Vita detentiva… nelle carceri non ci sono certezze di Lorenzo Sciacca Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2015 Riflessioni per il Tavolo 2: "Vita detentiva, responsabilizzazione, circuiti, sicurezza". Quando compirò 40 anni avrò passato metà della mia vita nei penitenziari italiani. L'anno prossimo farò 40 anni. Mi chiamo Lorenzo… mi ricordo un'osservazione che mi fu fatta, da una persona, nei primi mesi che entrai a far parte della redazione di Ristretti Orizzonti, poco più di due anni fa. Ricordo che eravamo tutti seduti, come facciamo ogni pomeriggio, attorno al tavolo a confrontarci sul tema "scelta di vita". In un mio intervento mi definii "ragazzo". Una persona mi rispose "Hai 37 anni, non sei più ragazzo, ma uomo". È ovvio che lo sapessi, ma dialogando con le persone mi definivo sempre un ragazzo. Venti anni di vita fuori e altrettanti dentro… dovremmo anche tenere conto di quegli anni di cui è impossibile avere ricordi, cioè, sai di averli vissuti, ma non hai ricordi, quindi in teoria uno potrebbe anche non contarli. Tutto questo è per cercare di farvi comprendere che potrei scrivere giorni e giorni sul tema della vita detentiva, ma questo esclusivamente perché vedo le cose diverse dal passato. Una delle tante cose che non riuscirò mai a comprendere è che sul territorio italiano ci sono ben 198 carceri in funzione, e nessuno di questi è simile all'altro. Non intendo nella sua architettura, ma proprio nella vita che si è costretti a vivere al suo interno. Per farvi un esempio molto banale, vi posso garantire che se io partissi in questo preciso istante, e arrivassi in un altro carcere dove le scarpe che posseggo non sono del tipo consentito, io salirei nella mia nuova sezione in ciabatte, sempre che siano del tipo consentito, se no… Questo esempio molto esplicito vuole farvi porre una domanda che personalmente a me sorgerebbe spontaneamente "ma se non ho una certezza sulle mie scarpe, sulla mia vita che dovrò trascorrere nei penitenziari in giro per l'Italia, riuscirò ad averne? riuscirò a iniziare qualcosa e portarla a termine?". La risposta vi posso garantire che è un categorico no. Nelle carceri non ci sono certezze, anzi una c'è e si identifica in un certificato che determina il tuo fine pena. Personalmente sono convinto che questa sia la carenza più grossa che ha il nostro sistema penitenziario. Oggi parte della mia fortuna è dovuta nell'essere a Padova perché ci sono possibilità, ma sempre nello stesso istituto queste possibilità altri non le hanno, e non solo per una questione di sovraffollamento, ma anche perché non siamo tutti uguali. Quello che oggi a me fa riflettere, quello che mi porta a ragionare e quello che mi fa mettere in discussione, può essere che a un'altra persona non serva a nulla, questo vuol dire che gli servirà altro. Ovviamente se ragioniamo che nessuno va buttato. Proprio in questo preciso momento (ore 20:10) sta passando l'infermiere. Lo sento sempre arrivare in lontananza perché il carrello che si porta con sé fa un sacco di rumore, ma è un rumore discontinuo per le svariate fermate che fa per lasciare le famose terapie. Un sinonimo della parola terapia è "rimedio". Mi sembra un paradosso identificare un cocktail di psicofarmaci come rimedio. Queste terapie sono state anche identificate come "contenimenti chimici" dai sindacati della polizia penitenziaria. Vi cito queste cose per cercare di far comprendere con quale cultura vengono gestite le carceri. Il detenuto invece di reinserirlo facendolo ragionare, facendogli scoprire passioni che magari non credeva neanche di avere, facendogli fare qualcosa di costruttivo per una vita futura, perché una vita tutti l'abbiamo, invece di fare tutto ciò cosa viene fatto da chi gestisce tutto il sistema penitenziario? Si cerca spesso di togliergli la propria personalità etichettandolo solo ed esclusivamente con quello che ha fatto anche 30 anni fa, e per quei soggetti che potrebbero dare noie si cerca di usare questi "contenimenti chimici". Io sono qui appunto da poco più di due anni e ancora ho l'incubo dei trasferimenti. Nessuno mi può dare la certezza di uscire il giorno del mio fine pena da questo istituto, basti vedere le decisioni che sono state prese a riguardo dei circuiti dell'Alta Sicurezza di Padova. Un giorno si è deciso che queste sezioni dovevano essere smantellate, ma questa decisione non è stata presa pensando alla persona o alla famiglia del detenuto, si è voluto pensare solamente che, per motivi che ancora non riesco a comprendere, di queste sezioni bisognava disfarsi. Uomini rinchiusi in Alta Sicurezza a Padova, che per la prima volta si assumevano delle responsabilità, si ritrovano in carceri che non hanno niente di simile a questo di Padova. Se prima avevano le celle aperte, ora sono chiusi 20 ore al giorno in due in cella, se prima ogni mattina puntualmente alle otto e mezza iniziavano qualche attività, ora aspettano solo l'orario per poter passeggiare avanti e indietro in una vasca di cemento per un'ora, se prima avevano la possibilità di parlare di altro, di confrontarsi con parte della società esterna, di mettersi in discussione, ora parleranno tra di loro chiedendosi se le istituzioni li vogliono peggiori di quando sono entrati, in alcuni casi anche 30 anni fa, e ancora, se prima potevano sentire la propria famiglia al telefono 6 volte al mese o vederla anche tramite il servizio Skype, adesso avranno qualcuno due, qualcuno quattro telefonate, e chi ha la famiglia lontana non potrà più vederla. Non è difficile comprendere che c'è una regressione nella persona, quando invece dovremmo progredire, capire sempre più cose, pensare in maniera diversa dal passato. Credo che una buona base per iniziare a dare una dignità alla vita che siamo costretti a vivere, non sono quei lussi materiali, frigorifero, computer, tv, certo queste cose alleggeriscono la pesantezza di anni di carcerazione, ma non è di quel tipo di dignità che il detenuto ha bisogno. Il detenuto necessita di essere responsabilizzato, e questa responsabilizzazione avviene solo se ci date delle certezze, certezze che possiamo solamente noi mettere in discussione con i nostri comportamenti, ma invece si parte sempre a priori che l'unica certezza che dobbiamo avere è un certificato con dei numeri scritti, tra cui numeri tipo 9999, allora non possiamo certo confrontarci sulla qualità della vita detentiva, ma sulla assenza di qualità della vita detentiva sì! L'attesa da dietro un cancello di Angelo Meneghetti (ergastolano) Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2015 Riflessioni per il Tavolo 2: "Vita detentiva, responsabilizzazione, circuiti, sicurezza". È da diverso tempo che sento parlare di "Responsabilità del detenuto all'interno del carcere", e queste parole vengono dette da diverse persone esterne e anche da chi svolge volontariato all'interno degli istituti penitenziari. Questa parola "responsabilità" però non la sento nominare spesso dagli addetti del settore e cioè Direttori, educatori e dagli agenti penitenziari, e nemmeno tanto da chi dovrebbe tutelare il detenuto, in questo caso i Magistrati di Sorveglianza. Fino a oggi ho trascorso più di venti anni in diverse carceri di questo bel paese, e ho visto tante cose ingiuste all'interno delle carceri, da parte di chi deve gestire la vivibilità degli istituti e il trattamento dei detenuti, e qui nasce l'ambiguità del sistema carcerario. Ogni carcere dove sono stato aveva regole di trattamento diverse, ma l'unica cosa che è uguale in tutte le carceri è quella benedetta apertura del cancello che a volte è interminabile. Invece succede il contrario quando c'è da chiudere un detenuto nella sua cella, allora si tratta di pochi secondi. L'attesa per il detenuto incomincia già al mattino, come per tutti i giorni che gli restano da scontare: per poter uscire dalla cella devi attendere che la guardia venga ad aprire, e una volta aperto ti ritrovi nel corridoio, la cosiddetta sezione con diverse celle sia a destra che a sinistra, ma sono stato anche in carceri nelle quali di fronte alla cella in cui ti trovi non ci sono celle ma solamente un muro, le celle sono disposte solo in un lato, così non hai neanche la possibilità di scambiare due parole con un altro detenuto guardandolo negli occhi. Per uscire dalla sezione, per recarsi al passeggio, al colloquio, per recarsi in infermeria e in qualsiasi luogo accessibile al detenuto ci sono diversi cancelli, e dipende tutto dalla guardia di tale cancello, avrete capito che ad ogni cancello c'è una guardia che apre e chiude. In tutti questi anni di detenzione, ogni volta che chiamavo la guardia perché aprisse un cancello, mi hanno sempre risposto: "Un attimo, deve attendere", la parola "un attimo" la senti minimo 8 volte al giorno, ma forse la parola "deve attendere" è la risposta che più volte al giorno un detenuto si sente dare. Questo è quello che avviene per un detenuto quando deve uscire da quella maledetta cella. La cosa più ambigua invece è quando il detenuto deve ritornare nella sua cella, perché allora non sente più la parola "un attimo" o "deve attendere", ma sente sempre le solite parole "ci vogliamo muovere?" o "si dia una mossa", fatto sta che per ritornare in cella non bisogna attendere, i cancelli si aprono immediatamente. Con queste attese, giorno dopo giorno, una persona diventa sempre più aggressiva fino ad essere come un cane rabbioso, con questi metodi è molto difficile che un detenuto non sia arrabbiato. Bisognerebbe far capire a tutte quelle persone addette alla gestione di un carcere che i detenuti sono anche loro degli esseri umani e trattati con questi metodi "beffardi" è difficile che i detenuti si sentano in qualche modo responsabili. Niente altro che un fascicolo di Tommaso Romeo Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2015 Riflessioni per il Tavolo 2: "Vita detentiva, responsabilizzazione, circuiti, sicurezza". Da quando sono entrato in carcere per molti non sono più una persona ma un fascicolo con il mio nome, che dopo molti anni è diventato particolarmente voluminoso. Durante la mia detenzione quando ho subito qualche ingiustizia ho sempre giustificato chi aveva preso quella decisione, dicendomi sempre la stessa frase "Non poteva fare altro se si è basato solo sulle informative delle forze di polizia". Oggi dopo ventitré anni di carcere con delusione dovrò ripetere la stessa frase di sempre, perché sto aspettando l'esito della mia richiesta di declassificazione. Sono consapevole che è difficile per un magistrato o funzionario del Dap credere al detenuto, perché purtroppo loro lo conoscono solamente leggendo il suo fascicolo. Il detenuto trova grande difficoltà a convincere chi dovrà decidere della sua sorte che oggi non è l'uomo di quando è entrato in carcere e che sta facendo di tutto per reinserirsi nella società. Sarà una impresa quasi impossibile specialmente per i detenuti condannati per 416bis come me, perché la stragrande maggioranza dei giudici di Sorveglianza e dei funzionari del Dap a questi detenuti riconosce come loro vero reinserimento solo la collaborazione con la giustizia. Per tutti noi, anche quando si tratta di una richiesta di un semplice miglioramento della nostra vita detentiva come la "declassificazione", se chi decide leggerà in quelle informative "non ha dato segni di collaborazione", sicuramente metterà in secondo piano anche il parere favorevole della direzione dell'istituto di pena che certifica l'ottimo percorso di reinserimento del detenuto. Vorrei dire a tutte quelle persone che dovranno decidere sul mio futuro che la maggior parte di quelle informative che inviano le autorità competenti parlano di un uomo che non esiste più sia nel fisico che nel modo di pensare, e che oggi sono solo un uomo che spera ancora di uscire, di ritrovare la sua famiglia e di poter dare un sano contributo alla società civile. A proposito dei colloqui come "terza persona" di Yvonne Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2015 Riflessioni per il Tavolo 6: "Il mondo degli affetti e la territorializzazione della pena". Chiedo che mi venga concesso di fare colloqui con un amico anche a Sulmona. Gentile Redazione, il principio costituzionale "La pena non deve essere contraria al senso di umanità" dovrebbe essere applicato "in positivo": La pena deve rispettare il senso di umanità. Quell'umanità che, nell'esperienza della detenzione, continua ad avere "senso" se all'errore segue la consapevolezza, se la privazione della libertà non viene aggravata dalla privazione dell'affettività, strumento insostituibile del percorso di rieducazione. Scrivo questa riflessione per rendere pubblica un'esperienza personale di straordinaria umanità, quella che mi ha consentito di "accompagnare" un ergastolano ostativo come "terza persona" (quindi non un familiare) ammessa ad incontrare un detenuto/internato in presenza di ragionevoli motivi. Nel mio caso i ragionevoli motivi non erano riconducibili ad un legame parentale o sentimentale, né a questioni di studio o di lavoro. Il "mio" ragionevole motivo è stato l'Amicizia, ovvero la manifestazione più sublime dell'affettività perché, a differenza della parentela, nasce da un moto dell'anima e non genera vincoli. Per Amicizia ho accompagnato Giuseppe ed ho imparato che l'espressione "accompagnare" può' significare "camminare accanto", ma anche "fare compagnia", aprire uno squarcio nel velo della solitudine. Giorno dopo giorno, colloquio dopo colloquio, ho avuto modo di notare che lo sguardo velato di Giuseppe veniva lentamente illuminato dalla speranza, dalla fiducia che la vita, anche dietro le sbarre, é degna di essere vissuta. All'interno del carcere di Padova Giuseppe aveva attinto energia dall'impegno nella redazione di "Ristretti Orizzonti" e testimoniato come la sofferenza per la privazione della libertà possa diventare occasione per riflettere e suscitare il desiderio di migliorare e migliorarsi. Poi il trasferimento nel carcere di Sulmona. Nell'ottica dell'espiazione un carcere vale l'altro, ma non é così per il percorso di rieducazione faticosamente