Giustizia: sempre meno Paesi praticano la pena di morte, ora aboliamo l'ergastolo! di Sergio DElia (Segretario dell'Associazione "Nessuno tocchi Caino") Il Garantista, 1 agosto 2015 Come abbiamo visto emergere dai dati del rapporto 2015 di Nessuno tocchi Caino, l'evoluzione positiva verso l'abolizione della pena di morte in atto nel mondo da oltre quindici anni, si è confermata nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015. Dalla fondazione nel 1993 di Nessuno tocchi Caino a oggi, ben 64 dei 97 Paesi membri dell'Orni allora mantenitori della pena di morte hanno smesso di praticarla, 22 dei quali lo hanno fatto dal 2006, cioè dopo il rilancio dell'iniziativa pro-moratoria al Palazzo di Vetro. Il voto del 18 dicembre 2014 dell'Assemblea generale Onu a favore della moratoria universale delle esecuzioni capitali, il quinto in sette anni e con il numero record di 117 voti favorevoli, testimonia dell'evoluzione positiva in atto nel mondo verso la fine dello Stato-Caino e il superamento del fasullo e arcaico principio dell'occhio per occhio. È stato determinato dalla scelta dialogica e creativa di Nessuno tocchi Caino e del Partito Radicale di proporre - sin dall'inizio e da soli - la moratoria delle esecuzioni come passaggio chiave per giungere all'abolizione. Ancora una volta, dobbiamo salutare con soddisfazione il fatto che negli Stati Uniti, nel maggio 2015, un altro Stato - il Nebraska - ha abolito la pena di morte, diventando il diciannovesimo Stato della federazione ad abolirla e il settimo a farlo negli ultimi otto anni. Altri sei Stati non hanno effettuato esecuzioni da almeno 10 anni e possono essere considerati "abolizionisti di fatto", mentre altri quattro hanno sospeso le esecuzioni a causa degli evidenti difetti che connotano il sistema capitale. Barack Obama ha mantenuto la moratoria di fatto delle esecuzioni federali, già di per sé rare, che dura da 12 anni, e ha anche ordinato una revisione della pratica dell'iniezione letale e sollevato "forti interrogativi" sull'equa applicazione della pena di morte sotto il profilo razziale. Il 13 luglio 2015, il presidente Usa ha ridotto le pene detentive di 46 persone condannate per reati non violenti legati alla droga, 14 dei quali all'ergastolo, perché le loro punizioni erano esagerate rispetto al crimine commesso. Obama ha finora concesso 89 commutazioni durante la sua presidenza, 76 delle quali nei confronti di condannati per reati di droga. Queste commutazioni vanno inquadrate nel tentativo dell'amministrazione americana di ridurre i costi e il sovraffollamento delle carceri federali e dare un po' di sollievo ai detenuti. Ma è solo una goccia d'acqua nel mare della popolazione detenuta negli Stati Uniti, i quali hanno meno del 5 per cento della popolazione mondiale, ma - occorre ricordarlo - quasi il 25 per cento della popolazione carceraria totale del mondo. In Cina ci sono 165 detenuti su 100.000 abitanti; negli Usa, 910 su 100.000! Il lieve aumento delle esecuzioni nel 2014 rispetto al 2013 si giustifica con l'incremento registrato in Iran e in Arabia Saudita. Invece, se si dovesse confermare il trend dei primi sei mesi del 2015, registreremmo un numero record di esecuzioni alla fine dell'anno. Ciò è dovuto in particolare all'escalation registrata in Arabia Saudita, in Egitto e ancora una volta in Iran e alla ripresa delle esecuzioni in Giordania, Pakistan e Indonesia. La "guerra alla droga" e la "guerra al terrorismo" hanno dato un contributo consistente all'escalation della pratica della pena di morte anche nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015. La campagna di Nessuno tocchi Caino per l'abolizione della pena di morte nel mondo non può non includere quella per l'abolizione della pena fino alla morte e cioè dell'ergastolo. Quella sull'ergastolo è una battaglia storica del Partito Radicale che ha avuto un'eco prodigiosa il 23 ottobre scorso quando Papa Francesco, parlando ai delegati dell'Associazione internazionale di diritto penale, l'ha definito "una pena di morte mascherata" che dovrebbe essere abolita insieme alla pena capitale. La questione dell'ergastolo sarà al centro del prossimo congresso di Nessuno tocchi Caino che si terrà entro l'anno in un penitenziario italiano dove c'è un'alta concentrazione di ergastolani, dove far confluire il maggior numero di condannati all'ergastolo, a partire dagli iscritti all'Associazione. Il progetto di Nessuno tocchi Caino sull'ergastolo si articola su due piani. Il primo, a livello scientifico, è volto a documentare gli effetti sullo stato psico-fisico del detenuto della lunga permanenza in condizioni di isolamento in attesa di un "fine pena: mai", analogamente a quanto la letteratura scientifica ha già ampiamente documentato nel caso dei condannati a morte (il cosiddetto "fenomeno del braccio della morte"). Come scrive Papa Francesco, "la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani, provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l'ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio". Il secondo, a livello giurisdizionale, mira a presentare, a partire da casi concreti, ricorsi nazionali - Corte Costituzionale - e sovranazionali - Corte europea dei diritti dell'uomo e Comitato diritti umani dell'Orni - volti a superare l'ergastolo, quantomeno nei suoi aspetti più duri: il cosiddetto "ergastolo ostativo" (sui 1.576 condannati a vita ben 1.162 sono ostativi, cioè esclusi per legge dai benefici carcerari) e l'isolamento in regime di 41 bis (circa 700 detenuti). Giustizia: Sergio Mattarella "no alla pena di morte e condizioni di vita civili nelle carceri" Aise, 1 agosto 2015 "Il rapporto di "Nessuno Tocchi Caino" sulla pena di morte nel mondo è un documento di grande valore, etico e sociale, e la presentazione annuale è un evento importante, non solo per il nostro Paese. Per questo vi ringrazio e rivolgo un caloroso saluto agli organizzatori, agli autori del rapporto 2015 e a tutti i partecipanti all'incontro di oggi". Inizia così il messaggio che il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato a Marco Pannella, Presidente dell'Associazione "Nessuno tocchi Caino" in occasione della presentazione del rapporto 2015 sulla pena di morte nel mondo. "La Costituzione italiana - ricorda Mattarella - ha stabilito che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e che devono tendere alla rieducazione del condannato. Sulla base di questi principi di umanesimo è stata abolita la pena di morte, e per l'Italia è diventato naturale orientare la propria politica estera nel senso di eliminare in ogni parte del mondo la condanna capitale e qualunque altra forma di sanzione che offenda la dignità dell'uomo, l'inviolabilità della sua vita, la possibilità di una riparazione o di un riscatto". "La tutela dei diritti inviolabili dell'uomo - sottolinea il Capo dello Stato - appartiene alla nostra civiltà giuridica, oltre che a un patrimonio morale condiviso. I governi e gli organismi internazionali sono chiamati ad attuarli con coerenza, anche quando la coerenza dei principi, talvolta, contrasta con l'emotività di un momento. Proprio per questo è decisivo che la battaglia contro la pena di morte sia sostenuta anche da associazioni della società civile, come "Nessuno Tocchi Caino". Mi congratulo con voi per la scelta di conferire il premio "Abolizionista dell'anno 2015" a Papa Francesco, il cui impegno contro la pena di morte - richiama Mattarella - è stato limpido e costante in questi primi anni di pontificato. Le sue parole costituiscono un monito, e un motivo di impegno, non solo per i cristiani ma per tutta l'umanità. Vogliamo "un mondo libero dalla pena di morte" perché, come dice Papa Bergoglio, "non si raggiungerà mai la giustizia uccidendo un essere umano". "E, mentre noi chiediamo a tutti i governanti di riflettere su queste parole, - annota il Capo dello Stato - dobbiamo fare il nostro dovere affinché il nostro sistema penale e carcerario sia conforme ai valori costituzionali, consentendo ai condannati una vita dignitosa durante la pena, riducendo i tempi dei processi, dando loro la possibilità di progettare un futuro dopo aver pagato per gli errori commessi. Rivolgo a tutti voi i migliori auguri, e un incoraggiamento a proseguire. L'impegno per una moratoria universale delle esecuzioni, anche da voi auspicato, è senz'altro da perseguire con tutte le energie politiche e diplomatiche di cui disponiamo. L'affermazione del diritto e il rispetto della persona umana - conclude - sono condizioni di pace". Giustizia: il ministro Orlando "apre" al superamento dell'ergastolo ostativo di Errico Novi Il Garantista, 1 agosto 2015 È la "morte per pena" italiana, come la chiamano i radicali, il carcere a vita spogliato di ogni diritto, sancito dall'articolo 4bis. Un ministro della giustizia, per la prima volta, lo mette in discussione. I padroni di casa non fanno convenevoli. Sergio D'Elia e Marco Pannella presentano il Rapporto 2015 di Nessuno tocchi Caino sulla pena di morte senza edulcorazioni diplomatiche. Il primo, segretario dell'associazione abolizionista oltre che dirigente radicale, dice chiaro e tondo che chi si schiera - e lo fanno tutti gli astanti compresi quelli virtuali - contro gli Stati giustizieri deve mettersi bene in testa che le esecuzioni capitali vengono inflitte il più delle volte in nome di due nemici assoluti: la droga e il terrorismo. E, come dire, la consapevolezza deve esserci prima di marciare in nome della giustizia, senza che il peso dei così suggestivi alibi adottati dal boia facciano venire tremarelle dell'ultimo minuto. Il vecchio leader radicale, a margine della conferenza stampa di via Torre Argentina, rifila la solita raffica di contumelie contro "lo stato europeo più condannato", cioè l'Italia, "per le sue condotte fuorilegge su giustizia e carceri". Ecco, nessuno dei due protagonisti della giornata si sforza di ammaliare gli ospiti, in particolare le figure istituzionali. A maggior ragione pesano e lasciano un segno, di speranza, le parole del ministro guardasigilli, Andrea Orlando. Che dopo aver rivendicato il "ruolo di protagonista" dell'Italia nella battaglia per l'abolizione delle esecuzioni capitali, arriva a quello che è il punto-chiave, almeno sul fronte interno: "Noi sosteniamo convintamente la battaglia dei Radicali e di Nessuno Tocchi Caino per l'abolizione della pena di morte e per una riflessione più complessiva sul senso della pena". Perifrasi quest'ultima, in cui si ricongiungono molte questioni, quelle che, dice Orlando, "stanno alla base degli Stati generali dell'esecuzione penale promossi dal governo". Una delle questioni però sta alla fine del percorso, e il ministro della Giustizia lo sa bene, tanto è vero che ne parla, con il tono più misurato possibile, in coda: è l'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario, il cosiddetto ergastolo ostativo, la negazione di ogni speranza di beneficio e reinserimento ad alcuni ergastolani, sulla quale "serve una discussione corale". È forse la prima volta che il tabù dei tabù, la camera oscura più impenetrabile della nostra giustizia, lascia filtrare un piccolo spiraglio di luce. A parte i Radicali, a parte l'Unione delle Camere penali, a parte Luigi Manconi e pochi altri, nessuno ha il coraggio di scoperchiare il baule delle nostre pene di morte, o "morti per pena", come recita l'impietosa sintesi di Sergio D'Elia. Si tratterebbe in fondo di riportare l'ordinamento carcerario nell'alveo della Costituzione, del principio della rieducazione del condannato come obiettivo di ogni pena. Orlando ha il merito di scommetterci, anche se sa bene di non potersi giocare la partita da solo. Aggiunge sul punto: "Mi piacerebbe cominciare a girare un film invece di dire come va a finire", che come atto di realistica umiltà è doveroso, e infine ricorda: "La delega contenuta all'interno della riforma del processo penale prevede una ricognizione, vorrei che il lavoro complessivo fosse corale e che non fosse limitato da una paura". E certo non dipende solo da lui. Ma almeno chi sparerà il solito gutturale anatema contro "i peggiori criminali rimessi in libertà" saprà di avere di fronte un interlocutore dalle idee chiare, seppur non incline all'urlo. Viene senza dubbio prima questo, nella gerarchia dei riconoscimenti, rispetto ai consensi che le tre più altre cariche dello Stato manifestano nei loro messaggi a Nessuno tocchi Caino. Sergio Mattarella, Pietro Grasso e Laura Boldrini. Capo dello Stato e presidenti delle Camere si congratulano con l'organizzazione di Sergio D'Elia ed Elisabetta Zamparutti sia per il lavoro realizzato sulla pena di morte, sia per l'attribuzione del premio "Abolizionista dell'anno 2015" a Papa Francesco. Scelta che suggella l'innegabile sintonia che il Pontefice e i radicali hanno trovato su molti temi legati alla giustizia, a cominciare da pena di morte ed ergastolo. Ebbene, il Capo dello Stato dichiara nel messaggio inviato durante la presentazione del rapporto edito da Reality book: "Mi congratulo con Nessuno tocchi Caino per la scelta di conferire il premio