e, al massimo, di utilizzarla solo in "circostanze eccezionali" per una durata di tempo molto limitata e, comunque, mai nel caso di giovani e persone con problemi mentali. Presentando il suo primo rapporto su tale pratica, il Prof. Mendez, evidenziò come la detenzione in isolamento indefinita o a tempo prolungato e comunque superiore ai 15 giorni avrebbe dovuto "essere soggetta a un'assoluta proibizione", dal momento che molti studi scientifici hanno dimostrato che anche pochi giorni di isolamento sociale sono in grado di causare danni cerebrali permanenti, sottolineando come tale pratica sia contraria al principio di riabilitazione che è lo scopo finale dell'intero sistema penitenziario internazionale. Per queste ragioni, l'On. Bruno Bossio, ha inteso proporre al Governo di "normativizzare" questo importante principio, raccomandato dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura ed affermato anche dalla Cassazione, che allo stato trova concreta applicazione solo grazie ad una recente circolare amministrativa. Giustizia: le vittime parallele della coppia dell'acido di Concita De Gregorio La Repubblica, 21 agosto 2015 Il piccolo appena nato, il giovane sfregiato e il dilemma dei giudici. Bisogna respirare lentamente e aspettare che la vertigine, lo stordimento, quella specie di nausea che somiglia alla paura si depositino al centro del corpo. Poi, con calma, ripassare quel poco che si sa: i fatti. Sono poco, i fatti. Sono una sequenza di gesti di cui ci sforziamo di intuire l'origine. Congetture, supposizioni: brandelli di mondi popolati di riti iniziatici, ossessioni, prove di devozione. Subito a fianco il precipizio criminale. L'acido muriatico, il martello. Eppure i ragazzi erano lì, fino a ieri nelle loro stanze, a studiare, sentire musica e studiare. Vent'anni. Avete un figlio di vent'anni? Sempre, dopo, tutti dicono: non si poteva immaginare. I genitori: professori, impiegati. Con questi figli bravi a scuola: liceo Parini, sezione Brocca. Cattolica, Bocconi. Si sente, è contagioso e denso lo smarrimento dei genitori. Erano lì, i ragazzi: a studiare. E poi? E intanto? Da cosa si poteva capire, come si poteva fermare? Dov'è la colpa, dove l'errore? Le vittime, prima di tutto. Le vittime non hanno colpa: soccombono. Passive nell'azione. Innocenti. Partiamo dalle vittime. In questa storia ce ne sono almeno due, e altre due scampate per un soffio. La prima vittima è Pietro Barbini: un ragazzo di 22 anni che in questo preciso momento indossa sul volto una maschera "rigeneratrice" per 18 ore al giorno. Quattordici interventi chirurgici, almeno due anni per capire quanti e quali danni abbia fatto l'acido e chissà quante altre operazioni. È a casa, al buio perché la luce fa male. Una vita bruciata, letteralmente. Fino al giorno prima dell'aggressione Pietro era quel bellissimo ragazzo nelle foto, liceo Parini sezione Brocca, 80 su 100 alla maturità, poi Economia a Boston, laurea imminente. Famiglia solida, fiera di lui. È il padre che lo accompagna all'appuntamento con i suoi aggressori. Un padre che dice vengo con te, ti accompagno. Bisogna immaginarselo, non è difficile. Perché Pietro è nell'elenco dei "colpevoli" da eliminare, giustiziare? Perché al liceo era stato compagno di classe di Martina, Martina Levato. Avevano avuto una storia. Anche lei brava a scuola, 92 su 100 alla maturità, poi la laurea alla Cattolica, poi il master alla Bocconi, Economia. Pietro, intanto, in America. Un giorno - lei ha già incontrato in un locale Alexander Boettcher "the King", è già dentro la spirale della "devozione" - Pietro e Martina si sentono di nuovo. Lei gli racconta. Forse gli mostra dei video. "Umilianti", dicono le cronache. Video in cui Alexander documenta come lei "obbedisca a ogni mio volere". Pietro - forse, si immagina - le dice ma perché fai questo? Forse le dice smettila, lascialo. Forse. Si indovina, da frammenti di atti giudiziari, che lui le dica quel che qualunque amico, qualunque compagno di banco, di studi, qualunque ex ragazzo direbbe. È una brutta storia, Martina. Bruttissima. Questo, più o meno. Si scambiano messaggi su WhatsApp. Lei lo convoca ad un appuntamento. Pietro non sa, naturalmente, di essere il terzo o forse il quarto di una lista di ex ragazzi di lei da cancellare, secondo il rito che la lega al nuovo uomo e che prevede confessione, mea culpa, purificazione. Era toccato prima a Stefano Savi, scampato per miracolo all'acido. Pioveva, aveva un ombrello. Poi ad Antonio Margarito, anche lui studente di economia alla Cattolica: appuntamento con Martina, sosta in macchina, tentata asportazione del pene. Nove punti alla mano, ha visto in tempo il coltello. Ora tocca a Pietro. Due bottiglie di acido in viso. Erano in due, a tendere l'agguato, forse in tre. Rischia di perdere l'occhio destro, l'udito. Di certo ha già perso la vita che aveva immaginato. Il sonno, i desideri. La seconda vittima è un neonato, Achille. La madre le ha dato il nome di un semidio, eroe vendicativo. Qualunque sia la sorte di questo bambino - che sia adottato, che lo crescano i nonni, che la madre possa vederlo o che le sia impedito - arriverà certo un giorno, per molto che lo si voglia tenere all'oscuro della sua identità, in cui scoprirà la sua storia. Nessuno sfugge alla propria origine, neppure quando non la conosce. Arriverà un giorno, per Achille. Che davvero non ha nessuna colpa, davvero non ha scelto e non sa. In qualche modo, tuttavia, vittime sono anche le famiglie. I genitori. Rileggo i resoconti della telefonata del padre di Martina, professore di matematica, al padre di Pietro. È disperato. Immagino le madri. Leggo che il padre del presunto complice della coppia, Andrea Magnani, dice del figlio: era obeso, ossessionato dal fisico. Come se questo spiegasse. Anche Martina era ossessionata dal peso, prendeva anabolizzanti per dimagrire. Alexander le diceva "sei racchietta", poi si faceva in bagno un selfie alla tartaruga all'addome. In casa teneva manette, fruste, pugnali. Sarà un dettaglio, questa ossessione dei corpi. Ne sono tutti vittime, in questa storia. Tutti vittime del desiderio di essere belli di quella bellezza lì: quella da palestra, i am the king, quella che viene bene nelle foto e ti fa entrare nei prive da padrone. Tu sei racchietta, io sono il re: ricordalo. Poi il baratro, e la vertigine a guardarci dentro. Dicono le carte, a proposito di Martina: adorazione cieca, ansia psicotica di perdere l'uomo, prove di devozione, rituali violenti. Video umilianti, sesso come catena, tatuaggi fatti col bisturi sul volto. Buio. Black out, nero assoluto. Riemergono come relitti da un naufragio le lauree, i bei voti, le foto di classe, la dieta prima delle vacanze a Gallipoli, la versione di greco, una foto ridente su Facebook. Il tempo prima, il tempo dopo. Qual è stato il momento, cosa è successo, dove? "Non credo nella cattiveria ", ha detto Don Mazzi. Non resta che credere che si possa impazzire da un giorno a un altro, così. Anche questo è difficile, per chi ha figli ragazzi. C'è una storia fonda dietro questa storia orrenda. Un incubo di tanti, se non di tutti. Le vittime innocenti sono certo almeno due, sicuramente due. Uno ha vent'anni, l'altro pochi giorni. Dei carnefici, di quale veleno si siano avvelenati e di cosa li abbia spinti alle orribili loro colpe, non basta il verdetto di un tribunale a spiegare. Né il rassicurante recinto della follia, no di certo. Questo è una storia in cui folli si diventa. Chiusi a studiare, fuori a bere e a ballare. La cosa più importante di tutte, la più difficile, sarebbe capire come, nel vuoto di cosa, perché. Giustizia: Martina "io e mio figlio da don Mazzi". Il capo di Exodus "pronti ad accoglierli" di Natalia Poggi Il Tempo, 21 agosto 2015 Achille, il bimbo nato dalla relazione tra Martina Levato e Alexander Boettcher, ha ora una famiglia. Alexander lo ha riconosciuto come figlio. Ieri mattina due messi del Comune di Milano si sono recati nel carcere di San Vittore dove Boettcher sconta la condanna a 14 anni per aver insieme alla Levato aggredito e sfigurato con l'acido Piero Barbini, l'ex ragazzo di lei. Durante l'incontro sono state espletate le procedure per il riconoscimento. Come è stato confermato da Palazzo Marino, la pratica, inizialmente bloccata per motivi burocratici, è stata autorizzata dopo che il sindaco Giuliano Pisapia, tutore legale del bambino, e il pm Marcello Musso si sono a lungo confrontati mettendo a punto i dettagli della procedura. A questo punto, i nonni paterni potranno partecipare all'iter per l'adozione del neonato e Boettcher potrà vederlo per la prima volta. Intanto Martina Levato, condannata anche a lei a 14 anni per l'aggressione con l'acido, ha chiesto di essere trasferita insieme a suo figlio nella comunità Exodus di don Antonio Mazzi. Il suo legale Stefano De Cesare presenta oggi l'istanza al Tribunale dei minori. In alternativa, l'ex studentessa bocconiana avrebbe indicato anche l'Icam, cioè la struttura per madri detenute. A differenza di Alexander, la ragazza ha potuto abbracciare e stringere a sé il suo bambino già tre volte, per mezz'ora, sotto lo sguardo di due agenti penitenziari alla clinica Mangiagalli dove Achille è nato il giorno di Ferragosto. Non può allattarlo al seno, come prescritto dai giudici. Al piccolo viene comunque garantito il nutrimento della mamma preso col "tiralatte". Con molta probabilità Martina Levato potrebbe essere dimessa dalla clinica tra oggi e domani. "Mamma e bambino stanno benissimo - hanno fatto sapere i sanitari - e, in condizioni normali, sarebbero potuti uscire". La verità è che "in una situazione come questa" l'unica alternativa è "trattenerla un paio di giorni in più". Finché non si trova la soluzione più idonea per Achille e la sua mamma. "Noi siamo pronti ad accogliere la mamma con il bambino: lo abbiamo detto in passato e lo confermiamo anche oggi" ha assicurato ieri don Antonio Mazzi "Lo abbiamo dichiarato senza incertezze e ripetuto in tutti i toni. Vedremo cosa deciderà il giudice, per il momento sono soltanto ipotesi. Nel caso, la struttura che potremo dedicare alla giovane e al suo bambino sarà adatta e soprattutto riservata, per consentire la sua uscita da questo can-can mediatico". In realtà Martina potrà andare col suo bambino nella struttura di don Antonio Mazzi solo se le verranno concessi gli arresti domiciliari. E dunque nel caso che il Tribunale dei Minori di Milano autorizzerà il trasferimento di mamma e figlio da don Mazzi, i legali della ragazza presenteranno subito dopo una richiesta di domiciliari al Tribunale ordinario. La precedente richiesta presentata quando Martina era ancora incinta, subì una doppia bocciatura sia dai giudici della nona sezione penale, sia dal gup Roberto Arnaldi con la motivazione che potesse inquinare le prove o reiterare il reato. Ma ora i suoi legali confidano che sono venute meno le esigenze cautelari perché "la struttura di don Mazzi è protetta". Se ad accogliere mamma e bebè sarà l'Icam, la struttura per madri detenute, nessuna necessità di seguire particolari procedure. Giustizia: cosa sono gli "Icam", le case per mamme detenute Vita, 21 agosto 2015 In Italia esistono due istituti a custodia attenuata, a Milano e Venezia. Qui potrebbe vivere con suo figlio anche la mamma dell'acido Martina Levato. In Italia circa 100 mila bambini ogni anno varcano i cancelli di un carcere. Sono i figli dei detenuti, costretti a vivere sin da piccoli l'esperienza di colloqui, perquisizioni, grate e rimbombo di pesanti porte blindate. Tra questi, c'è chi cresce dietro le sbarre insieme al genitore, trascorrendo i primi mille giorni di vita, di fatto, da recluso. Un fenomeno che riguarda oggi pochi minori, ma ancora presente. Secondo i dati ufficiali forniti dal ministero della Giustizia, al 31 dicembre 2014 in Italia le detenute madri erano 27, e 28 i bambini con meno di tre anni che vivevano negli istituti penitenziari. Il numero è in decrescita: negli ultimi anni è oscillato tra 40 e 50, nel 2009 i minori erano 73 e 78 nel 2008. La cifra è diminuita con il modificarsi delle condizioni generali delle carceri italiane, il maggiore accesso a misure alternative per i reati minori. Quella di portare i figli in carcere è una possibilità prevista dalla legge 354 del 1975, che la concede alle madri di bambini da 0 a tre anni. Il senso è quello di evitare il distacco o, per lo meno, di ritardarlo. Ma gli effetti su chi trascorre i suoi primi anni di vita in cella sono devastanti e permanenti. Il carcere di Rebibbia a Roma è uno degli istituti provvisto di una sezione nido, che oggi ospita circa 16 bambini - quattro in più della capienza naturale - tra cui molti rom. Al suo interno lavora l'associazione A Roma, Insieme che si occupa di progetti per minori in carcere. I volontari in questi anni hanno raccolto tante testimonianze che dimostrano il disagio dell'infanzia dietro le sbarre: dal bambino che chiedeva, vedendo il mare, dove fossero i rubinetti da cui usciva tutta quell'acqua, a quelli che hanno paura di camminare su un prato perché non l'hanno mai fatto. Più di un bambino, ospite a casa di un volontario, ha fatto i complimenti per "la bella cella". Con tutta la buona volontà degli operatori, i nidi degli istituti penitenziari restano quello che sono: parte di una prigione. Nel 2011 è stata approvata una nuova legge che consente, salvo i casi di eccezionali esigenze cautelari dovute a gravi reati, la possibilità di scontare la pena in una Casa famiglia protetta, dove le donne che non hanno un posto possono trascorrere la detenzione domiciliare portando con sé i bambini fino a 10 anni. Sono dei veri e propri appartamenti, le madri possono portare a scuola i figli, assisterli in ospedale se sono malati. Niente sbarre, niente cancelli. Sono strutture inserite nel tessuto urbano, possono ospitare un massimo di sei nuclei familiari e devono rispecchiare le caratteristiche di una casa: spazi personali, servizi, luoghi per giocare. I circa 30 bambini reclusi si trovano attualmente in due tipologie diverse di istituti: nei reparti ordinari delle carceri, per esempio a Rebibbia o a Firenze, e poi negli Icam di Milano e di Venezia. Gli Icam - acronimo che sta per istituto a custodia attenuata per detenute madri - sono delle strutture detentive più leggere, istituite