intrapreso altrove e bruscamente interrotto. Il trasferimento, normalmente utilizzato per "sanzionare" il detenuto ribelle alle regole, come può essere giustificato nei confronti di chi non si è limitato ad osservarle, ma ha pure dimostrato di saperne fare tesoro? Nel borsone preparato per la partenza si possono riporre abiti ed effetti personali, ma non c'è spazio per la rete umana intrecciata negli anni con i fili della solidarietà, dell'amicizia e della fiducia. Immaginando Giuseppe derubato di quella rete, non posso fare a meno di chiedermi se ho fatto bene ad alimentare la sua speranza in una vita diversa e in un "futuro possibile" o se non sarebbe stato meglio allenarlo ad una morbida rassegnazione, per non esporlo al rischio dell'amara delusione, che lui ha descritto così: "Son lenti i giorni e lunga la notte; il cuore batte con tocchi e rintocchi cercando... che cosa? Ah, sì, la Speranza, quella vigliacca che è andata in vacanza!". Ora, tutto quello che chiedo sembra essere troppo, anche se in fondo è piccola cosa... che mi venga concesso di fare colloqui con Giuseppe come terza persona anche a Sulmona, per non vanificare un percorso durato cinque anni ed improvvisamente sbarrato. Sbarre su sbarre. Se questa possibilità dovesse essere negata (a me, ma soprattutto a Giuseppe) chiedo almeno una risposta a questa domanda: "Perché?". Perché negare a Giuseppe di scambiare ancora un sorriso con un'amica? Perché impedirgli di ricevere l'affetto mio e dei miei figli, che per lui era sorgente di coraggio e di forza? Potete rispondermi, chi è responsabile di questa sottrazione e a chi dovrebbe giovare? Sicuramente non giova a Giuseppe che, come ergastolano ostativo, perde anche quella boccata di respiro del mondo che la mia presenza riusciva a trasmettergli. E non giova neppure a me immaginare il mio amico sepolto vivo e pensare di non poterlo più rivedere. So che non posso tirarlo fuori dal suo "loculo", ma perché impedirmi di assisterlo? Se la discrezionalità riconosciuta al direttore di un carcere nell'accertamento dei "ragionevoli motivi" per accedere ai colloqui con un amico è la stessa che consente al direttore di un altro istituto di impedirmi il colloquio come terza persona, devo forse cominciare a pensare che la legge non è uguale per tutti? Spero vivamente che riusciate a farmi dare risposta alla mia richiesta di fare colloquio con Giuseppe e se no almeno alla mia domanda... perché no??? Giustizia: Mafia Capitale; anche i politici nel maxi-processo con Buzzi di Valentina Errante e Sara Menafra Il Messaggero, 20 agosto 2015 Un maxi processo con quasi sessanta imputati (59 ad essere precisi). Un unico dibattimento, che stabilirà la verità processuale di quel che è stata Mafia capitale, raccontando cosa sia avvenuto a Roma e come sia stata amministrata la città a partire dal 2012. Ieri pomeriggio, il gip Flavia Costantini ha notificato a tutti gli indagati, oltre che alla procura, la data in cui partirà il processo con rito immediato per la seconda tranche dell'inchiesta che ha sconvolto la Capitale. La data è ancora il 5 novembre, giorno che vede già fissato, col medesimo collegio, l'appuntamento per processare i protagonisti degli arrestati di dicembre. Un unico maxi processo, anche se, tecnicamente, la decisione di procedere con un solo dibattimento sarà assunta nel corso di quella prima udienza. E non mancheranno i colpi di scena processuali, le lunghe dichiarazioni in aula e la massima attenzione mediatica. Non è escluso che, intanto, alcuni imputati possano chiedere altri riti alternativi che prevedono sconti di pena. Gli imputati Uno accanto all'altro sfileranno i politici e i "criminali". Quelli che hanno governato la città fino a poco tempo fa, e sembravano destinati a carriere ancor più luminose, come l'ex presidente del consiglio comunale Mirko Coratti o l'ex assessore alla casa Daniele Ozzimo, e i camerati del nero Massimo Carminati, considerato il boss indiscusso della mafia romana. Riccardo Brugia, che era accanto al capoclan anche all'epoca del furto nel caveau della Banca di Roma di piazzale Clodio, o Roberto Lacopo, che si occupava con modi spicci della riscossione crediti nei confronti dei piccoli imprenditori che si avvicinavano all'organizzazione. Le accuse Il provvedimento notificato ieri pomeriggio in 40 pagine ricostruisce soprattutto la storia dell'ultima parte dell'inchiesta: gli arrestati (i semplici indagati non andranno a immediato ma seguiranno un iter più lungo anche attraverso una udienza preliminare) dello scorso giugno erano in tutto 44. Agli indagati per associazione mafiosa, in poche righe, il gip Costantini dedica le parole più pesanti: Massimo Carminati è, scrive la giudice, "capo e organizzatore, sovrintende e coordina tutte le attività dell'associazione, impartisce direttive agli altri partecipi, fornisce loro schede dedicate per le comunicazioni riservate, individua e recluta imprenditori, ai quali fornisce protezione, mantiene i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali operanti su Roma nonché con esponenti del mondo politico, istituzionale, finanziario, con appartenenti alle forze dell' ordine e ai servizi segreti". Salvatore Buzzi, "organizzatore, gestisce, per il tramite di una rete di cooperative, le attività economiche dell'associazione nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, dell'accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del verde pubblico e negli altri settori oggetto delle gare pubbliche aggiudicate anche con metodo corruttivo, si occupa della gestione della contabilità occulta della associazione e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti". Ma tra gli accusati di associazione mafiosa, che sono in tutto 19, spiccano i nomi dei "pubblici ufficiali a libro paga". Luca Gramazio, arrestato a giugno, "prima consigliere comunale al Comune di Roma poi Consigliere Regionale alla Regione Lazio, pone al servizio dell'organizzazione le sue qualità istituzionali, svolge una funzione di collegamento tra l'organizzazione la politica e le istituzioni, elabora, insieme a Testa, Buzzi e Carminati, le strategie di penetrazione della Pubblica Amministrazione, interviene, direttamente e indirettamente nei diversi settori della Pubblica Amministrazione di interesse dell'associazione". E l'ex ad di Ama Franco Panzironi "pubblico ufficiale a libro paga, partecipa all'associazione fornendo uno stabile contributo per l'aggiudicazione di appalti pubblici, per lo sblocco di pagamenti in favore delle imprese riconducibili all'associazione; garante dei rapporti dell'associazione con l'amministrazione comunale negli anni 2008-2013". L'associazione Il punto più delicato, sul quale gli avvocati daranno battaglia, sarà proprio il tentativo si smontare l'accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso, reato che prevede una pena decisamente più pesante della corruzione. Un tentativo che alcuni difensori hanno già tentato di perseguire davanti alla corte di Cassazione, sperando che fosse il palazzaccio a respingere l'innovativa configurazione del reato ipotizzata dal procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone dall'aggiunto Michele Prestipino e dai pm Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli. L'associazione di Carminati, per l'accusa, pur utilizzando spesso lo strumento della corruzione e della turbativa d'asta, avrebbe mantenuto il potere intimidatorio tipico delle organizzazioni mafiose "tradizionali". A fare ricorso erano stati tre dei quattro "eccellenti" dell'inchiesta: Buzzi, Odevaine e Panzironi, insieme con gli altri 16 indagati che si erano opposti alle misure cautelari e alle accuse a loro carico. La difesa di Carminati, invece, aveva preferito non fare ricorso e attendere il verdetto del "Palazzaccio" sugli altri coindagati, evitando così che si formasse un giudicato cautelare a suo carico. Gli ermellini finora hanno respinto le obiezioni confermando l'impianto della procura. Ma il tribunale riavvierà la discussione da zero. Chi parla e chi no In aula peseranno anche le scelte processuali e la divisione, che rischia di farsi sempre più netta, tra chi ha deciso di parlare e di provare ad avviare una collaborazione con gli inquirenti e chi continua semplicemente a difendersi. Negli ultimi mesi a rivolgersi ai pm per chiedere spontanee dichiarazioni sono stati Franco Panzironi, Luca Odevaine e, in ultimo, Salvatore Buzzi che, dopo un lungo silenzio ha scelto di seguire le indicazioni del legale Alessandro Diddi e firmare tre lunghi verbali. Dichiarazioni che hanno convinto solo in parte i magistrati e che potrebbero segnare una netta divisione con chi finora non ha mai fatto dichiarazioni, come il boss Massimo Carminati. L'ultimo interrogativo riguarderà le costituzioni di parte civile. Nell'elenco delle parti lese, che hanno diritto a costituirsi in giudizio, il gip Costantini ha inserito il Ministero dell'Interno, la Regione Lazio, il Comune di Roma Capitale, Ama e la Prefettura di Roma, oltre al comune di Castelnuovo di Porto (che, è notizia di questi giorni, sembra aver evitato lo scioglimento per mafia). Quanti di questi, e in che forme, sceglieranno di costituirsi e partecipare attivamente al processo potrebbe essere uno degli interrogativi coi quali, il 5 novembre, comincerà la sfilata processuale di Mafia capitale. Giustizia: Mafia Capitale; pronta la relazione Alfano, Marino salvo ma sotto supervisione di Simone Canettieri Il Messaggero, 20 agosto 2015 C'è chi la chiama "la terza via", anche se il provvedimento che uscirà dal consiglio dei ministri di giovedì prossimo potrebbe essere del tutto inedito. In sintesi si può articolare in tre punti. Evitare al Comune di Roma l'onta dello scioglimento per mafia; rimuovere e mettere sotto procedimento disciplinare i dirigenti e funzionari (18 in tutto) al soldo di Buzzi e Carminati ma anche quelli che con le loro "incertezze ed esitazioni" hanno indirettamente favorito gli affari del clan. E soprattutto, questa sarebbe la novità sostanziale che dovrebbe proporre il ministro degli Interni Angelino Alfano nella sua relazione, fare che in modo che d'ora in poi tutti gli atti del Campidoglio siano supervisionati da un ente terzo, che dovrebbe essere la Prefettura. Una funzione, spiegano dal Viminale, molto simile a quella che una volta svolgeva il Comitato regionale di controllo (Coreco), abolito nel 2001 con la riforma del titolo V della Costituzione. Morale: l'amministrazione Marino sarebbe salva, ma sotto tutela. Con la macchina amministrativa del Campidoglio, che nei giorni scorsi ha messo in atto una robusta rotazione dei dirigenti (circa 40 tra dipartimenti e municipi), destinata a diventare ancora di più "osservata speciale". Una soluzione che non dispiace al sindaco, che giovedì non dovrebbe essere ancora rientrato dalle ferie (ora si trova ai Caraibi con la famiglia e si rilassa facendo immersioni), scattate dopo il varo del Marino-ter. La relazione su Mafia Capitale che Alfano presenterà al consiglio dei ministri, che poi dovrà approvarla, chiuderà un percorso iniziato lo scorso gennaio. Quando l'allora prefetto Giuseppe Pecoraro nominò una commissione d'accesso agli atti chiamata a raccogliere documenti e fatti sul grado di infiltrazioni in Comune, aggredito da anni dal sodalizio fascio-comunista. Dopo sei mesi di lavoro e 800 pagine di relazione, i tre ispettori degli Interni sono arrivati a una conclusione: Roma va sciolta per mafia. Indicazione che il prefetto Franco Gabrielli non ha accolto, nel dossier presentato al Viminale. Spiegando che vanno distinte due fasi: Mafia Capitale durante la giunta Alemanno (indagato per il reato di 416 bis) "usava come strumento principe l'intimidazione mafiosa", mentre durante l'amministrazione Marino "la disponibilità di amministratori e dipendenti pubblici viene acquisita attraverso la corruzione". Una differenza sostanziale, condivisa anche dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, che però non ha risparmiato critiche a Marino per non aver fatto abbastanza per arginare il fenomeno (durante il suo mandato sono stati arrestati quattro consiglieri e un assessore, solo per citare i politici direttamente coinvolti). Sempre il 27 agosto Palazzo Chigi si esprimerà sul caso Ostia. Per il mare dei romani Gabrielli è stato chiaro: il municipio, è il X, va sciolto per infiltrazioni mafiose. Il presidente Andrea Tassone è stato arrestato lo scorso giugno nella seconda retata dell'inchiesta, che dimostra sia stato funzionale agli affari di Buzzi e Carminati sul litorale. Il nocciolo della questione però riguarda il futuro della Capitale. Che è destinata a essere commissariata dal punto di vista burocratico. Dipartimento per dipartimento. Anche perché sempre il 27 il cdm sbloccherà fondi e assegnerà poteri al Comune per il Giubileo. Coordinato, non a caso, dal prefetto Gabrielli. Giustizia: "il caporalato è come la mafia", l'allarme del governo e dei magistrati di Gianmario Leone Il Manifesto, 20 agosto 2015 La Procura di Trani: i lavoratori ci aiutino denunciando. Il ministro Martina: è come la mafia. C'è un indagato per la morte di Paola. Resta in coma Arcangelo, e il sindacato scopre che non era assunto regolarmente. C'è un primo indagato per la morta di Paola Clemente, la bracciante che lo scorso 13 luglio perse la vita nelle campagne del nord barese durante la raccolta dell'uva. La procura di Trani ha iscritto nel registro degli indagati l'autista del bus che ha condotto Paola e altri braccianti nelle campagne di Andria. Nell'indagine al momento si ipotizzano i reati di omicidio colposo ed omissione di soccorso. L'indagato è il tarantino Ciro Grassi, indicato nella querela come colui che ha organizzato la squadra di lavoro. Grassi, secondo le prime indiscrezioni, sarebbe stato anche colui che ha avvisato Stefano Arcuri, marito di Paola, del malore improvviso della moglie. La donna, da un paio di giorni prima del decesso, avvertiva dolori al collo a cui però non aveva dato molta importanza visto che da anni soffriva di cervicale. L'iscrizione di Grassi nel registro gli indagati - hanno