Giustizia: Migliucci (Ucpi); noi avvocati tifiamo per un’intesa tra Renzi e Berlusconi di Errico Novi Il Garantista, 19 agosto 2015 La riforma del processo e del Csm non può essere merce di scambio, ma neppure un tabù. e basta coi veti della magistratura. Un patto sulla giustizia? "Non può essere un tabù: si deve uscire dalla logica dello scontro tra forze politiche e con la magistratura. Ecco perché un accordo ampio su riforma del processo e del Csm, che coinvolga parte dell’opposizione, sarebbe giusto e sensato". Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione Camere penali, accoglie così le ipotesi di un nuovo "patto" tra Renzi e Berlusconi, esteso stavolta ai temi della giustizia. Il leader degli avvocati è di fatto il primo a sbilanciarsi sul tema politico più controverso di questi giorni. Un tabù, appunto: ogni volta che si associano le parole "Berlusconi" e "giustizia" si sprigionano tuoni, fulmini e anatemi di chi rivede rischi incombenti per la democrazia. "E invece in una democrazia liberale la giustizia è di tutti", dice il presidente dell’Unione Camere penali, "Renzi non deve aver paura di farsi dettare linee da altri, e in questo ci soccorre quanto detto dal guardasigilli Andrea Orlando. Il quale ha invitato tutti a discutere di giustizia, in particolare a proposito di un tema delicato come la riforma del Csm". D’altronde, presidente Migliucci, in Italia la riforma della giustizia è un nodo delicato come quello delle riforme istituzionali: se è lecito affrontare con spirito bipartisan le seconde, non si capisce perché non dovrebbe avvenire lo stesso per la prima. "Guardi, le perplessità in proposito sono facilmente superabili: basta ricordarsi che la giustizia non può e non deve essere merce di scambio ma bisogna occuparsene nell’interesse di tutti i cittadini, e dunque con il maggior consenso possibile". Quindi giustizia e riforma del Senato non devono intrecciarsi. "Non dovrebbe essere lasciata a nessuno la possibilità di dire che il presidente del Consiglio ha fatto determinate scelte sulla giustizia per ottenere in cambio sostegno su altro. Ecco, si eviti che qualcuno, magistratura compresa, possa muovere accuse simili. Dopodiché in un Paese liberale ci sono materie che andrebbero trattate con un consenso davvero il più esteso possibile: intercettazioni, riforma del Csm, separazione delle carriere, l’impianto accusatorio del processo. Su questo non ci devono essere steccati ideologici. Come ha detto il ministro Orlando, bisogna passare a una fase costruttiva del dibattito". Lei cita la separazione delle carriere: è davvero un terreno di confronto praticabile? "Finora è stato un argomento tabù. Credo sia arrivato il momento di parlarne. È una riforma necessaria per preservare il modello accusatorio del nostro processo, introdotto con il nuovo Codice di rito. A questo modello è funzionale la terzietà del giudice, che è cosa diversa dall’imparzialità. Il ministro della Giustizia ha detto, proprio al convegno che noi abbiamo organizzato a Palermo, che la separazione delle carriere non è in agenda. Eppure se ne deve poter parlare. Non è che se una riforma non piace alla magistratura deve esserci il divieto di discuterne". Anche perché esistono approcci di diverso tipo: se non si può sdoppiare il Csm, lo si potrebbe almeno cambiare. "Appunto. Le riforme ordinamentali costituiscono un tema che riguarda tutti i cittadini, non solo i magistrati o gli avvocati. Ora, bisognerebbe ricordare che la separazione tra magistrati giudicanti e pm esiste in molti Paesi liberali e democratici, senza che si debba ricorrere né a forme dittatoriali né ad asservimenti del pubblici ministeri al potere politico. Anche nella riforma sulle carriere dei magistrati presentata da noi penalisti insieme con i radicali non si prevedeva alcun assoggettamento dei pm all’esecutivo. Ciò detto, anche l’idea di nuovo Csm ipotizzata da Orlando mi pare un passo sulla strada giusta". Già dire che il Csm è riformabile equivale a infrangere un tabù. "Soprattutto se come il guardasigilli intende fare, si punta a mettere in difficoltà la logica correntizia. E, in senso più generale, se si afferma il principio per cui non è la magistratura a scrivere le regole del proprio autogoverno ma sono il governo e il Parlamento a farlo. La politica deve confrontarsi con i magistrati come con l’avvocatura, ma poi deve fare in modo che il Consiglio superiore non sia più un luogo corporativo e autoreferenziale". E in questo, il contributo di un partito d’opposizione come Forza Italia può essere utile? "Mettiamola così: se c’è una forza politica diversa dall’Ncd che vuole collaborare alle riforme, è un bene, perché si tratta di regole importanti. Aggiungerei che nessuno deve appropriarsi di un tema: quando si tratta di giustizia bisogna ragionare al di fuori di una logica di scontro e di veti, compresi quelli della magistratura. Ed è giusto che chi collabora alle riforme faccia sentire la propria voce anche su altri argomenti". Quali in particolare? "Su intercettazioni, prescrizione e soprattutto sulla difesa del processo come luogo del contraddittorio e di formazione della prova". Questo modello è in crisi? "Se le indagini sono eccessivamente lunghe finisce che il dibattimento avviene in un momento talmente lontano dalla raccolta delle prove che per la difesa è impossibile interloquire, cosicché il processo si svolge esclusivamente sugli elementi raccolti dall’accusa. Questo meccanismo deriva dai tempi lunghi, che oltretutto le nuove norme sulla prescrizione rischierebbero di estendere ulteriormente. Secondo la Costituzione il processo dovrebbe essere ragionevolmente breve, ma visto che questo ormai non avviene, c’è una scuola di pensiero che di fatto sostiene: "Il modello accusatorio è fallito, torniamo all’inquisitorio". È un meccanismo perverso: lo ha fatto notare, pur con il suo garbo, un presidente emerito della Consulta come Cesare Mirabelli. Sono questioni cruciali per l’ordinamento di un Paese e se ne deve poter parlare". D’accordo. Però diranno che Renzi prende ordine dal Cav. "Nessuno si deve far dettare niente: si deve discutere, però. E la magistratura non può più essere un ostacolo alle riforme. Giustizia: Rita Borsellino a Roma, si occuperà del contrasto alla corruzione nella Sanità di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 19 agosto 2015 Per due anni all’Agenzia di controllo sulla Sanità. Polemica da Forza Italia: si specula su cognomi illustri. Si occuperà di corruzione nella Sanità, Lucia Borsellino. La sua domanda all’Agenzia Nazionale della Sanità è stata accolta. E la figlia del magistrato ucciso dalla mafia, lascerà Palermo per Roma il primo settembre. Lo ha annunciato il direttore generale dell’Agenas, Francesco Bevere, ieri, all’indomani della notizia dell’assegnazione di una scorta a Lucia Borsellino, decisa a Ferragosto, dal comitato nazionale per l’ordine la sicurezza, presieduto dal ministro, Angelino Alfano, sulla base di una segnalazione di pericolo sulla quale la procura di Palermo sta svolgendo accertamenti. La stessa procura è stata avvertita dal Viminale a Ferragosto. E attualmente non ha né intercettazioni, né verbali, né notizia di indagini dalle quali emergerebbe il concreto rischio. Occorrerà capire di più su quell’input arrivato, sembra, da una fonte dei servizi segreti in Germania. Dietro l’addio biennale, a Palermo di Lucia Borsellino, però, resta una lunga scia di polemiche. La più dura la innesca il senatore forzista, Maurizio Gaspara: "Possono i miei colleghi smetterla di speculare su cognomi illustri? E chi porta questi cognomi può sottrarsi all’uso strumentale di memorie care a tutti gli italiani?". Polemiche alimentate dai molti elementi poco chiari che questa storia contiene. Sin dall’origine. Dall’intercettazione pubblicata dall’Espresso che attribuì al medico Matteo Tutino, in un colloquio con il presidente della Regione, Rosario Crocetta, l’auspicio che saltasse in aria come il padre. Una notizia falsa per la procura di Palermo che accusa di questo reato i due autori dell’articolo. Ieri il settimanale ha chiesto alla procura di Palermo di poter leggere tutte le intercettazioni di Tutino per rintracciarla. "L’aspetta anche Matteo Tutino. L’Espresso l’ha chiesta anche a noi. Ma non esiste", assicura, Giovanna Livreri, difensore del consulente di Crocetta: "Il mio cliente è ristretto da due mesi con l’accusa al limite del risibile di aver migliorato 9 nasi e aver consumato qualche Kilowatt. Ma grazie a quella bufala si continua ad accostare il suo nome a un presunto attentato a Lucia Borsellino". Il riferimento è all’accusa, nei confronti di Tutino, di aver compiuto interventi estetici, oltre che funzionali, a carico del servizio sanitario nazionale. Rivendica l’invito di Borsellino all’Agenas invece, il direttore Bevere: "L’esperienza, l’onestà intellettuale e l’etica professionale che la contraddistinguono sarà un valore aggiunto". E festeggia il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin: "Soddisfatta per l’opportunità di utilizzare una risorsa importante per il Paese". In massima sintonia con la scelta di Lucia di andare via da Palermo, la famiglia. L’importante è che lei sia felice, riferisce agli amici, poiché merita di far valere i propri talenti. La loro, spiegano, è una famiglia che, anche se lei dovesse andare in Australia, sarebbe sempre unita. Quanto al fratello Manfredi, che si era impegnato a restare in Sicilia "anche per Lucia", con questa espressione intendeva dire di voler seguire il proprio dovere di poliziotto. Nessun timore, infine, che Lucia venga strumentalizzata dalla politica romana: l’Agenas è una agenzia a sé, riflettono. Comunque, ribadiscono piena fiducia a Lucia che ha un vissuto che le consente di affrontare qualunque situazione. E, dicono, sembra gracile, ma ha "due spalle così". Giustizia: caso Andrea Soldi. Morire di Tso nell’Italia del terzo millennio di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 19 agosto 2015 La morte di Andrea Soldi durante l’esecuzione di un Tso è una metonimia. Narra qualcosa di più generale che trascende il fatto in sé, pur gravissimo, lasciando intravedere nodi irrisolti nel rapporto tra autorità e libertà individuale. Proviamo a scioglierli. Lo Stato di diritto ammette la forza, ma vieta la violenza. Della forza è l’apparato statale ad avere il monopolio legale, e può servirsene - anche attraverso la semplice minaccia - per garantire effettività alle sue norme giuridiche, le sole coercibili. Quel monopolio, però, diventa illegittimo se trasmoda in violenza, nel nome di una supremazia presunta sulla libertà personale e morale dell’individuo. Ecco perché il nostro corpo e la nostra mente sono tutelati in Costituzione, specie laddove il rapporto tra individuo e autorità si fa asimmetrico, stabilendosi che "nessuno" può essere arbitrariamente sottoposto a misure coercitive cautelari (art. 13), detentive (art. 27) o sanitarie (art. 32). L’arresto di un criminale, la detenzione di un condannato, il trattenimento di un clandestino, l’internamento di un folle reo - anche quando giustificati dalla legge - non possono mai tradursi in trattamento inumano, degradante, addirittura esiziale nelle forme equivalenti della morte provocata o del gesto suicidario. Se accade - e accade sovente, viste le troppe condanne a Strasburgo per violazione dell’art. 3 Cedu - lo Stato è, alla lettera, fuorilegge. Tutto ciò vale anche e soprattutto per l’esecuzione di un Tso, misura sanitaria che la legge pone a garanzia non della collettività, ma del malato. Lo fa sottoponendo la proposta di Tso a doppia certificazione medica, a motivata e tempestiva convalida giudiziaria, a durata massima certa. Lo fa richiedendo una triplice condizione per la sua autorizzazione: l’urgenza terapeutica, il