in via sperimentale nel 2006 per permettere alle detenute madri che non possono beneficiare di alternative alla detenzione in carcere, di tenere con sé i figli. Sembrano quasi asili, con corridoi colorati, agenti in borghese e senza celle. Ma è un carcere a tutti gli effetti, sotto il ministero della Giustizia. Non si può uscire e ci sono sbarre alle finestre. Semplicemente ha un aspetto esteriore un po' più a misura di bambino. Invece la Casa famiglia protetta è pensata per l'esecuzione di misure alternative. Giustizia: funerali choc a Roma per il boss dei Casamonica, scoppia la polemica politica di Lorenzo De Cicco Il Messaggero, 21 agosto 2015 "Tutta Roma oggi se deve inchinà", grida, a mo' di sfida, una gitana mentre la carrozza nera del "re" dei Casamonica fa il suo ingresso in piazza San Giovanni Bosco, periferia Nord della Capitale, poco distante dalla stazione di Cinecittà. E sembra proprio la scena di un film, il funerale del boss di uno dei clan più potenti e temuti di Roma, una cosca di origine nomade che ha messo le mani sullo spaccio di tutto il quadrante Est della Città eterna. C'è anche la colonna sonora: quella del Padrino, suonata dalla banda Panizza di Frascati, assoldata dai famigliari del ras deceduto per mettere in scena un funerale "in grande stile, come si deve a un monarca", spiega uno degli organizzatori, pistola infilata nei jeans strappati, sotto la camicia bianca. Il feretro di Vittorio Casamonica, 65 anni, morto di tumore, arriva nella grande piazza del Tuscolano a bordo di una carrozza del 1910, con i cerchi d'oro, trainata da tre file di cavalli neri irlandesi. A precederla è una parata di 12 suv, stracolmi di fiori. Sui cofani, i bambini strappano i petali per lanciarli sull'asfalto. La carovana era partita alle 10 di mattina fuori dal Grande raccordo anulare, a via di Roccabernarda, nel cuore della Romanina, il feudo del clan, sorvegliato con vedette e telecamere, come a Scampia. Poi il viaggio, per oltre dieci chilometri, su via Tuscolana, arriva fino al grande spiazzo invaso da Jaguar e Mercedes, tutte in doppia fila, che bloccano gli autobus, costringendo i passeggeri a scendere in mezzo alla strada. All'esterno della chiesa è stata appesa una gigantografia del boss con la scritta "Vittorio Casamonica: Re di Roma", insieme a un fotomontaggio che raffigura il vecchio ras, con tanto di crocefisso, accanto al Colosseo e a San Pietro. Un concetto rafforzato in un altro manifesto: "Hai conquistato Roma, ora conquisterai il paradiso". È una folla orgogliosa e sprezzante quella che si accalca sul sagrato della chiesa. Una folla che per una mattinata intera tiene in ostaggio un quadrante di Roma, bloccandone il traffico, per quello che non deve essere solo un funerale, ma soprattutto un segnale da mandare all'esterno. "Comandiamo noi". "Vittorio a Roma comandava davvero - racconta uno dei partecipanti alla messa - Lo conoscevano tutti: amici e nemici. Sia in famiglia che tra le forze dell'ordine. Quando aveva 14 anni già teneva tutti sotto scacco e guidava la Ferrari. E mica comandava solo alla Romanina. Faceva il signore pure a Via veneto". La sfida alla città lanciata dal clan diventa subito un caso politico. Dal sindaco Marino, al commissario Pd Orfini, fino al ministro dell'Interno Alfano, è tutto un prendere le distanze dalla sfilata dello sfarzo e della vergogna. Ma tutto questo - le polemiche, la caccia alle responsabilità - avviene dopo. Prima c'è la celebrazione impunita del boss. A piazza San Giovanni Bosco familiari e affiliati al clan la fanno da padroni. Applaudono, intonano cori. Pare ci fosse anche il figlio del ras, in permesso dai domiciliari. Dentro la chiesa, quando comincia il funerale, il prete che celebra la messa, don Giancarlo Manieri, assicura che Cristo "aspetta a braccia aperte questo nostro fratello". E subito deflagra un'altra polemica: perché la chiesa che ieri ha celebrato, tra cavalli, carrozze e Rolls-Royce, i funerali del capo-clan dei Casamonica, è la stessa che negò i funerali a Piergiorgio Welby il 24 dicembre 2006. In quell'occasione infatti il parroco di allora, don Giovanni Nonne, su indicazione del Vicariato, spiegò ai familiari dell'attivista, malato di Sla, che "Welby con i suoi gesti si è messo in contrasto con la dottrina cattolica". E infatti nel piazzale davanti alla parrocchia venne allestito un palco, che consentì comunque ai parenti e agli amici di Welby di celebrare un "funerale laico". Una scena opposta rispetto a quella che si è vista ieri mattina. Giustizia: lusso e droga, così il clan dei Casamonica controlla Roma di Silvia Mancinelli Il Tempo, 21 agosto 2015 Estorsioni, corruzione e riciclaggio tra i reati contestati ai rom-abruzzesi. Legami con i politici e capi vicini alla storica Banda della Magliana. Estremi, appariscenti, sfarzosi, prolifici. "Zingari" li chiamano i nemici, "pezzi grossi" chi li osserva, ci fa affari o li ossequia ad occhi bassi. Temuti, disprezzati, adorati o imitati i Casamonica sono l'eccesso in persona. Non conoscono mezze misure, non amano il compromesso e se ridono o piangono lo fanno senza riserva alcuna. Ecco, dunque, che il funerale del 65enne Vittorio, considerato il boss indiscusso del clan rom-abruzzese, diventa uno show in grado di fermare Roma. Il suo ultimo desiderio, come conferma uno dei tantissimi "nipoti", dopo una vita vissuta al massimo e goduta come a ben pochi comuni mortali è concesso. La sua volontà è stata esaudita dai parenti, compari, amici, soci. Vengano pure dal cielo, allora, le rose rosse lanciate da un elicottero come una pioggia sul feretro trainato da una carrozza di inizio ‘900 e da cavalli neri in segno di lutto. Ma chi sono questi uomini dalla carnagione scura e gli occhi neri come il petrolio? Chi le loro donne sempre illuminate di gioielli ma coperte da gonne infinitamente lunghe che tante dicerie popolari hanno alimentato? "Imprenditori" di se stessi, affaristi ammanicati con la politica quanto basta per comparire in fotografie che fanno il giro del web facendo arrossire le istituzioni bipartisan. Un esempio su tutti quelle fatte uscire come un coniglio dal cilindro alla vigilia delle elezioni comunali di Roma del maggio/giugno 2013. Negli scatti vecchi di tre anni prima il candidato e sindaco uscente Alemanno, abbracciato ad un panciuto e "nazionalista" Luciano Casamonica, incensurato ma ritenuto uno dei boss del clan. Informali e rilassati, immortalati nel settembre 2010 durante una cena nel centro di accoglienza Baobab di via Cupa. Un'immagine imbarazzante quanto profetica, considerando il terzo oggetto dello sconosciuto fotografo. Accanto ai due, il primo in maniche di camicia l'altro con una aderentissima t-shirt che quasi esplode sotto la scritta Italia, niente meno che Salvatore Buzzi, arrestato esattamente quattro anni dopo, nel settembre 2014, nell'ambito dell'inchiesta "Mafia Capitale". La foto fu usata tramite i media da molti esponenti politici di sinistra, compreso il concorrente alla carica di sindaco Ignazio Marino, per criticare Alemanno, il quale pochi giorni dopo si tirò fuori dall'imbarazzo chiarendo che a quella cena erano presenti anche l'ex capogruppo del Pd Umberto Marroni con suo padre Angiolo, garante dei detenuti della Regione Lazio, e Daniele Ozzimo, consigliere capitolino del Pd, pure lui, guarda il caso, finito nello tsunami Mafia Capitale. Non solo politica, tuttavia, per le contestatissime famiglie di rom stanziali arrivate da Pescara 40anni fa nel quadrante est di Roma. Tra loro, balzati alle cronache per una sfilza di reati che vanno dall'estorsione al racket, dal traffico di droga alla corruzione fino al riciclaggio di denaro, alla prostituzione, all'usura, alle scommesse sportive e al gioco d'azzardo, ai furti e alle rapine, fino agli omicidi, ci sono anche tanti campioni di pugilato. La nobile arte ha fatto dei Casamonica e dei Di Silvio - famiglia a loro vicina - dei campioni di indiscutibile fama. Zorba Romolo, Sandro Casamonica, Pasquale "Il Puma" Di Silvio sono pugili conosciuti e apprezzati. Con un cognome scomodo e temuto, che non gli ha tuttavia negato il sapore di vittorie conquistate con le proprie forze. Criminali condannati e rinchiusi tra quattro mura di una cella, tanti capi e affiliati in passato legati alla romana Banda della Magliana, atleti lontani delle altrui malefatte che portano il peso di un nome scomodo, nipoti pronti a difendere solo il bello di quella che chiamano "tradizione". I Casamonica sono come le loro case che hanno sbalordito i poliziotti e i carabinieri nelle tante irruzioni per un arresto o un sequestro: eccentriche e piene zeppe d'oro, esagerate, kitsch e di un lusso ostentato. Lo spartiacque di una Roma che li ha temuti e odiati eppure nel suo essere "città aperta" li ha ospitati riservando loro finanche lo sfarzo dell'ultima, discutibile, celebrazione. Giustizia: la mafia padrona nella città distratta di Mario Ajello Il Messaggero, 21 agosto 2015 Nella città che aspetta la relazione del ministro Alfano su Mafia Capitale, nella Roma in cui tra pochi mesi verrà celebrato il maxi-processo a Carminati, Buzzi e agli altri imputati, in questa metropoli divorata dal virus criminale è andato in scena in una giornata d'agosto l'impensabile per chi non vuole pensare. Un funerale, nello stile cinematografico del Padrino e proprio con le musiche di quel film maestoso e terribile, che segnala la necessità e l'urgenza di una rifondazione morale dell'Urbe. Le esequie del boss Vittorio Casamonica hanno occupato Roma, per dirle che la mafia c'è, ha tutti i crismi anche simbolici della mafia classica - occhio al carro funebre trainato da sei cavalli, appena due in meno degli otto che vennero usati per gli altrettanto fastosi funerali di Lucky Luciano nella Napoli del 1962 - e non ha paura di mostrarsi, anzi ostenta tutto il suo potere. Occupando un intero quartiere; bloccando la circolazione; facendosi autorizzare (da chi?) l'uso di un elicottero che vola sulla chiesa di Don Bosco al Tuscolano (da cui piovono petali di rosa sulla famiglia, sui famigli e sull'immensa folla commossa davanti al feretro) e l'aiuto di vigili per regolare il traffico; annichilendo i romani perbene che sono la maggioranza e dando torto a chi non crede che la criminalità stia prendendo il midollo della Capitale. E invece cerca di guardare altrove, si rifugia nell'indifferenza e nell'ignavia. Minimizza la gravità di una questione etico-civile che già prima non si poteva non vedere e che ora è sotto gli occhi di tutti a colpi di immagini come quelle di ieri. Un po' New York anni 30 di Al Capone, un po' New York anni 50 del Padrino parte prima, un po' la Montreal di due anni fa quando per i funerali del boss italo-canadese Vito Rizzuto sfilò una bara d'oro, un po' un misto di Gomorra e di Reality, i due film di Matteo Garrone che non a caso è romano. Il Carminati di Mafia Capitale in una delle telefonate intercettate sostiene che "i Casamonica sono straccioni". Ma non lo sembrano affatto a giudicare dai milioni spesi in queste esequie, dalle Rolls Royce e dalle altre auto di superlusso che sfilano in corteo, dal poster che immortala il defunto con l'epiteto di "Re di Roma", dalle centinaia di corone di fiori, dalla paura mista a sbigottimento dei passanti costretti a bloccarsi davanti alla prepotenza spettacolare e all'ostentazione sfarzosa che trasudano da questa cerimonia. E che sono allo stesso tempo un segnale sociale devastante, un avvertimento mafioso, un colpo basso contro i romani perbene e la riprova che la gravità della sfida criminale alla Capitale italiana meriterebbe da parte delle istituzioni una attenzione e una reazione che sembrano mancare. E che ieri si sono trasformate in un altro film colpevolmente complementare: quello dell'impotenza e della resa. Non si può negare un funerale, anche se la stessa parrocchia che ha celebrato il boss Casamonica impedì le esequie di Piergiorgio Welby "colpevole" di essersi lasciato morire. Però come è possibile che il parroco Giancarlo Manieri faccia il sacerdote beneficiante di questo obbrobrio? "Non potevo impedirlo", si giustifica. E peggio: "Dentro la chiesa è andato tutto bene. Ordine e compostezza". E certe facce non le ha viste? E certi sgherri, tutti nella divisa del clan con t-shirt nera e jeans, non li ha riconosciuti? E quel clima da cosca padrona del territorio non lo ha saputo decodificare, come sarebbe stato capace chiunque? "Tutto - è l'incredibile autodifesa - è avvenuto fuori dalla chiesa". Dove lui e gli altri preti vestiti di bianco non possono non avere visto lo spettacolo immondo del defunto immortalato su un manifesto con l'aura della santità, la croce sul petto e la veste del Papa, o l'altro poster in cui c'è scritto: "Vittorio hai conquistato Roma, conquisterai il Paradiso". C'è da chiedersi come si sposi l'insistenza sulla lotta alla mafia da parte di Papa Francesco con lo spettacolo di ieri. E c'è da registrare quanto l'indifferenza e l'ignavia abbia unito in questa occasione la Chiesa, le istituzioni laiche e la cittadinanza. Stupisce che le forze dell'ordine non sapessero nulla. Non sorprende ma sbalordisce che il sindaco non sapesse niente, vista la presenza dei vigili anche in borghese giustificata dal calibro del boss. E quanto a quei romani che si sono macchiati di distrazione colpevole finora, cercando di non accorgersi della melma che stava salendo in questi anni, adesso non hanno più alibi e sono costretti ad avere più coraggio. Giustizia: il boss, il funerale e i poteri ciechi di Massimo Villone Il Manifesto, 21 agosto 2015 Un tempo avremmo detto che per qualunque evento di rilievo ci sarebbe stato da qualche parte un poliziotto, un carabiniere o magari un vigile urbano avvertito di quel che era accaduto o sarebbe accaduto. Ai meno giovani sarà forse successo di trovarsi per caso in questura e scoprire che al di là della scrivania sedeva un tale perfettamente informato delle vicende personali, lavorative, familiari, e persino scolastiche (quando è capitato a me, ero studente). Per chi è favorevole, questo essenzialmente accade perché, quando si parla di sicurezza e di ordine pubblico, la parola d'ordine è conoscere per prevenire. E uno Stato efficiente dispone a tal fine sul territorio di occhi ed orecchie. Ma proprio per questo stupisce, e molto, la dichiarazione del prefetto di Roma di non essere stato informato sul funerale del boss Casamonica. Un evento così imponente deve aver richiesto un vasto impegno organizzativo. Possibile che nessuno abbia visto, sentito, sospettato, supposto, ipotizzato alcunché? Possibile che l'intera preparazione - incluso l'elicottero lancia-rose - sia stata coperta da tale rigoroso segreto da non essere in alcun modo percepita nel suo svolgersi? Soprattutto considerando che si tratta di un personaggio già sotto osservazione in rapporto a vicende giudiziarie? Possibile che non sia stata colta nemmeno una comunicazione, una telefonata, un messaggino? Se dobbiamo pensare questo, e concludere che tutto poteva svolgersi nel più assoluto segreto, allora la battaglia con la criminalità organizzata è già persa. Personalmente non credo che fosse precluso ai pubblici poteri ogni intervento sulle modalità di svolgimento del funerale. Ma il punto più grave è la dichiarazione di ignoranza da parte della autorità preposta. Perché è una ignoranza che denota la inefficienza della struttura cui quella autorità presiede. E presuppone forse che qualcuno abbia saputo e taciuto, per connivenza, indebita tolleranza, o anche solo quieto vivere. Preoccupa anche l'indignazione di Orfini. Non per lui personalmente, è ovvio. Ma perché anche il Pd, se fosse un vero partito, avrebbe in qualche modo saputo di quel che stava per accadere. Lo stato non ha occhi ed orecchie sul territorio, ed è grave. Grave è che non le abbia nemmeno il Pd. Ma in fondo lo sapevamo. Come potrebbe essere diversamente quando i circoli territoriali si aprono solo per i riti primariali e le campagne elettorali? Preoccupa infine la burocratica dichiarazione di incompetenza del parroco. Ci ha ricordato da vicino quel comunicato stampa del Vicariato del 22 dicembre 2006 che sembrava scritto da un funzionario della Agenzia delle entrate: "Il Vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie (ecclesiastiche: nda) perché, a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del Dott. Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica" (segue citazione). Consigliamo rispettosamente al parroco di leggere l'articolo del cardinale Martini pubblicato sul Sole 24 Ore del 21 gennaio 2007, con l'illuminante titolo "Io, Welby e la morte". Giusto per dimostrare che c'è una Chiesa che si occupa di quel che accade fuori della porta, e c'era anche prima di Papa Francesco. Giustizia: Mafia Capitale. Il Pd parte civile al maxiprocesso, Odevaine trasferito Corriere della Sera, 21 agosto 2015 Imputato al maxi processo del 5 novembre, Luca Odevaine, ex numero due del Campidoglio e rappresentante al tavolo istituzionale per la gestione dell'emergenza immigrati, è stato trasferito al carcere di Terni da quello di Torino dov'era recluso da dicembre 2014. Nei giorni scorsi si era parlato di minacce nei suoi confronti, durante la detenzione a Torino. Voci di un pestaggio in carcere sono state smentite però: "Nessun mistero, l'avvicinamento a Roma rientrava tra gli accordi con la Procura" taglia corto uno dei suoi difensori, il penalista Luca Petrucci. Dall'amministrazione penitenziaria precisano: "Non abbiamo notizie di pestaggi o azioni violente nei suoi confronti. Quanto al trasferimento, richiesto dall'autorità giudiziaria, per noi è un atto dovuto, motivato dai pubblici ministeri che conducono l'inchiesta". Odevaine ha iniziato a collaborare con i pm di Roma e ha anche ammesso, almeno in parte, di aver ricevuto denaro da "La Cascina", la coop che si è aggiudicata la gestione del Cara di Mineo, come si legge nell'ordinanza di arresto: avrebbe inoltre "messo a disposizione il suo ruolo istituzionale di appartenente al Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza per richiedenti e titolari di protezione internazionale" nonché di "componente delle tre commissioni di gara per l'aggiudicazione dei servizi di gestione del Centro assistenza di Mineo, ricevendo in cambio la promessa di una retribuzione fissa mensile determinata in una prima fase in 10.000 euro, elevata a 20.000 dopo l'aggiudicazione della gara del 7 aprile 2014". Due dei suoi interrogatori (secretati) sono stati trasmessi ai magistrati catanesi che conducono approfondimenti proprio sul centro di accoglienza profughi di Mineo. Ma secondo Salvatore Buzzi, ascoltato a luglio in carcere, Odevaine avrebbe avuto un ruolo anche nella creazione di uno dei maggiori campi nomadi di Roma (a Castel Romano) nel 2005. Sostiene Buzzi: "Occorrerà spostare il campo nomadi ma i rappresentanti delle tribù nomadi non volevano. Il Comune, allora, attraverso Odevaine, chiude un accordo con costoro, in forza del quale si sarebbero trasferiti, con il pagamento di 15 mila euro al mese per lavori inesistenti". Il presidente del Pd e commissario romano, Matteo Orfini, ha annunciato che il partito intende costituirsi parte civile al processo per "Mafia Capitale". Giustizia: Mafia Capitale. L'associazione mafiosa ora diventa solo questione di "metodo" di Claudio Cerasa Il Foglio, 21 agosto 2015 Inizierà a novembre il processo su "Mafia Capitale", e c'è da sperare che nel procedimento giudiziario invece che teoremi traballanti sostenuti solo dalla capacità di impressionare l'opinione pubblica verranno presentate prove con riscontri oggettivi. Finora, invece, ha prevalso la tattica, adottata immediatamente dalla procura romana, di esaltare gli elementi speciosamente pubblicitari, mentre di effettivi elementi che colleghino gli imputati romani a organizzazioni effettivamente mafiose sono assai evanescenti. Il presidente del Senato, Pietro Grasso, che pure ha una vasta esperienza dei processi di mafia per l'attività svolta, peraltro egregiamente, come capo della procura antimafia nazionale, nei mesi scorsi ha fatto dichiarazioni sconcertanti. "Non è la mafia di Cosa nostra, non è il Padrino - ha detto riferendosi al malaffare scoperto a Roma - ma è comunque mafia per il metodo mafioso". Era una frase di un comizio a una festa dell'Unità, il che almeno parzialmente giustifica il carattere assolutamente impreciso, per non dire fuorviante di questa osservazione. Questo stesso concetto, secondo il quale basta il "metodo mafioso" per configurare il reato specifico di associazione di stampo mafioso, è stato poi ripreso dalla procura, anche nella presentazione di atti giudiziari e questo è davvero allarmante. Anche chi non nutre alcuna simpatia per gli imputati di questo maxi-processo, non può accettare l'idea che un reato specifico, già piuttosto fumoso a causa del suo carattere associativo, diventi addirittura una questione di metodo, del tutto indefinibile e quindi tale da consentire qualsiasi arbitrio. Quando poi Grasso ha dato una definizione del metodo mafioso ha parlato di "intimidazioni e violenze" connesse alla volontà di "infiltrarsi nella pubblica amministrazione". In pratica non c'è modo per distinguere su questa base le pressioni indebite, che sono una cosa censurabile naturalmente, dall'azione mafiosa, che è tutt'altra cosa. Paradossalmente si potrebbe dire che quando la procura romana ha dichiarato di non credere alle dichiarazioni di Salvatore Buzzi perché non portano sostegno all'incriminazione di Gianni Alemanno per associazione mafiosa, ha esercitato una pressione indebita, accompagnata dalla violenza oggettiva della carcerazione preventiva. Dunque anche la procura ha agito con "metodo mafioso"? È solo un paradosso, ma serve a far capire quanto sia generico e fuorviante questo concetto, che però rischia di diventare la spina dorsale di un procedimento destinato a concentrare l'attenzione dell'opinione pubblica e non solo in Italia. C'è solo da sperare che i giudici di merito non si facciano obnubilare da questi paralogismi e ammettano com'è loro diritto e dovere, solo prove convincenti. Giustizia: giro di vite contro il caporalato, può scattare l'associazione mafiosa Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2015 Indagato titolare della ditta che ingaggiò la bracciante morta. Dall'1 settembre via alla "Rete del lavoro agricolo di qualità" per ricevere un certificato di qualità. Poi più controlli e contrasto sul campo. Giro di vite contro il caporalato, rendendo più stringenti le norme contro gli sfruttatori, i caporali, ma anche contro le aziende e gli imprenditori che si rivolgano ad essi. Poi applicazione del reato di associazione di tipo mafioso (il 416-bis) anche per chi utilizza lo sfruttamento del lavoro come mezzo per perseguire le finalità delle associazioni criminali, in modo stabile e continuativo e con intimidazioni. La richiesta, giunta da alcuni politici e sindacalisti è stata condivisa anche dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. "Serve un salto di qualità nell'azione di contrasto a questi fenomeni", ha detto il ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina. Un duro colpo a questo fenomeno potrebbe essere infetto, con la piena operatività della "Rete del lavoro agricolo di qualità". Dall'1 settembre le imprese agricole potranno aderirvi via web al sito Inps e potranno ricevere una sorta di bollino, un "certificato di qualità". Poi controlli e il contrasto sul campo di questi fenomeni, in particolare in alcune realtà. Intanto ieri il titolare dell'azienda agricola in cui lavorava Paola Clemente, la bracciante di 49 anni morta nei campi il 13 luglio, è stato indagato dalla Procura di Trani. "Dobbiamo cominciare a considerare i caporali degli scafisti di terra - ha detto il responsabile legalità Flai-Cgil, Roberto Iovino, al Tg di TV2000 - persone che lucrano e fanno profitto sulla disperazione di tante persone che cercano un lavoro e non lo trovano". E ha fornito dei numeri: per evasione contributiva, c'è un danno erariale di 600 milioni di euro, più le altre tasse che un datore di lavoro dovrebbe versare assumendo in regola il lavoratore. Giustizia: agenzie del lavoro e tour operator , qui si nascondono i nuovi caporali di Giuliano Foschini La Repubblica, 21 agosto 2015 La schiavitù nei campi. Dalle imprese insospettabili con sedi al nord che reclutano i braccianti agli autisti dei pullman che li portano nelle serre: ecco come lo sfruttamento è diventato un business sempre più sofisticato, mascherato dietro un volto legale. Funziona così: c'è il proprietario terriero che si rivolge a un'agenzia interinale. L'agenzia interinale che si appoggia a un trasportatore, che ora si fa chiamare tour operator. C'è poi il trasportatore che riempie i bus e porta gli uomini, ma soprattutto le donne, a lavorare. E poi - dopo sette ore trascorse a lavorare a qualsiasi temperatura, sotto tendoni incandescenti, in mezzo a pesticidi e veleni vari - li riporta a casa. "Ma non chiamatemi caporale, io ho tutte le carte in regola" racconta a Repubblica Ciro Grassi, l'uomo indagato per l'omicidio di Paola Clemente. E ha ragione. In Italia il nuovo caporalato - nove miliardi di euro di fatturato, tre che vengono solo dal pomodoro, seicento milioni di contributi evasi secondo la Cgil, in sostanza il narcotraffico dell'agroalimentare - funziona proprio così: i braccianti muoiono di fatica. Con tutte le carte a posto. le società di collocamento Paola Clemente, per esempio. È morta lavorando per due euro all'ora. Eppure, sulla carta, aveva un regolare contratto di lavoro. Non esisteva però nessun contatto diretto con l'azienda agricola dove prestava servizio, la Terrone di Andria, il cui titolare da ieri è iscritto nel registro degli indagati. I produttori si erano affidati, infatti, come ormai tutti fanno in questo settore, alle agenzie interinali, che mediano i rapporti con i braccianti e che ormai da qualche anno hanno il monopolio del mercato. "Si tratta - spiega Peppino De Leonardis, il responsabile della Flai Cgil che ha fatto scoppiare il bubbone del nuovo caporalato - di maxi strutture, spesso con sede al Nord, che fanno lavorare per ogni stagione 5-6mila persone". Se la storia si fermasse qui, come la ratio della norma aveva previsto, sarebbe tutto regolare. "E invece in questa maniera si riesce a dare uno schermo di legalità al vecchio caporalato" dice il sindacalista. Che significa? Per reclutare lavoratori, queste maxi agenzie interinali si appoggiano ad alcuni personaggi locali: lo fanno nel Tarantino, nel Barese, ma anche in Calabria, in Campania, in alcune zone dell'Emilia-Romagna. Li assumono con contratti regolari e il loro compito è contattare, reclutare e gestire, appunto, le giornate delle braccianti. "In sostanza se vogliamo lavorare, dobbiamo andare da loro" racconta Maria, una delle colleghe di Paola che con le sue dichiarazioni sta aiutando il marito della vittima a fare chiarezza su quanto è accaduto. E cosa chiedono in cambio "loro"? La signora con le dita fa il segno del denaro. Soldi. Percentuali. Non è cambiato niente dunque. Ma purtroppo, invece, è cambiato molto. I moderni caporali sono uguali e identici ai vecchi. Ma rispetto al passato tutto, almeno sulla carta, è in regola. Torniamo infatti alla storia di Paola. Guadagnava due euro per ogni ora di lavoro. Eppure se la Polizia avesse fermato il bus sul quale viaggiava, mentre andava a morire, non sarebbe accaduto nulla. La signora, come le sue colleghe, teneva in borsa - così come a loro ordinato - quei documenti che attestavano la regolarità del suo rapporto di lavoro. Sulla carta la donna aveva una busta paga da 50 euro circa al giorno. Eppure a casa ne portava soltanto 27. Dove finivano gli altri 23? Da una prima analisi documentale sono emersi alcuni anticipi, che sarebbero stati liquidati fuori busta e poi scalati dalla paga ufficiale. Anticipi che però mai sarebbero stati intascati alla donna, assicura il marito. Quei 23 euro potrebbero essere il prezzo del caporale: è questo, per lo meno, il sospetto della procura di Trani che, con il procuratore Carlo Maria Capristo, sta ascoltando in queste ore una serie di testimoni. I trasportatori Grassi guadagnava 23 euro al giorno dalle sue donne? "Non scherziamo, io non sono un caporale" dice l'uomo che decide di parlare con Repubblica. E qual è allora il suo mestiere? "Io sono un trasportatore". Da un'analisi alla Camera di commercio effettivamente Grassi risulta un tour operator. La sua Grassi viaggi si occupa di "noleggio e trasporto persone con conducente". Ha però un solo dipendente, l'azienda