però precisato le fonti inquirenti - è un atto dovuto in vista dell'autopsia che sarà effettuata domani, dopo la riesumazione del corpo dell'operaia che, una volta portata nella sala mortuaria del cimitero di Andria, venne seppellita in fretta e furia. "Il caporalato in agricoltura è un fenomeno da combattere come la mafia e per batterlo occorre la massima mobilitazione di tutti: istituzioni, imprese, associazioni e organizzazioni sindacali. Chi conosce situazioni irregolari deve denunciarle senza esitazione". Così in una nota il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina, all'indomani della notizia di un altro bracciante italiano finito in coma al termine di una giornata di lavoro nelle stesse campagne dove lavorava Paola. "In queste settimane - aggiunge Martina - abbiamo lavorato con il ministero del Lavoro per intensificare i controlli". Il ministro ha ricordato che dal 1 settembre prende il via la Rete del lavoro agricolo di qualità: le aziende agricole potranno aderire alla Rete tramite il portare internet Inps. Il certificato di qualità "non sarà un semplice bollino di natura burocratica ma attesterà il percorso delle verifiche puntuali e preventive effettuate individuando e valorizzando le aziende virtuose", ha assicurato il ministro. Certo è che per combattere ed eliminare un fenomeno così radicato, specialmente al sud, ci vorrà ben altro. In primis, un cambio di mentalità da parte di cittadini e lavoratori. "Sul fenomeno del caporalato c'è un muro di gomma. La gente non collabora, preferisce guadagnare pochi spiccioli anziché aiutare le nostre indagini finalizzate a debellare il fenomeno" ha a questo proposito dichiarato ieri il procuratore della Repubblica di Trani, Carlo Maria Capristo. L'indagine affidata al pm Alessandro Pesce sulla morte di Paola Clemente "andrà a fondo e darà giustizia alla famiglia della vittima". Capristo ha voluto sollecitare però "i sindacati e i lavoratori a dare indicazioni utili alle indagini sul caporalato". Il procuratore ricorda che il fenomeno del caporalato è "diffusissimo nel nord barese". Difficoltà che incontra in queste ore anche la Flai Cgil Puglia, che sta provando in ogni modo a fare luce sugli ultimi tre decessi avvenuti nell'arco di un mese e sul caso di Arcangelo, il bracciate 42enne finito in coma 10 giorni fa, mentre lavorava nelle stesse terre e svolgeva le stesse operazioni di Paola Clemente. Tuttora ricoverato in coma nel reparto di rianimazione dell'ospedale San Carlo di Potenza, la prognosi sulla guarigione dell'uomo rimane riservata. Ancora poco chiare le cause del malore: tra chi ipotizza sia stato dovuto all'uso di particolari sostanze nella produzione dell'uva e chi sostiene che la causa sia ancora una volta il grande stress psicofisico a cui sono sottoposti i braccianti. La prima ipotesi però, a detta del padre del bracciante, sarebbe stata esclusa dai medici. A quanto si apprende dalle indagini della Flai Cgil Puglia, il bracciante non era assunto regolarmente: "Stiamo cercando di capire se Arcangelo era assunto oppure no" ha affermato il segretario della Flai-Cgil Puglia, Giuseppe Deleonardis. Su Andria infatti Arcangelo non risulta assunto, mentre potrebbe essere assunto su San Giorgio Ionico, paese della provincia di Taranto dove vive. Gli scenari sono due: "O Arcangelo lavorava a nero, oppure era assunto a San Giorgio Jonico, il che sarebbe comunque illegale perché l'assunzione deve essere fatta sul luogo dove avviene la prestazione di lavoro" ha spiegato Deleonardis. Al momento risalire all'azienda per cui Arcangelo lavorava non è semplice, "perché questi lavoratori sono assunti da agenzie interinali che li spostano dove occorre. Spesso il bracciante si addormenta sul furgone che lo trasporta e non sa neppure dove si trova quando si sveglia sul posto di lavoro". Per questo l'invito ai lavoratori è quello di collaborare e denunciare. "Il ricatto di un reddito a qualunque costo è oggi più forte che mai. Ai lavoratori dico però che oltre alle lotte per una legislazione sul contrasto al nero, per le incentivazioni alle imprese che assumono regolarmente, e agli strumenti penali contro il caporalato, è ora di dire basta e denunciare le condizioni insostenibile per paga e sicurezza in cui si lavora nelle campagne pugliesi. Serve una vera rivolta sociale". Giustizia: "coppia dell'acido"; la pm: allontanare bimbo da quei genitori spietati e crudeli di Emilio Randacio La Repubblica, 20 agosto 2015 Soltanto e niente più di "una vita normale". Lontano dal clamore mediatico, "senza il pesantissimo fardello dell'infamante reputazione" dei suoi genitori. Ecco cosa si augura il pubblico ministero dei minori di Milano, Annamaria Fiorillo, per il figlio di Martina Levato e Alexander Boettcher. È un atto durissimo, senza eufemismi, quello che il magistrato ha firmato il giorno successivo alla nascita del piccolo, dopo aver ordinato il suo immediato allontanamento dalla madre, già in sala parto. Il "ricorso per la dichiarazione di adottabilità" del neonato è un ritratto spietato delle personalità di quelli che lo stesso Pm non tarda a definire come gli "amanti diabolici dell'acido". Condannati a 14 anni in primo grado per aver sfigurato uno degli ex di Martina, Pietro Barbini, dopo averne colpiti altri due. Appena quattro giorni fa, la Fiorillo si augurava che i genitori, imputati e detenuti, non volessero manifestare l'intenzione di riconoscere il proprio figlio, interpretando questo gesto "come un atto di responsabilità e di vero rispetto". Soprattutto per il futuro del bambino, che in modo diverso, "si troverebbe a dover gestire in qualunque tipo di situazione e relazione, comprese quelle scolastiche e con i pari, in ogni fase della sua esistenza", una sorta di fardello gravosissimo. Marchiato a fuoco, additato come il figlio della coppia di "amanti diabolici". Fiorillo lanciava un appello ai due giova ni genitori, ai quali "andrebbe ricordato che se {ancora), l'adozione come istituto produce quale effetto l'allontanamento del bambino dalla famiglia naturale, con la rescissione di tutti i legami con la stessa, è perché in casi eccezionali (queste due ultime parole vengono evidenziate in grassetto, ndr) - come questo - il pregiudizio causato al bambino dal fatto stesso di avere quei genitori è maggiore del pregiudizio che gli deriva dal perderli, anche quando ciò avviene a scapito dell'interesse ad avere consapevolezza delle proprie origini". Il magistrato minorile è comunque già rassegnata in partenza. Sa che il suo consiglio - non riconoscere il proprio figlio - non sarà ascoltato. "Appare teorica e improbabile", ammette lo stesso magistrato dei minori milanesi. E anticipa quelle che però saranno le drammatiche conseguenze, da addebitare secondo questa versione, esclusivamente alle decisioni di Martina e Alexander. "Considerato, da un lato, le motivazioni che avrebbero indotto Levato a decidere consapevolmente il concepimento e la gravidanza e, dall'altro, l'evidente strumentalizzazione che dalla nascita, ancor prima che avvenisse, è stata posta in essere dalla stessa e da Boettcher, attraverso le richieste avanzate nell'ambito dei procedimenti penali nei quali sono coimputati". La tesi dell'accusa, in soldoni, è che proprio grazie alla gravidanza, "gli amanti diabolici", abbiano cercato una scappatoia al carcere. Anche perché Martina e Alexander - per la Fiorillo - hanno dimostrato in maniera "totale e irreversibile" l'incapacità di "svolgerei compiti di cura, di assistenza ed educazione per un figlio o come figure di riferimento affettivo". Il magistrato conclude il suo atto d'accusa riportando uno dei passaggi più duri della sentenza di condanna di primo grado degli imputati: "Martina e Alexander non hanno mai esternato pena o dolore per quello che hanno fatto, portando all'attenzione del Tribunale la loro totale assenza di empatia, dimostrandosi completamente centrati su loro stessi... del tutto indifferenti ai sentimenti altrui, chiusi nelle loro logiche personali, incapaci di dimostrare sentimenti ed emozioni sincere". Fiorillo si rivolge ai giudici, sostenendo che proprio "per l'evidenza degli elementi evidenziati, non sia necessaria ulteriore istruttoria e che il Tribunale possa accogliere immediatamente tostato di adottabilità, disponendo che il bambino venga collocato presso una coppia avente i requisiti di idoneità per l'adozione". Due giorni fa, il collegio del Tribunale, che ha solo in parte accolto le richieste della Fiorillo - è stato nominato un giudice delegato per l'adottabilità - ha comunque ridotto i limiti dei contatti tra i familiari e il piccolo. I legali della famiglia Levato - Stefano De Cesare e Laura Cossar - hanno già dichiarato di voler ribaltare le conclusioni a cui è giunto il pm, nel momento in cui la causa sarà discussa. Giustizia: siete sicuri che sia giusto sottrarre il piccolo Achille a sua madre? di Maurizio Tortorella Tempi, 20 agosto 2015 Nemmeno a Annamaria Franzoni sono stati tolti i figli. Perché a lei sì? Ancora una volta, la giustizia di questo Paese sembra lontana, nemica, ottusamente chiusa in se stessa. È proprio giusto sottrarre il piccolo Achille, neonato, a sua madre condannata (in primo grado) a 14 anni per le gravissime lesioni procurate con il lancio di acido contro un ex fidanzato? È certamente possibile che Martina Levato, reclusa a San Vittore insieme al suo complice Alexander Boettcher, non sia una buona madre. Ma è corretto, dal punto di vista legale e di principio, che il Tribunale per i minori di Milano strappi un bambino a una donna detenuta e non riconosciuta definitivamente colpevole? Domanda aggiuntiva, ma non secondaria: questa severa procedura viene sempre seguita in tutti i Tribunali italiani, e nei confronti di tutti i condannati per fatti anche più gravi? Davvero mafiosi, assassini e rapinatori, ma anche truffatori, ladri e corruttori decadono sempre dalla patria potestà in quanto genitori poco affidabili? La risposta è no, non è affatto così. Basta ricordare il caso, antico e recente, di Annamaria Franzoni, condannata in via definitiva a 16 anni di reclusione per l'uccisione del figlio secondogenito Samuele (morto nel 2002 a Cogne): una volta scontata la pena, nel giugno 2014 è tornata a casa sua e vive accanto al primogenito (oggi ventenne) e al terzo figlio, nato nel frattempo (oggi ha 12 anni). La decisione è stata confermata nell'aprile scorso. Nessuno ha mai pensato di sottrarre la maternità alla condannata. Nel suo caso il Tribunale ha preso per buona una perizia in base alla quale "non v'è più il rischio che si ripeta il figlicidio". Ma può dirsi davvero una buona madre, Annamaria Franzoni? Chissà, forse lo è. Di certo, nel suo caso, le colpe di una donna ritenuta dalla suprema Corte di cassazione l'assassina del figlio sono parse più lievi di quelle di due lanciatori di acido. E allora? E allora, ancora una volta, la giustizia di questo Paese sembra lontana, nemica, ottusamente chiusa in se stessa e nella sua capacità di reagire con velocità (e non sempre con correttezza) soltanto ai casi illuminati dal clamore mediatico. Uno può anche pensare che Alexander Boettcher e Martina Levato, che la stampa ha inchiodato per sempre all'etichetta noir degli "amanti all'acido", non formino la perfetta coppia di educatori. E che il piccolo, nato il 15 agosto, meriti decisamente di meglio. Fin qui, forse, siamo tutti d'accordo. Ma la pena finale, che probabilmente i due meritano per quanto hanno fatto, deve inevitabilmente coinvolgere la loro creatura? Il piccolo Achille, per una colpa che non è sua, dovrà essere collocato in una casa-famiglia; poi verrà affidato a un'altra coppia, le sarà dato in adozione. È davvero giusto, questo? Sostengono gli avvocati, riuniti nell'Unione delle camere penali, che "nessuna condanna può autorizzare a sottrarre d'imperio un neonato alla propria madre, a meno che essa non venga motivatamente giudicata incapace di accudirlo". Ora i quattro genitori dei due condannati, i nonni di Achille, si offrono di fare da genitori adottivi al nipotino neonato. Verranno considerati? Oppure il Tribunale la respingerà, temendo che questo sia un aggiramento della richiesta di allontanamento tra madre e figlio? Tante volte è accaduto, anche in casi più facili: chi scrive ha descritto in un libro il caso, terribile, di una bimba di sei anni, Angela, sottratta alla sua famiglia dal tribunale dei minori di Milano per un inesistente caso di pedofilia attribuito al padre. Anche in quel caso, i nonni chiesero di poterla tenere con sé, nell'attesa dell'assoluzione dell'uomo (che arrivò in Cassazione qualche anno dopo). Non furono nemmeno ascoltati. In due morirono di crepacuore, senza poter riabbracciare la nipote. È giustizia, questa? Giustizia: per Achille, la peggiore delle decisioni possibili di Vincenzo Vitale Il Garantista, 20 agosto 2015 Il Tribunale dei Minori ha stabilito che Martina può vedere il bambino ma non allattarlo. Cioè ha punito il bambino, che ha bisogno del latte materno. Pensano che il latte trasmetta il germe della perfidia? Il solito costume di lavarsi le mani e non assumersi le responsabilità. E dunque il Tribunale dei Minori di Milano ha deciso sul piccolo di Martina Levato, la giovane accusata e condannata in primo grado per aver sfregiato con acido corrosivo una rivale in amore: peccato abbia deciso di non decidere, secondo la più nefanda tradizione di una certa idea di responsabilità, anzi di irresponsabilità. Sembra infatti che in Italia si stenti a ben comprendere come fra potere e responsabilità debba esservi necessariamente un nesso inscindibile: a maggior potere deve sempre corrispondere maggior responsabilità. Altrimenti, è tirannia allo stato puro. Ora, siccome il potere concesso dalle leggi al Tribunale dei Minori è enorme e di straordinaria incisività - trattandosi di bambini - è ovvio che ad esso sia correlata una grandissima responsabilità. Ma questa va misurata in senso generale e potenziale, appunto per come le leggi la prevedono e non certo in concreto come vorrebbe il Tribunale: non è insomma che usando un potere in tono