Abolizionista dell'anno 2015 a Papa Francesco, il cui impegno contro la pena di morte è stato limpido e costante in questi primi anni di pontificato". E il cerchio delle istituzioni civili e religiose unite contro le esecuzioni capitali si chiude alla perfezione, visto che anche il presidente del Senato Grasso auspica la definizione di un "terreno comune di dialogo e di confronto nell'ambito della comunità internazionale", proprio attraverso "il messaggio di Papa Francesco". E se la presidente della Camera non manca di aggiungere il rifiuto di quel "atto di vendetta e incomprensibile incoerenza" costituito dalle pene capitali inflitte in un "Paese democratico", con evidente allusione agli Stati Uniti, è ancora il messaggio di Mattarella e riaccendere una fiammella sulla possibile redenzione italiana. Che non richiede l'abolizione dei bracci della morte propriamente detti, ma l'addio all'ergastolo buio senza ritorno: "Dobbiamo fare il nostro dovere affinché il nostro sistema penale e carcerario sia conforme ai valori costituzionali", dando la possibilità ai condannati "di progettare un futuro dopo aver pagato per gli errori commessi". E qui c'è tutto quello che Pannella urla, lui sì, come se non fosse la Costituzione ad averlo già scolpito nelle fondamenta della Repubblica. Giustizia: approvato il ddl che esclude dal rito abbreviato i reati puniti con l'ergastolo camerepenali.it, 1 agosto 2015 In contraddizione con le iniziative governative, volte ad un progressivo ripensamento della sanzione detentiva si rischia di aumentare in modo irragionevole l'applicazione dell'ergastolo, sanzione inutile ed incostituzionale, e di deprimere lo strumento deflattivo del rito abbreviato. La Camera dei Deputati ha approvato ieri il Ddl n. 1129 in materia di giudizio abbreviato escludendo dal rito negoziale tutti i reati puniti con l'ergastolo. L'esclusione del rito abbreviato per tali reati rischia di rendere la risposta sanzionatoria inevitabilmente più lenta e meno tempestiva anche in quei casi in cui la qualità dell'indagine avrebbe consentito, su richiesta dell'imputato, una rapida definizione del processo. La stessa Commissione Canzio, all'esito di un lavoro complesso ed articolato, frutto di un lungo confronto tra esponenti dell'avvocatura, della magistratura e dell'accademia, aveva ritenuto che fosse opportuno "riequilibrare l'effetto incentivante della diminuente processuale e di limitare la sua incidenza eccessiva in caso di irrogazione di pene superiori - potenzialmente distorsiva del principio di proporzionalità", ma aveva comunque ritenuto di operare tale correttivo "mantenendo la disciplina vigente nel caso in cui questo sia punito con l'ergastolo". Così facendo, si esasperano invece le politiche securitarie in una chiave ancora una volta simbolica e demagogica, e si opera in contraddizione con le stesse iniziative governative, volte ad un progressivo ripensamento e ad una complessiva mitigazione della sanzione detentiva, con il potenziale ma inevitabile rischio di aumentare in modo irragionevole l'applicazione dell'ergastolo, sanzione inutile ed incostituzionale per la cui abolizione ci siamo da tempo impegnati e sul cui fronte si sono mobilitati molteplici movimenti delle più differenti estrazioni politiche, religiose e culturali. Giustizia: il lavoro dei detenuti è al palo, poche risorse e molti contenziosi di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2015 Al 31 dicembre 2014 i detenuti che lavorano sono pari a 14.550, appena il 27,13% del totale dei presenti. Soltanto quattro in più rispetto al 2013 (quando erano però il 23% del totale), ma soprattutto troppo pochi se si considera che "il lavoro all'interno degli istituti è ritenuto dall'ordinamento penitenziario l'elemento fondamentale per dare concreta attuazione al dettato costituzionale, che assegna alla pena una funzione rieducativa". Per vincere la noia e imparare un mestiere. A riconoscere che "nel corso degli ultimi anni le inadeguate risorse finanziarie non hanno certo consentito l'affermazione di una cultura del lavoro" nelle carceri italiane, tagliando le gambe al miraggio della rieducazione, è il ministero della Giustizia nella relazione sull'attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti appena presentata al Parlamento dal ministro Andrea Orlando. Gli sforzi ci sono, sottolinea il dicastero. I fondi per le mercedi (così vengono chiamate le retribuzioni dei detenuti, che non dovrebbero essere mai inferiori ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro per attività simili) nel 2014 sono stati pari a 55,4 milioni di euro per una popolazione carceraria di oltre 62mila persone. Con un aumento di 5,7 milioni rispetto al 2013. Ma nel 2006 sul piatto c'erano 71,4 milioni per 59.523 detenuti. Segno che nel tempo l'erosione di risorse c'è stata, eccome. Con effetti deleteri. "Il budget largamente insufficiente assegnato per la remunerazione dei detenuti lavoranti alle dipendenze dell'amministrazione - si legge nella relazione - ha condizionato in modo particolare le attività lavorative necessarie per la gestione quotidiana dell'istituto penitenziario (servizi di pulizia, cucina, manutenzione ordinaria del fabbricato ecc.) incidendo negativamente sulla qualità della vita all'interno dei penitenziari". Come se il sovraffollamento e la fatiscenza di molte strutture non bastassero. Nel 2014 i detenuti impiegati proprio nella gestione quotidiana dell'istituto sono stati 10.185 (erano 10.104 al 31 dicembre 2013). I direttori delle carceri tendono a ridurre l'orario di lavoro pro capite per far lavorare più persone, consci che "garantire opportunità lavorative ai detenuti è strategicamente fondamentale, anche per contenere e gestire i disagi, le tensioni che possono caratterizzare la vita penitenziaria". Quelli impiegati in attività di tipo industriale (falegnamerie, tipografie, tessitorie) sono stati molto meno: 542, con un budget per il sostegno delle officine e l'acquisto dei macchinari tornato finalmente ai livelli del 2010 (12,3 milioni), dopo la caduta libera del 2011-2012, quando era stato ridotto del 71 per cento. Diciannove gli istituti a cui sono state assegnate commesse di lavoro. I detenuti che lavoravano presso le colonie e le tenute agricole erano invece 277 (contro i 322 del 2013), complice un budget limitato (4,2 milioni) e il calo delle presenze nelle colonie agricole della Sardegna. Va meglio sul fronte dei detenuti che lavorano per cooperative sociali e imprese. Il merito è della legge Smuraglia (n. 193/2000), modificata successivamente nel 2013 con l'inserimento dei semiliberi tra i possibili beneficiari, che prevede benefici fiscali e contributivi per chi assume i reclusi. I detenuti assunti per i quali sono scattate le agevolazioni sono così passati dai 644 del 2003 ai 1.403 del 2014. E la legge, dall'anno scorso, può contare su una copertura annua di poco più di 10 milioni di euro, rispetto ai 4,6 stanziati annualmente fino a quel momento. C'è infine un capitolo spinoso, che la relazione mette in evidenza: dal 1994, per mancanza di fondi, le retribuzioni dei detenuti che lavorano alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria non sono mai più state aggiornate (ad almeno i due terzi di quelle previste dai contratti), come prevede esplicitamente l'articolo 22 dell'ordinamento penitenziario. Risultato: il "proliferare di ricorsi al giudice del lavoro da parte dei detenuti lavoranti, rispetto ai quali l'amministrazione è, naturalmente, sempre soccombente", dunque costretta a pagare sia le differenze retributive sia gli interessi e le spese di giudizio. L'auspicio è doppio: che si trovino "congrue soluzioni sul piano economico" per sanare il passato, ma anche che si modifichi l'articolo 22 dell'ordinamento. Il Dap sta già valutando come. Giustizia: il premier Renzi sul caso Azzollini "il Senato non è passacarte delle Procure" di Mario Stanganelli Il Messaggero, 1 agosto 2015 Dura replica alle polemiche sul no all'arresto: votare guardando ai documenti segno di maturità. E ai ribelli dem: basta caos in aula. "I senatori non sono i passacarte della procura di Trani". Secca replica di Matteo Renzi alle polemiche sorte dopo il no di palazzo Madama all'arresto del senatore Azzollini. "Avendo rispetto della Costituzione - ha precisato il premier in conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri di ieri - dico che rispettare la magistratura è rispettare le competenze dei giudici ma anche degli altri". Premesso che "sulla libertà delle persone non si vota per indicazione di partito ma guardando le carte", Renzi ha affermato che "il capogruppo pd Zanda ha visto le carte su Azzollini: si è convinto che sia una vicenda molto complicata e che il fumus persecutionis potrebbe esserci e ha lasciato libertà di coscienza. Io - ha aggiunto - non so dire come avrei votato perché non ho letto le carte, ma considero il voto un segno di maturità". Il caso Azzollini ha diviso il Pd, ma più che sulla vicenda del senatore pugliese la spaccatura tra i dem è emersa giovedì a palazzo Madama col voto dei 19 della minoranza che ha mandato giù il governo sull'articolo 4 della riforma Rai. E il segretario-premier ne ha preso spunto per un severo monito alla consistente pattuglia degli oppositori interni contro l'anarchia dei voti in aula: "Una paf te del Pd - ha detto - ha voluto dare un messaggio politico approfittando delle molte assenza. Tuttavia, quel messaggio non ci preoccupa, noi andiamo avanti più convinti e decisi di prima, abbiamo un patto con gli italiani. 1 numeri li abbiamo anche in Senato, le polemiche all'interno del Pd -ha sottolineato - andrebbero gestite dentro il gruppo, chi ha voglia di discutere lo faccia, ma poi, a meno che non ci siano voti di coscienza, nell'azione parlamentare ciascuno dovrebbe fare quanto deciso dal gruppo. Se invece si fanno mancare i voti in Aula, ne prendiamo atto, non è una cosa che ci fa paura, ma è un metodo poco rispettoso dell'idea stessa di comunità e chi lo adotta se ne deve assumere la responsabilità". Le argomentazioni di Renzi sul caso Azzollini non convincono granché gli esponenti della minoranza dem, che continuano a criticare la "scelta ipocrita" di dare libertà di coscienza e la marcia indietro rispetto al deliberato della Giunta per le Immunità del Senato favorevole alla concessione dell'arresto. Diversa, invece, l'accoglienza da parte dell'Associazione nazionale magistrati, il cui presidente Rodolfo Sabelli ha affermato: "Al di là delle parole usate, mi pare che il presidente Renzi abbia voluto distinguere ambiti, reciprocamente autonomi, di una stessa vicenda: quelli dell'autorità giudiziaria e quelli del Senato". Di qui la considerazione conciliante del capo dell'Anni che, se "questo è il senso delle parole del presidente del Consiglio, non mi pare il caso di alimentare polemiche inutili". Sulla linea della polemica si attesta invece il presidente della Giunta per le Immunità, Dario Stefano, che dopo la conferenza stampa di Renzi ha invitato il premier "a conservare equilibrio anche nei momenti di difficoltà e rispetto per l'assoluta autonomia delle Camere in materia di immunità parlamentari". Stefano, infatti, trova "particolarmente imbarazzante" che Renzi "esprima un punto di vista così affrettato e superficiale sul lavoro svolto dalla Giunta del Senato e dagli stessi componenti della sua area politica che ne hanno votato compatti un'indicazione dopo aver esaminato le carte in maniera scrupolosa". Entusiasta, al contrario, lo stesso Azzollini, per il quale quella di Renzi è "una dichiarazione esemplare, nel senso che individua esattamente il compito che le Camere hanno in questi casi". Giustizia: Renzi sul caso Azzolini, quel tabù rotto a sinistra e il segnale alla magistratura di Francesco Verderami Corriere della Sera, 1 agosto 2015 La scelta di una posizione impopolare per una parte del partito. Il ministro Orlando condivide: nelle sue parole niente di scandaloso. È una dichiarazione scontata eppure è senza precedenti. E solo questo paradosso basterebbe a descrivere lo stato in cui versano i rapporti tra il potere politico e l'ordine giudiziario. Ma ancor più paradossale è che sia toccato al capo del governo difendere le prerogative delle Camere, spiegare cioè che non sono "il passa carte delle procure". Lo stesso Renzi l'ha fatto notare dopo la sua esternazione, quando a microfoni spenti ha ricordato che "la difesa dell'autonomia del Parlamento tocca ai presidenti delle Camere". Il rispetto dei parametri istituzionali in Italia è più complicato del rispetto dei parametri di Maastricht: è da oltre venti anni che le regole del gioco in tema di giustizia sono saltate, che la consuetudine è diventata legge. Perciò ieri il presidente del Consiglio ha destato scandalo quando si è appellato a un principio costituzionale che nel tempo era stato impropriamente trasformato in un privilegio di casta. Mai era accaduto fino ad oggi, né sul finire della Prima Repubblica - quando un'intera classe dirigente chinò il capo di fronte al vento giustizialista - né all'acme dello scontro