è attiva da cinque anni e a leggere i bilanci ha quasi sempre un solo cliente. "È vero, io lavoro per le agenzie interinali - ammette - E mi occupo unicamente del trasporto dei braccianti. Lo faccio da alcuni anni e non mi posso lamentare. Non so dire con precisione quanto guadagno, e comunque non sono domande da fare, ma certo non prendo dei soldi a persona ma per il numero dei chilometri fatti. Non faccio speculazione su nessuno". Le donne dicono che per lavorare bisogna venire da lei. "Bugie. Calunnie. Falsità". E gli anticipi? "Vengono pagate tutte con assegni circolari. E comunque non c'è nessuna irregolarità. Io emetto fattura e vengo pagato per il lavoro che faccio dalle agenzie. Punto e basta". Questa è la verità di Grassi, dunque. "Del caso specifico se ne occuperà evidentemente la magistratura. Ma le cose non stanno così" attacca la Cgil. "È evidente che questi, e parlo in generale - spiega De Leonardis - sono tour operator fittizi. Come loro stessi ammettono, l'unico loro lavoro è trasportare i braccianti. Sono loro a decidere quindi chi può lavorare e chi no. Ed è evidente che alla minima lamentela o insubordinazione hanno il potere di lasciarli il giorno dopo a casa. Siamo tornati dunque alla grammatica del caporale: assoggettamento, potere, ogni diritto messo sotto terra. Chiamarli tour operator, evidentemente, non cambia la sostanza". I dipendenti infedeli È così. Le parole non cambiano i fatti. E questo lo sanno anche le agenzie interinali. Fino allo scorso anno, il monopolio era sostanzialmente nelle mani di una società, la Quanta, che gestiva, secondo il sindacato, circa 20mila rapporti di lavoro. Dopo polemiche, ispezioni, la Quanta ha firmato un accordo con i tre sindacati e ha cambiato le cose. Perdendo però la metà dei lavoratori nel giro di un anno per mancanza di richiesta. "Pazienza. Preferiamo la trasparenza. Ma il caporalato - dice Vincenzo Mattina, vice presidente della società - non lo abbiamo inventato noi agenzie. Il nostro ruolo dovrebbe essere, al contrario, quello di porre un argine e di portare legalità in un settore che invece è storicamente in mano alla deregulation. Noi siamo l'unica alternativa possibile". Però. "Ci siamo accorti che sui territori le cose non sempre vanno come devono e che qualcuno, qualche dipendente infedele, continuava a comportarsi da caporale: ci nascondevano che a gestire le giornate fossero i trasportatori, nascondevano le vecchie abitudini sotto il cappotto della legalità. Non andava bene". Nell'accordo firmato con i sindacati l'agenzia ha riconosciuto una serie di anomalie contrattuali sulla gestione passata: poche giornate, per esempio, e troppi part time. Quanta sta chiudendo ora le ultime transazioni, ma ha deciso anche di allontanare alcuni dipendenti e sciogliere altri contratti. "Sì, anche con Grassi. Lavorava con noi fino allo scorso anno. Ci siamo accorti, però, che qualcosa non andava, i suoi pullman viaggiavano troppo pieni e abbiamo deciso di interrompere la collaborazione". Grassi è passato così con la concorrenza, Infogroup, società satellite del gruppo De Pasquale, sede principale in via Rizzoli a Milano, i nuovi leader del Tarantino. Paola Clemente aveva un contratto con loro. "Ed era tutto regolare" hanno tenuto a specificare dalla società nelle ore successive alla morte della donna. Tutto a posto. Tutto regolare. "Siediti e aspetta che mo' ti passa" dissero, d'altronde, a Paola qualche minuto prima di morire. Giustizia: il bracciante che era con Paola "ho sentito le urla, poi l'hanno coperta" di Gino Martina Corriere della Sera, 21 agosto 2015 Vincenzo, 42 anni, racconta il giorno della tragedia e mille altri giorni tutti uguali: "Ciro possiede i pullman ma l'ingaggio avviene sul campo. Ci assume un'agenzia". "Non scendo da qualche giorno. Ma quando voglio lavorare alle due e mezza mi faccio trovare in strada. Non lontano dalla piazza. Lì siamo in tanti ad aspettare. Passa il pullman di Ciro e ci carica. Ricordo quando salì Paola, che non stava bene. Diceva di avere dei dolori alla cervicale. Credo prese una pillola". Vincenzo ha 42 anni. Da cinque è tornato al suo paese, San Giorgio Jonico, con tutta la famiglia: "Vivevamo tutti nelle Marche, io, i miei cinque fratelli e i miei genitori. Io lavoravo nei magazzini della Merloni, poi, un giorno il padrone ha chiuso la fabbrica e ha portato la produzione all'estero. Così, un po' alla volta, siamo tornati al paese". E da due anni "scende", un modo per dire che lavora nei campi: il 13 luglio era con Paola Clemente. Si è accorto di ciò che stava accadendo quella mattina? "Avevo visto, come tutti, Paola che non stava bene. Erano due o tre giorni che si lamentava. Ma veniva lo stesso al lavoro. Stavamo ripulendo i grappoli d'uva dagli acini marci. Io ero a qualche decina di metri da lei. Non ho visto quando si è sentita male. Ma intorno alle sette e mezza ho ascoltato altri urlare e correre". Avete provato a soccorrerla? "Quando sono arrivato vicino a lei era già per terra, priva di sensi. Aveva la bava alla bocca e c'era gente attorno. L'ambulanza era stata già chiamata, anche se ci ha messo un bel po' ad arrivare". Quanto? "Non saprei, anche perché non so di preciso quando sia stata chiamata. Ma potrebbe essere passata anche mezz'ora. Non è facile trovare i posti in campagna, le contrade". Quando è arrivata l'ambulanza cosa è successo? "Poco o nulla. Per lei non c'era più niente da fare. L'hanno coperta e nel frattempo sono arrivati i carabinieri. Mentre noi avevamo già smesso di lavorare". Per vostra scelta? "No. Non c'è stato bisogno. Il padrone dell'azienda ci ha detto che non si lavorava più. Ha fatto capire che se la sarebbe vista lui per le spese del trasporto del corpo. Era dispiaciuto. Si vedeva. Il giorno dopo ci ha fatti lavorare un'ora in meno e ci ha lasciati liberi per assistere ai funerali di Paola". Quante ore lavoravate a giornata? "Dalle sei alle otto. Dipende. Normalmente iniziamo alle sei e finiamo alle dodici". E siete pagati a ora? "Sì". È Ciro Grassi che vi assume? "No. Lui ha la sua squadra e possiede i pullman. Almeno tre, forse quattro. L'ingaggio avviene sul campo". Cioè? "Arrivano persone di un'agenzia di Bari che ci fanno firmare il contratto lì dove sono i tendoni". Quanto dura il contratto? "Dipende dal lavoro da svolgere. Per le vigne ci vuole anche più di un mese". Per una giornata quanto siete pagati? "Se hai il contratto 30 euro. Anche se sui documenti che ci danno c'è scritto 41 euro. Quando si lavora in nero, e ci sono molti che lo fanno, qualcosa in più". E quegli 11 euro a chi vanno? "Boh, chi lo sa. Bisogna chiedere all'agenzia". Quindi non è il padrone dell'azienda o del terreno che vi assume. "No". Ma lui è lì che lavora con voi? "Sì, normalmente controlla che tutto vada bene". E Ciro cosa fa nel frattempo? "Anche lui è lì e ci dà indicazioni, sta attento a come lavoriamo". Quindi non fa solo l'autista. "Beh, no. Organizza la squadra. È lì in accordo con il padrone del terreno e l'agenzia. Lui procura i lavoratori e ne porta tanti, se si considera che ogni pullman contiene almeno 50 persone". Prende soldi da voi per il trasporto o per le cose da mangiare? "No. Il cibo ce lo portiamo noi, da casa. Anche il ricambio dei vestiti e delle scarpe è a carico nostro". Ma per lavorare con loro come fa? Ci si presenta la mattina in piazza e si sale sull'autobus? "No. Normalmente si contatta lui e si chiede se c'è del lavoro. Poi lui chiama il giorno prima e dice che ha bisogno". E si sa dove si va a lavorare e di che tipo di lavoro si tratta? "Spesso non sappiamo nulla. Lui passa dalla strada o dalla piazza, con l'autobus. Facciamo il giro degli altri paesi a prendere ancora gente scesa. Arriva gente da Carosino, Monteparano, San Marzano. Alla benzina di Monteiasi, sulla strada per Grottaglie, c'è il punto di ritrovo, dove arrivano altri tre o quattro pullman. Ciro organizza la squadra e partiamo. Quasi mai sappiamo per dove". Giustizia: il ministro Alfano "sulle intercettazioni intesa vicina" di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 21 agosto 2015 L'ottimismo del ministro. Ma il responsabile Pd per la giustizia frena: non ci sono novità. Sulle intercettazioni "siamo vicini a un accordo: sono convinto che questa volta ce la faremo". Non solo le proposte su Fisco, burocrazia e incentivi alle famiglie, ieri Angelino Alfano, ha inserito tra le novità un argomento sensibile di eterno scontro tra le due anime del governo: con l'Ncd che tenta di limitarle e il Pd che frena, ma non abbastanza secondo i 5 Stelle. Prima della pausa estiva era finita così. Con un disegno di legge delega in discussione alla Camera che limita la possibilità di pubblicarle, ma non di utilizzarle nelle indagini e con l'ostruzionismo del M5S. Poi ieri, a sorpresa, l'annuncio dell'intesa quasi raggiunta: "Abbiamo a cuore l'equilibrio tra uso delle intercettazioni come strumento d'indagine e rispetto della privacy e credo che siamo vicini a un accordo", si limita a dire Alfano. Ma quale accordo? Quello già raggiunto nel ddl delega, che porta anche il suo nome, o uno nuovo? Il Guardasigilli Andrea Orlando è ufficialmente in vacanza e non lascia trapelare traccia di incontri. Evita di ricacciarsi in un'altra polemica sulla "legge-bavaglio". L'ultima sull'emendamento presentato dall'ncd Alessandro Pagano, che prevedeva l'arresto per gli autori di registrazioni audio o video rubate, poi bocciato, gli ha procurato le proteste del M5S. Ora, secondo il suo canovaccio, si attende, a settembre, la riunione di un tavolo con giornalisti ed editori sul tema. Ma che le intercettazioni siano già oggetto di trattativa in vista della difficile partita delle riforme costituzionali non sfugge. Dunque in molti ieri si interrogavano sul senso dell'uscita di Alfano. "Non so nulla. Credo che Alfano si riferisca all'accordo che già c'è", dice Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia alla Camera. E aggiunge: "Alfano è tornato indietro rispetto a quando voleva limitare l'uso delle intercettazioni e noi abbiamo fatto un passo avanti verso la convergenza sull'udienza filtro". A meno che...". A meno che? "A meno che non si stia lavorando sull'attuazione della delega". Eccolo un potenziale fronte di scontro sulle intercettazione: il decreto legislativo di attuazione. "Attualmente - spiega la Ferranti - il principio di equilibrio è stato trovato. C'è la selezione delle conversazioni rilevanti e pertinenti alle indagini, che saranno pubblicabili. Viene espunto ciò che non è rilevante. E la selezione diventa vincolante e non facoltativa". Ma nel decreto attuativo molto può cambiare. "Tanto per fare degli esempi, c'è da decidere chi valuta la rilevanza delle intercettazioni. E sulla base di cosa i colloqui vengono ritenuti rilevanti. E diverso stabilire che a decidere se un'intercettazione è pubblicabile sia il pm o il giudice", chiude la Ferranti. "Non mi risultano novità o riunioni per mettere a punto accordi", assicura anche David Ermini, responsabile giustizia del Pd. E chiarisce: "Per ora è il ddl delega in votazione alla Camera che vogliamo portare a casa. Non ci siamo riusciti per l'ostruzionismo dei 5 Stelle. Poi con il decreto legislativo si metterà a punto". E allora l'annuncio? "Non vorrei - aggiunge - che fosse altro quello a cui si pensa: per chiudere il pacchetto giustizia manca la riforma della prescrizione. In particolare quella per i reati di corruzione. Sarà lì che si tenta un nuovo accordo?". Per l'omesso versamento delle ritenute previdenziali nessuna depenalizzazione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 3 luglio 2015 n. 28230. La fattispecie di cui all' articolo 2, comma 1 bis, del decreto legge 12 settembre 1983 n. 463, convertito dalla legge 11 novembre 1983 n. 638, che punisce l' omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, è tuttora prevista come reato, giacché l'articolo 2, lettera c), della legge 28 aprile 2014 n. 67 si è limitata a conferire al governo la delega a trasformare tale reato in illecito amministrativo purché il mancato versamento delle ritenute previdenziali non superi la soglia di 10.000 euro annui, ma allo stato tale delega non è stata ancora esercitata. Pertanto in assenza del concreto esercizio della delega non è possibile ritenere che i principi e i criteri contenuti nella legge di delegazione abbiano diretto effetto modificativo dell'ordinamento vigente, anche perché, diversamente opinando, ossia se si volesse pronunciare proscioglimento (o annullare senza rinvio, in cassazione) per tutti coloro i quali a oggi, al di sotto della quota di ritenuta di 10.000 euro, non hanno versato i contributi previdenziali si aprirebbe una impunità generale, nell'assenza di una esplicita norma che, oltre a depenalizzare la condotta, l'avrebbe peraltro comunque assoggettata a sanzione amministrativa. Questo il principio di diritto affermato dalla Cassazione, sezione III, 13 maggio 2015- 3 luglio 2015 n. 28230, che sul punto, peraltro è in linea con i precedenti arresti giurisprudenziali della Suprema Corte: per tutti, Sezione III, 14 aprile 2015- 19 maggio 2015 n. 20547, Carnazza. Il momento consumativo del reato - La sentenza è di interesse anche perché sofferma l'attenzione sul momento consumativo del reato, anche ai fini del decorso della prescrizione. Si tratta, secondo la Corte, di reato omissivo istantaneo, per il quale il momento consumativo coincide con la scadenza del termine utile concesso al datore di lavoro per il versamento, termine attualmente fissato, dall'articolo 2, comma 1, lettera b) del decreto legislativo n. 422 del 1998, al giorno sedici del mese successivo a quello cui si riferiscono i contributi. Tale termine rileva, ovviamente, ai fini della prescrizione, pur dovendosi aggiungere ad esso di periodo di sospensione legale di tre mesi, ai sensi dell'articolo 2, comma 1 quater, del decreto legge n. 463 del 1983, convertito nella legge n. 638 del 1983, concesso al datore di lavoro per la regolarizzazione, mediante il versamento di quanto dovuto. La prescrizione ai genitori di sottoporsi a psicoterapia lede il diritto di libertà di Mario Finocchiaro Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione I civile - Sentenza 1 luglio 2015 n. 13506. La prescrizione ai genitori di sottoporsi a un percorso