minore, si incontri meno responsabilità. Anzi, tutt'altro. Infatti, non è che stabilendo che la Levato possa incontrare il neonato una volta al giorno ma per pochi minuti, senza allattarlo, il Tribunale si sia tolto le castagne dal fuoco, come pare aver desiderato : peggio di così non si poteva, decidendo di non decidere, di non dire né sì e neppure no alla richiesta della Procura minorile che invece ne aveva chiesto il definitivo allontanamento dalla madre. Il Tribunale ha evitato insomma di assumersi le sue responsabilità, limitandosi a concedere alla donna una visita giornaliera al piccolo, come si trattasse di due adulti che non debbono essere privati di un contatto, magari per offrirsi l'un l'altro una tazza di caffè, sorbendola in compagnia. E invece no. Bisogna avere il coraggio di dire chiaro e forte che le cose come stabilite dal Tribunale, sia pure in via provvisoria, non stanno né in cielo né in terra. Fra madre e neonato, infatti, non può che esservi un rapporto continuo ed intensissimo, costruito perfino sull'olfatto e sul tatto che costituiscono comunque vie d'accesso privilegiate per ogni piccolo nato alla conoscenza del mondo e di se stesso attraverso la conoscenza della madre, che è di sicuro diversa e complementare rispetto a quella che gli era stata possibile finché si trovava nel ventre materno: lo capisce chiunque, meno che il Tribunale (e non occorrono psicologi o assistenti sociali): stabilendo come ha stabilito, il Tribunale che dovrebbe tutelare i minori, non ha in realtà tolto il figlio alla madre, ma la madre al figlio e ci vorrebbe qualcuno che glielo spiegasse. Non parliamo poi del latte che il neonato non potrà suggere dal seno materno, non si capisce per quale inesplicabile motivazione. Che forse esista un latte buono - quello che erompe dal seno delle donne dabbene - ed uno meno buono o addirittura moralmente pernicioso per la salute del neonato - quello invece che sgorga dal seno delle donne condannate (in primo grado) per gravi reati? O forse il Tribunale teme che assuefacendosi alla poppata ogni tre ore - secondo i normali ritmi giornalieri - il neonato non sarebbe poi allontanabile dalla madre in modo definitivo? Ed allora è forse meglio privarlo da subito del latte materno, così non ci pensiamo più? Se così fosse, sarebbe ancor peggio perché il Tribunale avrebbe soltanto mostrato di non decidere, ma in realtà avrebbe già deciso, perché impedendo la suzione del latte materno, di fatto al neonato viene sottratta la quasi totalità del rapporto con la madre. Poi, basterebbe soltanto certificarla formalmente. Ed allora, il Tribunale avrebbe dovuto avere il coraggio di dire apertamente come la pensava, in un senso o nell'altro. La pseudo-decisione assunta invece sembra il puro distillato di ciò che un giudice non dovrebbe mai indulgere a fare, vale a dire abdicare al proprio ruolo. Una volta - oggi non so - si insegnava che un giudice al quale viene posta ritualmente una questione giuridica da risolvere, pur se molto delicata, non può cavarsela con un non liquet, vale a dire obiettando che non è abbastanza chiara per decidere. Egli è tenuto comunque a decidere. Se invece, per usare un gergo calcistico, "cincischia", come sembra aver fatto il Tribunale dei Minori di Milano, tradisce il proprio compito e le legittime attese di coloro della cui vita può disporre: in questo caso, non solo della Levato e del padre del piccolo, ma perfino dei suoi nonni, i quali, fino a prova contraria, non sono imputati di nulla. Già, i nonni. Dove sono finiti i nonni del neonato ? Nessuno se ne occupa, neppure il Tribunale, il quale, pure, dovrebbe sapere bene che il massimo affetto -dopo i genitori - può esser garantito da nonni. Insomma, la situazione è davvero unica nella sua tragicità. In un sol colpo, il Tribunale - dando ascolto alla Procura minorile - ha fatto sì che le colpe dei padri (i giovani genitori condannati) ricadessero sui figli (il neonato, che ne esce danneggiatissimo) e che quelle dei figli ( sempre i giovani condannati) ricadessero sui padri (i nonni, anch'essi senza causa espropriati del piccolo nipote). Un esercizio difficile, un'acrobazia, ma in cui il Tribunale ha dato prova di farcela davvero bene. Anche per questo esempio di oggi, rimango dell'idea - e mi ci ritrovo sempre di più - che esso vada abolito al più presto. Parafrasando Catone su Cartagine e imitando la sua ossessione, perché oggi occorre assumere questo scopo come ossessivo: iuvenili curia removenda! Giustizia: "o folle, o colpevole"… se Martina Levato è malata non è condannabile di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 20 agosto 2015 La decisione dei giudici di separare Martina Levato dal suo bambino appena nato, in attesa che il Tribunale dei minori decida sulla sua adottabilità, lascia molto a desiderare, innanzitutto per la mancanza di chiarezza sui motivi che l'hanno determinata. L'opinione pubblica ha il diritto inalienabile di essere informata in modo esauriente sulle questioni che riguardano valori etici, se non altro per evitare le partigianerie emotive e/o ideologiche dei dibattiti mediatici che deformano la capacità collettiva di giudicare e disabituano all'assunzione di responsabilità nei confronti di sé e degli altri. L'unico motivo che avrebbe potuto giustificare, senza renderlo automatico, il procedimento preso dai giudici, sarebbe consistito nella valutazione, fatta da esperti in materia, di un pericolo serio rappresentato dalla madre per il suo bambino, un pericolo immediato o futuro. Il presupposto avrebbe dovuto risolversi in una diagnosi che individuasse impulsi aggressivi nei confronti del figlio, o uno stato depressivo grave, oppure - ancora - una sindrome schizofrenica. Ma non risulta che si sia arrivati a una simile diagnosi, dunque, a quanto pare, i giudici hanno deciso in modo autonomo sulla base di un pregiudizio che non dovrebbe trovare alloggio nell'esercizio della giustizia. Sembra che l'evento, per quanto annunciato, abbia colto la magistratura impreparata. Non si conoscono, infatti, procedure adeguate di valutazione psicologica a cui abbiano fatto ricorso. Ma la valutazione della capacità materna di accudimento non può che slittare nell'arbitrio giudiziario e, nella migliore delle ipotesi, asseconda la morale corrente: non è questo il modo di decidere il destino di una persona, o di una coppia madre-figlio, o di un gruppo familiare. Ancora meno accettabile è che ciò accada invocando la legge. L'evidenza di quanto sia stata impropria la gestione del caso ha costretto i giudici a una correzione di rotta, in seguito alla quale è stato consentito a Martina Levato di vedere il figlio una volta al giorno. Il compromesso è stato dettato da una precauzione tardiva, più mirata a salvare il salvabile e a dare ascolto alla ipocrisia sociale, che a addivenire a una giusta soluzione. Perché una madre dovrebbe vedere il suo bambino una volta al giorno se vuole e può tenerlo con sé per l'intera durata del giorno? Senza prima verificare questa possibilità non ha molto senso ipotizzare l'adozione, che è un tentativo di riparare il trauma causato dalla rottura della relazione del bambino con i propri genitori, un trauma da prevenire prima di congetturare su ogni altra soluzione. Piuttosto che investire i servizi comunali di un ruolo sostitutivo delle cure materne, in attesa della valutazione sulla adottabilità (che dovrebbe privilegiare i parenti più stretti dei genitori), lo Stato avrebbe dovuto tentare, innanzi tutto, il sostegno psicologico della madre nell'accudimento diretto del proprio figlio. Il crimine di questa madre denuncia una ferita della sua femminilità, proprio perciò le sarebbe prezioso un aiuto nella chance di affermare l'eros materno. L'abdicazione a priori dello Stato di fronte a una delle sue principali funzioni deriva dal prevalere di un pessimismo del desiderio, oltre che della volontà, un pessimismo spacciato come ragione. Se una donna ha difficoltà psicologiche tali da sfociare in azioni terribili, non per questo è detto che la sua sia una "natura" malvagia: certo, è ovvio che sia grandemente a rischio di fallimento come madre, e tuttavia questo non è un esito scontato, soprattutto se alla sua disperazione venisse dato ascolto. Se Martina Levato viene considerata in possesso delle sue facoltà mentali al punto da subire una condanna al carcere di quattordici anni, al tempo stesso la sua psiche non può essere giudicata strutturalmente così malata da negarle le sue funzioni materne. Il fatto è che i giudici non dovrebbero considerare la società civile, di cui fanno parte, come incapace di "intendere e di volere", proiettando su di essa una comprensibile difficoltà di giudizio di cui intenderebbero sbarazzarsi al più presto. Giustizia: Icam, quell'asilo con le sbarre che aspetta l'arrivo del piccolo Achille di Nino Materi Il Giornale, 20 agosto 2015 Viaggio all'Icam, uno degli istituti in cui vivono le madri detenute con i loro bambini. Qui si vedranno la ragazza dell'acido e il suo bimbo. Se non fosse per quelle sbarre alle finestre... potrebbe sembrare un asilo. Di quelli belli, puliti, profumati dove le mamme portano ogni mattina i figli. Mamme liberi di bambini liberi. Qui, invece, ci troviamo davanti al portone dell'Icam di Milano. Anche l'Icam (istituto a custodia attenuata per madri detenute) è, a suo modo, un "nido" colorato e pieno di balocchi. Con educatrici che fanno giocare i piccoli e li accarezzano. L'unica differenza - non da poco - è che questi sono bimbi "reclusi", figli di mamme incarcerate. L'Icam di Milano è un istituto-modello. Struttura di riferimento non solo a livello nazionale, ma che europeo. Insomma, un'eccellenza. In una di queste stanzette con i pupazzi per terra tra un po' (una settimana, un mese un anno? Con i tempi della giustizia italiana non si sa mai) potrebbe essere "rinchiuso" anche Achille, il bimbo partorito da Martina Levato nel giorno di Ferragosto. Contestualmente a quell'evento un pm decideva che "nell'interesse del neonato" era meglio che mamma e figlio non si incontrassero. Da lì fiumi di polemiche. E di melassa. Tutti a dare addosso al pm "insensibile", "colpevole" di aver "strappato" il piccolo all'"abbraccio" della madre. Peccato che quella madre sia stata condannata a 14 anni per aver sfregiato con l'acido il suo ex fidanzato e un altro paio di ragazzi. Complice nell'edificante impresa, il padre del neonato, Alexander Boettcher, pure lui condannato a 14 anni. Ma l'altro ieri è intervenuto il Tribunale dei minori che ha provvisoriamente "restituito" a Martina il bambino: potrà vederlo una volta al giorno. Nello stesso tempo si continuerà nella procedura di adozione. Ma cosa accadrà in questo lasso di tempo tra abbracci materni ritrovati e possibile individuazione di una nuova famiglia per Achille? Qui torna in ballo l'Icam di Milano. Il luogo "protetto" dove il gip ha previsto che mamma e figlio possano continuare a vedersi, ad "abbracciarsi", finche il tribunale non troverà una soluzione definitiva. Al momento nell'Icam milanese vivono dieci mamme condannate per gravi reati, ma che in questa "casa" possono continuare a sentirsi madri "libere", specchiandosi nell'affetto per i loro bimbi. Qui le storie sono diverse ma, per certi versi, uguali. Il dato che drammaticamente le accomuna è che lo status di recluso accomuna mamme colpevoli e figli innocenti (tutti con età compresa tra zero e sei anni). Una pena da espiare insieme. In un contesto mille volte migliore di un carcere, ma pur sempre inadatto alla vita di un bambino. In un video servizio curato l'anno scorso da due giornalisti del Fatto Quotidiano, le parole di alcune mamme rendono bene il senso di una realtà problematica: "Qui abbiamo l'illusione di essere mamme normali. Un concetto di normalità piuttosto aleatorio, considerato che ad accompagnare i bimbi all'asilo (quello vero) e a giocare al parco non sono le mamme ma le educatrici dell'Icam. Le porte non sono cancelli di ferro chiusi a tripla mandata. Qui le agenti penitenziarie non sono in divisa. Racconta una di loro: "Porci in abito borghesi aiuta molto nei rapporti con le detenute". Significativa la testimonianza anche di una delle educatrici: "Spesso con le mamme si instaura una sorta di gelosia, perché i bimbi si affezionano anche a noi in maniera viscerale". Bimbi, quasi sempre con un'aria triste, come se "sentissero" che quello, nonostante la facciata da ludoteca, rimane comunque un luogo di sofferenza. La struttura, nata nel 2006, è una delle poche funzionanti in Italia, dove 34 bimbi sono costretti a condividere la detenzione con le madri all'interno delle carceri. "Una vergogna da superare", l'ha definita il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che un mese fa ha assunto pubblicamente l'impegno di arrivare a "quota zero" entro la fine dell'anno. Dei 34 bambini "reclusi" (ma i minori che hanno un genitore detenuto sono più di centomila) quelli che vivono propriamente in carcere sono 19 e la maggioranza di loro (9) si trova nel reparto femminile di Rebibbia. Gli altri sono invece negli Icam, purtroppo non tutti professionali e confortevoli come quello milanese. Un asilo perfetto. Se non fosse per quelle sbarre alle finestre... Antimafia, nuova interdittiva con validi indizi di Francesco Clemente Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2015 Consiglio di Stato - Sezione III - Sentenza 22 luglio 2015 n. 3637. Se la precedente interdittiva antimafia è stata annullata per l'assenza di validi indizi di condizionamento mafioso dell'impresa, la nuova misura prefettizia non può basarsi su un solo fatto isolato e non più attuale rispetto al quadro indiziario già esaminato. L'ha stabilito il Consiglio di Stato nella sentenza n. 3637/2015, depositata dalla Terza sezione il 22 luglio, accogliendo il ricorso di un'impresa produttrice di calcestruzzi contro la quarta misura prefettizia emessa a proprio carico e giudicata legittima in primo grado anche se fondata su elementi istruttori "ripresi dalle precedenti informazioni" della prima, annullata in altro giudizio - soci assolti dall'accusa