tra Silvio Berlusconi e le toghe, che produsse solo norme ad personam e non una riforma del sistema. Ieri Renzi ha chiesto invece solo "il rispetto" del Parlamento e delle sue decisioni. Il voto con cui palazzo Madama ha rigettato la richiesta di arresto del senatore centrista Antonio Azzollini poteva anche rispondere a logiche politiche, e il premier poteva anche avere (e aveva) interesse a garantirsi la stabilità di maggioranza, ma dopo le sue parole persino il capo dell'Anm Rodolfo Sabelli ha dovuto riconoscere che magistratura e Camere hanno "un diverso ruolo e un diverso ambito di valutazione". Dunque la "sentenza", del Senato va tutelata dagli attacchi. E poco importa se la sua sortita desterà polemiche: così dicendo infatti il leader del Pd ha abbattuto un tabù, assumendo una posizione impopolare soprattutto presso l'elettorato di sinistra. Ma è proprio "la fatica di spiegare", come la definisce Giorgio Tonini, che può far cadere certi pregiudizi. E secondo il senatore democratico bisognava spiegare perché - nel caso Azzollini - la richiesta di arresto avanzata dalla procura di Trani andava respinta, con argomentazioni coraggiose e al contempo gravi, sottolineando che l'ordinanza "segnava una netta invasione di campo della magistratura ai danni del Parlamento" e "metteva in discussione il principio della separazione dei poteri": "È inaccettabile che l'impianto accusatorio ruoti attorno all'approvazione di alcune norme da parte del Senato. Allora che vengano i procuratori a fare i legislatori. E poi quella citazione che sembra un atto di intimidazione". Già, per quale motivo i magistrati hanno voluto ricordare che, all'epoca, il relatore di quelle leggi era l'attuale vice presidente del Csm Giovanni Legnini? Il merito e il metodo. Sul merito il premier non si è espresso, ma nel metodo il Guardasigilli Andrea Orlando è dalla sua parte: "Non c'è niente di scandaloso nelle parole di Matteo", ha commentato con mi compagno di partito. Ed è anche al suo partito che ieri si è rivolto Renzi. Sulle questioni da codice penale finora il leader del Pd aveva oscurato tra atti intransigenti e dichiarazioni garantiste, e sulla vicenda Azzollini l'opportunità rischiava di sfociare nell'opportunismo. Non poteva tacere, dopo gli attacchi della minoranza e soprattutto dopo le parole pronunciate da Debora Serracchiani: quelle "scuse" che ad avviso della vice segretaria andavano rivolte agli elettori del Pd stavano per destabilizzare il gruppo al Senato. Per questo era intervenuto poco dopo l'altro vice segretario Lorenzo Guerini, per "coprire" il capogruppo Luigi Zanda ed impedirne la delegittimazione. Insomma, sulla giustizia c'è stato un vero e proprio scollamento nell'area del renzismo e il leader doveva intervenire per comporre la vicenda e dettare la linea. Quel voto di coscienza ha finito per indagare la coscienza di una forza che per anni ha tratto forza dal giustizialismo e lo ha - a sua volta - alimentato. Bisognerà vedere fino a che punto davvero Renzi vorrà cambiar verso al Pd. Di sicuro ha impresso una svolta nei rapporti istituzionali, invocando il rispetto del ruolo delle Camere. "Parole importanti e impegnative", secondo Renato Schifani, che ha guidato l'Assemblea di palazzo Madama e che ieri si chiedeva "come mai quelle parole le ha pronunciate il presidente del Consiglio. Mi sarei aspettato che lo avessero fatto prima i presidenti di Camera e Senato". Giustizia: tra garantisti e giustizialisti, i due partiti Pd di Stefano Cappellini Il Messaggero, 1 agosto 2015 Spesso la classe politica italiana, per giustificare la distanza che si è creata tra il Palazzo e i cittadini, si appella a un difetto di comunicazione. Non abbiamo saputo motivare, si dice. Non siamo riusciti a spiegare al Paese, si dichiara. Ma per comunicare bene un concetto, occorre averlo in testa forte e chiaro. Altrimenti il problema non è mediatico, ma tutto politico. Il caso Azzollini è emblematico di questo equivoco e, nel caso specifico, della condotta maldestra e contraddittoria in cui la politica precipita ogni qual volta maneggia questioni che riguardano la giustizia. Ieri Matteo Renzi è tornato sulla vicenda con una presa di posizione decisa per difendere il voto con cui il Senato ha detto no all'arresto del senatore Ncd: "Il Parlamento - ha detto il presidente del Consiglio - non è il passacarte delle Procure". Comunque la si pensi su Azzollini, l'affermazione di Renzi è in sé del tutto condivisibile, perché rinsalda un cardine democratico da tempo vacillante in Italia, la separazione tra i poteri dello Stato, e rivendica il diritto delle Camere, espressione diretta della sovranità popolare, a esercitare le prerogative che la Costituzione prevede. Tra queste, la facoltà di decidere sulla richiesta di arresto di un parlamentare. Le parole di Renzi sul caso Azzollini arrivano però alla fine dì un percorso nel quale il partito di cui è segretario, e che costituisce il perno della maggioranza grazie alla quale governa, ha detto tutto e il suo contrario. Prima i membri del Pd nella Giunta del Senato hanno detto sì all'arresto di Azzollini, successivamente il gruppo ha cambiato posizione sposando la linea della libertà di coscienza, quindi - dopo che questa posizione ha contribuito al prevalere dei no in Aula - il vicesegretario democratico Debora Serracchiani ha commentato l'esito invocando la necessità di "scuse agli italiani". Infine l'intervento di Renzi, quarto cambio di linea nel giro di un paio di settimane. Cosa dovrebbe pensare un cittadino di fronte a questo balletto? Non c'è nemmeno l'alibi dello scontro tra correnti: qui a esprimersi agli antipodi sono, tra gli altri, segretario e vicesegretario del Pd. Il minimo è convincersi che il responso su Azzollini sia stato contrattato su tavoli che hanno a che fare con gli equilibri che reggono la coalizione di governo. Il massimo è lasciarsi sedurre dai tribuni - di destra e di sinistra - che agitano le più sfrenate tesi giustizialiste e da anni, in nome della sacrosanta lotta alla corruzione, lavorano per demolire ogni singolo mattone dello Stato di diritto, a cominciare da una concezione della carcerazione preventiva che ne ha totalmente stravolto fini e requisiti. Una demolizione che ormai si esercita anche sul principio di realtà, dato che il no alla custodia cautelare viene automaticamente spacciato come un salvacondotto giudiziario. E il dramma è che molti non barano in questa convinzione, ne sono tragicamente persuasi. Se Renzi vuole dare seguito concreto alle dichiarazioni di principio, non può lasciare che il partito in tema di giustizia sia ostaggio degli umori di giornata e, in generale, continui a oscillare tra la difesa dello status quo e le tentazioni di collateralismo con pezzi di magistratura. Senza contare che il governo sui dossier di giustizia ha annunciato grandi riforme, ancora ferme: da quanto, solo per fare un esempio, si dà per imminente una legge per disciplinare la pubblicazione di atti giudiziari? Eppure, tra le molte e serie proposte avanzate, ce n'è anche una formulata dai procuratori capo di Roma e Milano: difficile scambiarla per una proposta punitiva per i pm. Non si tratta infatti di aprire alcuna guerra tra politica e toghe, al contrario l'obiettivo dovrebbe essere chiuderlo una volta per tutte, questo annoso conflitto, restituendo ai magistrati tutti gli strumenti adatti a perseguire i reati nel rispetto delle garanzie e al legislatore il diritto di riappropriarsi di una materia da troppi anni espunta dall'agenda di governo o inserita solo per interessi personali e di consorteria. Giustizia: quell'insopportabile isteria che si scatena alla parola "intercettazioni" di Giovanni Flora (Giunta dell'Unione delle Camere Penali Italiane) Il Garantista, 1 agosto 2015 Non appena qualcuno decide di disciplinare in modo civile la scottante materia delle intercettazioni, sottraendola al selvaggio "fai da te" che di fatto ora la governa, scoppia puntuale la polemica, con l'argomentazione suggestiva e intemperante che sembra prevalere sulla dialettica razionale. Così, accanto ad interventi misurati e giuridicamente argomentati (penso, ad esempio, a quello del professor Giovanni Maria Flick e all'avvocato Gian Domenico Caiazza, della Camera Penale di Roma) si sprecano voci allarmistiche, al limite della isteria, che gridano alla "legge bavaglio" (i media non devono sottostare ad alcun limite in nome della Libertà di stampa ?), strumentali prese di posizione della magistratura inquirente, appoggiata dalla magistratura associata, che lamenta di vedersi così privata di un formidabile strumento per accertare la commissione di gravissimi reati, specie di quelli tipici della criminalità organizzata (non ci deve essere nessuna regola a presidio della legalità dei mezzi di ricerca della prova?), interessate prese di posizione di talune forze politiche. Tutto - lo si sarà capito - in conseguenza di una proposta di legge tendente ad inserire nel sistema penale il delitto di divulgazione (si badi al solo fine recare danno alla reputazione o all'immagine di mia persona) di intercettazioni visive o sonore fraudolentemente captate. Forse bisognerebbe cercare di fare un po' di chiarezza sul tema, cominciando ad operare alcune distinzioni di fondo. Una cosa sono le intercettazioni telefoniche o ambientali e le videoregistrazioni disposto dall'Autorità Giudiziaria, come strumenti processuali di ricerca della prova; altro le intercettazioni di conversazioni o di immagini fraudolentemente captate tra persone presenti. Tra queste ultime non sarebbe poi male distinguere quelle effettuate, per così dire, "di concerto" con l'autorità giudiziaria, quelle effettuate di propria iniziativa dalla vittima o da terzi per documentare attività illecite al fine di produrle all'autorità (tra le quali meritano menzione quelle effettuate nell'ambito di attività riconducibili al sempre più raro e particolarmente meritorio giornalismo, anche televisivo, "d'inchiesta") e, infine, quelle raccolte per finalità illecite, o comunque sfruttate per finalità illecite, quale quella di recare danno alla reputazione o all'immagine della persona intercettata. Vanno poi distinte le questioni a seconda che si consideri il momento della captazione o quello della divulgazione. C'è, è innegabile, una prassi barbara che sacrifica sull'altare dell'audience o del (preteso) scoop giornalistico, le più elementari esigenze di rispetto di fondamentali principi costituzionalmente garantiti quali quello della riservatezza (non solo di chi non c'entra nulla, ma anche degli stessi indagati) e, non certo ultimo ancorché poco ricordato, dei canoni del giusto processo (e mai possibile che indagato e difensore conoscano certi atti dal giornale o dalla televisione assai prima che dalle fonti" ufficiali"?). Si tratta infatti, per lo più, di spezzoni tratti dai brogliacci, vale a dire dalle trascrizioni operate dalla polizia giudiziaria, che nemmeno il Giudice può (diciamo meglio "potrebbe") conoscere in un futuro giudizio di merito; o comunque di frammenti di file audio, il cui reale contenuto potrebbe essere chiarito da altre conversazioni non diffuse. Non solo, ma far conoscere pubblicamente i soli brani che si ritengono più interessanti per avvalorare una certa tesi (magari, chissà, quella dell'accusa), non solo pregiudica la "neutralità" cognitiva del Giudice prima del processo, ma finisce per trasformare la opinione pubblica - come bene ha scritto Francesco Petrelli, Segretario dell'Ucpi - in un pubblico senza opinione. Veniamo ora alla spinosa questione d'attualità. L ‘emendamento proposto rafforza ancor più il significato che, grazie al requisito tipizzante del dolo specifico di danno già risultava chiaro, almeno a chi abbia una minima cultura penalistica di base. Il testo lascia certo al Giudice stabilire quando ci si trovi in presenza di un corretto esercizio del diritto di cronaca, che soggiace ai ben noti limiti da tempo tracciati dalla Corte di Cassazione e potrebbe essere più convincente sostituendo l'espressione "utilizzabili" per i fini elencati con quella "destinate ad essere utilizzate" per quegli stessi tini. La scelta governativa non è del tutto arbitraria e mette in evidenza situazioni che concernono da vicino le libertà democratiche dei cittadini che sono anche quelle tipiche della vita tutti i giorni: potersi liberamente contenere nei rapporti sociali, sia quando si hanno colloqui, sia quando si incontrano persone, soprattutto tra le mura domestiche (ma non solo), senza dover vivere nel perenne timore di intrusioni clandestine ad opera di registratori o telecamere nascosti, pronti a captare fraudolentemente parole o immagini da sfruttare unicamente e cinicamente a fini denigratori. Quindi, mi raccomando, niente battute, nemmeno con quelli che si pensano amici, tutti zitti, con espressioni neutre, né tristi, né allegre. Sfingi di pietra andrà bene? Né si dica che gli onesti non hanno nulla da temere: anche gli onesti ogni tanto scherzano, anche agli onesti scappa qualche gesto "politicamente scorretto". Senza poi dimenticare