rifiuto di cure dell’alienato, l’impossibilità di adottare tempestive misure extra ospedaliere. Lo fa esigendo fino all’ultimo istante utile iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione di chi vi è obbligato: perché "di norma" i trattamenti sanitari hanno da essere volontari (art. 33, legge n. 833 del 1978), e un Tso autorizza ma non impone la contenzione. Sono regole figlie del principio costituzionale per cui il ricorso a misure coercitive è una extrema ratio. Regole fondamentali opportunamente ricalcate nel parere approvato all’unanimità dal Comitato Nazionale di Bioetica, il 24 aprile scorso: il ricorso alla contenzione, anche nell’ambito del Tso, può avvenire "solamente in situazioni di reale necessità e urgenza, in modo proporzionato alle esigenze concrete, utilizzando le modalità meno invasive e solamente per il tempo necessario al superamento delle condizioni che abbiano indotto a ricorrervi". Nessuna finalità sanitaria - si legge - può giustificare l’abuso della forza che, dell’autonomia individuale, è sempre una violazione dagli effetti (anche terapeutici) controproducenti. Con ciò non si nega la malattia mentale né i dilemmi che essa pone a chi, impotente, chiede il ricovero forzato del proprio familiare. Semmai si ribadisce la piena consapevolezza che chi non ha diritti non è, poiché a chi tutto ha perso capita facilmente di perdere anche se stesso. Fino alla propria vita, com’è accaduto ad Andrea Soldi. Restituire al soggetto coercito la sua dignità personale (fatta di soma, psiche e civitas), e rispettarla: è, questa, la condizione necessaria per evitare che possa ripetersi - in un carcere o in un Opg, in un commissariato o in un Cie - quanto mai avrebbe dovuto accadere sulla panchina di una piazza di Torino, nell’Italia del terzo millennio. Giustizia: caso Andrea Soldi. Gli ispettori del ministero "Tso eseguito fuori dalle regole" di Mauro Ravarino Il Manifesto, 19 agosto 2015 Torino. Gli ispettori del ministero della Sanità: "Ridefinire i protocolli, nel rispetto dei pazienti". Il sindaco ha 48 ore per autorizzare il trattamento, ma di solito si interviene prima. "Aggiornare le procedure di notifica e convalida dei Tso nel rispetto dei diritti e della dignità dei pazienti". Questo è uno dei sette punti riportati nella relazione preliminare degli ispettori del ministero della Salute, che il 13 agosto si sono recati a Torino per indagare sul decesso di Andrea Soldi. Tra le azioni-chiave c’è la definizione di protocolli e di procedure operative per l’esecuzione dei trattamenti, secondo tempi e modi appropriati, compreso l’impiego di personale con adeguata formazione. Soprattutto, è necessario integrare ruoli, funzioni e compiti di forze dell’ordine, sanitari e volontari del soccorso "per superare le asincronie emerse" il 5 agosto in piazzetta Umbria. Insomma procedure e ruoli chiari per tutti gli operatori, regole ad hoc per i minori, formazione dei volontari. E personale con competenze specifiche più preparato. I colloqui avuti a Torino hanno permesso agli ispettori di ricostruire l’intera vicenda. L’intervento era stato deciso su richiesta del padre, preoccupato per la situazione clinica di Andrea, affetto da schizofrenia. Dopo aver cercato di convincere il paziente a salire sull’ambulanza, il medico psichiatra "avendo ricevuto dinieghi sempre più violenti" avrebbe chiesto alla polizia municipale di intervenire. Gli agenti si sono, allora, disposti ai lati del paziente che, seduto sulla panchina, si aggrappato a questa. Due vigili gli hanno preso le braccia e il terzo ha passato il proprio braccio intorno al collo di Soldi. A questo punto il paziente avrebbe tentato di divincolarsi, "ma sempre tenuto per le braccia e per il collo" è stato spinto a terra e, prono, successivamente ammanettato. Qui, è intervenuto il personale dell’ambulanza, il paziente sempre in posizione prona ed ammanettato è stato caricato sull’ambulanza, su cui sono saliti anche uno dei vigili e un infermiere. Il medico è salito, invece, sull’auto di servizio, che precedeva l’ambulanza diretta in ospedale. In un momento non precisato, "sul quale vi sono dichiarazioni contrastanti", Andrea ha manifestato difficoltà respiratoria: cianotico in volto, ha perso urina e il suo battito si è affievolito. Solo all’ingresso nel Dea dell’ospedale Maria Vittoria gli vengono tolte le manette. Messo in posizione supina, iniziano le manovre rianimatorie. Ma, nonostante i tentativi, alle 16:33 è stato dichiarato il decesso di Soldi. Gli ispettori hanno ascoltato quasi tutte le persone coinvolte, compresi i familiari: sono stati sentiti i medici e gli infermieri del pronto soccorso del Maria Vittoria, il rianimatore che ha tentato di salvarlo, il personale del 118. Ma, nel rapporto del ministero, mancano tre testimonianze fondamentali, quelle dei tre vigili urbani della pattuglia "Pegaso 6". L’assessore regionale alla Salute, Antonio Saitta, vuole la verità. "Mi sconcerta il fatto che da 7 mesi non ricevesse alcun trattamento. Per ogni persona seguita dalla Salute mentale ci deve essere un piano terapeutico, che va valutato in modo collegiale, verificando come stanno andando le cose. Ne parleremo con i servizi dell’Asl To2". L’indagine giudiziaria, coordinata da Raffaele Guariniello, procede spedita, la chiusura potrebbe arrivare prima dell’autunno. I carabinieri del Nas sono andati negli uffici della Regione e dell’Asl To2 acquisendo tutta la documentazione relativa ai trattamenti sanitari obbligatori richiesti e attuati dagli psichiatri del Centro di salute mentale in Piemonte. Tra cui la delibera del marzo 2010, approvata ai tempi della giunta guidata da Mercedes Bresso. Secondo il documento "il Sindaco entro 48 ore dalla richiesta dello psichiatra dà mandato alla polizia municipale di eseguirla". Così non è stato nel caso di Soldi e forse nella maggior parte dei Tso praticati a Torino. Dirigenti psichiatrici rigettano possibili accuse, sottolineano la delicatezza del loro mestiere e l’opportunità di ripensare alle procedure. Infine, l’Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale, con un appello al ministro Lorenzin, chiede di "mettere fine all’atrocità della morte in seguito a trattamento sanitario obbligatorio, conseguenza di una sanità violenta". E, propone, "l’apertura di un urgente tavolo di confronto con il ministero sull’intero settore". Giustizia: "coppia dell’acido". I giudici "Martina potrà vedere il figlio, ma non allattarlo" Corriere della Sera, 19 agosto 2015 La madre ha già potuto abbracciare il piccolo, affidato temporaneamente al Comune. I giudici minorili, tramite un’istruttoria, decideranno nel merito sull’adottabilità. È arrivata nella serata di martedì, dopo una lunga giornata in camera di consiglio, la decisione dei giudici minorili sulla sorte del piccolo Achille, il figlio di Martina Levato e Alxander Boettcher - entrambi condannati a 14 anni di carcere per l’aggressione con l’acido ai danni di Pietro Barbini - nato il 15 agosto alla clinica Mangiagalli. I magistrati hanno deciso di affidare il bambino al Comune di Milano, con la nomina di un tutore, in attesa di aprire un’istruttoria nel merito sull’adozione. Nel frattempo, a Martina Levato è stata concessa la possibilità di vedere il figlio una volta al giorno, per un tempo limitato, in presenza di operatori sociosanitari. Martina, comunque, ha già potuto abbracciare il piccolo, che subito dopo il parto le era stato tolto mentre era ancora sedata, impedendole di attaccarlo al seno. Oltre a lei, potranno fargli visita anche i nonni materni, che si sono detti "felicissimi". E soddisfatti per il provvedimento, "equilibrato e motivato". L’ex studentessa bocconiana, tuttavia, continuerà a non poter allattare il neonato. Il pm minorile Annamaria Fiorillo prima di avviare l’iter di adottabilità, aveva deciso di allontanare il neonato dalla madre. Secondo l’avvocato Stefano De Cesare, legale della giovane, quando Martina verrà dimessa dalla clinica Mangiagalli dovrebbe essere portata all’Icam, istituto per detenute madri con figli, assieme al piccolo, come stabilito dal gip di Milano su richiesta del pm Marcello Musso. L’esito, in ogni caso, non è affatto scontato. Il Tribunale dei minori, infatti, non sembra aver individuato ancora una destinazione per il piccolo Achille, che già mercoledì potrebbe essere dimesso dalla clinica Mangiagalli assieme alla madre. Tra gli aspetti rilevati dai giudici - che non hanno usato termini come "l’irreversibile inadeguatezza" dei genitori, sottolineata invece dal pm Fiorillo - quello della patria potestà: sospesa, per effetto della condanna in primo grado. Il Tribunale, in ogni caso, ha confermato la procedura di adottabilità, nella quale per il momento si sono costituiti solo i nonni materni. Il relatore della procedura di adozione sarà il giudice Gorra, uno dei componenti del collegio, magistrato di grande esperienza. Boettcher a Pisapia: "voglio riconoscere mi figlio" I legale di Alexander Boettcher, l’avvocato Alessandra Silvestri, nel frattempo ha scritto una lettera al Garante dei detenuti e al Comune di Milano, destinatario il sindaco Giuliano Pisapia, per avere chiarimenti sulle procedure di riconoscimento del piccolo Achille. Allo stato, infatti, come spiegato dal legale, Boettcher non ha ancora potuto riconoscere il bimbo. Stando a quanto chiarito dall’avvocato, un messo comunale si sarebbe dovuto recare nel carcere di San Vittore, dove Boettcher è detenuto, per permettergli di formalizzare il riconoscimento del figlio, dopo il via libera avuto dal Tribunale per i minorenni. Il messo, però, come spiegato dal difensore, non è ancora andato anche perché "c’è stato spiegato che essendoci già stato il riconoscimento da parte della madre, che ha indicato Boettcher come padre, il funzionario comunale non è più tenuto ad andare in carcere". Per l’avvocato Silvestri, tuttavia, è fondamentale che Boettcher possa riconoscere al più presto il bimbo "per essere parte nel procedimento, assieme alla nonna paterna, che si è già aperto davanti ai giudici minorili". Da qui la lettera di chiarimenti inviata dal difensore al Garante dei detenuti e al Comune. Giustizia: "coppia dell’acido". Il disagio dei magistrati e il destino di un bambino di Isabella Bossi Fedrigotti Corriere della Sera, 19 agosto 2015 La decisione è una delle più ardue. I giudici si ritrovano arbitri del destino di un bambino. Non si vorrebbe essere nei loro panni, stretti tra razionalità ed emozione. La via a metà che si affaccia è figlia del loro disagio: la madre potrà provvisoriamente vedere il bambino una volta al giorno senza allattarlo. La decisione deve essere, per i giudici, una delle più ardue che possa capitare poiché si ritrovano arbitri del destino di un bambino. Dalla loro scelta potrebbe dipendere se la sua vita sarà una buona vita, una vita normale oppure una vita pesante, tormentata, infelice. Due sembravano le alternative: adozione immediata per il piccolo affinché mai venga a sapere chi sono e cosa hanno fatto i suoi, benché sia chiaro che da subito e per sempre i genitori tenacemente lo cercherebbero, oppure lasciarlo alla famiglia o addirittura alla madre, probabilmente l’unica speranza per quest’ultima di rifarsi una vita nel vero senso della parola, di cambiare testa e cuore, sia pure, verosimilmente, a spese di suo figlio. Ora, invece, sembra essersi affacciata una terza alternativa, una specie di via di mezzo per cui è stato concesso alla madre di vedere il bambino una volta al giorno, almeno provvisoriamente, senza allattarlo, tuttavia, il che, si sa, crea vincoli emotivi particolarmente stretti tra la puerpera e il neonato. Una risoluzione - del Tribunale dei minori - che forse vuole mitigare quella molto radicale del pubblico ministero deciso a percorrere la via dell’adozione. Pare