di reati di associazione di tipo mafioso ed estorsione e sequestro preventivo revocato - e ritenuti "non (...) idonei di per sé stessi a fondare una valutazione di esistenza di un pericolo di infiltrazione da parte della criminalità organizzata". L'informativa era stata emessa per il presunto coinvolgimento del fratello dei soci dell'azienda ricorrente in un'inchiesta per turbativa d'asta (articolo 353 del Codice penale) aperta da una Direzione distrettuale antimafia: come ricostruito dal Prefetto, risultava indagato per il reato di frode in forniture pubbliche (articolo 356 del Codice penale) per aver fornito cemento ritenuto "impoverito" dell'azienda di famiglia a un'altra incaricata da un pubblico consorzio industriale al ripristino di canali idraulici lungo una ferrovia, poi in subappalto a una terza ditta considerata "mero schermo" di una cosca e in presunta "contiguità" a lui e ai fratelli soci. Per la ricorrente, l'interdittiva violava il Codice antimafia (Dlgs n. 159/2011) che la giustifica per tentativi di infiltrazione anche per turbativa d'asta, ma solo su "provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva" assenti nel caso in esame (lettera a, comma 4, articolo 84). Accogliendo il ricorso, i giudici hanno spiegato che "l'innalzamento della soglia di anticipata di tutela delle condizioni di sicurezza e ordine pubblico non esime, tuttavia, l'Autorità di pubblica sicurezza da una prudente, esatta ed esaustiva acquisizione e valutazione dei presupposti del provvedere, considerata anche l'incidenza della misura interdittiva sulla sfera di libertà e di iniziativa economica del destinatario". Nel caso di specie, l'informativa "resta affidata a un solo fatto che si ascrive al fratello dei soci della ditta (...)" - risalente a tre anni prima - per cui è censurabile il "carattere isolato e non collegato all'attualità dell'elemento che ha dato ingresso alla misura interdittiva, che da solo - una volta escluso ogni valore indiziante dei fatti posti a sostegno del precedente provvedimento di interdittiva annullato (...) - non si configura idoneo a sostenere la misura di interdittiva". Sulla base di tali fatti isolati si esclude "una situazione ambientale che, con carattere di attualità, metta in pericolo l'autonomia di indirizzo dell'attività sociale o che possa essere espressione di un'infiltrazione anche potenziale della criminalità organizzata", posto che la Pa può intervenire in caso di "nuovi e concreti elementi di indagine significativi del paventato periculum". L'adozione è la misura estrema: priorità ai parenti entro il quarto grado di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2015 La dichiarazione dello stato di adottabilità è una scelta estrema. E il giudice non può farla se prima non ha valutato l'idoneità o meno di tutti i parenti del minore, entro il quarto grado, a prendersi cura di lui. Con la sentenza 16897,depositata ieri, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso degli zii paterni di due bimbe, figlie di un magrebino e di un'italiana, che il Tribunale dei minori aveva dichiarato adottabili, collocandole presso una coppia in lista d'attesa per l'adozione nazionale e disponendo l'interruzione di ogni rapporto con i genitori. Una decisione che era stata confermata dalla sezione minorenni della Corte d'Appello, con una sentenza impugnata dagli zii che contestavano anche la violazione dell'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo sul rispetto alla vita privata e familiare. I giudici di seconda istanza ritenevano provata "dopo una lunga e accurata istruttoria" l'incapacità genitoriale sia del padre sia della madre e l'assenza di rapporti affettivi significativi fra le minori e gli zii paterni, che avevano chiesto l'affido etero-familiare con collocamento delle nipoti presso di loro. La Cassazione però non è d'accordo sull'accuratezza delle "indagini". Per i giudici della prima sezione civile era mancata la concreta verifica del complesso rapporto che legava le bimbe alla zia paterna e al marito e delle loro condizioni di vita materiali ed esistenziali. Passaggio obbligato per raggiungere l'obiettivo principale: non tagliare i rapporti con il nucleo familiare. "Il diritto del minore a crescere ed essere educato nella famiglia d'origine - scrivono i giudici - che trova il suo fondamento nel diritto italiano, convenzionale europeo e internazionale, comporta che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità è praticabile solo come situazione estrema". La strada può essere percorsa solo quando ogni altro rimedio risulti non rispondente "all'esigenza dell'acquisto o del recupero di uno stabile ed adeguato contesto familiare in tempi compatibili con l'esigenza del minore stesso". Per muoversi nello spirito del diritto interno e internazionale il giudice non può trascurare la dichiarata disponibilità dei parenti a colmare le carenze dei genitori, fornendo un contesto familiare nel quale sia possibile curare, educare e crescere il minore senza tagliare il legame con la famiglia di origine, sperimentando nel tempo anche la possibilità di un recupero della capacità genitoriali. Un attento studio, compiuto in un contesto allargato, che va fatto con lo stesso rigore impiegato per accertare lo stato di abbandono. Nel caso esaminato la Cassazione ritiene che i giudici di Appello siano arrivati ad escludere la significatività dei rapporti tra le minori e gli zii, sulla base di circostanze riferite dal perito, che riguardavano soprattutto il tema della costituzione tardiva in primo grado dei ricorrenti. Una circostanza che, secondo la Cassazione, certo non prova nulla circa la capacità degli zii di accudire le minori né è indicativa del rapporto tra questi e le bambine. Potenzialità che il legislatore chiede di ricercare prima di tutto nella famiglia. I giudici rinviano alla corte d'Appello perché esamini di nuovo il caso. Sottrazione di minore da uno Stato estero: rimpatrio respinto se il padre è pericoloso di Mauro Pizzin Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2015 In caso di sottrazione di minore da uno Stato estero da parte di un genitore, il rimpatrio dall'Italia può essere negato solo se il bambino corre un rischio. Ed è proprio sulla base di questo principio che la Corte di cassazione, con sentenza 16904/15, depositata ieri, ha confermato la decisione del Tribunale per i minorenni di Roma, il quale con decreto del 14 agosto 2014 aveva rigettato il ricorso di un cittadino statunitense che intendeva ricondurre negli Stati Uniti i tre figli minori, condotti dalla madre italiana, da cui si stava separando, nel nostro Paese senza il consenso del padre. Una decisione motivata, secondo la donna, dal fondato rischio per i bambini (di soli sei, tre e due anni all'epoca della sottrazione) di essere esposti a pericoli fisici o psichici dipendenti dalle condizioni psicofisiche del padre, in cura psichiatrica con assunzione di farmaci antidepressivi e oppiacei, con l'aggravante di "una passione inquietante" dell'uomo per le armi da fuoco. Tesi accolta dal Tribunale dei minori, secondo cui, peraltro, i minori non avevano neppure la residenza abituale, intesa come centro dei loro riferimenti affettivi e culturali, nella località degli Usa da cui erano stati trasferiti in Italia. Contro la decisione l'uomo aveva fatto direttamente ricorso in Cassazione per violazione di legge, richiamando la Convenzione dell'Aja sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori del 25 ottobre 1980 per non avere il Tribunale tenuto conto della residenza abituale dei bambini, per avere omesso completamente di considerare e i documenti prodotti dalla difesa dell'uomo volti a dimostrare l'assenza di pericoli in caso di ritorno negli Usa e per avere, quindi, erroneamente interpretato i requisiti richiesti dalla Convenzione per l'esclusione del rimpatrio. Preso atto che era "pacifico che il nucleo familiare vivesse stabilmente, prima del trasferimento in Italia, negli Stati Uniti", nel respingere il ricorso la Cassazione ha fatto leva sul rischio per i minori di essere esposti a pericoli fisici e psichici, il cui relativo accertamento - sottolineano nel dispositivo i giudici - costituisce indagine di fatto sottratta al controllo di legittimità e non censurabile in Cassazione se la ponderazione del giudice di merito è sorretta, come nel caso di specie, da una motivazione "immune da vizi logici e giuridici". Lista Falciani, piena utilizzabilità di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2015 Con le due sentenze gemelle depositate ieri (16950 e 16951) la Sezione tributaria della Cassazione sdogana definitivamente l'utilizzabilità delle liste Falciani nei contenziosi con l'amministrazione fiscale italiana. Le sentenze, che replicano le due ordinanze contestuali del 28 aprile scorso (8605 e 8606) amplificandone le motivazioni, di fatto liberano il campo per le azioni di recupero nei confronti dei 7.499 italiani incastrati dal trafugamento dei dati operati dall'ex dipendente della sede di Ginevra della banca Hsbc (patrimonio extrafiscale complessivo di 7 miliardi 452 milioni di dollari). Proprio l'illiceità originaria dei files ceduti da Falciani al fisco francese - e quindi trasmessi per i canali dell'assistenza amministrativa anche all'Italia - è la questione di diritto posta dai due contribuenti (uno di Bolzano, l'altro umbro), questione peraltro accolta dalle Ctr competenti che avevano escluso l'utilizzabilità contro i presunti evasori. Ma il ricorso dell'Agenzia, accolto su tutta la linea dalla Sezione tributaria, permette ai giudici di piazza Cavour di tracciare le linee portanti dell'utilizzo degli "elementi comunque acquisiti" dall'amministrazione finanziaria previsti dal dpr 600/73 (articoli 39 e 41) e dal dpr 633/72 (articolo 51) "secondo i canoni tipici della prova per presunzioni", considerato che questi elementi non sono "predeterminati né predeterminabili dalla legge". A legittimare i dati provenienti da un'autorità straniera è la Direttiva 77/799/CE del Consiglio sull'assistenza nel settore delle imposte. Fermo restando che il giudice nazionale "apprezza liberamente" i dati ricevuti, e che il contribuente può contestarli nel contradditorio, resta il fatto che la semplice trasmissione "autentica" non può purgare eventuali vizi o illegittimità originari. Ma il tema, oggi come all'epoca del trafugamento, è che il segreto bancario non costituisce un principio inderogabile e, al dovere di segretezza della banca, "non corrisponde nei singoli clienti delle banche una posizione giuridica soggettiva costituzionalmente protetta, né un diritto della personalità" poiché quel segreto, semmai, tutela(va) "l'obiettivo della sicurezza e del buon andamento dei traffici commerciali, che non può spingersi però fino al punto di farne un ostacolo" al dovere (costituzionale) di ogni cittadino di "contribuire alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva" (articolo 53 della Carta). Pur ipotizzando l'operatività dell'articolo 6 della Cedu (diritto a un equo processo) anche in materia fiscale, scrive la Corte, "l'utilizzazione processuale di prove illegalmente acquisite non costituisce di per se stessa violazione, dovendosi valutare se l'intero giudizio, nel suo complesso e nel concreto, sia improntato al giusto processo" (tra le altre, Khan vs Regno Unito 35394/97). Quanto ai giudici francesi, la Cassazione criminale (13-85.o42 del 27/11/2013) nega ogni rilevanza alla prova di origine illecita (cioè è "pienamente utilizzabile") "quando essa non sia stata direttamente e illecitamente ottenuta dalle pubbliche autorità" (Falciani era un dipendente privato, ndr). Analogamente la giurisprudenza costituzionale tedesca - sul caso di una "lista Vaduz" - esclude l'utilizzabilità della prova illegittimamente acquisita "soltanto nei casi in cui viene invaso il nucleo incompressibile dell'organizzazione della vita privata". E la Cassazione italiana, in tema di mandato d'arresto europeo, afferma che la lesione dei diritti fondamentali c'è solo nel caso "di acquisizione e utilizzo di prove che siano in contrasto con il principio basilare di influire sulla libertà di autodeterminazione e pregiudichino la libertà morale". Peraltro va ricordato che è ormai dato incontestato che "contenzioso tributario e processo penale si muovono lungo binari separati" con regime probatorio diverso e con regole peculiari riguardo alla prova per presunzione (Cassazione 4924/13), e che i limiti stretti del penale valgono solo in quel contesto (art 220 disp. att. del codice di procedura). Anche a voler ipotizzare parallelismi con il nostro diritto interno nei "misfatti" dell'ex dipendente di banca, comunque "si tratterebbe di eventuali illeciti che, commessi (non già da organismi interni del nostro Stato-amministrazione ma unicamente) dallo straniero all'estero, fuoriescono dai requisiti di punibilità previsti dalla legge penale italiana". Abruzzo: Garante dei detenuti, 16 candidati e il ricorso dei Radicali per Rita Bernardini Il Centro, 20 agosto 2015 Docenti, professionisti, giornalisti e politici in corsa per il 1° settembre, ma c'è la richiesta dei Radicali. La Presidenza del consiglio regionale attende di ricevere le motivazioni con le quali i Radicali chiedono la revoca del provvedimento di esclusione della loro candidata Rita Bernardini a Garante dei detenuti abruzzesi. Ma a pochi giorni dal consiglio regionale (probabile il 1° settembre) che può decidere la nomina della carica che dovrebbe tutelare i diritti di chi è rinchiuso in qualche carcere abruzzese, di tempo ne resta poco. I Radicali oltretutto hanno annunciato anche un ricorso al Tar. E la Presidenza del consiglio, Giuseppe Di Pangrazio, fa sapere che comunque prima di decidere per un verso o per un altro deve coinvolgere l'ufficio di Presidenza e quindi l'ufficio legale. Dunque nel caso in cui tutto dovesse andare come hanno fatto intendere i Radicali, per vedere chi sarà il primo Garante dei detenuti (eletto in Consiglio con la maggioranza dei due terzi dei voti favorevoli) nella storia dell'Abruzzo, occorrerà attendere un