psicoterapeutico individuale e a un percorso di sostegno alla genitorialità da seguire insieme è lesiva del diritto di libertà personale costituzionalmente garantito e alla disposizione che vieta la imposizione, se non nei casi previsti dalla legge, di trattamenti sanitari. Tale prescrizione, pur volendo ritenere che non imponga un vero obbligo a carico delle parti, comunque le condiziona a effettuare un percorso psicoterapeutico individuale e di coppia confliggendo così con l'articolo 32 del la Costituzione. Lo ha previsto la Cassazione con la sentenza n. 13506 depositata il 1 luglio 2015. Una prescrizione rigida - Secondo i giudici della prima sezione civile, tale prescrizione non tiene conto del penetrante intervento, affidato dallo stesso giudice di merito, al servizio sociale che si giustifica in quanto strettamente collegato alla osservazione del minore e al sostegno dei genitori nel concreto esercizio della responsabilità genitoriale. Laddove la prescrizione di un percorso psicoterapeutico individuale e di sostegno alla genitorialità da seguire in coppia esula dai poteri del giudice investito della controversia sull'affidamento dei minori. I precedenti orientamenti - Sino alla pronunzia ora in rassegna - con la quale, per la prima volta, la Suprema corte ha affrontato un tema particolarmente rilevante - in termini opposti, era frequente leggere in pronunce di merito statuizioni del tipo: prescrive a ciascuna delle parti di iniziare ovvero proseguire un percorso individuale psicoterapeutico (così ad esempio, Trib. Monza, sentenza 11 aprile 2014, n. 2014, in Dejure, 2014 resa a conclusione di un procedimento di separazione personale dei coniugi, che aveva disposto, altresì, contestualmente, l'affidamento condiviso dei figli minori), o dispone che l'ente affidatario [del figlio minore] monitorizzi la situazione dei minori attraverso colloqui con entrambi i genitori, attivi un intervento di educativa domiciliare presso l'abitazione della madre e, se possibile, anche del padre, fornisca ad entrambi genitori, ed immediatamente alla madre, un supporto alla genitorialità, appresti un intervento di sostegno psicologico e/o psicoterapeutico a favore della madre (Così, in particolare, Trib. Milano, sentenza 28 febbraio 2013, ivi, 2013, pur essa resa in un giudizio di separazione personale), o - ancora - è … indispensabile, mantenere uno spazio terapeutico per il minore, che lo aiuti ad elaborare il proprio vissuto e che la [madre, separanda] continui nel percorso psicologico di sostegno alla capacità genitoriale, in modo che la stessa possa essere di supporto nel percorso di crescita del figlio. L'affidamento al servizio sociale dovrebbe garantire che tali interventi vengano svolti. Il servizio dovrà offrire un percorso di sostegno alla capacità genitoriale del [marito] qualora si trovi in Italia. Se lo stesso si trovasse all'estero per lavoro dovrebbe attivarsi per seguire autonomamente un percorso di sostegno alla genitorialità (In termini, Trib. Roma, 6 luglio 2012, ivi, 2012). Un indirizzo positivo - Ancorché nel passato la Cassazione - pur avendo preso atto che da parte dei giudici di merito si fosse fatto ampiamente ricorso all'ordine, ai coniugi, di seguire percorsi psicoterapeutici al fine di trasformarsi in ottimi genitori (secondo gli schemi ufficiali della psicologia) e in perfetti coniugi (cfr., ad esempio, specie in motivazione, Cassazione, sentenze 20 marzo 2013, n. 7041 e 24 maggio 2012, n. 8225, nonché ordinanza 1° ottobre 2012, n. 16711) - non abbia mai stigmatizzato tali abusi posti in essere dai giudici di merito - in quanto, palesemente, mai censurati espressamente dalle parti - non può non plaudirsi alla pronuncia in rassegna. A prescindere dal considerare che non risulta assolutamente dimostrato che i percorsi in questione - oltre a giovare, specie economicamente, agli esperti incaricati - conducano, veramente a superare le crisi coniugali e a trasformare i coniugi in bravi genitori (leggendo le pronunce, di merito e di legittimità in cui si dà atto che il giudice istruttore aveva ordinato ai genitori detti percorsi, si scopre che nella generalità dei casi non sono stati raggiunti risultati positivi) rimane insuperabile il rilievo che l'articolo 32 della Costituzione prevede - espressamente - che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge e al momento (ringraziando il cielo) l'articolo 337-ter del Cc sul punto tace. Dirigente risarcibile per mobbing anche se ha già lasciato l'azienda di Alberto Testi Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2015 Pochi giorni dopo aver negato la risarcibilità del danno alla professionalità in un caso di mobbing (sentenza 16690/15, commentata sul Sole 24 Ore dello scorso 13 agosto), con la pronuncia 16896/15 la Cassazione conferma invece il risarcimento riconosciuto ad un lavoratore in relazione al demansionamento subìto. Per quanto si dirà, la contraddittorietà tra le due sentenze è solo apparente. Nella fattispecie esaminata, un dirigente rassegnava le dimissioni per giusta causa in conseguenza del demansionamento di cui era stato vittima per oltre 3 anni. Nei giudizi di merito, accertata la sussistenza dell'illecito comportamento datoriale (consistito nella progressiva sottrazione al lavoratore degli incarichi di alto contenuto professionale in precedenza ricoperti e financo in un periodo di completa inattività), la società veniva condannata alla restituzione dell'importo trattenuto a titolo di mancato preavviso, nonché al pagamento dell'indennità di preavviso e al risarcimento del danno professionale, liquidato in misura pari al 40% della retribuzione percepita dal dirigente durante il periodo di dequalificazione. La società ricorreva in cassazione censurando la pronuncia d'appello soprattutto nella parte in cui era stata accolta la domanda risarcitoria in assenza di "prova del danno da demansionamento, riconosciuto in base a fatto notorio e desunto da criteri di comune esperienza". La Cassazione ha respinto tale doglianza, ribadendo che in presenza di specifiche allegazioni fattuali offerte dal lavoratore circa la sussistenza del demansionamento - allegazioni che nel caso di specie erano state confermate dai testimoni escussi nelle precedenti fasi del giudizio - deve ritenersi provata, anche per presunzioni, l'esistenza di un danno alla professionalità. Il richiamo, sul punto, è alla nota sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite n. 6572/06, ove è stato precisato che in tema di danno alla professionalità "all'onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l'ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro. Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni… cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all'articolo 2727 del codice civile, venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all'interno e all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto". In conclusione, il danno alla professionalità può certamente essere oggetto di risarcimento, a condizione però che il lavoratore fornisca al Giudice tutti gli elementi di fatto idonei a dimostrare l'esistenza del pregiudizio lamentato. Lettere: il figlio della "coppia dell'acido" di Mario Iannucci* Ristretti Orizzonti, 21 agosto 2015 Un bambino è nato. È nato da Martina Levato, una donna che ha sfregiato con l'acido un uomo col quale, in precedenza, aveva avuto una relazione sentimentale. Il reato è stato compiuto in complicità con un altro uomo, col quale al momento del fatto la donna aveva stabilito un nuovo e intenso rapporto, tanto da concepire insieme a lui il bambino che è appena nato. Ho letto della presenza di un terzo "complice", già rinviato a giudizio, assieme a Martina Levato, per altre aggressioni "purificatorie" compiute assieme alla donna. Molte cose sono state dette a proposito della opportunità e della inopportunità di sottrarre il neonato alla mamma "cattiva", non consentendole di tenerlo con sé. Anche gli psichiatri e gli psicoanalisti, come è inevitabile cha avvenga in questi casi, si sono pronunciati. Qualcuno (fra questi Crepet) ha detto che, non essendo Martina Levato appartenente all'ISIS, sottrarle il bambino era da ritenersi un "atto barbarico". Qualcun altro (fra questi Recalcati), deducendo, dalla perizia psichiatrica cui Martina Levato (e Alessandro Boettcher, suo complice e padre del neonato) sono stati sottoposti da parte del Tribunale, che il reato abbia delle ragioni "deliranti", sembra giustificare almeno in parte la richiesta del PM e la successiva decisione di allontanare il figlio dalla madre. Fra l'altro vale la pena leggere le parole che Recalcati ha scritto su La Repubblica: "Dalle perizie psichiatriche […] sembra essere stata la maternità stessa a portare questa giovane donna verso l'esigenza "delirante" di una "purificazione" di se stessa che le avrebbe imposto di farla finita con il proprio ex e con il "male" che egli rappresentava". Una riflessione attorno a questi due "poli" - la mancata appartenenza all'ISIS invocata da Crepet e il "delirio di purificazione" segnalato da Recalcati - può forse aiutarci se si vuole cercare di capire qualcosa di più su una vicenda tanto "penosa". Io non so se un reato così terribile e apparentemente "insensato" sia stato ideato e compiuto da persone "capaci di intendere e di volere". Dubbi in proposito, con ogni evidenza, ne hanno avuti anche i Giudici, visto che hanno disposto una Consulenza Tecnica Psichiatrica sugli indagati. Non ho letto la perizia, che è stata collegiale (svolta da due consulenti). Con ogni probabilità però, visto che almeno due degli imputati (Martina Levato e Alessandro Boettcher) sono stati condannati come "sani di mente", i consulenti non hanno ritenuto che il piano criminoso sia stato compiuto all'interno di un progetto "delirante", concepito magari da Martina Levato e condiviso quindi, in una sorta di folie à deux o à trois, dagli altri complici. I Giudici quindi, su indicazione dei Periti, hanno ritenuto che gli imputati fossero "sani di mente" e per questo potessero e dovessero patire gli effetti di una pena detentiva comune. Il loro non è stato un gesto "folle" -hanno sentenziato i Giudici condannando gli imputati- ma il semplice effetto di un perfido progetto criminale. Fino a qui tutto bene. Si tratta di criminali che vanno puniti. Ce ne sono più di cinquantamila nelle patrie galere, di criminali, ma solo in pochissime circostanze, durante circa quaranta anni di attività penitenziaria, mi è capitato di imbattermi in sentenze attraverso le quali i Giudici, accanto alla pena detentiva principale, decretavano anche la decadenza della potestà o della capacità genitoriale del reo. Si trattava, in genere, di casi nei quali le reiterate condotte tossicomaniche e la dipendenza attuale sconsigliavano la permanenza dei bambini con i genitori; di delitti efferati in famiglia o contro l'altro coniuge; di reati compiuti da persone colpite da un profondo disagio mentale, specie se di tipo "delirante" e ad ogni modo di tenore psicotico. Le cronache italiane, non molti anni addietro, hanno registrato casi eclatanti della permanenza di tale capacità anche dopo condanne definitive per figlicidio. Se Martina Levato, comunque, avesse commesso il reato di lesioni gravissime con un intento "delirante" di "purificazione", specie se quel "delirio" avesse per di più dato forma al progetto di una gravidanza anch'essa "catartica", allora sì che, ben prima del parto, coloro che stanno curandola (le cronache dicono che la donna si sta sottoponendo a una psicoterapia) si sarebbero dovuti esprimere sulla opportunità di consentirle di tenere con sé il neonato. Martina Levato, però, è stata condannata come "sana di mente" e sarebbe davvero contraddittorio dire che non c'era "delirio" al momento dei fatti, ma che un "delirio" comprometterebbe ora la sua capacità parentale. Da quasi quaranta anni mi occupo della cura di persone con gravi o gravissimi disturbi psichici. Non di rado tali persone sono anche detenute. Mai comunque, nel corso della mia lunga attività professionale, mi è capitato di proporre di staccare ex abrupto una madre dal suo bambino, tantomeno da un neonato. Mi sono invece battuto, quasi sempre vittoriosamente, perché talune donne, delle quali ero il primo a riconoscere le insufficienze nell'esercizio delle funzioni materne, restassero insieme ai loro bambini, anche dopo che altri servizi e altri operatori ne avevano proposto la separazione. Certo: è stato necessario stabilire con queste donne un significativo legame terapeutico. Certo: si è dovuta approntare una rete multi-professionale e inter-istituzionale di sostegno e di cura. Certo: in talune fasi è stato inevitabile ricorrere a periodi limitati di affidamento del minore (mai di adozione) ad altre persone, sempre cercando di ottenere il consenso della madre. La gravidanza può essere l'occasione per il manifestarsi di gravi turbe psichiche. Degli infanticidi, commessi in genere poco dopo il parto, tutti siamo a conoscenza. Ma la gravidanza, il parto e l'allevamento di un figlio possono anche essere occasioni eccezionali per lenire gravi ferite psichiche già presenti diverso tempo prima del concepimento e della nascita del figlio. Aiutare Martina Levato a essere una madre, una "buona madre" per quanto le sarà possibile, è una sfida di incommensurabile valore che una società civile non dovrebbe mancare. *Psichiatra psicoanalista - Salute Mentale Adulti e Istituti di Pena di Firenze Lettere: Salute Mentale di Comunità, garanzia diritti, contrasto a ogni forma di violenza di Cesare Bondioli* e Emilio Lupo** Ristretti Orizzonti, 21 agosto 2015 In queste ultime settimane almeno due episodi di Tso, in provincia di Padova e a Torino, hanno occupato le pagine dei giornali per i tragici esiti con cui si sono conclusi. Pur non conoscendo i dettagli delle storie, se non attraverso le cronache giornalistiche, è assai grande in noi la preoccupazione che, purtroppo, nei Servizi di Salute Mentale, si possa ricorrere sempre più frequentemente al Tso (o all'Aso - Accertamento Sanitario Obbligatorio), cioè a un intervento limitativo della libertà personale del paziente anche per la somministrazione di farmaci long-acting, la cui somministrazione non è mai "urgente". Il Tso si sostituisce surrettiziamente alla