che la stessa frase hi declamata dalla propaganda fascista per giustificare l'emanazione delle leggi liberticide di cui spero tutti conserviamo triste, indelebile memoria. Lettere: equità e diritti, se le sentenze prendono il posto delle leggi di Giuseppe De Rita Corriere della Sera Mentre tutti siamo presi dall'attivismo dei pubblici ministeri nelle varie trincee della lotta alla illegalità, non altrettanta attenzione diamo alla progressiva espansione del potere delle magistrature superiori e della loro giurisprudenza. Giorno dopo giorno si verifica infatti un inatteso sopravanzare della funzione giurisprudenziale sia rispetto alla funzione legislativa (una legge può essere smontata pezzo per pezzo e senza tanti riguardi) come è successo per la "famigerata" legge 40); sia rispetto alla decisionalità politica (si pensi alla affannosa rincorsa del Governo rispetto alle sentenze della Consulta sulle pensioni e della Cassazione sulle scuole cattoliche). Di questo slittamento del potere verso chi fa o usa la giurisprudenza si è accorta per prima la cosiddetta galassia radicale che da tempo preferisce combattere le proprie battaglie non su nuove leggi e tanti referendum, ma su puntuali sollecitazioni alle diverse sedi di elaborazione giurisprudenziale, dalla Corte Europea dei Diritti Umani alle Corti Supreme di alcuni Stati americani. Ma neppure i radicali avrebbero potuto prevedere che la loro intelligente strategia di minoranza sarebbe rapidamente diventata un comportamento di massa, mettendo in marcia una strisciante propensione a far valere le proprie ragioni richiamando sentenze o interpretazioni legislative precedenti. Con ciò di fatto imponendo una delicata riarticolazione dei poteri istituzionali: l'affievolimento delle funzioni politiche (legislativa e di governo) rispetto alla crescita della funzione giurisdizionale; e, all'interno di quest'ultima, la silenziosa prevalenza dei più alti riferimenti giurisprudenziali. Sarebbe però un errore prendere il problema per la coda, cioè sullo scontro potenziale fra i grandi poteri dello Stato. È più corretto invece andare alla radice profonda del fenomeno; e constatare che la vittoria della interpretazione cumulativa delle norme è strettamente legata al crescente dominio del concetto di equità. Ne abbiamo parlato tanto, troppo, di equità, fino a scontornarne il senso profondo. Ma contrariamente allo svaporarsi di altri riferimenti di moda (la trasparenza come la legalità) il concetto di equità ha trovato modo per innestarsi nel panorama istituzionale. Se la equità è ormai un comandamento sociale primario, nessuno sa però come affermarlo in concreto: non lo sa la politica, sempre intessuta di complessità e di mediazioni; non lo sanno i legislatori, sempre troppo sicuri che basti promulgare tante norme per stabilire cosa è bene e cosa è male; non lo sanno gli amministratori pubblici, prigionieri da sempre della fredda neutralità dell'atto amministrativo; non lo sanno gli opinion makers, naturaliter portati alla facile e generica strumentalizzazione del termine. Lo sanno invece bene coloro che, ispirati dal primato dell'interpretazione equitativa, costruiscono sentenza dopo sentenza un corpo di norme coerenti con le attese di equità dei singoli e delle comunità in cui vivono. Sembra che seguano l'intuizione di Rosmini ("quando la giustizia resta stretta e non garantisce l'eguaglianza ed allora occorre l'equità a ristabilire l'equilibrio") che forzava la mano per superare la configurazione tradizionale di applicazione delle leggi e per aprire la strada a una giustizia "larga" capace di almeno camminare insieme alla evoluzione complessiva del sistema. Si tratta di un fenomeno serio e complesso, certo non frutto di ambizioni corporative o individuali: sarebbe quindi utile dedicarci un po' di attenzione prima che scattino le polemiche sui pericoli del primato di una giustizia "larga" potenzialmente aperta anche ad indebite scorribande interpretative, destinate a perfezionare la legalità e la trasparenza di quella tanta giustizia "stretta" oggi maggioritaria. Lettere: Renzi e la giustizia, Giano bifronte che non sempre ci piace di Tiziana Maiolo Il Garantista, 1 agosto 2015 "I senatori non sono passacarte della procura di Trani" ricorda un po' quel "Brr, che paura!" che uscì come uno spontaneo moto dell'animo dalla gola di Matteo Renzi quando i magistrati minacciarono di scioperare contro il taglio delle loro vacanze estive. Questo è il "lato B" del Giano bifronte che alberga nel corpo del Presidente del consiglio. Ed è quello che ci piace, anche se salta fuori raramente. È una sorta di folletto birichino che pare dire "tiè" prima dì rinfilarsi nell'abito blu fatto su misura dell'abitante di palazzo Chigi. Ma ogni "lato B" ha il suo "lato A", quello che tutti vedono ogni giorno, con le sue luci e le sue ombre. Il "lato A" di Renzi ha la lingua biforcuta dell'astuzia, del calcolo, del cinismo. Quello che lo ha indotto e costruirsi una corazza sicura, imbottita di toghe e ermellini che lo proteggessero dagli spifferi delle Procure, della magistratura militante e dai professionisti dell'antimafia. Il suo capolavoro è stato la scelta del Presidente della repubblica, l'uomo in grigio che non potrà mai dargli ombra. Che cosa di meglio di un siciliano santificato dall'uccisione del fratello permane mafiosa, e oltre a tutto grato per sempre a chi lo ha messo (con un vero colpo di mano) sullo scranno del Quirinale? Quale Orlando o Crocetta o Lumia potranno mai fare l'esame del sangue per misurare il tasso di anti-mafiosità a chi ha scelto Sergio Mattarella fratello di Piersanti? Se questo è stato il suo capolavoro, non si può dire che le altre scelte di Renzi non siano state oculate. Un bel giorno scoprì un magistrato napoletano di nome Raffaele Cantone, che gli parvo interessante perché proponeva il processo telematico (capirai che originalità) e lo promosse a capo dell'Anticorruzione, ruolo che lui svolge con una certa intelligenza. Intelligenza che, senza apparire, è anche molto politica. Sarà un caso se Renzi e Cantone la pensano allo stesso modo su "Mafia capitale" e l'eventualità che il Comune di Roma possa essere sciolto per mafia? I due pensano -l'uno con motivazioni politiche, l'altro con argomenti giuridici- che la situazione romana sia gravissima, ma che occorrerebbe ben altro per arrivare a quella drastica decisione dello scioglimento per mafia che per tanti piccoli Comuni e anche per Reggio Calabria fu adottata con distrazione e firmando il provvedimento con noncuranza, quasi con la mano sinistra. Giustissimo non sciogliere Roma, quindi, visto che lo dice anche Cantone. E che le elezioni immediate sarebbero pericolose per il Pd. La terza carta giocata dal Presidente del consiglio per la propria protezione dalle toglie militanti è un po' meno raffinata delle altre due e porta il nome Hi Nicola Gratteri, il Procuratore di Roggio Calabria che strilla contro ogni possibile riformina della giustizia, dicendo che non sì potrà più fare la lotta alla mafia. Puntuale, lo ha detto anche per quel che riguarda le intercettazioni fatte da privati a tradimento e con il solo scopo di danneggiare l'interlocutore. Il dottor Gratteri sa benissimo di aver detto una bugia, ma intanto consente a Renzi di mantenere la propria reputazione di bifronte, visto che il magistrato calabrese presiede anche una Commissione per la riforma della giustizia che funge da contrappeso e da freno all'attività riformatrice del ministro guardasigilli Andrea Orlando. Così ieri abbiamo assistito al "lato B" di Matteo Renzi. Quanti giorni, o ore, passeranno prima che ci mostri dì nuovo il "lato A" con gli interventi dì Mattarella o Cantone o Gratteri? O tutti e tre? Lettere: per chiudere gli Opg commissariare subito le regioni inadempienti di Stefano Cecconi, Giovanna Del Giudice e Patrizio Gonnella (Comitato StopOpg) Ristretti Orizzonti, 1 agosto 2015 Sono passati 4 mesi dal 31 marzo 2015 e gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari non sono ancora chiusi. Più di trecento persone sono internate nei 5 Opg superstiti: Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia; e altri 240 sono gli internati nell'ex Opg di Castiglione delle Stiviere, che ha solo cambiato "targa" diventando Rems. Alle dichiarazioni del sottosegretario De Filippo che, nei giorni scorsi in Parlamento, annunciava il commissariamento delle regioni inadempienti non sono seguiti i fatti. Il commissariamento non è più rinviabile e riguarda le regioni che non hanno ancora accolto i propri pazienti, costringendoli così a restare in Opg. Ma il commissariamento deve agire per la completa attuazione della Legge 81/2014, che non si limita a far chiudere gli Opg. Tanto più dopo la sentenza della Corte Costituzionale di questi giorni che, respingendo il ricorso del Tribunale di sorveglianza di Messina, ha confermato la piena legittimità della legge 81, con motivazioni che ne sostengono lo spirito innovatore. La nuova legge infatti privilegia misure alternative anche alla detenzione nelle Rems (le strutture regionali di detenzione che stanno sostituendo gli Opg invece di diventare residuali). Il commissario può dare impulso e sostegno a Regioni e Asl che, collaborando con la Magistratura, devono costruire l'alternativa all'internamento delle persone in Opg e nelle Rems: con progetti di cura e riabilitazione individuale, potenziando i servizi territoriali di salute mentale. Come per la chiusura dei manicomi la vera sfida è costruire nelle comunità l'alternativa all'esclusione sociale. Lettere: dall'Opg di Montelupo, dove ho partecipato a "R-Estate a Merenda". di Stefano Cecconi stopopg.it, 1 agosto 2015 Quello di oggi è il terzo dei quattro appuntamenti organizzati all'interno dell'Opg "aperto al pubblico" (limite di 30 persone): per un incontro con internati e operatori, nel giardinetto abitualmente utilizzato per i colloqui. In tutto eravamo una sessantina di persone. Un incontro conviviale, semplice, in cui è stato possibile parlare con alcuni internati e soprattutto ascoltarli. Un po' di musica (buona) e un buffet (buono pure) preparato dai cuochi dell'Opg (internati ovviamente), mentre due artisti del gruppo provavano a cambiare con disegni colorati un pezzo del grigio muro di cinta. È sempre bene quando un istituzione totale, come l'Opg o il carcere, apre le porte, seppure solo per un paio d'ore. Il mondo di fuori e quello di dentro si incontrano e questo fa bene, rende tutti più umani. Così è più facile riconoscersi come persone al di là dei ruoli di ciascuno. Grazie dunque agli operatori e alla direzione dell'Opg per questa iniziativa. Certo il giardino di R-Estate a merenda non è l'Opg quotidiano che, nonostante l'umanità e la professionalità di molti operatori, continua a produrre sofferenza ed esclusione. Me lo ricordano (come sempre quando visito un Opg) gli sguardi, i movimenti e le parole degli internati. E lo confermano alla fine dell'incontro le parole di M: "le cose belle durano poco, hanno sempre un inizio e una fine" o quelle di P. che mi dice: "ora voi uscite e noi torniamo nelle celle, dalla gioia al dolore. Non le sembra falso tutto questo?". Cosa rispondere, se non che di vero c'è il nostro incontrarci, le parole sincere che ci siamo detti, il ricordo di questi momenti, il buon cibo e la buona musica. E restano i disegni colorati sul muro di cinta. Ma non basta evidentemente. L'Opg di Montelupo è ancora aperto, complice il vergognoso ritardo delle regioni che dovevano accogliere i loro pazienti (Toscana, Liguria, Sardegna e Umbria). Ma anche gli altri Opg ritardano a chiudere per la medesima ragione, ad esempio Reggio Emilia potrebbe essere chiuso subito se la regione Veneto facesse il proprio dovere. Per questo abbiamo chiesto al Governo il commissariamento immediato delle regioni inadempienti, che non hanno ancora accolto i propri pazienti, costringendoli così a restare in Opg. Ma abbiamo detto che non basta, per superare la logica manicomiale che sostiene gli Opg bisogna andare oltre le stesse Rems, strutture detentive che stanno diventando l'unica soluzione alla chiusura dei manicomi giudiziari (e che la magistratura sta riempiendo con internamenti di persone in misura provvisoria). La strada buona ce la indica la legge 81/2014, più forte dopo la sentenza della Corte Costituzionale, che ne ha confermato la piena legittimità e lo spirito innovatore. Infatti la legge 81 non si limita a far chiudere gli Opg ma va oltre come abbiamo detto con Stop Opg: "Il commissario grazie alla legge 81 può dare impulso e sostegno a Regioni e Asl che, collaborando con la Magistratura, devono costruire l'alternativa all'internamento delle persone in Opg e nelle Rems: con progetti di cura e riabilitazione individuale, potenziando i servizi territoriali di salute mentale. Come per la chiusura dei manicomi la vera sfida è costruire nelle comunità l'alternativa all'esclusione sociale". Tutto questo, seppur con altre parole, me lo sono sentito chiedere oggi a Montelupo Fiorentino. Sardegna: Osapp; criticità trasferimento detenuti, posti fissi