rispecchiare, questa terza via, il disagio in cui si devono trovare i magistrati di fronte a una decisione così complessa, così inevitabilmente carica di conseguenze. E non si vorrebbe essere nei loro panni, stretti tra razionalità ed emozione, visto che il codice da solo in casi come questo si rivela probabilmente una guida insufficiente. Né può essere di aiuto il turbinio delle voci, dei commenti, delle polemiche che si sono alzate tutt’intorno, dei pareri che dentro e fuori la Rete si affastellano da giorni, ormai, di ora in ora. Silenzio, per contro, si vorrebbe per il bambino, perché ne avrebbe diritto, anche se forse è un impossibile diritto; silenzio e pace accanto alla sua molto chiacchierata culla, che lo rendano forte per i tempi difficili che, in un modo o nell’altro, quasi certamente prima o poi gli toccheranno. Giustizia: "coppia dell’acido". Livia Pomodoro "ora si decida nel tempo più breve" di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 19 agosto 2015 L’ex presidente del Tribunale: "Non c’era alternativa, nessuna retromarcia parziale dei giudici. Le visite sono indispensabili per valutare". "Una decisione interlocutoria ma equilibrata e saggia, direi l’unica che si poteva prendere in una situazione simile". Livia Pomodoro, presidente del Tribunale di Milano fino a sei mesi fa, non si mostra sorpresa dalla scelta dei giudici che hanno disposto una lunga istruttoria per definire il futuro del figlio della "coppia dell’acido". Anzi la considera positivamente. Dottoressa Pomodoro, il pm Annamaria Fiorillo invitava a evitare istruttorie. "L’intento era preservare il piccolo dall’iter prevedibilmente molto lungo tra legali, nonni, genitori detenuti, consulenti tecnici di parte. Ma aprire un’istruttoria, nell’ambito di un procedimento di adottabilità con nonni che si sarebbero comunque opposti all’adozione e genitori che hanno voluto riconoscere il figlio, mi pare l’unica scelta possibile. I giudici seguono una procedura corretta". Il pm Fiorillo chiedeva che il neonato venisse affidato subito a una coppia idonea per l’eventuale adozione. "Prevedeva però in subordine, nel caso che l’istruttoria fosse ritenuta necessaria, anche soluzioni diverse". Il Tribunale prende tempo. Non ha neanche deciso dove il neonato andrà una volta dimesso dall’ospedale. "È stato nominato un tutore, il Comune, che deciderà sulla sua collocazione provvisoria, spero nel giro di pochissimo tempo". E intanto, il bambino? "Avrà tutta l’assistenza, non solo sanitari a, di cui ha bisogno". Ogni possibilità per i prossimi mesi o anni è aperta. "In attesa che l’istruttoria faccia il suo corso, sono aperte varie ipotesi. Il piccolo Achille in comunità e la mamma in carcere; insieme all’Icam; il piccolo dai nonni; o ancora, da una coppia o in una casa famiglia. Una riflessione si impone per forza". Sarà comunque una soluzione provvisoria. "Sì, per ipotesi il bimbo potrebbe essere affidato ai nonni e in esito all’istruttoria a altri". Il pm aveva disposto di evitare contatti tra famiglia d’origine e neonato. "Il pm ha fatto una scelta corretta. Per lasciare i giudici liberi di decidere senza il condizionamento di relazioni o aspettative preesistenti". Ora però i giudici consentono a Martina di vedere il figlio, pur senza poterlo allattare. Parziale marcia indietro rispetto allo strappo deciso all’inizio? "Non direi. Il pm ha lasciato il campo libero al Tribunale, che ha optato per una soluzione intermedia, interlocutoria. Le visite e quegli incontri, una volta al giorno, sono indispensabili per valutare". Valutare cosa esattamente, quali elementi? "Si osserverà con approfondimenti il rapporto che si crea tra madre e bambino. Saranno valutati tutti quelli che si propongono per la sua cura ed educazione. Il Tribunale deciderà sul futuro che più tutela il minore. Questo è un caso eccezionale e molto delicato". I nonni non potevano prenderlo in braccio in ospedale... "Adesso che il Tribunale si è espresso, potranno visitarlo nei tempi e modi stabiliti". La pressione mediatica ha influito nel rendere più cauta la scelta rispetto a quanto paventato all’inizio? "Allora, per assurdo, avrebbe potuto spingere a una scelta più netta e non ragionata, l’affido come primo passo verso l’adozione, per togliere subito dai riflettori il bambino. Ma la verità è diversa. Gli interessi dei minori si valutano con altri criteri". Il pm Fiorillo citava la "totale e irreversibile incapacità" di Martina ed Alexander a svolgere compiti genitoriali. "Il pm si è basato sulle perizie svolte nel processo. La decisione del Tribunale si riserva di fare ulteriori verifiche anche su questo. Nel provvedimento infatti si cita solo l’impossibilità dei due a svolgere, come persone detenute, l’esercizio della responsabilità genitoriale. Ogni valutazione successiva è a questo punto possibile". Anche sui nonni che hanno già annunciato opposizioni nel caso di adozione? "Certo, anche sui nonni. In ogni caso, l’adozione è l’extrema ratio". Niente tenuità del fatto se il ricorso è manifestamente infondato di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 18 agosto 2015 n. 34932. L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto non può essere presa in considerazione dalla Corte di Cassazione se i motivi di ricorso sono manifestamente infondati. Questo accade perché "un ricorso inammissibile è inidoneo a costituire il rapporto giuridico di impugnazione" e quindi lo ius superveniens, per quanto più favorevole, non può andare a beneficio dell’imputato. La Terza penale della Cassazione (sentenza 34932/15, depositata ieri) inizia a tratteggiare l’interpretazione del dlgs 28/2015 entrato in vigore il 2 aprile scorso. Come noto il nuovo articolo 131-bis del codice penale prevede che "nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta (...) la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo (...) l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale". Nel caso specifico, la speciale tenuità era invocata da un imprenditore condannato nei due gradi di giudizio di merito - con la classica doppia conforme - per omesso versamento Iva (articolo 10-ter dlgs 74/2000) per un importo evaso di oltre 131 mila euro nel periodo di imposta 2007. I difensori dell’imprenditore nei motivi aggiunti al ricorso chiedevano l’applicazione della non punibilità per speciale tenuità del fatto "tenuto conto della mancanza di disciplina transitoria e del principio di retroattività della legge penale più favorevole". Ma secondo la Terza, la manifesta infondatezza dei motivi addotti - che riguardavano in sostanza l’utilizzabilità in sede penale dell’accertamento tributario e la reale "intenzionalità della condotta", cioè la valutazione dell’elemento soggettivo - non consentono di radicare un giudizio di legittimità a meno di non voler considerare che la "speciale tenuità" abbia introdotto una forma di abolitio criminis. Di questo avviso non è però la Cassazione che, citando il codice di procedura penale (articolo 673, comma 2) ma soprattutto il codice penale (il nuovo articolo 651-bis) ricorda che la sentenza dibattimentale di proscioglimento per "speciale tenuità" "attribuisce efficacia di giudicato nei giudizi civili e amministrativi" anche in relazione all’accertamento dell’illiceità penale. Tutto ciò dimostra come si sia fuori dal campo della abolitio criminis, il cui presupposto è l’abrogazione o la dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice e i cui effetti sono la cancellazione di tutti gli atti conseguenti. A conclusione del breve excursus normativo la Terza penale della Cassazione esclude pertanto l’eccepibilità della speciale tenuità del fatto nel terzo grado di giudizio, segnando una prima importante linea di interpretazione giurisprudenziale. Morte del paziente: addebito anche alla struttura senza servizio di pronto soccorso di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 30 giugno 2015 n. 27111. In tema di responsabilità per la morte di una paziente ricoverata in una struttura sanitaria, correttamente l’addebito viene ascritto, oltre che al medico che abbia prestato le cure alla paziente in modo imperito, anche all’amministratore e al direttore sanitario della casa di cura, allorquando risulti, da parte di questi, la mancata predisposizione di un adeguato servizio di pronto soccorso per il trasferimento dei malati verso strutture ospedaliere maggiormente attrezzate e venga dimostrato che tale carenza organizzativa abbia concorso alla verificazione della morte della paziente. Questo è il convincente principio di diritto affermato dalla Cassazione nella sentenza della Sezione III, 3 febbraio 2015- 30 giugno 2015 n. 27111. Le disfunzioni organizzative - La pronuncia focalizza l’attenzione sulle disfunzioni organizzative che possono rilevare ai fini della responsabilità per la morte del paziente, in uno con la responsabilità del sanitario che, avendo in cura il paziente, rivestiva il ruolo di titolare primario della posizione di garanzia. Anzi, a ben vedere, vi possono essere situazioni in cui la colpa di organizzazione assume il ruolo di causa esclusiva dell’evento. I precedenti - Così, ad esempio, di recente, è stata ritenuta correttamente motivata l’assoluzione nei confronti del sanitario che, chiamato a prestare le proprie cure nei confronti di un paziente, dia immediatamente luogo agli interventi occorrenti, i quali risultino non tempestivamente attuati per carenze organizzative della struttura sanitaria, al medico non imputabili, tali da avere determinato ritardi nell’effettuazione dei disposti riscontri diagnostici e dei conseguenti interventi terapeutici: nella specie, l’imputato, quale medico di turno di un pronto soccorso ortopedico, dopo avere correttamente curato il paziente per le lesioni di sua competenza, non disponendo di elementi certi per formulare la diagnosi in ordine ad un trauma addominale, secondo i protocolli interni aveva subito avviato il paziente al pronto soccorso generale, ove dovevano essere eseguiti gli esami diagnostici: non gli potevano essere addebitati i successivi ritardi e disguidi, ricondotti alle carenze organizzative del nosocomio, a cominciare dal ritardo del trasferimento dovuto all’indisponibilità dell’autolettiga (Sezione IV, 7 ottobre 2014- 10 novembre 2014 n. 46336, parte civile Biondi in proc. Paganelli ed altro). Solo sanzione per il bar della movida che supera i limiti: è mestiere rumoroso di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 18 agosto 2015 n. 34920. Escluso il reato di disturbo alla quiete pubblica per il bar della movida che supera i limiti imposti dalla legge. Se il gestore è autorizzato a fare musica fino a tarda notte la sola pena prevista è la sanzione amministrativa, perché la sua attività va considerata come esercizio di un mestiere rumoroso. La Corte di cassazione con la sentenza 34920, depositata ieri distrugge il sogno di tanti cittadini di vedere duramente punito chi li costringe a stare svegli fino all’alba. La Suprema corte precisa, infatti, che quando l’uso degli strumenti musicali è strettamente connesso e necessario all’attività che ha avuto il via libera delle autorità, lo sforamento dei limiti massimi o differenziali di emissione del rumore fa scattare il solo illecito ammnistrativo previsto dall’articolo 10, comma secondo, della legge 26 ottobre 1995 n. 447. Il codice penale entra in gioco, con l’articolo 659 comma primo, che prevede l’arresto fino a tre mesi o l’ammenda, solo quando i rumori molesti provengono non dagli strumenti "sdoganati" ma sono il risultato di altre azioni non necessarie o non attinenti con il genere di lavoro che ha avuto il nulla osta amministrativo. La norma penale è composta poi anche da un secondo comma che si applica, come precisa la Suprema corte, quando la violazione contestata riguarda