bel po'. Ma chi sono coloro che hanno dato la disponibilità ad essere eletti e consegnato i loro curriculum al Consiglio regionale? Sono 16 i candidati e fra di essi ci sono vecchi volti della politica, docenti universitari, professionisti e anche giornalisti. Paolo Albi, ex consigliere comunale di centrodestra a Teramo e Giorgio Lovili, ex segretario generale del Comune dell'Aquila, comandano la pattuglia dei politici insieme a Manlio Madrigale quest'ultimo del centro di Civicrazia di Chieti. Fra i docenti ci sono: Gianmarco Cifaldi, professore di Sociologia all'Università d'Annunzio di Chieti-Pescara, Rosita Del Coco, docente di Diritto penitenziario a Teramo, Carlo Di Marco, prof di Scienze politiche sempre a Teramo e Antonio di Biase, docente di Diritto civile all'Università di Foggia. I giornalisti sono Francesco Lo Piccolo e Marco Manzo, mentre fra i professionisti figurano: Fabio Nieddu, ex responsabile della Croce rossa di Chieti, Ariberto Grifoni, Danilo Montinaro, psichiatra di Lanciano e anche lui di Amnistia Giustizia Libertà, Fiammetta Trisi, direttore dell'Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria di Pescara e l'avvocato Salvatore Braghini. L'elenco dei 16 è completato da Bruna Brunetti, dirigente del ministero di Giustizia, Gabriele Del Malvò, cavaliere della Repubblica ed ex componente dell'organismo di vigilanza della Sangritana. Liguria: corsi di teatro e professionali con i fondi dell'Fse dedicati all'inclusione sociale Ansa, 20 agosto 2015 Il reinserimento nella società degli ex detenuti passa dalla formazione professionale. La Regione investe e continuerà ad investire nei corsi di teatro e in corsi di formazione professionale per dare opportunità a chi esce dal carcere. Per farlo utilizzerà i fondi Fse del capitolo dedicato all'inclusione sociale, attivando un bando per corsi formativi capaci di dare uno sbocco lavorativo agli ex detenuti. "L'idea di fondo - ha detto l'assessore alla cultura e formazione Ilaria Cavo, in visita questa mattina alla casa circondariale di Marassi, a Genova - è che ci sia certezza della pena, dopo di che bisogna garantire la carcerazione, ma anche un percorso di inserimento una volta scontata la pena. Quindi è importante non solo incontrare i detenuti, ma sostenere progetti capaci di dare opportunità a queste persone". Nel carcere di Marassi c'è un teatro nuovo, alla cui costruzione hanno partecipato anche i detenuti e che presto sarà aperto a esibizioni davanti al pubblico. "I corsi teatrali - prosegue Cavo - sono un percorso formativo molto importante, durante il quale i detenuti incontrano registi e attori che arrivano da fuori". In carcere c'è voglia di dialogo, si incontrano tante storie. Tra i laboratori in cui lavorano i detenuti c'è quello dove i ragazzi producono magliette con le scritte delle canzoni; sono carcerati ma lavorano anche come dipendenti in bottega solidale. Pisa: sul suicidio in cella di Ramona Cortese raffica di interrogatori di Pietro Barghigiani Il Tirreno, 20 agosto 2015 Ramona era da due giorni sola. È entrata alle 15,30 e dopo tre quarti d'ora l'hanno trovata impiccata alla finestra. Una raffica di interrogatori per ottenere le risposte alla domanda che, prima dei genitori, sono stati gli inquirenti a porsi un secondo dopo aver ricevuto la notizia della morte in cella di una detenuta di 27 anni. Il quesito al centro dell'inchiesta sul decesso di Ramona Cortese punta a verificare eventuali ipotesi alternative a quella del suicidio che, al momento, in assenza di elementi nuovi che potrebbero emergere dall'autopsia in programma stamani, appare come la causa capace di spiegare un gesto sul quale i familiari nutrono seri dubbi. Per tutelarsi i genitori, Manola e Mario, hanno nominato l'avvocato Sabrina Pollini e un medico legale, Stefano Pierotti di Lucca, che stamani parteciperà all'autopsia condotta dal medico indicato dalla Procura, il dottor David Forni. Il primo sopralluogo svolto in cella da parte della polizia penitenziaria e dei carabinieri della scientifica non avrebbe adombrato sospetti su possibili presenze estranee accanto a Ramona nei minuti che hanno preceduto il rinvenimento del corpo. Per i familiari, invece, la 27enne pur nella sua vita complicata, non aveva mai manifestato inclinazioni suicide. "Non sapeva neanche allacciarsi le scarpe, figuriamoci fare un cappio" è il rovello dei genitori. Secondo la famiglia pur nella difficoltà di un'esistenza irrequieta, in cui non era mancata la droga, quella di togliersi la vita era un'opzione irreversibile mai presa in considerazione. Le indagini, coordinate dal procuratore reggente, Antonio Giaconi, prevedono l'acquisizione delle testimonianze delle detenute (la sezione femminile ha 13 posti letto con bagni a vista) e delle agenti della polizia penitenziaria. Andrà ricostruita la scadenza temporale di venerdì pomeriggio attraverso contatti e incontri avuti da Ramona. La giovane era entrata al Don Bosco il 31 luglio. Era ai domiciliari nella casa dei genitori a Scarlino per un'accusa di stalking e violenza sessuale presentata dalla sua ex compagna. In uno scatto d'ira aveva aggredito la mamma e il Tribunale di Grosseto aveva aggravato la misura cautelare con il carcere. Ad aprile aveva patteggiato 6 mesi per resistenza a pubblico ufficiale, minacce e danneggiamenti. Non stava passando un buon momento. E la reclusione, nell'ipotesi del suicidio, può aver avuto l'effetto di detonatore di quei malesseri che periodicamente la portavano ad essere violenta con chi le stava vicino. L'8 agosto la detenuta era stata visitata dallo psichiatra del carcere che non aveva notato anomalie di rilievo sullo stato di salute mentale della giovane. Provata sì, per la condizione in cui si trovava, ma senza trasmettere la sensazione di propositi autolesionistici. La tragedia si è consumata venerdì pomeriggio. Ramona di solito stava fuori dalla cella per le 8 ore di socialità e poi rientrava. Da due giorni era da sola dopo che la sua compagna di camera era stata scarcerata. Nella ricostruzione dei fatti nella vigilia di Ferragosto, la 27enne è entrata in cella alle 15,30. Stando a quanto risulta agli inquirenti nessuno sarebbe entrato in quei metri quadrati con la sola finestra sbarrata come fonte di luce. Alle 16,15 una agente della penitenziaria si è presentata con l'infermiera per la terapia e ha trovato la giovane, esanime, con il lenzuolo stretto attorno al collo con un nodo dozzinale. Era attaccato alle sbarre. Ramona è salita sul muretto sotto la finestra e si è lasciata andare. I piedi non toccavano il pavimento. Il decesso è stato accertato alle 17,02. Fabio Prestopino, direttore del Don Bosco, è stato subito informato della morte. "È un suicidio che mi ha colpito perché inaspettato - spiega. Nella mia carriera ho avuto modo di affrontare diversi suicidi. Ma questo mi ha turbato in maniera particolare per la fragilità della persona e, soprattutto, per la sua giovane età". Alba (Cn): Ionut aveva 29 anni ed è morto in carcere. I familiari: vogliamo la verità di Roberto Fiori La Stampa, 20 agosto 2015 La Procura ha aperto un fascicolo. C'è la denuncia ai carabinieri da parte della compagna. Caldare Ionut Marinel aveva 29 anni, origini romene e da tempo viveva a Pinerolo. Da marzo era rinchiuso nel carcere di Alba: doveva scontare una pena di oltre 4 anni per una serie di condanne. È morto la vigilia di Ferragosto, nel bagno della cella che condivideva con un altro detenuto. "Ci hanno detto che si è impiccato alle due del pomeriggio - racconta la compagna Delia -. Un gesto assurdo, che non riusciamo a comprendere. Chiedeva di essere trasferito, diceva di essere a disagio. Per questo siamo andati a presentare una denuncia ai carabinieri: chiediamo che si indaghi a fondo sulla sua morte". La Procura di Asti ha aperto un fascicolo. Cagliari: Sdr; caso Scardella, no a schiaffo morale postumo a familiari Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2015 "Il profondo dolore ancora vivo nella famiglia per la tragica morte di Aldo Scardella non merita uno schiaffo morale postumo". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento alla notizia secondo la quale il pm del "caso Scardella" ha presentato la sua candidatura a ricoprire un incarico nella Procura Generale a Cagliari. "L'istanza legittima del Magistrato richiama alla memoria una vicenda mai sopita e secondo il fratello di Aldo Scardella, Cristiano, che gli ha dedicato un libro, neppure del tutto chiarita. L'ingiusta detenzione, con 185 giorni di isolamento, di un ragazzo di 25 anni, trovato morto in cella, benché avvenuta quasi trent'anni fa, suggerisce una scelta di opportunità". "L'auspicio è che il candidato, benché a suo tempo non sia stato sanzionato disciplinarmente al contrario del Giudice Istruttore, valuti la possibilità - sottolinea Caligaris - di rivedere la sua decisione. Altrimenti l'appello al Csm non può che essere esplicito. La morte di Aldo ha portato alla modifica dell'ordinamento giudiziario, e quindi al nuovo processo con maggiori garanzie per l'indagato, ma la mamma, il fratello Cristiano e la comunità cagliaritana non hanno dimenticato quel ragazzo amante della libertà rinchiuso in una cella del carcere di Buoncammino senza sapere perché, non essendo stato neppure mai ascoltato dal Giudice Istruttore". "Un anno fa il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato una lettera ai familiari di Aldo Scardella esprimendo la propria partecipazione al loro dolore e non dimenticando di sottolineare che nei confronti di quel ragazzo non c'era stata "la massima tutela della dignità del detenuto". Parole dal significato inequivoco che - conclude la presidente di SDR - inducono a riflettere". Salerno: i Radicali "scarcerate Pasquale, il nonno dei detenuti, ha 88 anni ed è malato" La Città di Salerno, 20 agosto 2015 Radicali: "Giustizia inumana, non si manda in prigione un 88enne malato". Servono un medico legale per la perizia di parte e una centro di accoglienza. È il detenuto più anziano d'Italia, se non addirittura d'Europa. Pasquale Rocco, 88 anni, residente a Pontecagnano, è un "ospite" della Casa circondariale di Fuorni, che dunque detiene involontariamente il record del recluso più in là con gli anni della Penisola. Rocco deve scontare una pena di 8 mesi, comminata per resistenza a pubblico ufficiale. Un reato commesso circa 5 anni fa, ai danni di un agente di polizia municipale. Condannato in via definitiva gli era stato concesso il beneficio degli arresti domiciliari, per evidenti motivi d'età. Però l'esuberante vecchietto non è riuscito a restare segregato in casa, dove peraltro vive dal solo, senza potere uscire per sbrigare le proprie faccende e mantenere le sue abitudini. Quell'obbligo di stare imprigionato tra le quattro mura domestiche gli è sembrato inspiegabile. Così come irrinunciabili gli sono apparsi quei momenti trascorsi in strada, a contatto con la gente, che lui considerava un suo diritto. E, allora, noncurante degli obblighi imposti dalla sentenza, ha continuato a fare la vita di tutti i giorni, uscendo a fare la "spesa" e a comperare le sigarette, un vizio quest'ultimo che non ha abbandonato neppure in carcere. Una leggerezza che gli è costata molto cara, in quanto è stato sorpreso per ben tre volte dai carabinieri. E, inevitabilmente, è scattata l'accusa di evasione. La terza volta è stata determinate per la sua situazione attuale. Perché gli sono stati revocati i benefici e la pena è stata commutata in detenzione in carcere. E adesso Rocco è dietro le sbarre, in una cella della prima sezione, quella dei reati comuni, che divide con 3 trentenni che si occupano di lui e ne hanno premura come fosse il loro nonno. Anche perché l'88enne dice di essere affetto dal morbo di Parkinson, pure se dal carcere fanno sapere che le sue condizioni di salute sono compatibili con la detenzione. Catanzaro: detenute scrivono a Corbelli (Movimento Diritti Civili) "aiutare mamma Cocò" lametino.it, 20 agosto 2015 Un gruppo di detenute del carcere di Castrovillari ha scritto una lettera a Franco Corbelli, fondatore del Movimento Diritti Civili, chiedendogli di aiutare Antonia Iannicelli, mamma del piccolo Cocò, il bambino di 3 anni di Cassano, ucciso e bruciato insieme al nonno e ad una giovane donna marocchina, nel gennaio del 2014, ad uscire dalla prigione e a farla ricongiungere con le sue due bambine, Ilenia e Desirè, che nel mese scorso le sono state tolte dalla struttura religiosa, dove vivevano da un anno e mezzo insieme a tre cuginetti e due zii, e portate in una località protetta e segreta, fuori dalla Calabria. La lettera recapitata a Corbelli, è detto in un comunicato di Diritti civili, "rappresenta un'accorata richiesta di aiuto ma anche un atto di accusa per una giustizia non giusta. Le detenute chiedono di intervenire e di aiutare la loro compagna di cella, Antonia, ad uscire, prima che sia troppo tardi". "Antonia Iannicelli - è detto ancora nella nota di Diritti civili - è da alcuni mesi di nuovo reclusa nel carcere di Castrovillari per scontare una vecchia condanna per droga, diventata definitiva. Il marito e papà di Cocò, Nicola Campolongo, è invece agli arresti domiciliari. La mamma del piccolo Cocò prima di ritornare in carcere aveva vissuto con le sue due bambine nella struttura religiosa. È la seconda volta che scatta la solidarietà delle detenute di Castrovillari per la mamma di Cocò. Un altro appello al leader di Diritti Civili lo avevano infatti rivolto subito dopo l'uccisione del bambino, chiedendo anche in quell'occasione la scarcerazione di Antonia Iannicelli che ottenne poi i domiciliari. Oggi la nuova iniziativa di solidarietà di queste detenute". Viterbo: Giustizia Riparativa; conclusa la prima fase del progetto "Micro" Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2015 A Viterbo si è conclusa la prima fase del progetto "Micro", con la consegna a circa quaranta affidati all'Ufficio Esecuzione Penale Esterna - U.E.P.E. - di diplomi di partecipazione. I nuovi concetti di una giustizia "giusta" per i rei per le vittime per la comunità per un percorso di vera