penitenziaria in scali sardi Ansa, 1 agosto 2015 Istituire all'interno degli aeroporti di Olbia, Alghero e Cagliari posti fissi di polizia penitenziaria. Lo chiede al provveditore regionale Enrico Briglia, Roberto Melis, segretario regionale dell'Osapp, l'organizzazione sindacale autonoma della Polizia penitenziaria. All'origine della richiesta una serie di problemi legati al trasferimento dei detenuti che passano per gli aeroporti dell'isola. "Stanno giungendo lamentele dal personale di Polizia Penitenziaria in servizio nei Nuclei traduzioni per una serie di difficoltà tecnico-operative che incontrano ogni qual volta debbano fare scalo negli aeroporti della Sardegna - spiega il Melis - viene riferita l'assenza di un posto fisso che possa garantire il supporto in caso di eventi critici. Inoltre, per quanto riferito, si registrano ciclicamente difficoltà nel garantire ai detenuti la possibilità di fruire dei servizi igienici; per non parlare delle difficoltà che le scorte hanno nel fare eventualmente il passaggio di consegne tra due scorte diverse direttamente all'interno degli aeroporti di Alghero, Olbia e Cagliari". Roma: detenuta si impiccò a Rebibbia nel 2013, muore dopo due anni in stato di coma Ristretti Orizzonti, 1 agosto 2015 Sonia Pentimella è morta. La donna era in coma da 2 anni, non aveva più ripreso conoscenza dopo essersi impiccata in una cella di Rebibbia Femminile. La donna era finita in carcere nel 2006, all'età di 29 anni: fu arrestata assieme al fidanzato, Michele Salvi, per l'uccisione dello zio di lei, Pierino Cantalese. Cremona: l'inferno è a Cà del Ferro; 17 tentati suicidi, 120 atti di autolesionismo, 53 risse di Fabrizio Loffi Mondo Padano L'ultimo caso un giorno fa: un detenuto straniero, sembra romeno, si è prima lesionato il corpo e poi ha tentato il suicidio. Era convinto di dover andare in udienza quel giorno, ma era stata invece programmata per un altro. Pochi giorni prima un detenuto del carcere di Cà del Ferro è stato ricoverato in codice giallo in ospedale per un'intossicazione da farmaci assunti all'interno del penitenziario. Sembra che il detenuto, un algerino entrato nel marzo 2015 per reati connessi allo spaccio di droga e con fine pena 2017 abbia abusato del consumo di farmaci, ingerendo anche le terapie di altri detenuti e che quindi si sia intossicato. Secondo i dati forniti dal Sappe (il sindacato autonomo di polizia penitenziaria) due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%) Per tutto il mese di giugno sì sono susseguite aggressioni ai danni dei poliziotti penitenziari, il mese prima, invece, una domenica durante l'ora d'aria, è scoppiata una rissa tra un gruppo di detenuti stranieri di varie etnie che si trovavano nel cortile del nuovo padiglione, e solo il tempestivo intervento degli agenti è valso ad evitare il peggio. Ad aprile ennesimo episodio di violenza in carcere dove un detenuto ha dato fuoco a quello che aveva nella propria cella, provocando un incendio che avrebbe potuto avere risvolti drammatici. Cinque gli agenti intossicati. Prima, però, l'uomo si era lesionato il corpo ed era stato salvato dagli agenti, e curato presso l'infermeria dell'istituto penitenziario. Pochi giorni prima un detenuto di nazionalità marocchina, che sarebbe poi stato scarcerato il 30 aprile, aveva tentato il suicidio nella propria cella, impiccandosi alla sbarra della finestra mentre il suo compagno di stanza stava dormendo. Fortunatamente gli agenti di polizia penitenziaria si sono resi conto di quanto stava accadendo e sono accorsi a salvarlo, evitando il peggio. Sono solo gli ultimi episodi di cronaca dal carcere diffusi all'esterno delle sbarre. Che la casa circondariale cremonese sia una polveriera che da anni rischia di esplodere è noto. Nell'estate dello scorso anno l'episodio più clamoroso: una trentina di detenuti si erano rifiutati di fare rientro in cella e si erano armati di pezzi di vetro e spranghe per resistere alla Polizia penitenziaria che voleva riportare l'ordine. Per un soffio non vi furono ferimenti, ma l'episodio è stato eclatante anche per chi, lavorando in carcere, tutti i giorni è testimone di fatti autolesioni-stiri, tentativi dì suicidio o comunque al limite della denuncia. Solo in serata la situazione era tornata alla normalità. Nel 2014 il carcere di Cà del Ferro è stato tra gli istituti penali italiani che vantano il maggior numero di tentati suicidi con 17 episodi registrati, alla stregua di Bologna, Torino, Poggioreale, tanto per intenderci. A denunciare questa situazione, oltre ai numerosi richiami in proposito dei sindacati di polizia penitenziaria, è il dossier "Morire di carcere" pubblicato dall'associazione "Ristretti Orizzonti" che, per il 2015 ha fino ad oggi registrato 25 suicidi nelle carceri italiane, con una media di 60 casi ogni anno nelle 200 prigioni. Gli ultimi casi noti riguardano a Cremona un detenuto di 66 anni, Mario Vignoli, suicidatosi il 29 luglio 2013, un italiano di 45 anni di cui non sono state rese note le generalità il 17 febbraio 2012 ed un altro di 38 scomparso tragicamente una decina di anni fa, il 14 luglio del 2005. L'uomo, originario della provincia dì Milano, era in carcere per scontare una pena legata a reati di poco conto. Era a Cà del Ferro da pochi giorni. Per impiccarsi ha utilizzato le lenzuola, legandole alle sbarre della finestra. Le guardie in servizio di vigilanza nel penitenziario, si sono accorte del dramma quando l'uomo era ancora vivo: ormai senza sensi, ma vivo. L'allarme, e la richiesta di soccorso, sono scattati immediati. Ad intervenire è stato il personale del 118: messe in atto nella cella tutte le necessarie pratiche rianimatorie, medici e operatori hanno poi trasportato il detenuto all'ospedale Maggiore. E il carcerato è morto a metà mattina. Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia nel suo rapporto sugli eventi critici negli istituti penitenziari italiani del 2014 segnala però per la Casa circondariale di Cà del Ferro anche 20 atti di autolesionismo, 14 aggressioni e 53 colluttazioni. Bari: architetti in carcere, allo studio spazi rinnovati al servizio dei detenuti di Marina Schirinzi lecceprima.it, 1 agosto 2015 Un protocollo d'intesa firmato dall'amministrazione di Borgo San Nicola, Università del Salento e Ordine degli architetti mira alla riqualificazione delle celle e delle aree comuni, intervenendo sul comfort ed il design. "Maggiore attenzione ai bisogni delle persone private della libertà". Il regime carcerario ha inizio con un atto di violenza: la detenzione, per l'appunto, che è sinonimo di una grave perdita della libertà personale. Libertà di azione, di movimento, di iniziativa, di gestione dei ritmi e degli spazi della propria vita. Questa riflessione, formulata dalla direttrice della Casa circondariale di Lecce, Rita Monica Russo, ha dato il la ad un progetto che mira a ridurre, almeno dal punto di vista architettonico, le disfunzioni del sistema penitenziario italiano, riqualificando gli spazi delle celle e delle aree comuni. Il relativo protocollo d'intesa è stato firmato questa mattina presso il carcere di Borgo San Nicola dalla stessa direttrice, dal prorettore dell'università del Salento, Lucio Giannone e dal presidente dell'Ordine degli architetti, Ppc di Lecce, Massimo Crusi. Per la prima volta tre istituzioni molto distanti tra loro hanno deciso di collaborare, mettendo a frutto pratiche e conoscenze, al fine di offrire sollievo ai detenuti, razionalizzando gli spazi e rinnovando il design delle sale dedicate ai momenti di socializzazione. La fase progettuale sarà affidata ad un team di architetti chiamato a partecipare ad un concorso di idee; la fase preliminare si studio e ricerca ad indirizzo sociologico e pedagogico sarà compito dell'ateneo mentre l'amministrazione carceraria potrà mettere a frutto le risorse operative già esistenti al suo interno, come la falegnameria in cui si producono mobili e complementi d'arredo. Il progetto non necessita di ingenti risorse e si inserisce in un più ampio programma di interventi attuati dall'amministrazione penitenziaria per dare seguito alle indicazioni emerse dalla nota sentenza Torreggiani: è bene ricordare come la Corte dei diritti dell'uomo, con tale provvedimento, abbia multato l'Italia a causa dei trattamenti disumani e degradanti subiti dalle persone all'interno degli istituti penitenziari e che lo stesso carcere di Lecce è stato oggetto di sentenze risarcitorie nei confronti di detenuti. "Vi è necessità di intervenire all'interno delle carceri italiane e non solo per far bella figura con Strasburgo, ma venire incontro alle esigenze delle persone, compresi i lavoratori della polizia penitenziaria che subiscono le restrizioni degli spazi e potrebbero essere agevolati nei loro compiti di sorveglianza da una disposizione più funzionale degli oggetti e del mobilio", ha commentato ancora Monica Russo. L'amministrazione di Borgo San Nicola, del resto, non è rimasta con le mani in mano ed ha già messo a punto degli interventi a beneficio dei detenuti e delle guardie carcerarie: dalla pitturazione delle pareti ai regimi detentivi "aperti" che consentono una maggior libertà dei detenuti di media sicurezza, senza compromettere l'efficacia dell'azione di sorveglianza che è principalmente affidata ai mezzi elettronici. "Anche l'architettura può divenire un fulcro attorno al quale costruire un progetto per il miglioramento della qualità della vita delle persone - ha aggiunto il presidente del Ppc, Massimo Crusi: l'organizzazione ottimale degli spazi è fondamentale per chi li abita. E questo Protocollo apre una riflessione non scontata su cosa sia e come possa declinarsi il comfort anche in situazione di vita complesse e sulla funzione sociale dell'architettura nel favorire le relazioni tra le persone". Un comitato d'indirizzo, a carattere misto, seguirà l'attuazione del protocollo. In questo incontro di sinergie una ruolo importante sarà giocato dall'Università del Salento chiamata ad offrire il proprio contributo di ricerca teso a valorizzare la dignità delle persone. "Il progetto fa appello alle tre anime dell'ateneo - ha spiegato il prorettore Giannone: la didattica, la ricerca e la terza missione come impiego della conoscenza per contribuire allo sviluppo sociale, culturale ed economico del territorio. È importante che le attività accademiche dell'ateneo salentino, in questi settori, coinvolgano anche il contesto carcerario: così possiamo incrementare la responsabilità sociale del trattamento penitenziario". Lucca: la proposta del Sindaco di trasferire il carcere nell'ex manicomio di Maggiano La Nazione, 1 agosto 2015 Il carcere, nel centro storico, è inadeguato Il carcere, nel centro storico, è inadeguato. L'idea è del sindaco, Alessandro Tambellini: realizzare una maxi-carcere nell'ex ospedale psichiatrico di Maggiano, dove il grande penitenziario possa essere anche una fusione tra quello della nostra città e la casa circondariale di Pisa. Con l'obiettivo dunque di chiudere e riconvertire il San Giorgio. Per concretizzare questa ipotesi, il primo cittadino si è rivolto al ministro della Giustizia Orlando, che si sarebbe detto favorevole a impegnarsi per condurre in porto l'operazione e a verificare la possibilità di un finanziamento ad hoc. Più tiepido invece, a quanto risulta, il sindaco pisano Marco Filippica a cui la prospettive invece non piacerebbe molto. Di spostare il carcere San Giorgio dal centro storico si parla in verità da decenni, ma è la prima volta che viene proposto l'ex manicomio di Maggiano come possibile soluzione. In passato si era accennato all'eventualità di costruire un edificio ex novo nella zona di Antraccoli (parliamo delle precedenti amministrazioni guidate da Fazzi e Favilla) poi il progetto è finito nel dimenticatoio. Adesso dunque c'è questo nuovo tentativo dell'amministrazione Tambellini, per riconvertire l'ex ospedale psichiatrico abbandonato da anni, attraverso l'aiuto del Governo. Un'ipotesi, tuttavia, destinata a far discutere. Ad esempio l'opposizione in consiglio comunale. "È folle pensare di utilizzare una struttura così importante come Maggiano a commenta a caldo Marco Martinelli (Forza Italia) a per realizzarvi un carcere". Una notizia, quella legata all'ipotesi sottoposta dal sindaco al ministro Orlando, confermata da esponenti della giunta ieri mattina, durante la riunione della commissione urbanistica. Da segnalare che il dibattito sulla necessità su un carcere diverso da quello attuale è tuttavia discussa da molto tempo. Negli anni e anche recentemente, soprattutto i sindacati della polizia penitenziaria hanno più volte sottolineato come i locali non siano idonei. Quindi non solo sovraffollamento ma anche problemi legati alla qualità dell'edificio e alla sua sicurezza. restare da capire ora se l'idea dell'amministrazione Tambellini (che non sembra appunto condivisa almeno da Pisa come fusione delle due carceri della città) possa comunque andare o meno avanti, oppure se finirà per essere archiviata. Bologna: convenzione Comune-Tribunale, "messa alla prova" per punire reati