specifiche disposizioni di legge o prescrizioni dell’Autorità che regolano l’esercizio del mestiere rumoroso, diverse da quelle relative ai valori limite di emissioni sonore stabilite con criteri dettati dalla legge 447 del 1995. Nel caso esaminato nulla di tutto questo era accaduto. E la Cassazione dà partita vinta al gestore del bar che aveva fatto ricorso contro la condanna inflitta dalla Corte d’Appello in sintonia con il Tribunale. A denunciare il superamento dei decibel consentiti dopo le 20, erano stati gli abitanti dell’appartamento posto proprio sopra il bar dove avvenivano le feste danzanti. Valori fissati in 5 decibel durante il giorno e in 3 decibel di notte. Per la Cassazione si trattava però di una condanna ingiusta anche a prescindere dall’applicazione dell’"esimente" del mestiere rumoroso. I giudici di merito si erano, infatti, limitati - sottolinea la Suprema corte - ad affermare che le immissioni erano tali per entità e caratteristiche accertate da disturbare un numero indeterminato di persone, senza provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che i rumori potessero essere uditi, anche potenzialmente, da più abitanti del palazzo o della zona. Al contrario dagli atti emergeva che le lagnanze provenivano solo dai condomini che occupavano la casa immediatamente sopra il bar, mentre gli altri non erano stati neppure sentiti. Lettere: io dico che i dati di Alfano sono attendibili come un tarocco di Giovanni Maria Jacobazzi Il Garantista, 19 agosto 2015 Questo giornale, con un articolo di Errico Novi, ha dato credito al ministro dell’Interno Alfano che, nella conferenza stampa di Ferragosto, aveva incensato l’attività del governo nel campo della sicurezza tradottasi in un calo secco di circa il 10% dei delitti. "L’Italia è un paese sicuro", ha dichiarato Alfano, rispondendo agli allarmi dei grillini e dei leghisti che descrivono lo Stivale come Gotham city. Possiamo stare tutti sereni. Vi dico subito, e scusate se vi rovino il finale, la mia opinione: non credo minimamente alle statistiche del ministero dell’Interno. Primo, il dato statistico fornito dal Viminale si fonda essenzialmente su due grandi categorie: quella relativa alla popolazione carceraria e quella relativa al numero di denunce. Il primo ha il problema che le nostre carceri sono piene di innocenti, cioè di gente in custodia cautelare. Circa il 40 per cento del totale. E non sempre i numeri rendono giustizia a questo liberalissimo principio, ovvero che solo nelle circostanze più gravi ed atroci un uomo innocente dovrebbe essere privato della propria libertà. Il sistema giudiziario italiano se ne frega ampiamente, per cui da una parte le carceri hanno le porte girevoli e dall’altra diventano trappole mortali. In ogni caso, quando si legge una tabella che parla di popolazione carceraria ci si deve domandare di chi si paria. Di innocenti in attesa di processo o di colpevoli con sentenza definitiva? Anche perché, per finire in galera da colpevoli, si deve aver commesso qualcosa di molto grave o aver reiterato plurimi reati. In genere gli studi sulla popolazione carceraria dimostrano che gli stranieri delinquono molto più degli italiani. Questo soprattutto perché, vigente il reato di immigrazione clandestina, era facile cumulare le pene. Oggi il reato non esiste più, ma la dinamica non ha molto differito. Il clandestino è portato a delinquere. Non per problemi antropologici, ma semplicemente perché, non avendo alternative, è la via più redditizia per sbarcare il lunario. Il sistema carcerario, ricordiamolo, fa di tutto per non favorire il suo inserimento nella società. In carcere, invece di insegnare un lavoro ai detenuti si preferisce farli oziare in celle sovraffollate. Secondo: chi fonda il dato statistico solo sulle denunce offre una visione parziale. In Italia, da tempo, nessuno denuncia i reati di microcriminalità contro il patrimonio, o se lo fa è semplicemente per i fini assicurativi. Il numero dei "reati oscuri" è elevatissimo. Chi è disposto a perdere un giorno di vacanza in un commissariato di polizia o in una stazione dei carabinieri per denunciare il furto degli occhiali da sole o il carica batteria del cellulare lasciati sotto l’ombrellone per andare a fare il bagno? Secondo l’ultima ricerca dell’Istat, per i cosiddetti "furti di oggetti esterni all’abitazione", si rivolge alle forze dell’ordine solo il 10 per cento delle vittime. Altri reati, ad esempio quelli contro la pubblica amministrazione, procedibili d’ufficio, sono invece sovra rappresentati nel campione. È inutile dire che lo straniero delinque molto più con reati nel primo gruppo e l’italiano nel secondo. In mancanza, quindi di dati veri e reali, credo, tutti gli studi di questo tipo vanno saltati a pie pari, per semplice serietà. Non sappiamo, né possiamo divinare, quali siano i numeri effettivi del fenomeno criminale in Italia. Quindi, tanto vale ammetterlo, non possiamo nemmeno dividerli su base etnica ricavandoli a caso da statistiche incomplete. Detto ciò, un’ultima considerazione per gli amanti dei numeri. L’8 agosto scorso, la Cgia di Mestre ha pubblicato un approfondito studio basato anch’esso su dati forniti dal ministero dell’Interno, attualmente reperibile sul proprio sito, dove veniva evidenziato il boom di furti nei negozi. Una crescita esponenziale di circa il 165 per cento, di cui oltre due terzi degli autori resta ignoto. I più esposti, farmacie, bar, ristoranti, sale giochi, gioiellerie e tabaccherie. Al Sud, amara considerazione, la quasi totalità dei reati rimane senza un colpevole. Chissà, allora, che dati avrà letto Alfano a Ferragosto. Quelli della Finlandia? Caro Giovanni, apriamo senz’altro un dibattito su questi temi. Però alcuni dati certi ci sono. È probabile che siano pochissimi quelli che denunciano i furti, ma comunque sono un campione statistico più che rilevante e costante. Erano pochissimi anche l’anno scorso e due anni fa. E i dati dicono che comunque le denunce sono scese di oltre il 9 per cento. Non è un dato privo di valore, ti pare? Non credo che sia merito di Alfano, peraltro, anche perché è il linea coi dati dei principali paesi dell’Europa. (Enrico Novi) Lettere: buio sui referendum di Vincenzo Vita Il Manifesto, 19 agosto 2015 "Non si sa non si deve sapere" cantava Dario Fo su musica di Paolo Ciarchi in una delle sue celebri pièce. E sì, capita che un silenzio non innocente cali su ciò che risulta eccentrico rispetto alle linee informative dominanti: orchestrate sulla base di dialettiche "tonde", senza interferenze rispetto al canovaccio dei pastoni politici. Ecco, allora, che solo dire "referendum" risulta un’anomalia. Peccato che nei convegni sulla comunicazione ci si riempia poi la bocca di "democrazia partecipata". Ciò che esce dal taccuino della nomenclatura (vecchia e nuova, centrata su vincenti e perdenti da copione) non è notiziabile. I Radicali ne sanno qualcosa, visto che sempre hanno combattuto contro la congiura del silenzio mediatico e l’oscuramento asfissiante delle consultazioni referendarie. Stessa sorte incombe sui quesiti proposti nelle ultime settimane dall’associazione "Possibile", depositati (da Civati e altre dieci persone) lo scorso 17 luglio presso la Corte di Cassazione. Quattro temi e 8 Sì: dall’abrogazione dell’Italicum, alle trivellazioni consentite dallo "Sblocca Italia", alle procedure in deroga per le opere, a vari aspetti del Jobs Act, al preside-manager della "Buona scuola". Il confronto è aperto. Chissà se la presidente e il direttore della Rai metteranno fine ad una chiara censura in atto. L’articolo 75 della Costituzione sottolinea il ruolo del referendum. È bene ricordare, allora, che simile forma di decisione rientra in ogni momento nelle tutele previste dalla Carta. Al di là, ovviamente, del giudizio di merito, che legittimamente si esprime con il voto. La delicatissima fase della raccolta delle firme (500.000, come noto) è una sequenza essenziale, la premessa per poter esercitare il diritto. La stessa Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, certamente non passibile di critiche per eccesso di interventismo (anzi), nel settembre del 2011 varò un Atto di indirizzo teso proprio a raccomandare attenzione alle iniziative di acquisizione delle firme. Insomma, siamo di fronte al capitolo cruciale della cittadinanza, delle pari opportunità, della libertà di esprimere le proprie opinioni incidendo sul senso comune. È auspicabile che l’Agcom si ricordi delle sue decisioni e solleciti i media a dare notizia. News, direbbero alla Bbc. Di ciò si tratta, non già di indurre o meno a partecipare ai banchetti. Poiché il tempo della scadenza si avvicina e, quindi, l’omissione diviene un peccato mortale. Siamo di fronte, del resto, ad un caso specifico ed emblematico di manipolazione. Sottrarre ai cittadini la possibilità di sapere è la negazione del senso profondo della società della conoscenza. Persino un paradosso imbarazzante: cresce la quantità di dati in circolazione e meno si sa. "Conoscere per deliberare" affermava Luigi Einaudi, con ragione e lungimiranza. All’antica (e sempre attuale) suddivisione tra chi ha e chi non ha si aggiunge quella tra chi sa e chi non sa. Una miscela perversa: un vero e proprio cultural divide. Ecco perché è essenziale alzare la voce contro un altro "omicidio premeditato" nei media. Ad urlare non dovrebbero essere solo i sostenitori agostani-benemeriti- dei referendum, bensì tutti quanti. A partire da coloro che non ci credono o sono contrari. La salvaguardia di un diritto ha persino maggior valore quando non se ne condivide la sostanza. Brecht ha spiegato quello che succede quando si lascia sola una (presunta) minoranza. Prima o poi la mannaia si abbatte pure sui benpensanti. La censura come modello "naturale". Erga omnes. Carinola (Ce): si uccide in carcere 30enne di Casal Di Principe casertace.net, 19 agosto 2015 Ieri mattina la Polizia penitenziaria è andata a casa della famiglia per dare la brutta notizia ai familiari. Alberto Volpe era morto, 30anni di Casal di Principe. Non è ancora chiara la dinamica della morte del detenuto, nella prima ricostruzione sembra che per problemi sentimentali il giovane ha compiuto questo gesto estremo Il Giovane doveva scontare ancora qualche anno nel carcere di Carinola per un reato commesso alcuni anni fa. La salma è stata trasportata a Caserta a disposizione delle autorità giudiziaria. Pavia: cinque detenuti "positivi" al test della Tbc, sono in isolamento per la profilassi di Anna Ghezzi La Provincia Pavese, 19 agosto 2015 Si diffonde la psicosi. Gli agenti: "Non ci hanno detto come difenderci". Detenuti positivi ai test per la tubercolosi nei carceri di Pavia e Vigevano e scoppia la paura di un’epidemia di tubercolosi a Torre del gallo. La temono gli agenti di polizia penitenziaria, che chiedono di essere informati sulle misure di prevenzione quando sono a contatto con detenuti positivi ai test. La temono i detenuti che sono stati a contatto con quelli a cui è stata diagnosticata la Tbc. A cinque detenuti è stata diagnosticata la Tbc tra Pavia e Vigevano nell’ultimo mese: due in isolamento a Vigevano, due a Pavia, uno ha terminato la profilassi dopo un ricovero nelle scorse settimane. Ma l’Azienda ospedaliera non commenta: "Non si tratta di casi infettivi, dunque non c’è nessun allarme sanitario". "A Pavia sono due i detenuti in isolamento, ma molti altri sono in monitoraggio - spiega Salvatore Giaconia, rappresentante del sindacato Osapp degli agenti di polizia penitenziaria - Il problema è la carenza degli interventi per prevenire il contagio o informare le persone detenute e gli agenti di polizia penitenziaria. Stanno solo facendo un sacco di test e radiografie al torace ai detenuti: si sono infatti verificati due casi di Tbc attivi. Erano in cella