fatica quotidiana dell'equipe curante, tesa a costruire una vera relazione terapeutica che implica un contatto continuativo, in un clima di reciprocità e negoziazione da cui qualunque violenza non può che essere estranea. Per realizzare questo clima di "presa in carico" occorre - come andiamo sostenendo da anni - insieme a quella progettualità condivisa con l'utente, anche personale formato e sufficiente, e le carenze di personale qualificato di cui soffrono i Servizi, per i continui tagli degli organici, non bastano certo a giustificare scorciatoie "terapeutiche": occorre intervenire, e urgentemente, affinché i Dipartimenti di Salute Mentale ritornino ad essere centrali e con risorse certe, per i molteplici e diversificati interventi da attuare sul territorio. Altresì bisognerà intervenire, con decisione, sulla cultura e sulla formazione degli operatori dei Servizi e sulle modalità di una corretta attuazione del Tso - da parte di tutti gli attori in campo - nello spirito della legge di riforma psichiatrica. Nell'attesa che la Magistratura verifichi rapidamente condotte e atti di questi ultimi tragici avvenimenti, c'è un'altra considerazione che non si può eludere: perché questo sussulto violento di tipo manicomiale (si sarebbe detto in altri tempi) proprio in questo momento? È un fenomeno cui abbiamo assistito, in altre forme, anche in altre fasi della vicenda psichiatrica: fu così dopo l'emanazione della legge 180/78, quando per qualche mese aumentarono gli invii di pazienti psichiatrici in ospedale psichiatrico giudiziario (si disse allora che l'Opg svolgeva una funzione vicaria - ma necessaria - all'assenza del manicomio), sta forse succedendo qualcosa di analogo, oggi, adeguato al clima violento e alle logiche securitarie, dopo l'approvazione della legge 81/14 e l'iniziato processo di chiusura degli Opg? Orbene, nonostante tutto non bisogna né arretrare di un millimetro, tantomeno allontanarsi dal percorso tracciato negli anni di lavoro territoriale. I fatti dimostrano, inequivocabilmente, che laddove realizzato, è risultato vincente e rispondente in pieno ai reali bisogni di utenti e familiari: insomma, il rafforzamento dei Dipartimenti e delle loro articolazioni funzionali, come dicevamo dinanzi, resta la madre di tutte le battaglia da fare, insieme a quanti, come Psichiatria Democratica, sono convinti che una Salute Mentale di comunità, debba sempre più prendere il posto di una psichiatria asfittica e di controllo. Bisogna però essere attenti a iniziative settoriali, a specialismi riduzionisti e mantenere quella indispensabile visione d'insieme dei problemi, in grado di promuovere reali processi di inclusione verso cui bisogna continuare ad impegnarsi, senza sosta. In conclusione, Psichiatria Democratica fa appello a coloro che si battono in nome dei dettami costituzionali e della giustizia perché si tuteli sempre il diritto alla salute e perché la cura si integri ancor di più con l'area sociale, il diritto all'abitare ed il lavoro possa concretizzarsi, in ciascuna regione, attraverso l'approvazione e l'adeguato finanziamento di progetti territoriali dei Dipartimenti di Salute Mentale. *Responsabile Naz. Carceri e Opg di Psichiatria Democratica **Segretario Nazionale di Psichiatria Democratica Benevento: cade dalla sedia a rotelle, detenuto ultranovantenne ricoverato in ospedale di Enzo Spiezia ottopagine.it, 21 agosto 2015 Si tratta di un ultranovantenne di San Leucio del Sannio, in carcere da giugno. Una prima ricostruzione parla di una caduta dalla sedia a rotelle sulla quale è costretto perché ha difficoltà nella deambulazione. Una caduta che gli è costata la frattura di un femore. Un incidente che ha reso necessario il trasporto in ospedale, dove ora si trova, dell'ultranovantenne di San Leucio del Sannio in carcere dallo scorso 23 giugno. È l'ennesima tappa di un caso che Ottopagine sta raccontando da tempo, richiamando l'attenzione sulla situazione dell'anziano che la Squadra mobile aveva arrestato, su ordine della Procura generale di Napoli, per una condanna diventata definitiva dopo il mancato ricorso in Cassazione. Otto anni da scontare per una storia di abusi sessuali risalente a quindici anni fa. Una vicenda sulla quale non è ancora stata scritta la parola fine per le altre tre persone all'epoca chiamate in causa dall'inchiesta, sulle quali la Suprema Corte deve ancora pronunciarsi. Quattro imputati assolti in primo grado, con una sentenza che era stata però ribaltata in appello. Ricoverato nell'infermeria della casa circondariale di Benevento, il pensionato sanleuciano, difeso dall'avvocato Eugenio Capossela, ha dal primo giorno di detenzione lanciato un disperato appello. "Non voglio morire qui, non voglio finir i miei giorni in questo posto", ha continuato a ripetere da allora, rivendicando la sua estraneità ai fatti, gravi, di cui è stato ritenuto responsabile. In attesa della decisione del Tribunale di sorveglianza partenopeo, che arriverà non prima di dicembre, il suo legale aveva chiesto al magistrato di sorveglianza di Avellino un provvedimento, inevitabilmente di natura temporanea, di differimento dell'esecuzione della pena, anche attraverso la concessione dei domiciliari. Una decina di giorni fa il no all'istanza, sulla base di una relazione sanitaria che ha stabilito che le condizioni dell'anziano (cardiopatico e con una forma ansioso-depressiva) sono compatibili con il regime della detenzione, con l'assistenza che attualmente riceve. Insomma, non servono cure ospedaliere: quelle che invece sono adesso diventate indispensabili dopo ciò che gli è capitato. Succede in Italia, sarebbe semplice fare demagogia qualunquistica. Mettiamola così: non è solo una questione di pietas. Ma di civiltà. Vallo della Lucania (Sa): Antigone; nel carcere c'è sovraffollamento, 8 detenuti per cella ottopagine.it, 21 agosto 2015 Martedì scorso, 18 agosto, l'osservatorio di Antigone si è recato in visita presso la Casa circondariale di Vallo della Lucania. Ospitava 52 detenuti, di cui 35 definitivi e 17 in attesa di giudizio. In maggioranza si tratta di italiani (43), solo 9 gli stranieri. Come tutte le carceri italiane anche quello di Vallo della Lucania ha problemi di sovraffollamento. "Abbiamo registrato - ha detto Mario Barone, presidente di Antigone-Campania e componente dell'osservatorio sulle condizioni di detenzione - problemi di sovraffollamento in diverse celle, che presentavano anche 8 detenuti in 30 metri quadrati, mobilio incluso. Una modalità di reclusione non conforme ai parametri stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell'uomo". Nonostante ciò "abbiamo riscontrato - ha evidenziato - Barone - un grande impegno dello staff d'istituto ad impiegare nel lavoro all'esterno i detenuti, anche in virtù della collaborazione degli enti locali cilentani. Tuttavia, la competente magistratura di sorveglianza non sempre riesce a dare una risposta conforme alle aspettative degli stessi detenuti. Al momento della visita uno solo godeva dei benefici previsti dall'ordinamento penitenziario". Come è noto, il carcere di Vallo della Lucania ospita una categoria di detenuti particolarmente delicata e difficile: gli autori di violenze sessuali. "Il carcere - ha concluso Barone - è stato oggetto di molteplici interventi di manutenzione ordinaria che ne hanno migliorato la vivibilità sia negli spazi all'esterno che nelle celle, dotate ora di bagni degni di una qualsiasi abitazione privata". Udine: Iacob (Regione); recuperare l'ex carcere femminile contro il sovraffollamento di Alessandro Cesare diariodelweb.it, 21 agosto 2015 Il presidente del Consiglio regionale Iacop in visita alla Casa circondariale di via Spalato. Una struttura che ospita 165 detenuti (il limite per gli spazi a disposizione sarebbe 100). Ha voluto rendersi conto personalmente della condizioni del carcere di Udine. Una struttura antiquata, realizzata nel 1925, e sovraffollata, dove trovano ospitalità 165 detenuti (75 dei quali stranieri) anziché i 100 previsti. Il presidente del Consiglio regionale Franco Iacop ha fatto visita alla Casa Circondariale di Udine, in via Spalato, incontrando la direttrice Irene Iannucci. Più spazi dal recupero dell'ex carcere femminile. Una prima soluzione al problema del sovraffollamento (ci sono celle con 8 detenuti e un solo bagno) potrebbe venire dal recupero funzionale degli spazi dell'ex carcere femminile, abbandonato dal 2003, e Iacop ha assicurato il proprio impegno a intervenire presso le autorità ministeriali perché ciò possa essere realizzato. Un recupero finalizzato a ricavare luoghi da destinare sia all'attività formativa che alle attività manuali per i detenuti, non costretti così a trascorrere inoperosi le ore sulla branda. La questione sanitaria. Fra i punti sui quali investire ci sono quelli che discendono dalla nuova situazione generale della sanità riferita alle carceri: le competenze sono ora passate al sistema delle Regioni per quanto riguarda gli aspetti sociosanitari. Anche in Fvg c'è l'esigenza di coordinare - ha sottolineato ancora Iacop - le prestazioni nei settori specialistici più attinenti la popolazione carceraria, dalle prestazioni psichiatriche ai rapporti con i Sert, oltre alla prevenzione delle patologie più frequenti, con l'obiettivo complessivo di gestire al meglio il rapporto fra persona detenuta, sistema carcerario e sistema sanitario. Velletri (Rm): Sippe; nel carcere presenti 525 detenuti contro 100 agenti, è intollerabile ilcaffe.tv, 21 agosto 2015 Il Si.P.Pe. (Sindacato Polizia Penitenziaria) denuncia ancora una volta la gravissima carenza di personale di Polizia Penitenziaria nel penitenziario di Velletri che ad oggi ammonta a 51 unità in meno. "Ci troviamo davanti ad un intollerabile sistema carcerario - dichiara Carmine Olanda, Segretario Generale del Si.P.Pe. - che va risolto con provvedimenti concreti e urgenti, non possiamo più tollerare che una struttura penitenziaria come il carcere di Velletri, che ha una capienza regolamentare di 410 detenuti, al 31 luglio 2015 ne ospiti 525 contro 100 agenti che lavorano su tre turni (16/24 - 08/16 - 24/08) rinunciando anche al riposo dopo lo smontante notturno. Come se non bastasse il D.A.P. (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) ha imposto anche un canone mensile sugli alloggi del carcere di Velletri destinati al personale pendolare di Polizia Penitenziaria, alloggi fatiscenti e non salubri". "Oltre al danno anche la beffa - continua Olanda - La Direzione del Carcere di Velletri deve tutelare, incentivare e motivare il Personale di Polizia Penitenziaria, non abbandonarlo e preoccuparsi solo della rimozione delle antenne TV della caserma agenti. La struttura del carcere di Velletri, per la sua complessità, necessita di una costante presenza di leader e non di un capo. Il datore di lavoro ha l'obbligo giuridico di tutelare la salute e la personalità morale del lavoratore. Il benessere del personale è pertanto - conclude Olanda - una priorità assoluta". Alessandria: tensione nel carcere di San Michele, aggredito un agente e tentato suicidio alessandrianews.it, 21 agosto 2015 Nuovo appello del Sappe, sindacato autonomo degli agenti di polizia penitenziaria: "situazione ad alta tensione nelle carceri". A San Michele un detenuto aggredisce una guardia; un altro tenta il suicidio. "Situazione sempre ad alta tensione nelle nostre carceri". A denunciarlo è, ancora una volta, il Sappe, sindacato autonomo degli agenti di polizia penitenziaria. Nel carcere di San Michele, ad Alessandria, nella giornata di ieri, mercoledì, si sono registrati due episodi. lo racconta il segretario regionale Sappe Vicente Santilli: "Ieri, nella Casa di Reclusione di Alessandria, un detenuto nordafricano sistemato presso il terzo piano dell'istituto ha aggredito per futili motivi l'Agente preposto. L'agente è stato trasportato con l'ambulanza all'ospedale alessandrino con lesioni in testa e sulla schiena". Subito dopo, nella stessa giornata, un detenuto comune ristretto sempre al terzo piano del predetto istituto di pena," ha tentato di suicidarsi impiccandosi, ma grazie al tempestivo intervento dell'agente preposto è stato tratto in salvo". Ad Aosta, è stata inoltre sventata un'evasione dall'ospedale regionale di Aosta dove era piantonato un giovane senegalese arrestato qualche ora prima per aver ingerito degli ovuli contenenti, presumibilmente, sostanze stupefacenti. "Situazione sempre ad alta tensione nelle nostre carceri", conclude Capece. "Questa è la realtà quotidiana con cui si confrontano le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Nell'indifferenza dell'amministrazione". Immigrazione: altri muri alle frontiere, così l'Europa fomenta l'odio e le divisioni di Marek Halter La Repubblica, 21 agosto 2015 L'amarezza dello scrittore francese: "In questo modo non si aiutano i paesi poveri a uscire da guerra e disperazione". L'Europa non ha capito la lezione. O non l'ha voluta capire. Ancora un muro, ancora frontiere chiuse. Ventisei anni dopo la caduta di quello di Berlino e la gioia di un mondo finalmente unito, senza barriere, divisioni, odi e rancori. Invece, no. Continuiamo a sbagliare, non abbiamo imparato nulla. La realtà ci sovrasta, ci travolge. Siamo in presenza di una svolta epocale: alla vigilia della più imponente mobilitazione umana degli ultimi secoli. Quello a cui assistiamo è solo l'inizio di un processo molto più lungo. Ma è tardi, troppo tardi. Come Occidente abbiamo perso un'occasione storica. Avremmo potuto davvero aiutare l'Africa a uscire dalla sua miseria e povertà. Sarebbe stato qualcosa di miracoloso. Invece ci siamo limitati a compiere il nostro dovere umanitario. Perché non ci resta altro: accogliere questa massa enorme di profughi e migranti, spesso senza avere gli strumenti per farlo con dignità. Abbiamo evitato di intervenire dove dovevamo farlo per condizionamenti ideologici, per inerzia, ignoranza, pregiudizi. Avevamo paura di essere tacciati di neocolonialismo, quando invece siamo stati neoimperialisti. E così l'Occidente resta chiuso nella sua diffidenza, prigioniero delle sue paure, terrorizzato da questa "invasione" che rifiuta e contrasta. La nostra è dunque una risposta disperata. Che evoca un simbolismo terribile. Poco tempo fa abbiamo festeggiato la caduta del muro di Berlino, il