integrazione e recupero. "L'obiettivo della giustizia nel nuovo modello di giustizia riparativa e della messa alla prova" - afferma Giulio Starnini coordinatore del progetto insieme a Chiara Frontini, Maria Pia Giuffrida, tra i massimi esperti nazionali in questo settore, aterina Caldarola, Direttrice dell'Uepe - "non è quello di una giustizia vendicativa, costosa, ad alto tasso di recidiva e quindi inutile per la comunità del "sbattilo in carcere e butta la chiave" ma quella di far avviare i rei verso un percorso di comprensione dei reati commessi e del danno umano, sociale oltre che materiale ad essi correlati, il cui prezzo è molto più alto che mesi o anni di "galera". Solo se si arriva a comprendere questo sono possibili recupero e accoglienza" Ravenna: azienda di Crespellano (Bo) dona arredi area verde per colloqui con famiglie Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2015 Già consegnata una fornitura di arredi per il giardino, tra cui un gazebo con tavolo e sedie, una piscinetta e altri giochi estivi per i bambini. La direttrice, Di Lorenzo: "Favorito esercizio diritto genitorialità". La Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, in occasione dell'ultima visita effettuata alla Casa circondariale di Ravenna, ha raccolto il desiderio espresso dalla Direzione della struttura di poter allestire l'area verde dell'istituto, dedicata ai colloqui dei detenuti con le proprie famiglie. La Garante informa che l'azienda Italmetalli, di Valerio Fiori, con sede a Crespellano (Bologna) e leader in materia di recupero ambientale, nei giorni scorsi ha donato e già consegnato una fornitissima fornitura di arredi per il giardino, tra cui un gazebo con tavolo e sedie, una piscinetta e altri giochi estivi per i bambini. Desi Bruno si unisce quindi ai ringraziamenti della direttrice, Carmela Di Lorenzo, la quale sottolinea come "iniziative così pregevoli testimoniano l'impegno concreto e la solidarietà della società civile che, se adeguatamente stimolata ad affacciarsi al mondo del carcere, si rende interprete delle istanze e dei bisogni delle persone ristrette, apportando un notevole contributo al miglioramento della loro qualità della vita, favorendo anche un più sano esercizio del diritto alla genitorialità in un contesto colorato, vivace e più adatto ai bambini". "Devo ancora una volta constatare- aggiunge la Garante regionale dei detenuti- come senza l'apporto della società civile e del volontariato risulterebbe ben difficile dare completa attuazione ai principi di umanizzazione pur prevista dall'ordinamento penitenziario". Spoleto (Pg): "Miracolo a Maiano", tra teatro e sport il riscatto dei detenuti di Carlo Ceraso tuttoggi.info, 20 agosto 2015 Il regista Flamini "il prossimo spettacolo dedicato alle vittime". Pensare ai miracoli in un supercarcere di massima sicurezza come quello di Maiano di Spoleto (in provincia di Perugia), può suonare strano, quasi un paradosso. Invece basta tenere lontana l'accezione del termine "miracolo" quale intervento soprannaturale, per quella meno religiosa e più naturale di circostanza inaspettata e favorevole, capace di modificare o il corso degli eventi", e scoprire che per i miracoli, nella struttura penitenziaria umbra, "si stanno attrezzando". Merito di tanti operatori, in divisa o meno, ma soprattutto di una buona quantità di detenuti, che stanno cercando il proprio riscatto. Una sfida, quella portata avanti con encomiabile sforzo dal direttore dell'istituto Luca Sardella e dal comandante della polizia penitenziaria Marco Piersigilli, vinta ancora una volta dal professor Giorgio Flamini, regista dello spettacolo "Miracolo a Maiano" presentato nel corso dell'ultimo festival dei Due Mondi che ha richiamato più di un migliaio di spettatori e che di fatto ha chiuso la trilogia cominciata con "Affettività patetiche, Cattività affettiva" (2013) e proseguita con "Il migliore dei mondi possibili 1980-2025" (2014). Grazie alla quale è nata la compagnia "Sine nomine". L'ultimo spettacolo è stato davvero una impresa, un kolossal, se solo si pensa al coinvolgimento di oltre 150 persone che per due sere, quante sono state le rappresentazioni, hanno illuminato e fatto vivere in modo diverso il supercarcere. Una vera e propria evasione, legittima, meritata per gli ospiti della casa circondariale (una trentina i detenuti coinvolti nella rappresentazione) che frequentano i corsi scolastici curati dall'Istituto ‘Leonardi Sansi Voltà. Sono loro ad aver creato da zero lo spettacolo a cominciare dalla stesura dei testi. All'estro di Flamini modularlo, fra gli altri compiti, lungo il percorso carcerario che dalla cancellata di ingresso di Maiano portava fin dentro il campetto di calcio dove si è tenuta poi la rappresentazione: una sorta di sentiero, facile da affrontare per le gambe, impervio per l'anima. L'uso delle tecnologie più moderne, come i maxischermi issati lungo le pareti della struttura su cui scorrono i volti degli attori le cui voci recitano ora preghiere, ora frammenti di brani e poesie di celebri scrittori, o gli altoparlanti che diffondono musica sacra alternata a frastuoni, e ancora le voci e i volti da alcune finestre della direzione carceraria dove "Sante" e detenuti catturano l'attenzione, contribuisce ad annullare ogni forma di prevenzione verso la realtà, quasi stordendo lo spettatore che diventa a sua volta detenuto. "Ora le vittime" - ai miracoli Flamini crede, lui che si definisce affetto da carcerite acuta, tanta è la passione con cui svolge il ruolo di docente e regista. Architetto stimato, cultore dell'arte contemporanea, allievo fedele di Achille Bonito Oliva (ma apprezzato anche dal rivale Vittorio Sgarbi), il professore sembra trovare nell'insegnamento proprio ai detenuti la sua principale forma di libertà e soddisfazione. Lo incontriamo a un mese dalla rappresentazione, nel momento del lancio su Youtube del video dello spettacolo. "Sono soddisfatto di quanto siamo riusciti a fare tutti insieme, ognuno con il proprio ruolo, ma è evidente che senza il sostegno del Ministero di giustizia, di più del comandante Piersigilli, tutto questo non si sarebbe potuto creare. Quello che continua a succedere in questa struttura non ha eguali in nessuna parte di Italia. Io lo ritengo un vero miracolo dell'uomo". È possibile riassumere la trilogia in poche parole? "Non è facile - risponde Flamini a Tuttoggi, diciamo che coloro che si erano fatti promotori di una sorta di sciopero del crimine instaurando così un mondo privo di delitti, in Miracolo a Maiano si ritrovano a fare lo stesso sogno: tutti saranno liberi, il carcere non esiste più. Ma Pasquale (il protagonista dello spettacolo, n.d.r.), riabilitato e risarcito per l'errore giudiziario che l'ha condotto in carcere, farà una scelta provocatoria, rinunciando alla libertà, per non avere più nessuno fuori dalla struttura". Ci sarà spazio per una nuova esperienza? "Ritengo di sì, l'idea è di affrontare il ruolo, la vita, i sentimenti delle vittime. Non solo le vittime del crimine, ma anche quelle che gravitano intorno a chi lo ha commesso, alle mogli, alle madri, ai figli, troppo spesso innocenti e inerti di fronte a realtà così dure e difficili da accettare. Anche questa volta saranno i detenuti a scrivere la sceneggiatura". Resterete legati al Festival? "Questo non lo so - conclude Flamini - dovremo ragionarci sopra, l'esperienza di questi tre anni è stata entusiasmante e sono grato al direttore artistico Giorgio Ferrara e al presidente della Fondazione, il sindaco Fabrizio Cardarelli, per il loro impegno; ma forse, per esigenze organizzative, non posso escludere di dover dividere le nostre strade". IL CAST - imponente il cast che Flamini è riuscito a completare con l'inserimento di alcuni volti noti al grande pubblico. Come le attrici professioniste Diletta Masetti, Anna Leonardi e Rita Di Lernia, le ballerine professioniste Margherita Costantini, Arianna De Angelis, Sara Libori, Serena Perna, Livia Massarelli, alcuni volti del teatro locale come Miriam Carletti, Elisabetta Comastri (insegnanti e scrittrici), Mirko Peruzzi, Orsetta De Rossi, Giovanni Lanieri e Virginia Virili. Solo per citarne alcuni. Un vero e proprio ‘esercitò composto da 150 persone che hanno dato scena allo spettacolo, presentato al pubblico grazie al sostegno della Fondazione "Francesca, Valentina e Luigi Antonini". E che ha portato alla scoperta della voce di Carmine Fusco, ospite della casa di reclusione, che ha interpretato in modo fantastico e vigoroso alcune arie napoletane e siciliane. Una prova da 10 e lode che meriterebbe di essere portata all'attenzione del grande pubblico. Questo il cast completo. Detenuti/attori: Pasquale Marino, Nicola Paciullo, Roberto Di Sibbio, Mattia Esposito, Peter Osadiaye Osamede, Rustam Zagirov, Salvatore Vigorito, Fortunato Pietropaolo, Luigi Imparato, Attilio Surace, Bruno Torsi. Cantante: Carmine Fusco. Detenuti/attori e figuranti: Tarik Abobi, Luigi Albanese, Vincenzo Attanasio, Luigi Barbuto. Paolo Bertolino, Gianluca Bonvissuto, Giovanni Borrelli, Giuseppe Buonerba, Salvatore Buonerba, Michele Cannatà, Lucio Stefano Cera, Patrizio Corcione, Vincenzo De Falco, Francesco De Silvio, Vincenzo Di Maio, Mirko Di Mario, Ottavio Espinal, Roberto Esposito, Giuseppe Furina, Rosario Fusco, Antonio Galeone, Davide Granato, Leonardo Grippi, Federico Gualtieri, Francesco La Forgia, Diego Leone, Salvatore Maddiona, Luigi Mansi, Girolamo Montalto, Giovanni Mormina, Massimiliano Pasqualone, Pietro Pavone, Davide Perone, Giuseppe Principe, Biagio Rapicano Aiello, Antonio Romito, Egidio Santoro, Francesco Talia, Renato Torsi, Ciro Vitale, Carmine Zuccariello. Attori: Diletta Masetti (direttrice), Giovanni Lanieri (comandante), Mirko Peruzzi (poliziotto penitenziario), Marco Rambaldi (voce di Oscar Wilde). Danzatrici: Margherita Costantini, Arianna De Angelis, Sara Libori, Serena Perna, Livia Massarelli. Le Sante: Miriam Carletti, Elisabetta Comastri, Orsetta De Rossi, Anna Maria Giromella, Anna Leonardi, Rita Di Lernia, Diletta Masetti, Rossana Muzi, Sara Ragni, Pina Sambugaro, Cristina Spina, Virginia Virili. Le Sante bambine: Sofia Cursi, Anna Flamini, Laura Flamini. Parata con la Banda Musicale "Città di Spoleto". Coreografie: Laura Bassetta e Mariolina Maconio, Ricerche musicali e mixer Fabrizio Chiostri. Realizzazione scene: Maria Paola Buono, Giuliana Bertuccioli. Assistente prove: Sabrina Cardinali, Rita Cerioni, Giovanna Ilardi. Costumi: Gabriel Santiago. Adattamento testi: Roberta Galassi, Giorgio Flamini, Luciana Santirosi. Collaborazione degli educatori e di tutti gli agenti di polizia penitenziaria ed in particolare: Gianluca Ciamarra e Lido Paoli (disegno, luci e audio), Claudio Ranucci, Renzo Proietti Costa, John Crispoldi e Ludovico Curti (costruzione scene), Guerrino Fioretti, Massimo Meriggioli, Giuseppe Carciofi, Massimo Moriconi, Sabino Scarabottini, Sandro Cimarelli. Organizzazione logistica Edoardo Cardinali, Roberto Pallotta, Stefano Ceppi, Alessandro Lauria, Salvatore Messina, Salvatore Masala, Emiliano Pollano, Morris Reali, Cristina Sabini, Daniela Caporicci, Stefano Cipriani, Amedeo Teso. Service Opera26 Sas di Andrea Bisaccioni. Contributi foto e video: momenti CDR compagnia Sine Nomine, Tania Agostini, Kim Mariani, Irina Mattioli, Antonello Zeppadoro. Regia Giorgio Flamini, Aiuto regia: Pasquale Marino e Calogero Rocchetta. Montaggio: Luca Montescuro, Aiuto luci: Lucio Stefano Cera, Salvatore Di Mondo. Il volley in carcere - ma l'impegno dell'istituto penitenziario non si ferma solo al teatro. Di questi giorni la notizia, lanciata dall'autorevole Gazzetta dello sport, che nella struttura spoletina è nata una squadra di pallavolo guidata dai tecnici Stefano Bernardini e Claudio Storri dell Volley Spoleto. 20 i detenuti che ne fanno parte e che si allenano una volta a settimana. Il sogno, in questo caso, è di disputare gare amichevoli con altre squadre. A quanto riferisce il foglio rosa, già dalla prossima stagione potrebbe esserci la partecipazione ad un campionato federale Salvini contro il Colle sugli immigrati Il Tempo, 20 agosto 2015 Il Capo dello Stato: "Riscoprire l'accoglienza". La replica: "E la solidarietà per gli italiani?" "L'umanità che mostreremo nell'accogliere i profughi disperati, l'intelligenza con cui affronteremo i fenomeni migratori, la feremzza con cui combatteremo i trafficanti dì esseri umani saranno il modo con cui mostreremo al mondo la qualità della vita democratica. La democrazia si esporta con la cultura e con l'esempio". Lo ha scritto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio inviato al Meeting di Rimini per l'apertura di oggi. "La persona è il fondamento della comunità e dello Stato - ha continuato il Capo dello Stato - la sua libertà, il valore incomprimibile del suo essere unica e irripetibile, l'integralità dei diritti umani preesistono, come indica l'articolo 2 della nostra Costituzione, agli stessi ordinamenti". "Da questa radice è nato il Meeting - la conclusione di Mattarella - che nel tempo ha prodotto centinaia di incontri e discussioni, ha arricchito il dialogo, ha sviluppato maturazioni e amicizie. In questa esperienza si sono formati tanti giovani, è cresciuta e si è fatta adulta la vostra associazione, ne ha tratto ricchezza il pluralismo della nostra società e della nostra cultura". Il richiamo all'accoglienza esternato dall'inquilino del Quirinale ha provocato l'immediata reazione del leader della Lega Matteo Salvini, resosi già protagonista di una feroce polemica con il segretario della Cei, Monsignor Galantino: "Mattarella chiede "umanità" per i profughi. Ma un po' di umanità per gli italiani massacrati da clandestini e tasse, no?" scrive su Twitter il segretario del Carroccio. Parole, quelle di Salvini, che non sono passate inosservate frale file del Pd. "Nella questione dell'immigrazione Salvini è un problema per l'Italia, non certo mia soluzione" ha attaccato la vicesegretaria Debora Serracchiani. "Se ancora nei capi della Lega rimane traccia di senso di responsabilità, smettano di evocare situazioni apocalittiche: non siamo davanti