con altri, quindi sono stati fatti interventi di controllo. Stanno monitorando molti detenuti ma c’è scarsa attenzione nei confronti degli agenti, poche informazioni sulle precauzioni da seguire, anche durante i trasporti sanitari a fare gli esami. La paura principale è diventare mezzi di trasmissioni alle famiglie fuori, durante i colloqui o uscendo dalla struttura". La tubercolosi è una malattia infettiva provocata dal batterio patogeno Mycobacterium tuberculosis. Il contagio può avvenire per trasmissione da un individuo malato tramite saliva, starnuto o colpo di tosse ma non necessariamente tutte le persone contagiate dai batteri si ammalano subito. Il sistema immunitario, infatti, può far fronte all’infezione e il batterio può rimanere quiescente per anni: secondo l’istituto superiore di sanità solo il 10-15% delle persone infettate dal batterio sviluppa la malattia nel corso della sua vita. E la maggioranza degli italiani sono vaccinati contro la tubercolosi. "I detenuti che si trovano nelle celle dell’infermeria sono lì più per la loro tutela che per impedire il contagio di altri detenuti", dicono i medici del carcere. I casi sono stati registrati tra i detenuti in arrivo a Pavia dal carcere di San Vittore. Il test di Mantoux viene fatto a tutti all’ingresso a Torre del Gallo anche se non ci sono prescrizioni normative in merito. I detenuti lo possono rifiutare, ma in quel caso vengono fatte radiografie polmonari. E in caso di forme infettive, i detenuti vengono ricoverati al San Matteo. A Vigevano vengono fatti test periodici anche agli agenti di polizia penitenziaria in servizio, con la collaborazione di Asl e Azienda ospedaliera. "Il test per la tubercolosi, la reazione di Mantoux, si fa a tutti i detenuti che arrivano - spiega Giorgio Barbarini, infettivologo del San Matteo e consulente in carcere - e si fa per precauzione, perché la popolazione del carcere è composita e la comunità è chiusa. Se risulta negativo, tutto bene. Se è positivo, significa che il soggetto è venuto a contatto con il germe, e si va a vedere se nell’organismo è presente il micobattere oppure no con il Quantiferon e la radiografia al torace, perché la sede principale del micobattere è l’alveolo polmonare. Il test di Mantoux è positivo spesso per detenuti che arrivano da zone in cui la malattia è endemica, così come lo era la provincia di Pavia fino al secolo scorso: non necessariamente questi si ammalano di Tbc, lo sviluppo della malattia dipende anche dalle condizioni fisiche, di nutrizione". Chi arriva da altri carceri e risulta positivo al Quantiferon viene tenuto nelle celle singole per un mese, per precauzione, per limitare i contatti con altri detenuti. Milano: San Vittore d’agosto, viaggio nel carcere che cambia di Lorenza Pleuteri La Presse, 19 agosto 2015 San Vittore è il muro consumato dall’umidità delle docce comuni al terzo piano del VI raggio, una istantanea da film neorealista. Ma è anche il colorato reparto la Nave, in cima al III raggio, dove assieme all’Asl si sperimentano modelli di trattamento avanzato destinati a essere esportati in altri istituti e dove c’è pure un coro (pezzo forte del repertorio "Tu vuò fa l’americano"). È una colonia di scarafaggi accasata tra i letti di metallo scrostato di una di quelle che per regolamento si chiamano "camere" e non celle. È il Conp, acronimo di Centro di osservazione neuropsichiatrica, sempre pieno di gente con problemi mentali ed è scampata alle leggi che fuori hanno chiuso i manicomi e smantellato gli ospedali psichiatrici giudiziari. È il disegno infantile di un figlio, appeso al posto dei calendari e dei santini che in ogni reparto riempiono pareti di stanze e bagni, quelli nuovi con le docce e il bidet e quelli vecchi con la turca. Ecco il carcere nel cuore di Milano, in un giorno di piena estate, con il caldo da record che allenta un poco la presa. Porta addosso tutti i segni dell’età, la prigione di piazza Filangieri, e pure le sezioni ristrutturate soffrono già di usura, si consumano in fretta, si logorano velocemente. Ma i numeri e le storie delle persone detenute raccontano che, a colpi di decreti e di sentenze europee e italiane, a forza di disposizioni e circolari, il sistema penitenziario italiano sta cambiando. È difficile adesso pensare che nei sei raggi della struttura, prima che ne venissero dichiarati inagibili due, si pigiavano in 2.400, l’inferno dei primi anni Novanta. C’è ancora qualche cella a cinque brande e le singole sono una eccezione, non la regola. Però sono spariti i letti a castello a tre piani e le finestre si possono aprire, senza essere costretti a smontare i vetri per cambiare aria. I posti previsti sulla carta sono 533. La conta alla mezzanotte dice che i presenti sono 804 uomini, 67 donne nel reparto femminile, 9 mamme con figli all’Istituto a custodia attenuata creato all’esterno. Gli italiani rappresentano il 37% della popolazione dietro le sbarre, gli stranieri il 63 per cento. Il grosso, per scelta, per una logica di organizzazione su base regionale, è costituito da imputati in attesa di giudizio, appellanti o ricorrenti in Cassazione. Resta una quota di "definitivi", per ragioni di cura o di lavoro, cioè di detenuti che stanno scontando pene esecutive. Agostino S., classe 1976, è uno di loro. Rapinava banche. Gli restano 4 anni e 4 mesi dentro, al lordo di possibili misure alternative alla detenzione e liberazioni anticipate, lo scomputo di giorni per "buona condotta". Certifica: "Il carcere è cambiato molto. Io lo posso dire. Nel ‘95 ero già stato a San Vittore e ho girato altri istituti. La differenza l’ha fatta la fine del regime a celle chiuse e del sovraffollamento. Finalmente si respira. E se sei un privilegiato, come me, finisci alla Nave, ti metti sotto e lavori per l’amministrazione". Prima i detenuti rimanevano confinati in pochi metri quadrati per 20-22 ore al giorno. Ora le porte blindate vengono sbloccate alle 8 di mattina e serrate alle 8 di sera, tranne che in alcuni angoli dell’istituto, e gli "inquilini" possono camminare nei corridoi e usare gli spazi comuni. Mohamed K., 30 anni e origini africane, anche lui dentro per rapina e non nuovo alla prigione, conferma. La qualità della detenzione, sempre pesante, è mutata "e in meglio". Piccoli accorgimenti, come il poter acquistare un frigo da picnic e disporre di un congelatore di reparto, tamponano qualche lacuna. La biblioteca del carcere offre una abbondante scelta di titoli, i volontari propongono corsi e attività. "Certo - dice - poi ci manca sempre la cosa più importante: la libertà". Per chi sta fuori, con la voglia di galera che torna a ondate, la privazione può sembrare nulla. Per Massimo B., imprenditore di 35 anni, è la condizione che lo ha staccato dal figlio di sei anni, ignaro che lui si trovi qui, e da una esistenza senza scossoni. "Per me - racconta - è la prima volta in carcere, per un reato da niente del 2007. Sono qui da 14 giorni, probabilmente presto mi sposteranno in una struttura per definitivi. I concellini non danno problemi, gli educatori e il resto del personale sono gentili, le guardie disponibili. Il momento più brutto è stato l’ingresso. Ma ora sto abbastanza bene. Non avevo idea di cosa potesse essere il carcere, da uomo libero, e non ci avevo mai pensato. È un mondo a parte". Salerno: i Radicali dopo visita al carcere "sovraffollamento e assistenza sanitaria carente" di Alessia Bielli Cronache del Salernitano, 19 agosto 2015 È durata più di tre ore la visita al carcere di Fuorni a Salerno della delegazione dei radicali salernitani composta da Donato Salzano, dal consigliere regionale del Psi Enzo Maraio e dello psichiatra Antonio D’Urso. Tre ore di ascolto per avere un quadro della casa circondariale di Salerno dove al momento ci sono 422 detenuti, di cui 50 sono donne (280 i posti legali). Fra luci ed ombre è emerso un quadro che seppur lasci intravedere un leggero miglioramento, è ben lontano dal far dichiarare risolta la questione carceraria. Il riferimento per tutti, dice Donato Salzano, è la sentenza Torreggiani che condanna l’Italia per trattamenti inumani e degradanti. Al carcere di Salerno la delegazione ha trovato più spazi per i detenuti, con cinque persone per cella e non più sette. Resta invece invariata, se non peggiorata, l’assistenza sanitaria ai detenuti, pressoché nulla presso la casa circondariale salernitana. I problemi maggiori su questo versante si hanno nella prima sezione: con i suoi 279 detenuti, ristretti per reati comuni, si segnala per il grande sovraffollamento. Li sono messi insieme, in quella che Salzano definisce "discarica sociale", detenuti con diversi reati e diverse patologie. C’è il detenuto con problemi psichici, quello con crisi d’astinenza e quello con patologie cardiologiche o di altro genere. "Fra gli elementi che hanno portato alla condanna dell’Italia - dice Salzano - non vi è solo la questione dei metri quadrati ma anche la carenza dell’assistenza sanitaria. Ai detenuti è consentito di farsi la doccia tre volte alla settimana)". Situazione diversa nel padiglione femminile dove sono ospitate 50 donne. Li, dice Salzano, la situazione è diversa. Finalmente c’è un ginecologo ed una detenzione "più umana e con maggiore cura", dice sempre Salzano. Ma per alcune detenute la situazione non è proprio cosi. All’esterno del carcere di Salerno c’è una detenuta, condannata a 4 anni e 6 mesi per spaccio di droga, che ha avuto cinque giorni di permesso. "Gli assistenti, gli operatori fanno tutto il possibile per darci una mano ma per noi è davvero difficile. C’è una mia collega che ha avuto la 190 ma nonostante questo e nonostante sia quasi a fine pena non riesce ad avere un permesso. Facciamo corsi, vorremmo lavorare ma reinserirsi è quasi impossibile". Quando uscirà vuol rigare dritto: è a fine pena e spera che già dal prossimo autunno possa tornare in libertà. Per quanto riguarda le condizioni carcerarie, la detenuta ha segnalato problemi in ordine al cibo ed alle difficoltà di comunicare con l’esterno in caso di problemi tra le mura della casa circondariale. Passaggio anche alla sezione psichiatrica che non è da confondere con l’alternativa all’ospedale psichiatrico giudiziario. È una nota positiva per Salzano questa sezione diretta bene, dice, dal dottore Pagano. Ha otto posti letto con una sola pecca. È solo per uomini. Le donne dovrebbero essere trasferite, di volta in volta, a Pozzuoli. Giudizio non proprio positivo, quello di Salzano che pur riconoscendo i piccoli passi in avanti compiuti, ricorda come ci siano ancora carenze imbarazzanti. Più positivo il giudizio espresso dal consigliere regionale Enzo Maraio che sottolinea come siano "tante le iniziative sociali e culturali che vedono coinvolti i detenuti. Tutto è perfettibile ma sento di trarre un giudizio moderatamente e prudentemente positivo, come confermato dalla stragrande maggioranza dei detenuti". Torna in carcere a 88 anni: la denuncia dei Radicali (La Città) Quattro centoventidue detenuti, a fronte di una capienza legale di 280 posti. Tra gli ospiti della casa circondariale di Salerno ci sono 50 donne e 372 uomini, di cui 13 in regime di semilibertà. Scendendo nei dettagli, 279 persone si trovano rinchiuse nella I sezione, quella relativa ai reati comuni (78 al primo piano, 95 al secondo e 106 al terzo); 64 nella sezione di alta sicurezza. Tra i detenuti, 170 sono in attesa di giudizio (corrispondente al 41 per cento della popolazione carceraria salernitana, in linea con la media italiana) mentre 248 stanno scontando una condanna definitiva. Sono i numeri del carcere di Fuorni, emersi in seguito alla visita dei radicali salernitani, capitanati da Donato Salzano, che ha perlustrato il penitenziario assieme al consigliere regionale Enzo Maraio e allo psichiatra Antonio D’Urso. La delegazione