meno gravi Ansa, 1 agosto 2015 Da settembre, il progetto "Empori solidali" di Case Zanardi a Bologna e la Protezione civile potranno avvalersi dell'aiuto di persone per le quali il giudice ha deciso la sospensione del processo con "messa alla prova" in lavori di pubblica utilità, possibilità consentita dalla Legge 67 del 2014 per i reati meno gravi, puniti con una pena detentiva non superiore a 4 anni. Lo prevede un accordo tra Comune e Tribunale di Bologna, presentato in conferenza stampa, che verrà sottoscritto a fine estate. L'istituto permette di evitare il processo in cambio di un trattamento che prevede lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità non retribuito. "Questa convenzione - ha spiegato l'assessore alla Protezione civile e alla Legalità, Nadia Monti, promotrice dell'accordo - arriva a conclusione di un percorso importante e innovativo. Nel 2012, ne avevamo già siglata una per i detenuti che possono essere ammessi al lavoro esterno". Presente anche il Gip di Bologna Bruno Perla, che si è detto "ottimista dal punto di vista dei risultati che l'accordo con il Comune produrrà". Saranno al massimo 20 le persone che, da settembre, saranno contemporaneamente coinvolte nei lavori di pubblica utilità, di durata non inferiore ai dieci giorni, previsti dalla riforma. Le attività andranno dallo stock delle merci nei magazzini alla distribuzione degli alimenti e alla manutenzione. Successivamente, verranno individuati ulteriori ambiti di applicazione. "Al 30 luglio 2015 - ha sottolineato il direttore dell'Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) di Bologna, Maria Paola Schiaffini - sono 124 le richieste in esecuzione in città, mentre al 31 marzo erano 52. Quelle in attesa sono 167. Una media leggermente più alta rispetto a quella nazionale, che sottolinea come il nostro territorio abbia risposto con disponibilità alla riforma". Enna: violenze su detenuto da parte dei compagni, la Procura dispone nuovi accertamenti di Josè Trovato Giornale di Sicilia, 1 agosto 2015 Mossa a sorpresa della Procura di Enna nell'inchiesta sulle violenze di gruppo e le sevizie che un detenuto trentenne del Catanese, in cella per il furto di un motorino, avrebbe subito in carcere da altri cinque detenuti, provenienti anch'essi dal territorio etneo. Il sostituto procuratore Francesco Rio ha disposto un accertamento irripetibile sulle lesioni riportate dal giovane. Un consulente del pubblico ministero dovrà andare in carcere e sottoporre a un'accurata visita la vittima. Il fine dell'atto istruttorio è verificare la compatibilità tra il racconto del giovane - che ha riferito di essere stato stuprato e rinchiuso all'interno di una cella da altri detenuti, che lo avrebbero reso vittima di indicibili abusi - e le lesioni di cui porterebbe ancora le tracce. Una vicenda inquietante. La vittima avrebbe subito in silenzio, non raccontando ciò che stava accadendo né alla Polizia Penitenziaria né alla direzione del carcere. Il caso si è scoperto solo perché sua madre, accorgendosi durante un colloquio di una grave tumefazione all'orecchio del figlio, ha dato l'allarme. A quel punto è partita l'inchiesta, il giovane è stato messo in sicurezza e gli altri detenuti allontanati da lui. Il detenuto ha spiegato di aver taciuto per paura di ritorsioni ai danni dei suoi familiari. I cinque gli avrebbero pure impedito di uscire dalla cella, nel timore che altri notassero le ferite. Sul caso, come detto, procede la Procura di Enna. Sin da subito, ovviamente, il giovane è stato sottoposto ai controlli medici, che hanno evidenziato i segni delle sevizie. Pavia: Uil-Pa; la situazione nel carcere di Vigevano sta degenerando di Umberto Zanichelli Il Giorno, 1 agosto 2015 La denuncia dei sindacati del personale dopo l'ultimo episodio, l'incendio doloso a un materasso. Una situazione sempre più preoccupante. Dopo l'ultimo episodio, avvenuto qualche giorno fa, quando un detenuto nordafricano, per protesta, ha dato fuoco al materasso della sua cella, i sindacati del personale che opera nei penitenziari chiedono maggiore attenzione. Il segretario regionale della Uil Pa, Gianluigi Madonia, ha inviato una lettera al direttore del carcere di Vigevano, Davide Pisapia e al Provveditore regionale della Lombardia Aldo Fabozzi. "Il carcere di Vigevano è diventato il palcoscenico di eventi critici - scrive Madonia - con aggressioni, risse, gesti autolesionistici e ora anche incendi dolosi. La situazione che il sindacato ha più volte denunciato, sta ora precipitando". Tra le ragioni di questi eventi, spesso pretestuose, ci sono le condizioni di scarsa vivibilità all'interno delle sezioni e le contestazioni alle regole interne. "Mancano le giuste contromisure - prosegue Madonia - ed è necessario che i dirigenti abbiano la capacità di intervenire su un doppio binario: da un lato quello dell'applicazione delle sanzioni a quei detenuti che si rendono responsabili di azioni destabilizzanti per l'ordine e la sicurezza; dall'altro riconoscere al personale che interviene in queste situazioni i propri meriti perché sia adeguatamente gratificato. In un momento di difficoltà economica generale - conclude Pier Luigi Madonia - e dunque anche nel nostro ambito, deputato alla sicurezza del Paese, in cui la dignità professionale è minata dalle scelte della politica, ci si aspetta che l'almeno l'amministrazione possa dare risalto alla professionalità per personale della polizia penitenziaria attraverso i giusti riconoscimenti e le giuste gratificazioni. Perché parliamo di quello stesso personale che, per garantire la sicurezza dei detenuti, mette a repentaglio la propria". Venezia: Uspp; detenuto tenta fuga dall'Ospedale aggredendo gli agenti che lo piantonano lavocedivenezia.it, 1 agosto 2015 A pochi giorni dall'aggressione costata cara a un Agente della Polizia Penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale di Venezia Santa Maria Maggiore, con l'amputazione di una falange letteralmente strappata a morsi da un internato e dal successivo ferimento di ben cinque Agenti, si registrano altre tensioni questa volta concretizzatesi in un vero e proprio tentativo di fuga. A darne notizia è il Segretario Provinciale del Sindacato della Polizia Penitenziaria USPP (Unione Sindacati Polizia Penitenziaria) Angelo Tartaglione. Alle 18:00 circa, di ieri 31 luglio 2015, un detenuto di origini magrebine, pare autoproclamatosi da tempo "terrorista islamico" e già protagonista nei giorni scordi di violenze gratuite nei confronti del Personale di Polizia Penitenziaria e per questo ricoverato al Rep. Psichiatria del nosocomio veneziano, ha nuovamente assalito gli Agenti che lo piantonavano tentando con calci e pugni di farsi strada ed evadere. Pronto l'intervento dei Poliziotti che con grande reattività e professionalità hanno immediatamente bloccato l'uomo impedendone la fuga. Il bilancio complessivo rimane comunque pesante. Ai due Agenti coinvolti nella colluttazione e successivamente condotti al pronto Soccorso per le cure del caso, sono state riscontrate oltre a diverse ecchimosi, sospette fratture a un dito e a un alluce. Ne avranno per qualche giorno. "Ben 11 Agenti barbaramente aggrediti in pochi giorni- tuona il Segretario Uspp Tartaglione- sono un bilancio Angelo Tartaglione sindacato polizia penitenziaria davvero pesante e inaccettabile. Occorre ridare centralità alla tutela della salute e dell'incolumità di chi, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, svolgono quotidianamente tra mille difficoltà e carenze di sistema i loro difficili compiti istituzionali. Bisognerebbe immediatamente dotare il Corpo, di sistemi di difesa non lesivi come gli spray anti-aggressione e intervenire a livello centrale promuovendo riforme strutturali dell'intero sistema penitenziario che mai come oggi appaiono urgenti ed improcrastinabili". È già stato annunciato per i prossimi giorni l'arrivo in laguna del Segretario Nazionale USPP Giuseppe Moretti che, unitamente a una Delegazione Nazionale, visiterà i luoghi di lavoro e incontrerà in assemblea il Personale di Polizia Penitenziaria. Complimenti per l'ottimo operato e solidarietà e auguri di pronta guarigione ai Poliziotti coinvolti e alle loro famiglie, sono stati inoltre espressi, dal Segr. Prov. Uspp Angelo Tartaglione. Fossombrone: Sappe; detenuto dà in escandescenza per non essere trasferito ad Ascoli Corriere Adriatico, 1 agosto 2015 Un detenuto straniero, nazionalità albanese, del carcere di Fossombrone ha dato in escandescenza. Il detenuto ha dati in escandescenza e turbato l'ordine e la sicurezza della struttura penitenziaria per protestare contro il suo trasferimento nel penitenziario di Ascoli Piceno. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Il detenuto, 29 anni e con fine pena novembre 2017, all'atto dell'espletamento delle formalità burocratiche finalizzate al suo trasferimento nel carcere di Ascoli Piceno, pretendeva di non partire ed ha iniziato a colpire i poliziotti penitenziari con violenza, tanto che uno di loro dovuto ricorrere alle cure del pronto soccorso", spiega il segretario generale del Sappe Donato Capece. "Siamo alla follia. Calci e pugni ai poliziotti da parte di un delinquente che non voleva essere trasferito in un altro carcere. Ma ci rendiamo conto? Questi inaccettabili atti di violenza andrebbero puniti con estrema severità: non sono più tollerabili". Il Sappe rinnova al Ministro della Giustizia Orlando e ai vertici dell'Amministrazione centrale la richiesta "di dotare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria di strumenti di tutela efficaci, come può essere lo spray anti aggressione già assegnato - in fase sperimentale - a Polizia di Stato e Carabinieri. Sono decine e decine le aggressioni subite da poliziotti penitenziari in carcere dall'inizio dell'anno. Volterra (Pi): teatro-carcere, Shakespeare nella Fortezza di Gianfranco Capitta Il Manifesto, 1 agosto 2015 A teatro. Per la ventisettesima estate la Fortezza medicea di Volterra cessa di essere un carcere e mostra al pubblico il lavoro che Armando Punzo conduce con i detenuti. Sono ormai 27 le estati (e gli spettacoli) cui Armando Punzo invita il pubblico esterno nel cortile infuocato dell'ora d'aria nella Fortezza di Volterra, il Mastio Mediceo, il supercarcere insomma. E questi anni traspaiono con forza a seguire il diagramma di tutti quei titoli. La prima volta fu un pezzo "popolare" e affabulatorio, anche se non privo di necessari virtuosismi: La Gatta Cenerentola di De Simone. Attraverso la visita, lungo tutti questi anni, alle scritture sempre più complesse di Brecht come di Genet, si arriva quest'anno a un vero "saggio", per quanto visionario e onnivoro, che nasce dall'insieme dei titoli del massimo drammaturgo della tradizione occidentale, William Shakespeare. Con la sfrontatezza amorosa dell'amante fedele, proprio Shakespeare Know Well afferma il titolo. E pare proprio, a stare a quanto racconta Armando Punzo, fondatore e ispiratore della Compagnia della Fortezza, nonché regista e figura scenicamente sempre più centrale degli spettacoli, tutti i detenuti attori hanno letto con lui l'insieme dei 39 testi shakespeariani, nei mesi scorsi. Poi, hanno deciso di comune accordo di tagliar via tutto ciò che era "narrativo", ovvero storie, vicende, parentele e dinastie, per tenere, e mostrare e gridare, solo quanto era parso loro significativo, essenziale, evocativo, forse anche paradossale, di quella scrittura torrenziale, sebben così drammaturgicamente "circostanziata". Lo spettacolo non ambisce alla chiarezza, che infatti non ha in senso tradizionale, ma punta dritto alla conquista dello spettatore, alle sue emozioni, evocazioni, ricordi, perfino quando non riesce a rintracciarne la fonte specifica, o il personaggio che quella certa cosa dice. È un gioco potente e visionario, che movimenta l'assistervi, così come l'agire di guerrieri e prelati, nobildonne e dignitari, in abiti barocchi o anonimi vestiti di oggi. E poi cortei di creature inquietanti, la cui gorgiera è fatta di un libro o di qualche altro oggetto, e il corpo fasciato da grossi tessuti (ora bianchi ora neri) dal lungo strascico che cadenza i tempi comuni di marcia. L'unico personaggio sicuramente riconoscibile è Desdemona, per via di quel fazzoletto traditore che la governa e la condiziona. Tutti gli altri son fantasmi e apparizioni di più complessa individuazione, anche se di non minore forza e suggestione. Con un elemento nuovo, sorprendente nel contesto carcerario: l'aumentato numero di presenze femminili, evidentemente esterne alla Fortezza. La scena è una vera foresta, ma non il classico boschetto pronubo di tanti Shakespeare, ma un recinto di croci e di scale. Croci spesso storte, di ogni grandezza e foggia e condizioni: quasi un reperto del medioevo da cui non si sa come uscire, nonostante i tentativi ripetutamente intrapresi di inerpicarsi sui pioli puntati verso il cielo. Al centro troneggia un grande letto, luogo di congiure e tradimenti ed espedienti, buono a tutto meno che al riposo e all'amore: piuttosto piattaforma, per quanto poco