crollo della divisione di due popoli e di un regime soffocante, despota, moribondo. Abbiamo immaginato un mondo finalmente unito, diverso, forte, integrato, multirazziale. Adesso torniamo indietro. Con i muri tra Messico e Usa, in Serbia, nel Kosovo, in Ungheria, domani magari in Macedonia. Per non parlare di Israele. Torniamo al mondo che non volevamo. Dove ognuno cerca di proteggersi perché vede nell'altro un pericolo alla propria esistenza. Abbiamo paura di noi stessi. Esiste un problema democratico. Ideologico. Non siamo riusciti nemmeno ad essere solidali con la Grecia. Abbiamo imposto regole che sappiamo essere perdenti. Ma lo abbiamo fatto. Per interessi diversi, preoccupati ognuno delle proprie elezioni, delle conseguenze che un cambiamento in uno dei paesi europei avrebbe potuto esercitare sugli altri. Atene è stata spaccata dal rigore della troika. È stata trascinata alle elezioni. È il vero trionfo dei nazionalismi, dei populismi che ci fanno tanto ribrezzo. Ma siamo incapaci di reagire, bloccati dalla paura del pericolo imminente. Non ho soluzioni, lo ammetto. Le ho cercate e non le ho trovate. Ora è tutto più difficile, complicato. Credo che sia tardi. Ma so anche che se non reagiamo, con intelligenza, se l'Europa non affronta con una politica finalmente comune questo grande esodo internazionale, sarà presto la fine di un'epoca di speranza e di lunga pace. L'Islam è la seconda religione in Germania. In Francia ci sono sei milioni di musulmani. Come possiamo illuderci di frenare questa integrazione? L'Italia, nella sua storia millenaria, ha già sperimentato le invasioni. Ci sono stati i barbari, i saccheggi, le razzie. Sono nate altre civiltà, altri popoli, altre energie e intelligenze. Deve imparare dal suo passato. È stato un popolo di immigrati. Ha affrontato il mondo. Ha costruito interi paesi, ha sviluppato le loro economie. Noi, in Europa, pensavamo di essere i migliori. Di poter esportare i modelli sociali e politici. La democrazia. Saddam Hussein era un tiranno, non c'è alcun dubbio. Ma chi ha invaso l'Iraq è stato un criminale e non ha risolto il problema, anzi. Nessuno ha mai pensato di trascinare gli autori di quella scelta scellerata davanti al Tribunale penale internazionale. Migliaia di morti, anche americani, per un disastro. Di cui vediamo ora le conseguenze. Smarriti, impauriti. Dovremo attendere forse 20 anni. Ma temo sarà sempre troppo tardi. Immigrazione: lo stop della Macedonia ai migranti ed a Calais controlli rafforzati di Rosalba Castelletti la Repubblica, 21 agosto 2015 Firmato un accordo tra Gran Bretagna e Francia. Skopje, assalto ai treni: "È stato di emergenza". "No more Macedonia", balbetta in un inglese stentato un agente macedone a un siriano nella città di frontiera Gevgelija. Ieri Skopje ha deciso di arrestare il flusso di migranti in transito dalla Grecia verso la Serbia e l'Unione europea decretando lo stato d'emergenza. Nelle stesse ore Francia e Gran Bretagna, con strette di mano e parole di rinnovata amicizia dopo settimane di aspri scambi di accuse, siglavano un accordo di cooperazione per fermare i tentativi dei migranti di attraversare la Manica dal porto di Calais imboccando l'Eurotunnel. Da Ovest a Est, contro l'emergenza immigrazione, l'Europa erge muri, seppure non di filo spinato come quello che l'Ungheria sta completando al confine con la Serbia. Circa 340mila migranti sono arrivati sprovvisti di visti alle frontiere europee nei primi sette mesi dell'anno, tre volte di più che nello stesso trimestre del 2014. E con i 107mila arrivi stimati da Frontex per il solo mese di luglio, la proporzione è destinata ad aumentare. In prima linea l'Italia e, di recente, la Grecia che da gennaio ha accolto 160mila persone sfuggite alle guerre in Siria, Afghanistan e Iraq. Ieri un'imbarcazione partita dall'isola di Kos con a bordo 2.400 rifugiati siriani ha raggiunto il Pireo. Una piccola parte degli oltre 50mila migranti arrivati in Grecia dal Medio Oriente. Molti da qui aspirano a prendere un autobus verso la Macedonia, per poi dirigersi in Serbia ed entrare nell'area Schengen dall'Ungheria e infine raggiungere il Nord Europa. La Germania quest'anno accoglierà 800mila richieste d'asilo, più di tutti gli altri Paesi dell'Unione europea messi insieme. Da ieri però a sbarrare il passaggio in Macedonia lungo i 50 chilometri tra l'ex Repubblica jugoslava e la Grecia ci sono agenti in tenuta antisommossa armati di gas lacrimogeni e soldati a bordo di carri armati. Nel solo mese di luglio oltre 39mila persone, il doppio rispetto al mese prima, avevano oltrepassato la frontiera: chi non riusciva a salire su uno degli affollatissimi treni diretti in Serbia, affidava i figli a uno sconosciuto attraverso il finestrino. "Non possiamo chiudere ermeticamente le frontiere", ha detto il portavoce del ministro degli Interni macedone Ivo Kotevksi. "Ma cercheremo di ridurre al minimo gli ingressi illegali al confine". Tra Skopje e Atene però nessun coordinamento. Le relazioni tra i due Paesi sono tese da quando la Macedonia dichiarò l'indipendenza dalla Jugoslavia nel 1991: ostilità che ha ostacolato l'ingresso di Skopje nella Nato e nell'Unione europea. Per Londra e Parigi è stato invece il giorno della distensione: la ministra degli Interni britannica Theresa May e il suo omologo francese Bernard Cazeneuve hanno siglato un accordo di collaborazione sulla sorveglianza di Calais e sulla lotta alle gang di trafficanti di esseri umani. La sicurezza dell'Eurotunnel, già garantita da 400 telecamere di sorveglianza lungo i due chilometri di barriera, sarà rafforzata grazie alla creazione di un centro congiunto di comando e controllo e di nuove squadre di pattugliamento 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Londra si è impegnata inoltre a stanziare dieci milioni di euro in due anni, accogliendo la richiesta di sostegno economico venuta tanto dal governo di Parigi quanto dalla società di gestione dell'Eurotunnel, per rispondere all'emergenza umanitaria intorno al porto francese. Accordo salutato con favore dall'Alto commissario Onu per i rifugiati António Guterres, ma criticato dai migranti che hanno manifestato alle porte del campo "Nuova giungla" da dove sperano di raggiungere le coste britanniche. Tra gli slogan: "Non è questa la soluzione", "Libertà di movimento", "Governo britannico, vergognati". Anche la Federazione internazionale delle società di Croce rossa e Mezzaluna rossa (Irfc) ha denunciato "l'indifferenza generale" davanti alla crisi umanitaria e invitato la comunità internazionale a "svegliarsi". Il Papa, dal canto suo, ha lanciato un appello ai cattolici a lasciarsi "interpellare" dai migranti e a rispondere con l'accoglienza. Immigrazione: italiani più solidali di francesi ed inglesi, ma sentimento di non-accoglienza Corriere della Sera, 21 agosto 2015 Dopo l'intesa di fine giugno raggiunta a Bruxelles, l'Europa sembra essere vicina ad un accordo sulla ridistribuzione dei migranti da attuare fra i paesi membri nei prossimi due anni. Nel frattempo, Italia, Francia e Gran Bretagna si trovano a dover affrontare situazioni di difficile soluzione, tra Calais, Ventimiglia e notizie oramai quotidiane di tragedie in mare legate alle attività degli scafisti. La questione dei migranti è in questo senso una delle tematiche più spinose nello scenario politico continentale, che tocca sensibilità e paure profonde dell'opinione pubblica. Ne è buona testimonianza il volume di discussione in Rete sul tema: da fine maggio a fine luglio, il numero di post da fonte pubblica che ha toccato esplicitamente l'argomento "migranti" supera complessivamente i 2 milioni nei tre paesi sopra considerati: 1,2 milione in Gran Bretagna, oltre 500 mila in Italia, quasi 300 mila in Francia. L'analisi di questi commenti offre in questo senso uno spaccato quanto mai utile per capire gli atteggiamenti in questi ultimi mesi nei tre paesi sul tema, tra qualche diversità e, forse a sorpresa, molte più somiglianze. Come se a rendere unita l'Europa, di questi tempi, sia proprio chi dopotutto in Europa vorrebbe entrare: i migranti. Emerge innanzitutto una tendenza comune a dirsi contrari alla attuazione di politiche di accoglienza. I pareri negativi raggiungono percentuali che superano largamente il 60% in Francia (67,4%) e in Gran Bretagna (62,4%). Gli italiani appaiono in questo senso un po' più solidali, anche se la percentuale di chi si mostra negativo rispetto alle politiche di accoglienza rimane comunque maggioritaria (57,6%). L'argomento è complesso e si sviluppa lungo tematiche che definiscono il fenomeno migratorio come un problema che coinvolge in modo diretto gli utenti su un piano politico, ma anche più personale. Se consideriamo l'Italia, ad esempio, le principali aree di dibattito sul tema sono legate all'Europa (24,6%) e al tema dell'asilo (23,4%). Ma si discute anche di corruzione (12,1%), clandestinità (10,6%) così come delle priorità di cui si dovrebbe tener conto nell'impiego delle risorse pubbliche (9,6%), e dei campi di accoglienza (8,6%), incluso il loro impatto su ciò che li circonda. A sostegno di un sentiment positivo nei confronti dell'accoglienza emergono tre motivazioni principali che ricorrono nei tre paesi con percentuali simili: solidarietà, diritti e responsabilità. In Italia, la prima tematica raccoglie il 42%; il 25,2% dei post ribadisce invece l'importanza della tutela dei diritti umanitari, mentre il 19,5% fa suo un atteggiamento responsabile nei confronti di quanti si sono rivolti al nostro paese per sperare in condizioni di vita migliori. Al contrario, tra le ragioni soggiacenti ad una opinione contraria all'accoglienza, sono due le motivazioni più utilizzate: da un lato c'è la paura di una vera e propria "invasione", che tocca il suo massimo in Gran Bretagna, seguita dall'Italia. Dall'altro c'è il tema del "costo economico" dei migranti. Tra gli inglesi, francesi e soprattutto italiani c'è la convinzione che le risorse del governo dovrebbero servire ad aiutare prima di tutti i propri cittadini. Per lo Stato, in breve, sarebbe troppo oneroso sostenere vitto e alloggio per tutti coloro che intendono fare domanda di asilo. Tra le altre principali motivazioni di chi è contrario all'accoglienza, in Italia non sono pochi quelli che avanzano paure (più o meno fondate) per la possibile diffusione di epidemie portate dai "migranti", in Gran Bretagna c'è preoccupazione per il tema della criminalità legato alla migrazione, mentre in Francia i recenti attentati rivendicati dall'Isis, tra cui quello effettuato all'Isère, pongono il tema dell'islamofobia come il più rilevante tra quelli discussi (26,4%). Ma tirando un po' le somme, a chi è imputabile la responsabilità dell'attuale situazione in cui versa il fenomeno migratorio? Alla Europa, alle politiche interne dei singoli Stati, o a qualcun'altro? Sebbene chi commenta nei tre paesi attribuisca la colpa della difficile gestione dell'emergenza all'operato del proprio governo, i parametri di giudizio appaiono diversi. In Italia, ad esempio, quasi la metà dei commenti individua nell'Unione Europea il vero colpevole, accusandola di aver lasciato l'Italia da sola a fronteggiare il problema. Una posizione, quest'ultima, che accomuna gli italiani agli euro-scettici inglesi. Tra i francesi, invece, non sono pochi quelli che accusano gli altri paesi (e in primis l'Italia) di non aver fatto abbastanza sul tema. Insomma, per gli europei la questione dell'accoglienza rischia di diventare uno scaricabarile in grado di far sorgere conflitti tra paesi che, se acuiti, potrebbero minare la comune convivenza sotto il tetto della "fortezza Europa". Droghe: a Rimini fra i ragazzi dell'ecstasy di Elena Tebano Corriere della Sera, 21 agosto 2015 Una notte al rave. Ecco la stanza dove chiede aiuto chi si sente male per gli effetti delle pasticche. Ore 1.28: primo collasso. Ore 5.30: "Ho preso l'acido". "Questa la lasci qua". Il buttafuori indica una bottiglietta d'acqua nello zaino di un ragazza. Periferia di Rimini, discoteca Ecu Club. Sono da poco passate le 23 ed è appena iniziata la prima serata del "Magnetik Electronic Festival": si ballerà fino a mezzogiorno della mattina successiva. Così per tre notti. L'evento è in un locale con due piste all'aperto, tutt'intorno un campeggio improvvisato che si allarga nel parcheggio senza luci. All'ingresso la sicurezza ferma i clienti ed esamina borse e tasche per controllare che non abbiano droga (le bottiglie sono vietate perché potrebbero esserci sciolti stupefacenti). All'interno il coordinamento Unità di strada dell'Emilia Romagna ha organizzato la chill out room, uno degli strumenti per la riduzione del danno. "Questa è una manifestazione della scena techno, i gestori sanno che i clienti possono usare droga - dice il responsabile Marco Battini. Molte discoteche commerciali non ci chiamano per paura di essere associate agli stupefacenti. Ma non è che lì non ci siano". In 12 ore sotto i tendoni si alterneranno un centinaio di giovani. La musica batte incessante, lo spazio dell'Unità di strada è in un angolo tranquillo, teli e cuscini permettono di stendersi. Ci sono taniche con l'acqua, succhi di frutta, caramelle e snack. E i depliant sui rischi delle sostanze: ecstasy, ketamina, coca, speed. "Si avvicinano per il cibo e gli analcolici gratis e trovano il materiale informativo" spiega un operatore di Bologna. I ragazzi, sui 18-20 anni, arrivano su di giri, prendono i volantini e poi si allontanano. I cuscini sono vuoti. A mezzanotte Battini esce con una torcia elettrica per un giro nel campeggio. È buio, i ragazzi stanno a gruppetti nelle auto o nelle tende, intorno ci sono bottiglie di birra vuote. Una voce si alza sopra la musica nel flusso dei giovani: "Cannabis, coca, eroina, ecstasy", poi si allontana. "Con i controlli all'ingresso tutto si è spostato fuori - nota Battini -. La repressione non è nostro compito, noi ci occupiamo di tutela sociosanitaria: devo ottenere la loro fiducia, quindi niente domande o ramanzine, altrimenti non si fanno aiutare". Ore 1.28 C'è il primo collassato. Due operatori lo trovano all'esterno tra un muro e una roulotte chiusa e lo portano a braccio. Ha il polso regolare, lo fanno sdraiare in chill out in posizione di sicurezza. "Non è in pericolo - dice un'addetta del