ha esaminato le varie problematiche del carcere e si è fatta portatrice delle richieste dei detenuti che, il più delle volte, non hanno voce. E se si possono registrare dei miglioramenti, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto del sovraffollamento, che comunque resta un problema, esistono altri problemi che "cozzano" con la sentenza Torreggiane che ha stabilito gli standard minimi di vivibilità in base ai quali viene determinata una situazione di vita degradante all’interno delle carceri, "La I sezione - evidenzia Salzano - e una vera discarica sociale. L’assistenza sanitaria è piuttosto precaria. Un detenuto, con difficoltà epatiche, ha chiesto da tempo una visita specialistica, ma non gli è stata ancora concessa". Ma l’esempio più lampante, a detta di Salzano, di come anche la magistratura di sorveglianza sia troppo lenta, è la reclusione dell’88enne Pasquale Rocco, tornato in carcere per evasione dai domiciliari, "Non capisco il senso di farlo restare dietro le sbarre - s’interroga Salzano - visto che è anche malato". Più in generale, le difficoltà riguardano non i singoli ma un po’ tutti gli ospiti della casa circondariale salernitana: "I detenuti - puntualizza da ultimo Salzano - possono accedere alla doccia solo tre volte la settimana, mentre la sezione psichiatrica è destinata solo ai maschi". Vallo Della Lucania (Sa): Antigone "un carcere ben diretto, ospita i sex offenders" Ristretti Orizzonti, 19 agosto 2015 Il giorno 18 agosto 2015 l’osservatorio di Antigone si è recato in visita presso la Casa Circondariale di Vallo della Lucania (Sa): 52 detenuti presenti al momento della visita, di cui: 35 definitivi e 17 in attesa di giudizio; 43 cittadini italiani e 9 stranieri offrono il quadro dell’istituto. "La casa circondariale di Vallo della Lucania ospita una categoria di detenuti particolarmente delicata e difficile: gli autori di violenze sessuali a vario titolo perpetrate". È quanto dichiara Mario Barone, presidente di Antigone-Campania e componente dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione. "Abbiamo riscontrato un grande impegno dello staff d’istituto ad impiegare nel lavoro all’esterno i detenuti, anche in virtù della collaborazione degli enti locali vicini all’istituto cilentano: tuttavia, la competente Magistratura di Sorveglianza non sempre riesce a dare una risposta conforme alle aspettative degli stessi detenuti: al momento della visita un solo detenuto godeva dei benefici di cui all’art. 21 dell’ordinamento penitenziario". "Il carcere è stato oggetto di molteplici interventi di manutenzione ordinaria che ne hanno migliorato la vivibilità sia negli spazi all’esterno - come nell’area per i colloqui con i familiari - sia nelle celle, che presentano bagni degni di una qualsiasi abitazione privata". "Tuttavia" - conclude Barone - "abbiamo registrato problemi di sovraffollamento in diverse celle che presentavano anche 8 detenuti in 30 mq (mobilio incluso): modalità di reclusione non conforme ai parametri stabiliti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo". Udine: il Presidente del Consiglio regionale, Franco Iacop, visita la Casa Circondariale Ansa, 19 agosto 2015 Il presidente del Consiglio regionale, Franco Iacop, ha visitato la Casa Circondariale di Udine "nel quadro della rinnovata funzione - ha detto Iacop - assunta dal Consiglio regionale rispetto all’Ufficio del Garante dei diritti della persona la cui attività si esplicita ora in tre indirizzi, uno dei quali specificatamente rivolto proprio alle persone private della libertà personale". Nel quadro di questa "attività interna e propria del Consiglio regionale - ha continuato Iacop - ho voluto rendermi personalmente conto della situazione carceraria in Friuli Venezia Giulia partendo dal carcere Udine e affrontando con la direttrice Irene Iannucci gli aspetti relativi alla riqualificazione di alcune parti della struttura, ma anche i punti di forza su cui lavorare". Fra i punti negativi rilevati dal presidente c’è sicuramente la situazione della struttura che risale al 1925, risultando oggi collocata dentro la città e in condizioni di sovraffollamento visto che la capienza di 100 unità prevista alla costruzione è ampiamente superata, arrivando a ospitare 165 detenuti. Una prima soluzione potrebbe venire dal recupero funzionale degli spazi dell’ex carcere femminile e Iacop ha assicurato il proprio impegno a intervenire presso le autorità ministeriali perché ciò possa essere realizzato finalizzando il recupero a ricavare luoghi da destinare sia all’attività formativa che alle attività manuali per i detenuti. Potenza: An-Fdi visita la Casa circondariale e chiede più sicurezza per gli addetti trmtv.it, 19 agosto 2015 A seguito dell’aumento, nel primo semestre 2015, degli episodi d’aggressione agli addetti alla sicurezza nelle carceri lucane, una delegazione regionale di Fratelli d’Italia - Alleanza Nazionale ha visitato ieri la Casa Circondariale "Antonio Santoro" di Potenza. Diverse le criticità gestionali del settore e di qualità dei servizi sollevati dagli esponenti del partito di centrodestra, guidato dal Capogruppo in Consiglio regionale Gianni Rosa. La visita di un paio d’ore, è stata effettuata di concerto con il Direttore della struttura di Melfi, Dott. Bologna, facente funzioni in assenza del titolare, e del rappresentante del sindacato del personale di polizia penitenziaria, Vito Messina. Nell’istituto potentino, in particolare, non si riscontra sovraffollamento ma carenza dell’organico impiegato. Situazione che secondo Rosa deve tenere alta la soglia d’attenzione. "Gli incidenti possono essere evitati e la sicurezza garantita solo se le piante organiche sono complete - ha dichiarato al termine della due ore di vista - a Potenza mancano all’appello circa 30 unità e tra di esse la figura mancante che pesa di più è quella dei Sovrintendenti che hanno funzioni di polizia giudiziaria, con tutti i problemi organizzativi che ne conseguono". Altra sottolineatura a livello politico: "oramai si ragiona solo con la calcolatrice sull’intero apparato statale - ha concluso il capogruppo di AN-FdI - la scure della spending review si abbatte su tutte le funzioni, in questo caso, come l’attività di osservazione e trattamento rieducativo, la sicurezza dei detenuti e degli internati. Le carceri lucane non sono a rischio chiusura ma vigileremo". Milano: "Officina Giotto" all’Expo, dalle carceri italiane esempio positivo per il mondo Vita, 19 agosto 2015 Grande successo della giornata organizzata ieri al padiglione Coldiretti con tanti ospiti, tra cui il prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca che ha lanciato l’idea di un’Authority per le iniziative sociali in ambito carcerario. Officina Giotto, il consorzio che promuove le lavorazioni nel carcere di Padova è sbarcata ieri all’Expo, ed è stato subito grande successo. Fin dall’apertura della manifestazione nel padiglione Coldiretti i prodotti di punta della casa di reclusione (panettone e gelato) sono stati richiestissimi da un pubblico mai così internazionale. La giornata milanese non è stata però solo occasione per gustare i dolci della Pasticceria Giotto. È stato anche il momento adatto per presentare l’attività ad ospiti importanti, tra i quali il prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca. "Ho seguito sempre con estremo interesse il mondo sociale e in particolare le iniziative della società civile in ambito carcerario", ha dichiarato il prefetto. "Sarebbe opportuno in questo senso pensare a un’authority per questo mondo estremamente ricco e composito", ha auspicato il prefetto, "che sappia distinguere associazionismo, volontariato ed impresa sociale, realtà profondamente diverse tra loro, per valorizzare al massimo le espressioni positive di ciascuna. Il terzo settore è una grande risorsa per il nostro paese. Esperienze come quella di Padova, ma anche le nostre lombarde come Bollate, andrebbero estese a tutto il territorio nazionale. E l’enogastronomia potrebbe essere un campo molto adeguato a questo scopo". Le attività del consorzio padovano sono state presentate alle 12.30 durante il pranzo sulla terrazza del padiglione Coldiretti. "Essere protagonisti come sistema-carcere per una giornata ad Expo" ha detto nell’occasione il presidente di Officina Giotto Nicola Boscoletto, "è il coronamento di tanti riconoscimenti, visite, contatti soprattutto internazionali di questi anni. Oggi si può dire a tutto il mondo che esiste un modello italiano di recupero delle persone detenute attraverso il lavoro di cui il nostro paese può andare fiero. Padova è solo l’esempio più conosciuto, ma ce ne sono anche tante altri, come qui in Lombardia Bollate". Sono poi intervenuti il presidente provinciale Coldiretti Federico Miotto, il direttore Giovanni Pasquali e il presidente di Agrinordest, uno dei più importanti consorzi agrari in Italia, Federico Dianin. Molto apprezzato e applaudito l’intervento del direttore della casa di reclusione padovana Salvatore Pirruccio. Due le presentazioni dei prodotti di Officina Giotto, alle 14.30 e alle 17.30, con il tutto esaurito in entrambe le occasioni. E d’altra parte c’erano ottimi motivi per aspettarselo, visto che si tratta di un panettone artigianale al Fior d’Arancio passito docg dei Colli Euganei e di un gelato con le materie prime buone e fresche delle fattorie padovane di Coldiretti (in questa occasione, oltre al latte fresco, mele, pere e meloni della cooperativa Co.Fru.Ca. di Castelbaldo). Un prodotto veneto che più non si può, quindi, ma immediatamente apprezzato da tutti, tanto è vero che Alessandra ed Elisa, che lavorano entrambe nella nuova gelateria di via Eremitani, 1 a Padova, hanno dovuto fare gli straordinari, mentre Elio, Gianni e Valentine, i tre detenuti pasticceri di via Due Palazzi, sporzionavano il panettone. Ottomila assaggi di panettone e di gelato non sono stati sufficienti per il pubblico di Expo, tanto è vero che al termine del pomeriggio le scorte erano esaurite. Una partenza con i fiocchi per il nuovo laboratorio di gelateria, cofinanziato dal Ministero della Giustizia - Cassa delle Ammende e della Fondazione Cassa di risparmio di Padova e Rovigo. Porto Azzurro (Li): la chiesa del carcere è inagibile da 10 anni, il direttore scrive al Papa Il Tirreno, 19 agosto 2015 L’accorato appello di Francesco d’Anselmo: "Da dieci anni si attende il restauro. I detenuti vivono miseramente, hanno bisogno di un luogo dove poter pregare". "Papa Francesco, restituisca ai detenuti del carcere di Porto Azzurro la possibilità di pregare". La richiesta, particolarmente accorata, è del direttore del carcere di Porto Azzurro Francesco D’Anselmo che ha deciso di scrivere al Santo Padre per risolvere un problema che si protrae da 10 anni. La chiesa di Forte San Giacomo all’interno dell’area carceraria, dove fino agli anni ‘90 si celebrava il patrono del paese, è in fortissimo stato di degrado. Il rischio di crollo e l’umidità nei locali interni hanno reso la bellissima chiesa inagibile. Tanto basta per privare gli ospiti del penitenziario del diritto di pregare. Il direttore del carcere D’Anselmo ha reso nota la sua scelta di scrivere al Papa nel corso della visita del sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri. Il rappresentante del governo ha preso in grande considerazione la vicenda. "Porto Azzurro dovrebbe tornare a festeggiare il patrono San Giacomo nella chiesa della cittadella carceraria, sarebbe un bel segnale", ha detto Cosimo Ferri. Ma per farlo occorrerà un importante lavoro di restauro. "Le rivolgo, Santo Padre, una richiesta di aiuto a nome di circa cinquecento persone recluse ne Carcere di Porto Azzurro, che da ormai quasi dieci anni non possono più partecipare alla Santa Messa nella chiesa di San Giacomo Maggiore, situata