affidabile, di tutte quelle umanità in continuo conflitto. Un tavolo con molti bicchieri diversamente pieni: a un tratto, assieme a dei bambini improvvisamente apparsi, Andrea Salvadori (che non ha solo composto le musiche, ma per tutto il tempo alle tastiere ha condotto un acido controcanto alle azioni) ne ricava un altro brano di partitura, su quelle acque più infide delle parole. Come suoni sinistri e cadenze ferrate danno, con l'ausilio dell'elettronica, il cadere e il muoversi delle molte stoviglie metalliche. Mentre l'azione va avanti, si individuano più facilmente Amleto (non i suoi "dubbi", ma il suo rapporto col teschio e i becchini); e anche della Tempesta si individuano ampie folate. Alla fine, il balcanico Ivan (l'attore rivelazione di questa edizione) dritto sulla scala quasi a un passo dal cielo che sembra toccare col dito, grida la sua suggestione morale, mixando Giulio Cesare e Enrico IV. Il pubblico resta quasi interdetto: se non ha riconosciuto il "suo" Shakespeare, ora "sa bene" però che ne può esistere un altro, misterioso e forse anche minaccioso. I suoi contorni sbiadiscono da un testo all'altro, o meglio trascolorano. E su ogni grado di intensità, l'autore inglese è artefice di magie e profondità, di scherzi crudeli e di verità ineluttabili. Armando Punzo ha presentato la performance come uno studio, secondo il metodo abituale, promettendo per anni futuri la versione definitiva dello spettacolo. Ma è difficile immaginarne variazioni perfettibili: a ritoccarlo, lo spettacolo visto, rischia di perdere qualche elemento di forza (magari quella struggente Paloma che a un tratto esce con grande cuore dall'amplificazione….). Ma di fronte all'entusiasmo che anche questa volta la compagnia della Fortezza è riuscita a suscitare, è arrivata dal ministero della cultura la "doccia fredda" del finanziamento sempre più risibile (come del resto è toccato l'annullamento completo a Riccardo Caporossi e all'Organizzazione Scenario, tra i molti). Che la conclamata legge di riforma del teatro fosse un bluff, e di difficile gestione, era stato chiaro da subito. Non se ne poteva render conto l'attuale ministro, che sembra veleggiare solo in base ai propri, discutibili, "gusti" che non esita a proclamare, da quelli sui festival fino al Colosseo come scenografia televisiva. Deve saperne qualcosa di più l'attuale direttore generale che in quella legge e quei regolamenti ha rimesso più volte le mani. Ma purtroppo proprio domani scade, e passa a nuovo incarico, commissario straordinario sull'area di Bagnoli. Con tanti auguri al golfo di Napoli. Livorno: Pianosa, da colonia penale a isola turistica di Sauro Tavella lavitadelpopolo.it, 1 agosto 2015 Una sezione speciale del carcere nel tempo è stata riservata ai reati politici in epoca fascista e ospitò Sandro Pertini. Sono, per un caso fortuito o per una sorta di coincidenza non cercata, nell'isola di Pianosa. Qui, quando il fuoco incrociato di terrorismo, mafia e movimenti destabilizzanti l'Italia dei conosciuti "anni di piombo", erano di casa nomi amaramente conosciuti che l'informazione faceva scorrere a testi e immagini nei telegiornali. Sempre qui, come in altre isole dell'Arcipelago toscano - Capraia e Gorgona - fin da metà ottocento era stato individuato un sito adatto per una Colonia Penale Agricola (ma anche Agrippa, nipote di Augusto venne qui relegato). Le troppe parole sprecate sui temi della giustizia-pena-reclusione-riabilitazione, gironzolando per le diramazioni della rimanenti vestigia dell'ex Colonia che ora ospita pochi detenuti in regime di semi libertà, assumono valori quasi incoerenti. Bisogna calpestare il suolo scritto da troppo dolore per riuscire, ma solo un po', a capacitarsi di come l'uomo riesca ad infliggere tanto dolore e a subirne altrettanto. Molti sapranno di una sezione speciale che nel tempo è stata riservata ai reati politici in epoca fascista e che ospitò il già presidente della Repubblica Sandro Pertini. Fin qui la curiosità. La stessa che si incontra quando si arriva: l'occhio rimane scioccato da quello che è conosciuto come il muro del Generale Dalla Chiesa costruito sul finire degli anni settanta. Una, l'ennesima prova di forza di uno Stato che le ha pensate tutte nella sua lotta tragica contro i delitti più efferati, fino a pensare al 41bis, quell'articolo del Codice Penale che consegnava i colpevoli alla sorveglianza più stretta. Mentre ho percorso i viali segnati da muretti a secco, alcuni diroccati, altri in restauro, mi sono chiesto quanto sterminato e multiforme è il male e quanto altrettanto feroce e sibillino è l'uomo che si ingegna per difendere i singoli e la società tutta dagli artigli velenosi delle menti crudeli. Andando qua e là si incontra il caseificio, un'enorme stalla per ovini e caprini. Il "pollaio razionale" per l'allevamento delle galline, la lavanderia, le officine, la fornace e una misteriosa Torre di Babele fatta a gradoni di sassi -l'interpretazione simbolica, ma qui tutto è simbolo, è che qui le persone costruiscono la loro sfida al tutto e tutto si rivela solo un tentativo. Si intravvedono anche alcune case isolate dei cosiddetti sconsegnati, cioè quei detenuti che per buona condotta si sono guadagnati un proprio spazio autonomo con un'area per l'orto, il pozzo, per una vita in compiuta autonomia. E come non citare un sito che già al pensiero genera malinconia e silenzio non fosse altro per quanto è scritto nelle colonne di ingresso: "Eravamo come voi siete, sarete come noi siamo - qui ha fine la giustizia degli uomini e inizia la giustizia di Dio". È il cimitero dei cronici o dei detenuti, molti dei quali morirono di tubercolosi. E sul frontespizio della Cappella la scritta Pax. Si commenta da sé. Tra le sterpaglie di tombe dimenticate di poveri cristi cui avrei voluto dare un nome e un estremo gesto di pietà, la sola che resta dopo tanto sofferenza tacita e sconosciuta. Ora Pianosa è terra di visita turistica. Una perla super protetta come riserva ambientale integrale. Ora le stagioni si alternano come il migrare degli uccelli e la fauna che alberga e nidifica libera. Ora il silenzio e la disciplina governano le presenze discrete che sostano per alcune ore tra spiaggia e paese e poi prima del tramonto la barca riporta tutti ai luoghi di provenienza. Soli si rimane volentieri e viene da pensare al suggerimento del filosofo Kant: "due cose riempiono l'animo di ammirazione venerazione sempre nuova e crescente quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me". Qui ci sono ambedue, ed è quanto basta per stare bene e vivere in pienezza anche qui. Napoli: Toghe d'Estate, gli avvocati napoletani in campo per i minori di Nisida di Felice Massimo de Falco julienews.it, 1 agosto 2015 Nella suggestiva cornice dell'isola di Nisida, gli avvocati napoletani scendono in campo a sostegno dei ragazzi minori internati nel penitenziario che sorge nell'area flegrea. La serata, svolta all'insegna dell'intelligente e sobria mondanità, è stata occasione per raccogliere fondi da destinare alla creazione di un laboratorio musicale. Il titolo, eloquente, "Toghe d'Estate", è stato scelto dall'organizzatore dell'evento, Gennaro Demetrio Paipais, presidente dei giovani penalisti napoletani, col patrocinio dell'ordine degli avvocati di Napoli rappresentato dall'Avv. Roberto Fiore e del Comune di Napoli. Ricche le adesioni delle altre sigle associative che compongono la classe forense partenopea. I fondi raccolti serviranno a dotare il laboratorio di musica di strumenti musicali e di tutte le attrezzature necessarie . La musica, appunto, è un potente anelito per la rinascita morale di giovanissimi segnati da storie personali drammatiche. Una missione che ha mosso la sensibilità di importanti artisti partenopei come Ida Rendano, Tony Tammaro e Gigi D'Alessio, che ha voluto regalare la chitarra autograta, con la quale ha celebrato tanti dei suoi successi in giro per l'Europa. Immigrazione: pronta la legge sullo ius soli, cittadinanza più facile Il Tempo, 1 agosto 2015 Lo ius soli sbarca in commissione Affari costituzionale. I minori stranieri nati in Italia o residenti da anni nel nostro Paese - prevede il disegno di legge - potranno ottenere la cittadinanza italiana se rispettano alcune condizioni, quali ad esempio la frequenza scolastica o la residenza da più anni da parte di uno dei genitori. Il ddl è approdato ieri in commissione Affari costituzionali della Camera. Il testo riprende l'iter già cominciato durante il governo Letta e mira a riunire alcuni punti dei 29 progetti di legge sullo ius soli già depositati dall'inizio della legislatura. Il testo è stato presentato dalla relatrice, la deputata del Pd Marilena Fabbri. Rispetto allo ius soli classico (quello adottato negli Stati Uniti e in molti paesi del Sudamerica che attribuisce la cittadinanza del Paese a chi nasce sul suolo nazionale), lo ius soli "soft" pone alcune condizioni all'ottenimento della cittadinanza. I bambini figli di stranieri che nascono in Italia acquisiscono la cittadinanza se almeno uno dei due genitori "sia residente legalmente in Italia, senza interruzioni, da almeno cinque anni, antecedenti alla nascita" o anche se uno dei due genitori, benché straniero, "sia nato in Italia e ivi risieda legalmente, senza interruzioni, da almeno un anno". La cittadinanza italiana verrebbe assegnata automaticamente al momento dell'iscrizione alla anagrafe. I minori nati in Italia che non rispondono a questi requisiti e quelli arrivati in Italia sotto i 12 anni possono ottenere la cittadinanza se hanno "frequentato regolarmente, per almeno cinque anni nel territorio nazionale istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale idonei al conseguimento di una qualifica professionale". I ragazzi arrivati in Italia tra i 12 e i 18 anni potranno ottenere la cittadinanza dopo aver risieduto legalmente in Italia per almeno sei anni e aver frequentato "un ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo conclusivo". Il testo unificato - spiega il presidente della commissione Andrea Mazziotti (Scelta Civica) - sarà adottato come testo base dalla Affari costituzionali martedì prossimo. Si registrano, intanto, le dimissioni della seconda relatrice del provvedimento Annagrazia Calabria, giovane deputata di Forza Italia: "Ritengo - spiega - impossibile condividere il testo base elaborato. Per questo ho deciso di rimettere il mio ruolo di correlatore del provvedimento e di proseguire, dall'opposizione". La ripresa dei lavori è prevista ad inizio settembre. Per la maggioranza di governo si preannuncia essere un autunno particolarmente caldo. Sul tema dello ius soli, infatti, in Parlamento si rischiano smottamenti, anche perché il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha più volte annunciato che intende incardinare in Parlamento anche il disegno di legge sulle unioni civili. Entrambi i temi sono materie da trattare con delicatezza, visto che il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano ha già dato segnali d'insofferenza. I delicati equilibri in Senato, con la maggioranza alle prese con numeri risicati, potrebbero saltare su provvedimenti che difficilmente troveranno un'ampia convergenza e sui quali sia i centristi alfaniani sia il nuovo gruppo parlamentare creato da Denis Verdini potrebbero fare le barricate. Creando più d'un grattacapo al premier. Pena di morte: oltre 2.200 esecuzioni da inizio anno, Cina e Iran i paesi "boia" Adnkronos, 1 agosto 2015 Rapporto 2015 di Nessuno tocchi Caino, nel 2014 eseguite 3.576 condanne. Nonostante siano scesi i paesi che mantengono in vigore la pena di morte, sono ancora tante le esecuzioni praticate nell'ultimo anno nel mondo con il triste primato di Cina e Iran. L'ultimo rapporto di Nessuno tocchi Caino evidenzia una progressiva riduzione dei paesi mantenitori della pena di morte: al 30 giugno 2015 sono arrivati a 37 (31 sono paesi dittatoriali) dai 54 di dieci anni fa. Le esecuzioni sono state almeno 3.576 nel 2014 in 22 paesi, aumentate in un anno (nel 2013 erano 3.511) per l'incremento registrato in Iran e in Arabia Saudita. Mentre nel primo semestre dell'anno 2.229 esecuzioni sono state effettuate in 17 paesi e territori. Ancora una volta, l'Asia si conferma essere il continente dove si pratica la quasi totalità della pena di morte nel mondo. Se stimiamo che in Cina vi sono state almeno 2.400 esecuzioni (più o meno come nel 2013 e circa 600 in meno rispetto al 2012), il dato complessivo del 2014 nel continente asiatico corrisponde ad almeno 3.471 esecuzioni (il 97%), un po' di più rispetto al 2013 quando erano state almeno 3.415. Nei primi sei mesi del 2015, nel continente asiatico sono state effettuate almeno 2.182 esecuzioni (il 98%) in 13 Paesi. Nel 2014 l'Iran ne ha effettuate almeno 800; l'Arabia Saudita almeno 88. Nel 2015 è il Pakistan (ha revocato la moratoria sulla pena di morte a fine 2014) a conquistare il terzo posto con 174 esecuzioni capitali, preceduto da Iran (657) e da Cina (1200). La Cina effettua il maggior numero di esecuzioni ogni anno, ma l'Iran mette a morte più persone pro capite