Sert di Rimini -. Ma non è riuscito a dirci cosa ha preso, forse è speed, ha il naso bianco". Gli altri giovani seduti nella chill room continuano a parlare. Una chiede a Battini qualcosa contro il mal di testa. Lui prende un analgesico, poi le chiede: "Ma davvero hai solo bevuto?". "No, anche ecstasy". Battini le dice di lasciare stare. Ore 3.10 Coperta dal frastuono delle casse arriva la polizia. Un gruppo di agenti si posiziona ai bordi della pista con caschi e manganelli in mano. Tre in borghese fanno foto alle strutture. Poi se ne vanno. È un controllo amministrativo. Il locale ha le licenze a posto, ma il campeggio è irregolare. La pista è piena, la gente continua a ballare a ritmo frenetico. Gli operatori trovano un altro giovane crollato nel giardino fuori dalla discoteca. Lo convincono ad andare con loro nella chill room. Devono trascinarlo. Succederà più volte durante la notte Ore 4.16 Sempre più persone vengono a prendere l'acqua: le bottiglie sono vietate, solo bicchieri. "Il rischio, anche mortale, di ecstasy e anfetamine sono disidratazione e colpi di calore. Ma è difficile convincere i gestori a dare acqua gratis - dice l'operatore di Bologna-. Ma se è a 5 euro, la gente compra birra". Ore 5.30 Un ragazzo si siede vicino al tavolo. Dice di avere 20 anni, ha il ciuffo scolpito, occhiali alla moda. "Non puoi resistere se non ti fai. Io ho preso un po' di coca - confessa -. Un mio amico aveva ecstasy, ma se l'è fatta analizzare ed era tagliata con roba schifosa, così l'ha buttata". A testare le pasticche con un kit acquistabile sul web erano gli antiproibizionisti del Lab 57 di Bologna. Con l'arrivo della polizia hanno smesso. Inizia ad albeggiare. Si presenta un giovane. "Ho calato dell'acido", dice. Polso e pressione sono regolari, ma lui si sente male, ha un attacco di panico: "Chiamate un'ambulanza". Lo portano in ospedale. Ore 7.21 Dopo la chiusura degli altri locali compaiono facce nuove. C'è il sole, la musica è incessante. Un ragazzo magro si rivolge all'operatore: "Ho preso ecstasy e speed, ho mal di pancia, mi succede qualcosa se prendo il tè?". "Il tè non ti fa nulla", risponde lui asciutto. Lentamente a chill out si riempie di nuovo, ma adesso arrivano tutti sulle proprie gambe. Dentro nessuno se ne rende conto, ma nel campeggio ci sono i carabinieri. Arrestano due persone per spaccio, sequestrano oltre un centinaio di dosi. Ore 12.00 La musica si spegne, gli ultimi che continuavano a saltare sulle piste se ne vanno con passo incerto. Gli operatori dell'Unità di strada tirano un sospiro di sollievo: "Meno male, non è successo niente di grave". Alle 22 si ricomincia. Stati Uniti: nelle carceri ci sono 2,2 milioni di persone; afro-americano il 60% dei detenuti di Antonella Sinopoli vociglobali.it, 21 agosto 2015 Il razzismo non è morto. Anzi, è vivo e vegeto. E gli Usa ne rappresentano l'espressione più profonda e radicata. Episodi giornalieri ne forniscono la prova, ma anche i sistemi di gestione dello Stato e del welfare. E l'amministrazione della giustizia. Non a caso, è su questo fattore che Barack Obama qualche settimana fa ha dedicato un lungo e articolato discorso durante la convenzione annuale dell'Associazione nazionale per l'avanzamento delle persone di colore (Naacp). Un discorso supportato da cifre che, senza alcun dubbio, avvalorano le proteste di chi lamenta un sistema ingiusto e discriminatorio. "Sistema ingiusto" lo ha definito anche Obama con riferimento appunto alla giustizia, amministrata con un doppio standard. Gli Stati Uniti, dove vive il 5% della popolazione mondiale, detengono il primato del 25% di persone in carcere, in pratica - lo ha ricordato lo stesso Obama - ci sono più detenuti negli Stati Uniti che la somma di quelli dei 35 Paesi dell'Unione Europea. E dal 1980 la percentuale di persone in carcere è quadruplicata. Oggi nelle carceri statunitensi ci sono 2.2 milioni di persone, la maggior parte delle quali afro-americane. Per capire meglio basta ricordare che afro-americani e latini costituiscono il 30% della popolazione, ma rappresentano il 60% della popolazione carceraria. In pratica uno su 35 afro-americani, uno su 88 ispanici sono al momento in una delle prigioni federali. Per quanto riguarda i bianchi la percentuale è di 1 su 214. E l'assurdità incide comunque enormemente sulle casse dello Stato. Due milioni e 200 mila persone in prigione costano 80 miliardi all'anno. Cosa si potrebbe fare di meglio con tutti questi soldi? Il presidente Usa ha provato a fare dei calcoli: si potrebbe pagare per gli anni a venire l'asilo per bambini di 3 e 4 anni, raddoppiare il salario dei professori di scuola superiore, finanziare nuove strade, aeroporti, ponti, programmi di formazione, ricerca e sviluppo. Una degli aspetti più criticati di questo "sistema ingiusto" è non solo la facilità ad arrestare e condannare le persone di colore che si sono macchiate di crimini, ma la sproporzione tra i reati commessi e la pena comminata. Venticinque anni di galera per una ripetuta violazione sulle leggi dello sciopero - tanto per portare un esempio - risulta evidentemente inappropriato e frutto di giudizi che vanno al di là delle norme e delle pene stabilite dal legislatore. Le probabilità di ricevere una condanna al carcere a vita secondo l'appartenenza alle diverse categorie di cittadini in Usa. Punizioni eccessive, celle e locali superaffollati, mancanza di piani di riabilitazione e, al contrario, gang che operano nelle stesse carceri, tutti questi rimangono poi motivi di preoccupazione e di riflessione sul ruolo effettivo degli istituti di pena americani. Nei fatti questo vuol dire che gli afro-americani vengono puniti per lo stesso crimine commesso da un bianco con una pena maggiore. Il risultato è che un milione di genitori neri sono in carcere e un bambino nero su 9 ha un genitore in carcere. La polizia bianca americana rimane un invadente esempio del razzismo applicato negli States. E i fatti di Ferguson e Baltimora - per citare casi degli ultimi tempi - lo dimostrano. Le statistiche d'altra parte mostrano che un nero alla guida di un auto ha molte più probabilità di essere fermato che un bianco. Stando a dati forniti dalla polizia di New York, nel 2012, 284.229 persone di colore sono state controllate contro 165.140 ispanici e 50.366 bianchi. E anche la Swap - polizia speciale - sembra aumentare il grado di intolleranza e disagio nelle comunità afro-americane. Tra il 2011 e il 2012, infatti, gli interventi sugli afro-americani sono stati pari al 39%, l'11% sui bianchi. La giustizia americana - che il presidente statunitense ha esortato a modifiche sostanziali - è solo un'espressione di quello che non si può fare a meno di chiamare razzismo. Ma le forme in cui si esprime sono molte altre, e coinvolgono aspetti della vita quotidiana e le relazioni sociali. Un video che ha diviso l'opinione pubblica e che circola su YouTube - Il razzismo è reale - racconta brevemente alcuni esempi della discriminazione razziale del XXI secolo negli Usa. I social media - Facebook primo fra tutti - offre un interessante spaccato per capire quanto la rabbia, il rancore e, spesso, anche l'odio animano il dibattito riguardante il diverso trattamento riservato ai neri d'America. Community come United States of Africa, Black African Power Separation and Indipendence, Pan Africanist Unity, sono solo alcuni tentativi - ma ce ne sono moltissimi altri - di portare la tematica su un piano pubblico e condiviso. Dialoghi, esperienze, testimonianze, che mostrano che il razzismo non è morto. Anzi, è vivo e vegeto. Israele: detenzione sospesa, ma le condizioni Mohammed Allan restano critiche di Michele Giorgio Il Manifesto, 21 agosto 2015 Il detenuto palestinese ha interrotto il digiuno attuato per oltre 60 giorni dopo la sospensione della sua detenzione "amministrativa" decisa dalla Corte Suprema. Ma il suo stato di salute resta grave, i medici parlano di danni neurologici forse permanenti. Sgomento a Gaza per il rapimento di quattro palestinesi da parte di uomini dell'Isis. Il mistero avvolge le condizioni di salute di Mohammed Allan, il prigioniero palestinese protagonista di un digiuno di protesta dal 18 giugno fino a due giorni fa, quando la Corte Suprema israeliana ha sospeso l'ordine di "detenzione amministrativa", il carcere senza processo, spiccato nei suoi confronti dalla procura militare lo scorso novembre per sospetta "militanza nel Jihad Islami". Secondo il dottor Hezy Levy, primario dell'ospedale Barzilai di Ashkelon l'interruzione dello sciopero della fame - annunciata ieri ufficialmente da Allan - avrebbe avuto un effetto positivo immediato sulla salute del prigioniero palestinese. Allan respirerebbe di nuovo da solo e avrebbe cominciato a comunicare con le persone accanto a lui, lasciando sperare in un suo completo recupero. Parole ben diverse da quelle pronunciate appena qualche ora prima dai suoi colleghi, che avevano descritto come "gravi" le condizioni del detenuto palestinese che, a causa dello sciopero della fame fatto per due mesi, avrebbe subito danni neurologici forse irreversibili. Tra i palestinesi la tensione perciò resta alta. Non sono pochi quelli guardano con scetticismo ai comunicati dei medici israeliani che, a loro giudizio, nasconderebbero le condizioni di salute reali di Mohammed Allan. Qualcuno teme che il detenuto sia morto e che la notizia non sia stata ancora divulgata per timore di una forte protesta palestinese. Sono soltanto voci ma che alimentano la rabbia della popolazione in questo agosto torrido nei Territori palestinesi non solo per il clima. Da parte sua il Jihad Islami minaccia Israele di una risposta dura se le condizioni di Allan dovessero ulteriormente peggiorare. Un nuovo conflitto non è una ipotesi remota. Lo confermano anche i movimenti delle forze armate israeliane che hanno dispiegato una batteria di difesa antimissili Iron Dome nei pressi di Ashdodm a poche decine di km da Gaza. Ieri però quattro razzi sono partiti dal Nord, dal Libano, e sono caduti in alta Galilea senza provocare danni. Resta peraltro aperta la questione della alimentazione con la forza dei detenuti in sciopero della fame, prevista da una legge approvata il mese scorso dalla Knesset e sostenuta con decisione dal ministro degli affari strategici Gilad Erdan che intende bloccare subito questa forma di protesta palestinese volta, afferma, ad "estorcere" concessioni a Israele. La vicenda ha fatto il giro del mondo e la BMA (British Medical Association) ha dato il suo sostegno all'opposizione posta dalla Israeli Medical Association alla legislazione, affermando che l'alimentazione forzata in chi è in sciopero della fame è una grave violazione degli standard internazionali di etica medica. John Chisholm, presidente della commissione di etica medica della BMA, ha spiegato che "L'obbligo primario di tutti i medici, sia civili o militari, è di garantire il benessere dei loro pazienti. Il personale medico non deve mai diventare un agente punitivo dello Stato". La nuova legge israeliana consente a un tribunale distrettuale di ordinare l'alimentazione forzata e cure mediche forzate per coloro che fanno lo sciopero della fame per considerazioni di sicurezza dello Stato, di pubblica sicurezza e la responsabilità della prigione di proteggere la vita del detenuto. Secondo i Relatori speciali dell'Onu sulla tortura, l'alimentazione forzata è una violazione dell'etica medica e una forma di trattamento inumano e degradante. A Gaza intanto cresce lo sgomento per i quattro palestinesi rapiti da uomini armati, forse dell'Isis, mentre attraversavano il Sinai diretti all'aeroporto del Cairo. I miliziani a volto coperto hanno sparato in aria e fermato l'autobus con a bordo i quattro sequestrati nei pressi di al Touma, mezz'ora dopo il suo ingresso nella penisola egiziana attraverso il valico di Rafah riaperto nei giorni scorsi. Secondo alcune fonti i quattro sequestrati sarebbero attivisti di Hamas e, per questo motivo,i jihadisti hanno chiesto in cambio del ritorno a Gaza degli ostaggi, la scarcerazione di una cinquantina di salafiti arrestati negli ultimi mesi dalle forze di sicurezza del movimento islamico. Hamas avrebbe chiesto la mediazione egiziana nella vicenda. Libia: nuovi video di maltrattamenti a Saadi Gheddafi in carcere a Tripoli Nova, 21 agosto 2015 Nuovi video mostrano i funzionari della sicurezza di Tripoli, dove ha sede il governo non riconosciuto dalla comunità internazionale, mentre minacciano Saadi Gheddafi, figlio del defunto rais, nel tentativo di estorcergli una confessione. Lo riferisce il sito internet del quotidiano libico "al Wasat". Saadi è detenuto nel carcere tripolitano di Hadba dopo l'estradizione dal Niger avvenuta l'anno scorso. Il figlio del colonello è accusato, tra le altre cose, dell'omicidio di un calciatore quando era capo della Federcalcio libica. I funzionari Tripoli, da parte loro, riferiscono che i prigionieri sotto la loro custodia sono trattati bene. Il video è stato pubblicato a due settimane da un altro filmato che mostra il terzogenito di Gheddafi bendato ed oggetto di torture. Le nuove immagini mostrano un funzionario della sicurezza mentre si rivolge al figlio del colonello in tono minaccioso: "Puoi parlare ora di sua spontanea volontà o i nostri ragazzi ti faranno sedere su un proiettile calibro 23 millimetri per avere tutte le informazioni". Un altro funzionario ricorda che "qui dentro abbiamo rotto le costole di Abdullah Senussi", l'ex capo dei servizi segreti di Gheddafi. Saadi, da parte sua, chiede di rimuovere la benda sugli occhi: "Non ora, dopo", rispondono i carcerieri di Tripoli, chiedendo all'ex calciatore di Perugia, Udinese e Sampdoria dei suoi presunti collegamenti con altri gruppi islamisti. "Mi faranno del male. Giuro su dio che mi faranno del male", risponde uno spaventato Saadi Gheddafi. Il mese scorso un tribunale di Tripoli ha condannato a morte in contumacia il fratello maggiore di Saadi, Said al Islam Gheddafi, detenuto dalle milizie di Zintan, nella Libia occidentale. Altri ex funzionari della "Jamahiriya" libica sono stati condannati a morte per fucilazione, inclusi l'ex capo dell'intelligence Senussi e l'ex primo ministro Baghdadi al Mahmoudi. Questi ultimi sono in attesa della conferma delle sentenze da parte della Corte suprema.