all’interno del secentesco Forte San Giacomo spagnolo che ospita la Casa di reclusione longonese - ha scritto il direttore Francesco D’Anselmo nella lettera rivolta a Papa Francesco. Dal 2004, infatti, la chiesa è stata dichiarata non agibile e perciò chiusa al culto. In realtà varie perizie avevano allora evidenziato che non si trattava di una situazione di particolare gravità, ma di infiltrazioni della copertura e di deterioramento delle gronde. Così fin dal 2005 dal vescovo diocesano e dalla direzione del carcere, era stato individuato un progetto per il restauro del sacro edificio, che prevedeva costi piuttosto contenuti. I detenuti, i volontari, gli operatori penitenziari in più riprese si rivolsero ai ministri della Giustizia e dei Beni ambientali e ne seguirono dichiarazioni di disponibilità e di attenzione al problema". Gli anni, tuttavia, sono passati e la chiesa è sempre chiusa. "Le sue condizioni sono deteriorate ed il degrado è sempre più evidente - ha scritto D’Anselmo - Si tratta di un edificio seicentesco, con una bella e semplice facciata rinascimentale e con all’interno alcune opere di pregevole fattura, come un busto argenteo ed un quadro di Santa Barbara, entrambi del 1600". Ma per i detenuti la chiesa non ha solo un valore artistico. "Per i detenuti, per questi "ultimi", che vivono in ambienti angusti, in una condizione sempre più misera e spesso disperata, l’unico luogo armonioso che può trasmettere loro serenità e bellezza è questa chiesa. - scrive nella sua lettera il direttore del carcere Francesco D’Anselmo - Lo spirito si nutre di tale atmosfera, è consolato da un ambiente degno, adeguato al culto, accogliente. Perché altrimenti si sarebbero costruite tante chiese come vere e proprie opere d’arte? Per onorare Dio, certo, ma anche per rendere più luminosa e forte la fede dei credenti, che insieme partecipano ai sacri riti. In un carcere inoltre, dove pochi sono i motivi di conforto, la chiesa è un centro di diffusione di luce ed è bello stare uniti a pregare in un luogo dove molti hanno pregato e dove anche alcuni cittadini della comunità esterna possono, previa autorizzazione, partecipare alla Santa messa, realizzando con le persone detenute la Comunione cristiana più autentica". In questi ultimi dieci anni la messa viene celebrata in un piccolo ambiente del tutto inadeguato, che non può accogliere più di sessanta-settanta persone: è un locale adibito a teatrino, con alle pareti pitture raffiguranti i quattro moschettieri ed altre figure profane, non certo immagini sacre. "Certo - conclude Francesco D’Anselmo rivolgendosi al Papa - so che l’importanza dell’Eucarestia non dipende dalle pareti affrescate, dalle statue presso l’altare, dagli archi e dalle colonne, ma dalla disposizione dell’anima e dalla grazia, però l’essere umano ha bisogno di bellezza, di musica, di arte, che esprimono fede e gratitudine. Tanto più in un luogo di sofferenza e di tristezza come un carcere. Inoltre, non si tratta di una costruzione ex novo, bensì del restauro di un pregevole bene artistico, che le Belle Arti di Pisa hanno definito di grande valore. Sarebbe importante, davvero segno di attenzione e dono prezioso, portatore di luce e di gioia, riaprire al culto la chiesa di San Giacomo nel carcere di Porto Azzurro. Sarebbe una vera grazia. Per questo Santo Padre, la prego con fiducia e speranza". Roma: lo "scalino" di Regina Coeli di Claudio Colaiacomo romatoday.it, 19 agosto 2015 Un noto detto popolare dice che chi non ha salito il gradino del carcere di Regina Coeli non può considerarsi romano vero e "manco trasteverino". Quello scalino è ancora lì, dietro il grande portone al civico ventinove di via della Lungara a Trastevere sul marmo della pavimentazione d’ingresso. In realtà i detenuti quel gradino lo salgono raramente visto che l’ingresso più frequentato è quello di via San Francesco di Sales alle spalle della Lungara. Ad aumentare l’atmosfera cupa e austera del carcere è la sua posizione. Si trova sprofondato qualche metro sotto il lungotevere in un angolo scuro e vagamente malandato. È come se tutte le vie e i vicoli intorno scontassero una parte delle pene del migliaio di detenuti che qui sono reclusi. La vocazione carceraria del complesso nasce a fine Ottocento quando termina la funzione di convento. In quegli anni già esisteva una piccola casa circondariale riservata alle donne. Il popolo la chiamava "le Mantellate" perché si trovava nella via omonima che un tempo ospitava il convento delle suore mantellate. Un noto canto popolare interpretato più volte sia da Gabriella Ferri sia da Ornella Vanoni recitava: "le mantellate sò delle sore ma a Roma sò soltanto celle scure". La via è un breve tratto rettilineo che dalla Lungara termina alle pendici del Gianicolo. Qui si trova un angolo di Roma molto suggestivo, chiuso tra alti muri, il verde del vicino orto botanico e i resti di quella che una volta era la chiesa del convento delle suore presso la bella scalinata in fondo alla via. Dall’altro lato, a ridosso del lungotevere, troviamo una porticina, è l’accesso al parlatorio, dove i detenuti possono incontrare i familiari sotto lo sguardo severo della polizia penitenziaria. Durante il fascismo il carcere fu prima adibito a scuola di polizia e poi, sotto l’occupazione Nazista, a prigione per detenuti politici insieme a quella più famosa di via Tasso. Durante quegli anni di oppressione straniera, un intero braccio del carcere era dedicato ai condannati a morte e le fucilazioni si svolgevano a ritmo sostenuto specialmente a ridosso della liberazione. Le cupe celle ospitarono ben due futuri presidenti della repubblica: Sandro Pertini e Giuseppe Saragat che, rinchiusi come detenuti politici, riuscirono a evadere eludendo il serrato controllo tedesco. Non andò allo stesso modo per don Giuseppe Morosini, accusato di essere un esponente della resistenza. Dopo crudeli torture per fargli confessare i nomi di altri partigiani, fu fucilato da un plotone italiano a Forte Bravetta, al segnale di "fuoco", dieci uomini spararono in alto, due lo colpirono ferendolo gravemente, fu finito dal comandante del plotone con un colpo alla nuca. Salerno: "Amore e Sangue", domani in scena i detenuti-attori del carcere di Rebibbia Gazzetta di Salerno, 19 agosto 2015 Il teatro come riscatto ovvero il potere taumaturgico della poesia e della bellezza. Il quinto appuntamento della rassegna "Luci della Ribalta - Itinerari ed eccellenze della Campania", organizzato dal Comune di Padula - assessorato alla Cultura, Turismo e Spettacolo, avrà come protagonista d’eccezione la Compagnia Stabile Assai, della Casa di reclusione di Rebibbia, che si esibirà giovedì 20 agosto, alle 21, nell’area Parco della Certosa di San Lorenzo a Padula. Sul palco - insieme al gruppo di attori formato da Giovanni Arcuri, Salvo Buccafusca, Pietro Canestrelli, Rocco Duca, Domenico Miceli, Marco Mossi, Susy Pariante e Patrizia Patrizi, Patrizia Spagnoli, Max Taddeini e Massimo Tata - salirà anche Cosimo Rega, protagonista del film "Cesare non deve morire" dei fratelli Paolo ed Antonio Taviani. Rega, che faceva parte del clan Alfieri-Galasso ed è condannato all’ergastolo per omicidio ed associazione camorristica, si è più volte espresso sul valore della cultura per sconfiggere la malavita organizzata. Faranno da corollario allo spettacolo - che si avvale della regia di Antonio Turco - i musicisti Barbara Santoni (voce), Lucio Turco (batteria), Gian Franco Santucci (Tammorra e voce), Paolo Tomasini (sax tenore) e Roberto Turco (basso, chitarra e voce). In scena lo spettacolo "Amore e sangue", che narra la storia d’amore tra Michelina Di Cesare e Franceschino Guerra, due giovani briganti, morti a soli 24 anni. Attraverso i loro ricordi viene ripercorsa la storia dell’Italia postunitaria. Carmine Crocco, il capo riconosciuto, il generale spagnolo Josè Borjes inviato dal Papa a militarizzare i briganti, il luogotenente Ninco Nanco, eroe della fantasia popolare, le brigantesse Filomena Pennacchio e Giuseppina Vitale, il Papa Pio IX e il generale piemontese Emilio Pallavicini saranno i protagonisti della rappresentazione. La storia del brigantaggio è rievocata prestando un’attenzione particolare al ruolo delle donne, ai sentimenti di odio e compassione, al ruolo della Chiesa, alla complessità di un mondo in cui sono state commesse atrocità, raccontate con l’occhio triste di un capitano piemontese. Il Comune partner della serata è Capaccio/Paestum. Gli spettatori potranno usufruire di un servizio navetta gratuito, in partenza alle 15.30 da Capaccio, che consentirà ai passeggeri di effettuare una visita guidata gratuita nella Certosa, patrimonio Unesco dal 1998, e nel centro storico di Padula, prima di assistere allo spettacolo. La prevendita è aperta su go2.it dove è possibile acquistare anche i biglietti per gli altri appuntamenti. Il botteghino è posizionato all’ingresso del parco e la biglietteria sarà aperta a partire dalle 15.30 di giovedì. Info e prenotazioni su: lucidellaribaltapadula.it. Ma i diritti civili restano al palo di Carlo Lania Il Manifesto, 19 agosto 2015 Cittadinanza e unioni civili bloccate dall’ostruzionismo delle destre. E Renzi resta a guardare. Di sicuro per ora c’è solo una cosa. Al di là degli annunci del governo quella che riguarda i diritti civili è una partita che a settembre, quando riprenderanno i lavori del parlamento, rischia di restare ancora una volta al palo. Prima di legiferare su unioni civili e riforma della cittadinanza, i due disegni di legge in discussione in altrettante commissioni di Camera e Senato e che se approvati permetterebbero all’Italia di colmare un ritardo che in tema di diritti la vede come al solito fanalino di coda in Europa, il parlamento deve infatti licenziare la riforma del Senato alla quale Matteo Renzi non ha mai fatto mistero di tenere più di ogni altra cosa. Ma per la cui approvazione ha bisogno dell’appoggio dell’alleato Ncd. Lo stesso Ncd che però si è già detto pronto a tutto, insieme a Lega, Fratelli d’Italia e parte dei forzisti di Silvio Berlusconi, pur di impedire l’equiparazione di diritti tra coppie etero e omosessuali e la possibilità di riconoscere la cittadinanza italiana ai tanti bambini figli di stranieri nati nel nostro Paese. Su quest’ultima, poi, la Lega ha minacciato il solito Vietnam in commissione Affari costituzionali, dove il testo è in discussione. "A settembre faremo delle vere e proprie barricate per impedire l’africanizzazione dell’Italia", ha annunciato il deputato Cristian Invernizzi. In realtà se il Pd volesse i due ddl potrebbero essere approvati in tempi strettissimi visto che per entrambi esiste già una maggioranza alternativa composta da Pd, Sel e M5S. Cosa che tra l’altro permetterebbe al premier di scrollarsi un po’ di dosso l’etichetta di destra che lo accompagna dall’inizio del suo governo, ma anche - per quanto riguarda la cittadinanza - di rispondere alle recenti accuse dei vescovi di fare poco o niente per gli immigrati che arrivano in Italia. Vero è che un nuovo fronte di scontro con la chiesa si aprirebbe sulle unioni civili. Per ora Renzi preferisce però aspettare e non compromettere i rapporti con Alfano. Da considerare inoltre che una volta uscita da palazzo Madama la riforma del Senato, la cui approvazione nelle intenzioni del premier dovrebbe avvenire entro la metà di ottobre per poi passare alla Camera, comincerà la discussione sulla legge di stabilità che impedirà di fatto l’iter di ogni altro provvedimento. Unioni civili e cittadinanza in testa, che così difficilmente potranno vedere la luce entro la fine dell’anno. Come se non bastasse, poi, la strada per entrambi i provvedimenti è a dir poco i salita. In commissione Giustizia del senato, dove si discute il Ddl Cirinnà su unioni civili e coppie di fatto, il