di qualsiasi altro Paese: nei due anni di presidenza di Hassan Rouhani (dall'1 luglio 2013 al 30 giugno 2015), sono stati giustiziati quasi 2.000 prigionieri. Le Americhe sarebbero un continente praticamente libero dalla pena di morte, se non fosse per gli Stati Uniti, l'unico paese del continente che ha compiuto esecuzioni nel 2014 (33) e nei primi sei mesi del 2015 (17). In Africa, nel 2014, la pena di morte è stata praticata in 4 Paesi (1 in meno rispetto al 2013) e sono state registrate almeno 67 esecuzioni: Sudan (almeno 23), Somalia (almeno 20), Egitto (almeno 15) e Guinea Equatoriale (9). Nei primi sei mesi del 2015, sono state effettuate almeno 30 esecuzioni in 3 Paesi del continente: Somalia (almeno 14), Egitto (almeno 12) e Sudan (almeno 4). Nel 2013 erano state almeno 57. In un anno e mezzo non si sono registrate esecuzioni in Nigeria, Botswana, Gambia che le avevano effettuate nel 2013. Il 24 aprile 2015, il Gruppo di Lavoro sulla Pena di morte della Commissione Africana per i Diritti Umani e dei Popoli (Achpr) ha adottato la bozza di Protocollo alla Carta Africana dei Diritti Umani e dei Popoli per l'Abolizione della Pena di morte in Africa. La bozza di Protocollo è ora al vaglio dell'Unione Africana. In Europa, l'unica eccezione in un continente altrimenti totalmente libero dalla pena di morte è rappresentata dalla Bielorussia, un Paese che negli ultimi anni ha continuato a giustiziare suoi cittadini. Almeno 3 esecuzioni sono state effettuate nel 2014 (nessuna l'anno precedente), mentre non risulta ne siano state effettuate quest'anno. Per quanto riguarda il resto dell'Europa, tutti gli altri Paesi l'hanno abolita in tutte le circostanze, mentre la Russia rispetta una moratoria legale delle esecuzioni. I paesi o territori che hanno deciso di abolire la pena di morte per legge o in pratica sono oggi 161. Di questi 103 sono totalmente abolizionisti; 6 sono gli abolizionisti per crimini ordinari; 6 quelli che attuano una moratoria delle esecuzioni; 46 gli abolizionisti di fatto, che non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni o che si sono impegnati internazionalmente ad abolire la pena di morte. In un anno e mezzo altri 9 paesi hanno rafforzato ulteriormente il fronte a vario titolo abolizionista: Costa d'Avorio, Figi, Madagascar e Suriname hanno abolito totalmente la pena di morte; Gabon ed El Salvador hanno aderito al Secondo Protocollo Opzionale al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici per l'abolizione della pena di morte; il Libano ha superato i dieci anni senza effettuare esecuzioni e quindi può essere considerato un abolizionista di fatto; la Guinea Equatoriale ha stabilito una moratoria legale della pena di morte. Negli Stati Uniti, nel maggio 2015 il Nebraska è diventato il diciannovesimo Stato della federazione ad abolire la pena di morte e il settimo a farlo negli ultimi otto anni. In altri quattro Stati - Washington, Colorado, Pennsylvania e Oregon - i Governatori hanno sospeso le esecuzioni a causa degli evidenti difetti che connotano il sistema capitale. In 18 mesi ulteriori passi politici o legislativi verso l'abolizione o la moratoria di fatto della pena capitale si sono verificati in 41 Paesi. Burkina Faso, Ciad, Comore, Ghana, Liberia, Niger e Sierra Leone hanno annunciato o proposto leggi per l'abolizione della pena di morte nella Costituzione o nei codici penali. Il 18 dicembre 2014, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha chiesto di nuovo di porre fine all'uso della pena di morte con il passaggio di una nuova Risoluzione che invita gli Stati a stabilire una moratoria sulle esecuzioni, in vista dell'abolizione della pratica. È stato il quinto testo pro moratoria a essere adottato dal 2007. In Paesi musulmani prevale impiccagione Nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, l'impiccagione, la fucilazione e la decapitazione sono stati i metodi con cui è stata praticata legalmente la pena di morte nei Paesi a maggioranza musulmana, mentre non risulta siano state eseguite condanne a morte legali tramite lapidazione. Lo riferisce il Rapporto sulla pena di morte nel mondo di Nessuno tocchi Caino. Tra i metodi di esecuzione di sentenze capitali l'impiccagione è dunque il più diffuso, preferita per gli uomini ma che non risparmia le donne. Nel 2015, al 30 giugno, almeno 858 altre impiccagioni sono state effettuate in 8 Paesi a maggioranza musulmana: Afghanistan (1), Bangladesh (2), Egitto (almeno 12), Giordania (2), Iran (almeno 657, tra cui 216 annunciate dal Governo); Iraq (almeno 6); Pakistan (almeno 174), Sudan (almeno 4). Nel 2014 sono state effettuate 933 impiccagioni in 9 Paesi a maggioranza musulmana: Afghanistan (6), Egitto (almeno 15), Giordania (11), Iran (almeno 800), Iraq (almeno 67), Malesia (almeno 3), Pakistan (7), Palestina (almeno 1) e Sudan (almeno 23). Sempre lo scorso anno, altre 5 impiccagioni sono state effettuate in 2 Paesi non musulmani: Giappone (3) e Singapore (2). Nel 2015, al 30 giugno, sono state compiute altre 2 impiccagioni, una in Giappone e l'altra a Singapore. Nel 2014, almeno 45 esecuzioni tramite fucilazione sono state effettuate in 4 Paesi: Emirati Arabi Uniti (1), Palestina (almeno 1), Somalia (almeno 20) e Yemen (almeno 23). Nel 2015, al 30 giugno, le fucilazioni sono state almeno 28: in Indonesia 14 e almeno altre 14 Somalia. La decapitazione come metodo legale per eseguire sentenze capitali in base alla Sharia è un'esclusiva dell'Arabia Saudita, che ha decapitato almeno 88 persone nel 2014 e almeno 102 nel 2015. Nel 2014, almeno altre 67 fucilazioni legali sono state effettuate in 5 Paesi non musulmani: Bielorussia (almeno 3); Cina (numero imprecisato); Corea del Nord (almeno 50); Guinea Equatoriale (9); Taiwan (5). Nei primi sei mesi del 2015, ci sono state almeno altre 22 fucilazioni in 3 Paesi non musulmani: Cina (numero imprecisato); Corea del Nord (almeno 16); Taiwan (6). La decapitazione come metodo legale per eseguire sentenze capitali in base alla Sharia è un'esclusiva dell'Arabia Saudita, che ha decapitato almeno 88 persone nel 2014 e almeno 102 persone nel 2015. Come esecuzioni extra-giudiziarie andrebbero invece classificate le decapitazioni effettuate nel 2014 e nel 2015 in Somalia dagli estremisti islamici di Al-Shabaab, in Egitto dal gruppo jihadista del Sinai Ansar Beit al-Maqdis e dallo Stato Islamico (Is) in Siria e Iraq. In Iran 17 esecuzioni di minori nel 2014 Sono state almeno 17 le esecuzioni di minori avvenute nel 2014, tutte in Iran, e nei primi sei mesi di quest'anno sono stati giustiziati almeno altri 4 minorenni al momento del reato: 2 in Iran e 2 in Pakistan. È il dato contenuto nel Rapporto di Nessuno tocchi Caino sulla pena di morte nel mondo. "Applicare la pena di morte a persone che avevano meno di 18 anni al momento del reato è in aperto contrasto con quanto stabilito dal Patto internazionale sui diritti civili e politici e dalla Convenzione delle Nazioni unite sui diritti del fanciullo", ricorda l'associazione. Guardando agli anni precedenti, nel 2013 almeno 13 persone che avevano meno di 18 anni al momento del fatto erano state giustiziate in 3 Paesi: almeno 9 in Iran; almeno 3 in Arabia Saudita; 1 in Yemen. Inoltre, nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, ragazzi che erano minorenni al momento dei loro presunti crimini sono state condannate a morte in Egitto, Maldive, Somalia e Sri Lanka o erano ancora nel braccio della morte in Arabia Saudita, Nigeria e Yemen. Nei paesi autoritari esecuzioni top secret Molti paesi, per lo più autoritari, non forniscono statistiche ufficiali sull'applicazione della pena di morte, per cui il numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto. In alcuni casi, come la Cina e il Vietnam, la questione è considerata un segreto di Stato e le notizie di esecuzioni riportate dai giornali locali o da fonti indipendenti rappresentano una minima parte del fenomeno. Anche in Bielorussia vige il segreto di Stato, retaggio della tradizione sovietica, e le notizie sulle esecuzioni filtrano dalle prigioni tramite parenti dei giustiziati o organizzazioni internazionali molto tempo dopo la data dell'esecuzione. In Iran, dove pure non esiste segreto di Stato sulla pena di morte, le sole informazioni disponibili sulle esecuzioni sono tratte da notizie selezionate dal regime e uscite su media statali o rese pubbliche da fonti ufficiose o indipendenti. Ci sono poi situazioni in cui le esecuzioni sono tenute assolutamente nascoste e le notizie raramente filtrano dai giornali locali. È il caso di Corea del Nord, Egitto, Malesia e Siria. Vi sono, poi, Paesi come Arabia Saudita, Indonesia, Iraq e Sudan del Sud, dove le esecuzioni sono di dominio pubblico solo una volta che sono state effettuate, mentre familiari, avvocati e gli stessi condannati a morte sono tenuti all'oscuro di tutto. A ben vedere, in quasi tutti questi Paesi, la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia, l'affermazione dello Stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili. Vi sono, però, anche Paesi considerati democratici, come Giappone, India e Taiwan, nei quali il sistema della pena capitale è per molti aspetti coperto da un velo di segretezza. Negli stessi Stati Uniti, la segretezza sul processo di iniezione letale è divenuta una questione sempre più all'ordine del giorno dopo una serie di esecuzioni mal riuscite effettuate nel 2014. Dei 31 Stati che utilizzano ancora l'iniezione letale, almeno 14 prevedono - de jure o de facto - il segreto di Stato che impedisce al pubblico o ai detenuti di conoscere la fonte e la qualità dei farmaci di esecuzione. Se gli Stati sono sempre più riluttanti a rivelare informazioni sui farmaci utilizzati nelle camere della morte, alcuni mass media si sono aggiunti agli avvocati difensori nell'intentare cause per contestare queste politiche di segretezza. Il 18 dicembre 2014, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una nuova risoluzione che invita gli Stati membri a stabilire una moratoria sulle esecuzioni, in vista dell'abolizione della pratica. La Risoluzione di quest'anno è stata rafforzata nella parte in cui chiede agli Stati di "rendere disponibili le informazioni rilevanti circa l'uso della pena di morte", tra cui il numero delle condanne a morte e delle esecuzioni, il numero dei detenuti nel braccio della morte e delle sentenze capitali rovesciate o commutate in appello o per le quali è intervenuta un'amnistia o concessa la grazia. In aumento le esecuzioni nel 2015, è l'effetto della lotta al terrorismo di Enrico Caporale La Stampa, 1 agosto 2015 Lotta a droga e terrorismo, repressione del dissenso politico, rappresaglia. Sono queste le cause che hanno fatto aumentare le esecuzioni capitali nel mondo. Nel 2014 sono state almeno 3576 mentre nei primi sei mesi del 2015 sono già arrivate a 2.229 (la Cina resta il Paese con il record negativo). Nel 2013 si erano fermate a 3.511 e secondo l'ultimo rapporto dell'associazione "Nessuno Tocchi Caino" l'incremento è dovuto all'escalation registrata in Iran, Arabia Saudita, Egitto e alla ripresa delle esecuzioni in Giordania, Pakistan e Indonesia. "In nome della lotta al terrorismo, Paesi autoritari hanno giustiziato e perseguitato persone in realtà coinvolte solo nell'opposizione pacifica o in attività sgradite al regime", si legge nel rapporto. Coloro che pensavano che in Iran l'elezione di Rohani migliorasse la situazione sono rimasti delusi. Al contrario, il numero di esecuzioni è aumentato e nel 2015 il 70% delle impiccagioni è avvenuto per reati di droga, dichiarati dall'Onu non ascrivibili alla categoria dei "reati gravi". In Arabia Saudita Re Salman, succeduto al trono dopo la morte di Re Abdullah (il 23 gennaio 2015), ha adottato una politica di "legge e ordine" che ha portato a un'ondata di esecuzioni (102 in sei mesi, il numero più alto in 5 anni), mentre in Egitto il governo "militare" di Al Sisi (insediato dopo la cacciata del presidente islamista Morsi) ha intrapreso un giro di vite nei confronti del dissenso politico che nel solo 2014 ha provocato la condanna a morte di 1.434 Fratelli musulmani. Tuttavia, tra i passi indietro registrati nell'ultimo anno e mezzo la ripresa delle esecuzioni in Giordania è forse il più negativo. Qui la pena capitale non era praticata dal 2006 grazie al volere di Re Abdullah. Nel 2014 tensioni interne e minaccia islamista hanno portato all'impiccagione di 11 uomini e nel febbraio 2015 due membri di Al Qaeda sono stati giustiziati come rappresaglia all'uccisione di un pilota giordano da parte dell'Isis. Lo stesso è avvenuto in Pakistan dove una moratoria sulla pena di morte che durava da sei anni è stata revocata dopo il massacro di studenti compiuto lo scorso dicembre dai talebani in una scuola di Peshawar. Ciononostante, "Nessuno Tocchi Caino" annuncia che "l'evoluzione positiva verso l'abolizione della pena di morte è confermata": al 30 giugno 2015 i Paesi che ancora la applicavano erano scesi a 37 contro i 39 del 2013 (solo dieci anni fa erano 54). Peccato che due giorni fa il Ciad l'abbia reintrodotta.