a un'invasione nemica e l'Italia non è un Paese sottosviluppato". "Prendersela con il Capo dello Stato, con la Chiesa o con il mondo intero - ha concluso la Serracchiani - farà guadagnare a Salvini e Maroni la soddisfazione di un titolo o il brivido dell'accerchiamento, ma non aiuterà in nessun modo gli italiani a stare meglio". Mattarella, nel suo messaggio inviato al Meeting di Rimini, ha anche affrontato il tema dei rischi del terrorismo: "Il terrorismo, alimentato anche da fanatiche distorsioni della fede in Dio - ha scritto il Capo dello Stato - sta cercando di introdurre nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Africa i germi di una terza guerra mondiale". "Soprattutto in queste ore così delicate - ha detto il deputato del Partito Democratico Matteo Colaninno - mi auguro che le parole del presidente Mattarella costituiscano un punto di riferimento imprescindibile per l'azione politica che il nostro Paese deve mettere in campo per agire con ancora più efficacia contro la minacce terroristiche". "La componente immigrazione, in tal senso - ha aggiunto - è fondamentale: guai a cedere ai facili populismi che mirano solo a strumentalizzare i problemi e non a risolverli". Sull'immigrazione la dialettica possibile tra chiesa e governo di Mauro Magatti Corriere della Sera, 20 agosto 2015 La dimensione religiosa ha una visione che supera per forza i confini. Mentre la cittadinanza impone il concetto e il rispetto di limiti. Il Mediterraneo è un piccolo mare sulle cui rive guardano mondi diversi: l'Islam povero e instabile dei nostri anni e un'Europa invecchiata ma ancora benestante, alla ricerca di una propria identità. Al di là dei toni esasperati, le polemiche di questi giorni suscitate dagli interventi di papa Francesco (ripresi poi con toni accesi da mons. Galantino) sollecitano una riflessione urgente sul rapporto tra politica e religione nella sfera pubblica contemporanea. Secondo gli ultimi dati, più di 100 mila rifugiati sono arrivati in Europa nel mese di luglio. Nessuno può più sottovalutare la questione. Tanto più che l'esasperazione del fenomeno arriva dopo un ventennio in cui l'immigrazione nel Vecchio Continente è tornata a essere significativa. Politica e religione guardano i migranti con occhi diversi. Chi sono queste 100 mila persone arrivate in Europa nel mese di luglio? Per la Chiesa, esseri umani che, come tali, vanno accolti. Per lo Stato, cittadini stranieri che non hanno, di per sé, diritti, dato che sono "fuori posto". La differenza è tutt'altro che banale, perché i nostri sistemi politici sono basati su un vincolo di cittadinanza. Al di fuori dell'area che così si definisce, non c'è politica. Ma, anche se concordiamo su questa premessa (e non potremmo fare diversamente), il problema non è risolto. Negli Anni 90, l'Occidente giustificò gli interventi militari fuori dai suoi confini nazionali parlando di "ingerenza umanitaria". E non si trattava solo di un'astuzia: le democrazie occidentali hanno nel loro Dna una vocazione universalistica che le spinge oltre se stesse. Vocazione tutt'altro che facile da gestire: perché se è vero che un astratto cosmopolitismo rischia di fare molti danni, neppure ci si può accontentare di una irrealistica fissità. Il nodo è la distanza tra la "nuda vita" delle persone che arrivano (in greco è "zoè") e il riconoscimento politico di queste vite ("bios"). Distanza in un certo senso incolmabile che non va né demonizzata né negata. L'intervento della Chiesa rischia di fare confusione se invade il campo della politica. È invece utile nella misura in cui ricorda alle democrazie europee - a cominciare dai cittadini che dichiarano di riconoscersi nella fede cristiana - che vivono di questa contraddizione-tensione e, scomodandole, le sollecita verso la ricerca di soluzioni più avanzate. Ecco perché le due posizioni attorno a cui il dibattito tende a polarizzarsi (quelle vite "impolitiche" non sono affare nostro; una vita è immediatamente politica) non tengono. Per ragioni opposte. Da un lato, non esisterebbe nessuna comunità politica senza un limite. Non solo per ragioni pratiche ed economiche (costi, regole...), ma anche culturali: una comunità politica esiste solo entro una cornice di senso, una narrazione condivisa. Che richiede tempo, investimenti, pazienza, coinvolgimento per essere creata. Dall'altro, non esiste una vita politica chiusa, priva di collegamenti, connessioni, scambi - talvolta anche traumatici - con l'ambiente esterno. Da questo punto di vista, l'arrivo dei migranti - come conseguenza di una globalizzazione che aumenta l'inter-connessione senza fornire di per sé le soluzioni - ripropone in forma storicamente nuova l'antica questione dei rapporti tra politica e religione: un rapporto che in occidente è stato spesso problematico, ma anche generatore di una dialettica che ha fatto bene sia alla politica che alla religione. Dalle polemiche di questi giorni si possono trarre almeno due indicazioni. Sul piano politico, è sempre più evidente l'insufficienza dei nostri assetti istituzionali: il ritardo con cui si sta affrontando un problema di tale gravità - che può essere gestito solo grazie ad un concerto di azioni - rivela la necessità di arrivare ad una nuova e più chiara articolazione tra il piano nazionale e quello sovranazionale (a cominciare dalla Ue). Sul piano religioso, nel porre il tema, la Chiesa è giustamente sollecitata a verificare la propria capacità di praticare per prima l'ospitalità di cui parla, sviluppando nel contempo le condizioni di un dialogo con l'Islam, rispetto al quale i termini della convivenza, in Europa e non solo, rimangono ancora in larga parte da chiarire. Ma la destra non è tutta xenofoba di Renata Polverini Il Garantista, 20 agosto 2015 L'ex presidente della Regione Lazio (Fi) appoggia la chiesa e critica Renzi. Caro direttore, il dibattito in corso sugli immigrati sta assumendo i contorni di un vero e proprio scontro politico tra chi si riconosce nelle pur aspre parole di monsignor Galantino sui doveri di accoglienza e custodia del prossimo e chi - a me sembra pretestuosamente - sta cogliendo l'occasione per togliersi qualche sassolino dalle scarpe nei confronti della Chiesa. Siamo arrivati al limite, almeno per me invalicabile, di un quotidiano di centrodestra che "riassume" gli scandali della Chiesa mettendo insieme le vicende dello Ior, la pedofilia, le unioni gay e il Vatileaks come se i nostri elettori e, soprattutto, i nostri valori, avessero improvvisamente subito una mutazione genetica. Allora è bene che si sappia, e ti ringrazio per darmene l'occasione, che nell'area politica - più largamente intesa - in cui milito, non tutti la pensano nello stesso modo. L'esasperazione dei toni, l'intolleranza, la xenofobia, il cedimento agli istinti più bassi e stupidi (spariamo ai barconi, sbarchiamo in Libia, lasciamo gli immigrati affogare in mare, ecc.) rappresentano, forse, una patologia indotta dall'ignoranza (nel senso etimologico del termine) delle cause dei fenomeni migratori, ma sono soltanto l'espressione di una rumorosa minoranza che, ahimè, ci allontana sempre di più da quell'elettorato moderato che dovrebbe essere il nostro "fisiologico" punto di riferimento e di interesse. Non è vero che siamo di fronte all'alternativa respingere/accogliere gli immigrati: in realtà non siamo in condizione di fare nessuna delle due cose. Non possiamo "respingerli", infatti, non solo per il clamoroso fallimento di Frontex, ma anche perché non è facile distinguere, in mare, mentre annaspa tra le onde o invoca il lancio di un salvagente, chi fugge per motivi economici (che pure dovrebbero avere la loro "dignità") da chi scappa dalle persecuzioni e, dunque, ha diritto all'asilo politico. Soprattutto stiamo trascurando le altre vie di ingresso (Turchia, per esempio) da cui arrivano i disperati che cercano rifugio in Europa. Non possiamo nemmeno "accoglierli" tutti, come pure la Chiesa non ci "dice" ma ci insegna (!), perché, evidentemente, gli italiani da soli difficilmente possono fare più di quello che già fanno. Qui, però, entrano in ballo le responsabilità di questo Governo. Pochi sanno che esiste una Convenzione tra Ue e Stati africani, rinnovata con l'accordo sottoscritto a Cotonu (Benin) nel 2000, che regola il libero scambio commerciale tra i due Continenti imponendo, in cambio, il rispetto dei diritti umani e religiosi, le regole democratiche per l'amministrazione degli Stati e l'indipendenza della magistratura. Un'assemblea parlamentare paritetica UE-Africa, cui partecipano numerosi colleghi italiani, ha il compito di verificare il rispetto della Convenzione. La penultima volta si è riunita, a quanto mi consta nelle Isole Fiji (la Convenzione ACP comprende, infatti, Stati dei Caraibi e del Pacifico); l'ultima si sarebbe dovuta tenere agli inizi del mese di luglio a Strasburgo ma l'Italia, che era alla guida UE, ne chiese il rinvio in quanto Renzi aveva impegni parlamentari a casa sua. E sarebbe anche giusto chiedere conto al Governo ed al sempre loquace Presidente dell'Inps, Tito Boeri, di come intendano fronteggiare il fenomeno dello sfruttamento dei braccianti in Puglia dove, nelle ultime settimane, sono morti, per una fatica disumana compensata con due euro l'ora, extracomunitari ed italiani impegnati nei campi di quella che una volta definivamo Terra di Lavoro. Sto andando lì, con un gruppo di sindacalisti, a portare per quel che posso aiuto e generi di conforto, ma vorrei vedere lo Stato, invece dei volontari della Caritas e non solo, impegnarsi seriamente nel contrastare un fenomeno così fortemente legato al tema dell'immigrazione. Se anche noi siamo distratti, se riduciamo alla propaganda politica un dramma umano come quello dell'immigrazione, se non capiamo la portata e l'ampiezza epocale di questo problema, rinunciamo di fatto al nostro mandato parlamentare senza neppure apprezzare quel ruolo, un po' residuale in vero, che il Segretario della Cei ci ha "assegnato" ricordandoci che "la politica è la più alta forma di carità". Israele: annullata la detenzione di Mohamed Alan, era da 65 giorni in sciopero della fame La Presse, 20 agosto 2015 Israele ha annullato temporaneamente la detenzione amministrativa del prigioniero palestinese Mohamed Alan, in sciopero della fame da 65 giorni. La Corte Suprema ha annunciato la sua decisione dopo che un esame praticato su Alan dimostrerebbe danni cerebrali. Lo riporta il servizio digitale Ynet. La Corte ha decretato che se fosse provato che il danno fosse irreversibile, il detenuto dovrà essere rilasciato. "La condizione di Alan è pericolosa e potrebbe subire un rapido deterioramento" ha detto il direttore della comunicazione dell'ospedale Barzilai nella città israeliana di Ashkelon, Hezy Levi. Il procuratore generale Yochi Gansin, ha segnalato al tribunale che il rilascio dovrebbe essere subordinato alla dimostrazione che il danno cerebrale subito non possa permettere a Mohamed Alan di tornare alle attività per le quali è stato arrestato. Israele non ha formalmente accusato Alan di alcun reato, né ha informato il detenuto o i suoi avvocati delle prove contro di lui. La detenzione amministrativa consente la detenzione senza processo per sei mesi, rinnovabile a tempo indeterminato. Secondo gli avvocati del detenuto, le autorità israeliane gli avevano offerto un accordo per liberarlo il prossimo 3 novembre, quando sarebbe stato concluso il periodo di reclusione di 6 mesi. Alan, avvocato di 31 anni della provincia di Nablus e sospettato di essere un membro della jihad islamica, ha iniziato lo sciopero della fame da più di due mesi per protestare contro la sua detenzione amministrativa che sarebbe dovuta durare fino a novembre. Il suo caso ha generato una controversia etica in Israele, dato che sarebbe il primo prigionieri in sciopero della fame dopo l'approvazione, a fine luglio, di una legge che legalizza l'alimentazione forzata dei prigionieri, una pratica che la comunità medica considera tortura. Nell'ultima settimana i medici hanno dato sali, vitamine e acqua ad Alan per via endovenosa, ma hanno rispettato il suo desiderio di non essere sottoposto ad alimentazione forzata. Sud Africa: caso Pistorius, il ministero della giustizia blocca la scarcerazione Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2015 Il ministero della giustizia del Sudafrica ha bloccato la concessione degli arresti domiciliari per buona condotta a Oscar Pistorius dopo soli 10 mesi di cella, prevista per venerdì, in attesa che si pronunci l'apposito comitato che esamina le istanze di scarcerazione. Pistorius è stato condannato per l'uccisione della fidanzata. Intervistato poche ore fa dall'emittente eNca, Il ministro sudafricano della Giustizia, Michael Masutha aveva annunciato di aver richiesto un parere legale per sapere se ha il potere d'intervenire in materia. Un rilascio che non è legalmente sensato sarebbe un precedente negativo, aveva sottolineato il ministro. Secondo l'amministrazione penitenziaria i detenuti hanno diritto alla libertà condizionata per buona condotta dopo aver scontato un sesto della pena. E l'atleta paraolimpico riempie queste condizioni, essendo stato condannato a cinque anni di carcere per l'uccisione della fidanzata, la modella 29enne Reeva Steenkamp, il 14 febbraio 2013. Al processo, il giudice ha respinto la tesi dell'accusa di un omicidio volontario dopo una lite, accettando la versione che Pistorius avrebbe scambiato la ragazza per un intruso. Per questo l'atleta 28enne è stato riconosciuto colpevole solo di omicidio colposo. L'8 agosto le autorità penitenziarie della prigione Kgosi Mampuru II, dove è rinchiuso Pistorius, avevano annunciato l'intenzione di scarcerarlo il 21 agosto dopo il compimento di dieci mesi e mezzo di reclusione, corrispondenti ad un sesto della pena. Ma "sembra che la decisione di liberarlo sia stata presa prematuramente il 5 giugno, in un momento in cui l'accusato non poteva essere considerato in grado di ricevere questo beneficio", ha affermato un portavoce del ministero, senza dare una data in cui sarà presa la nuova decisione.