Ncd ha presentato 1.500 emendamenti al testo, 1.200 dei quali ancora da discutere. In un paio di riunioni della capigruppo si è cercato di calendarizzare il testo per l’aula in modo da accelerare i lavori della commissione (che negli ultimi giorni ha lavorato anche di notte), ma senza successo. Anzi prima di partire per le vacanze i senatori hanno bocciato la richiesta avanzata dalla presidente del gruppo Misto-Sel, Loredana De Petris, di mettere in calendario per il 10 settembre il ddl. Niente da fare. A bloccare tutto è in particolare l’ostruzionismo del Ncd (ma la Lega non è da meno e resistenze ci sono anche da parte dei cattolici del Pd), che vede nel testo in discussione un’equiparazione tra matrimoni gay ed eterosessuali e si oppone alla cosiddetta step-child adoption, la possibilità di adottare il figlio del partner in modo che entrambi possano esercitare la responsabilità genitoriale. Un diritto già riconosciuto dalla giurisprudenza e che tutela i diritti dei minori, ma visto dal partito di Alfano come un mezzo per introdurre le adozioni per i gay. In commissione Affari costituzionali della Camera è fermo invece il testo base messo a punto dalla relatrice Marilena Fabbri (Pd) di riforma della cittadinanza. È il cosiddetto ius soli soft, che consentirà ai bambini stranieri nati in Italia e a quanti vi arrivano, di poter finalmente diventare cittadini italiani rispettando alcune condizioni. Sono un milione i figli di stranieri presenti nel nostro paese e circa 600 mila sono nati qui. Nella scrittura del testo si è preferito privilegiare loro lasciando per il momento in secondo piano gli adulti in modo da attenuare il più possibile le polemiche. Tre i casi previsti dalle nuove norme che andranno a modificare la vecchia legge 91/1992 sulle cittadinanza in un mix di ius soli temperato e ius culturae. Per i bambini che nascono in Italia è previsto che possano avere subito la cittadinanza se almeno uno dei due genitori sia residente legalmente e senza interruzione nel nostro Paese da almeno cinque anni antecedenti la nascita del bambino. Oppure se uno dei genitori sia nato in Italia e vi risieda da almeno un anno legalmente e senza interruzioni. I bambini che nascono in Italia ma i cui genitori non posseggono invece i requisiti richiesti, oppure per coloro che arrivano nel nostro Paese con un’età inferiore ai 12 anni, potranno diventare cittadini italiani solo al termine di un ciclo scolastico. Infine i ragazzi più grandi, quelli con un’età compresa tra i 12 e i 18 anni, saranno cittadini italiani sono dopo aver risieduto legalmente in Italia per sei anni e dopo aver concluso un ciclo scolastico. A settembre, per unioni civili e cittadinanza, si ripartirà da qui. Forse. Immigrazione: appello italiano a Ue e Onu di Riccardo Paradisi Il Garantista, 19 agosto 2015 Monsignor Galantino rinuncia a un incontro su De Gasperi a Trento per evitare polemiche coi leghisti. La Cei replica al Carroccio con i numeri dell’impegno su povertà e migranti. Sull’immigrazione e contro Renzi ci attaccano tutti: Pd, Cinque Stelle, qualche vescovo e alcuni di Forza Italia. Io ne sono orgoglioso". Il leader leghista Matteo Salvini dopo la sparata di Ponte di Legno contro i vescovi tiene le posizioni e rilancia. "Io parlo con gli italiani direttamente. Poi se i partiti vogliono aderire bene, altrimenti aderiranno i loro elettori". Anche i Cinque Stelle hanno detto di no all’appello leghista dicendo che Salvini è il vecchio come Renzi. "I Cinque Stelle sono dei chiacchieroni. L’abbiamo visto sull’immigrazione. A parole chiacchierano, chiacchierano, chiacchierano... ma poi quando si tratta di votare votano con il Pd e a favore dell’invasione". Salvini è soddisfatto di aver polarizzato ancora una volta il dibattito politico, sicuro che per la legge dei grandi numeri alla sua Lega arriverà così qualche punto percentuale in più nei sondaggi. A lui va bene così. Mentre la tragedia delle migrazioni continua ogni giorno interrogando la politica sui modi per governarla con umanità e realismo. Dopo l’invito del cardinale Bagnasco alle nazioni unite perché intervengano direttamente e concretamente sul problema ieri, da parte di tutte le forze politiche, si sono moltiplicati gli appelli all’Unione europea per fare fronte comune all’immigrazione, la cui prima frontiera è proprio l’Italia. L’Unione europea entro l’anno dovrebbe predisporre un nuovo piano di distribuzione dei richiedenti asilo ma - è la contestazione di Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, prima di allora che succede? "Che ne sarà delle migliaia di clandestini che sono sbarcati nel nostro paese?" Ma anche nel Pd monta la polemica sull’assenza della Ue: "Pensare che quello dell’immigrazione sia un problema solo dell’Italia è semplicemente incosciente" dice Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera. Boccia fa anche un bilancio dei flussi migratori degli ultimi 6 anni: "Siamo passati dai 4 mila immigrati del 2009 quando c’era Gheddafi in Libia, ai 170 mila del 2014". Intanto non si placa l’eco della polemica contro le gerarchie cattoliche di Salvini. Polemica che come da copione ha presentato i soliti riflessi anticlericali di una Chiesa che predica accoglienza e pratica egoismo. Stavolta però la Chiesa reagisce documentando con numeri e dati la sostanza del suo impegno sul fronte dell’immigrazione. Monsignor Gian Carlo Perego, direttore generale della fondazione Migrantes della Cei, quantifica la portata dell’impegno della Chiesa nei confronti dei migranti in Italia negli ultimi mesi. Oltre ventimila posti letto messi a disposizione da associazioni e organizzazioni. Cinquecento mense, per un totale di 6 milioni di pasto l’anno. Ma quello che cerca di trasmettere il rappresentante della Cei è che la responsabilità non si dimostra solo in Italia. Anche nei teatri di guerra o dove origina la disperazione della gente la Chiesa in questi anni ha investito molte forze per fare in modo che ci siano le condizioni sia per il diritto ad emigrare sia per quello a rimanere? Eritrea, Somalia, Burkina Faso o Nigeria sono solo alcuni dei Paesi che monsignor Perego evoca, dove la cooperazione ad opera della Chiesa è attiva attraverso 6mila cooperatori italiani che si aggiungono a 11mila missionari. L’attenzione del Vaticano verso i luoghi in cui si concentrano i passaggi dei migranti è massima: "Tutti i confini hanno bisogno di essere presidiati - ricorda monsignor Perego - parlando degli sbarchi sull’isola di Kos, del muro che si sta costruendo in Ungheria e dei luoghi di confine come Calais. In tutti questi punti nevralgici, la Chiesa cattolica dà il suo contributo aiutando le diocesi locali collaborando con le autorità ortodosse e anglicane". Quanto alla crisi economica di casa nostra, il direttore generale di Migrantes parla di un aiuto costante tradotto ogni anno in progetti per un totale di 50milioni di euro, a fianco al prestito della speranza del valore di 30 milioni di euro con cui sono state aiutate 3000 famiglie e al piano per l’imprenditoria giovanile. Tutti aiuti alle persone più povere, non solo straniere, come evidenzia il direttore della fondazione della Cei. Insomma ce n’è abbastanza per tacitare i luoghi comuni sulla latitanza della Chiesa cattolica rispetto alle urgenze del nostro tempo. Anche se per evitare ulteriori strascichi polemici Monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, non è andato ieri a Pieve Tesino per pronunciare la Lectio degasperiana che gli era stata affidata. "La decisione - riferisce una nota diffusa dall’Ufficio per le comunicazioni sociali della Cei - è in continuità con l’atteggiamento di riservatezza e di silenzio adottato nell’ultima settimana". Nei primi sette mesi del 2015 arrivati nell’Ue 340mila migranti, un esodo dalle guerre di Riccardo Chiari Il Manifesto, 19 agosto 2015 Frontex offre i numeri aggiornati: nei primi sette mesi del 2015 sono arrivati nell’Ue già 340mila migranti, in massima parte fuggiti dai conflitti in Siria, Afghanistan, Iraq ed Eritrea. La missione Frontex offre i numeri aggiornati: nei primi sette mesi del 2015 sono arrivati nell’Ue già 340mila migranti, in massima parte fuggiti dai conflitti in Siria, Afghanistan, Iraq ed Eritrea. Sulle coste italiane sono sbarcati in 90mila, ma ora i passaggi più battuti sono quelli del Mediterraneo orientale via mare, e dei Balcani occidentali via terra. I numeri dell’esodo parlano da sé: nel mese di luglio sono stati 107.500 i migranti arrivati nell’Unione Europea. Di questi "solo" 20mila, quasi tutti eritrei e nigeriani, sono sbarcati sulle coste italiane. Il maggior numero di arrivi, circa 50mila provenienti soprattutto dalla Siria e dall’Afghanistan attraverso la Turchia, è stato registrato nel mar Egeo, sulle isole greche di Lesbo, Chio, Samo e Kos. A completare il quadro, fa sapere la missione Frontex, ci sono i quasi 35mila migranti entrati in Ungheria. Da quando è nata Frontex, nel 2008, è la prima volta che si superano i centomila arrivi mensili. Record che batte record recentissimo, quello del mese di giugno quando a sbarcare sulle coste dell’Ue o ad attraversare le sue frontiere sono stati in 70mila. Un trend in rapida ascesa che trova conferma nei dati di medio periodo: nei primi sette mesi del 2015 i migranti arrivati nell’Unione europea sono stati 340mila - 90 mila sbarcando sulle coste italiane - quando in tutto il 2014 erano arrivati in 280mila. I terminali di Frontex segnalano poi una novità: "Per molti anni - ricorda l’agenzia - molti migranti che entravano in Europa via mare partivano dalla Libia, punto di incontro delle rotte dei migranti dal Corno d’Africa e dall’Africa occidentale prima di imbarcarsi verso l’Europa". Nel 2015 i passaggi più battuti sono stati invece quello del Mediterraneo orientale via mare, e quello dei Balcani occidentali via terra. "Le prime tre nazionalità di migranti a seguire queste rotte sono Siria, Afghanistan e Iraq". Tutti potenziali rifugiati, civili che scappano dalla guerra e che cercano rifugio nell’Unione. Nel rapporto trovano spazio alcune particolarità, come la diminuzione del numero di siriani in partenza dalle coste libiche, in particolare a febbraio e a marzo. La missione offre questa chiave di lettura: "Questo può essere dovuto alla situazione sempre più instabile in Libia, e al fatto che Egitto e Algeria, paesi che in passato erano di transito verso la Libia, hanno aumentato i requisiti per il rilascio del visto ai siriani. La Turchia invece non ha questi requisiti, i cittadini della Siria preferiscono quindi entrare in Europa attraverso la Grecia e la Bulgaria". Di fronte alla "pressione senza precedenti ai confini di Grecia, Italia e Ungheria", il direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, lancia l’ennesimo appello a Bruxelles: "Questa è una situazione di emergenza per l’Europa, tutti gli Stati membri agiscano a sostegno delle autorità nazionali che stanno accogliendo un enorme numero di migranti ai loro confini. Frontex ha chiesto agli Stati membri di fornire strumenti aggiuntivi e persone a supporto delle nostre operazioni in Grecia e Ungheria, mentre la Commissione europea ha approvato programmi nazionali per fornire significativa assistenza economica agli Stati membri perché affrontino queste sfide". La traduzione è presto fatta: ci vogliono altri mezzi e altro personale, così come aveva richiesto anche il commissario Ue all’immigrazione, il greco Dimitris Avramopoulos, con una lettera ufficiale ai 28 ministri dell’interno dell’Unione. I finanziamenti ci sono, a mancare sembra invece la volontà politica di potenziare gli interventi di soccorso. Per far fronte ad altri, questa volta tragici, numeri dell’esodo: quelli dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che in questo 2015 ha contato oltre duemila morti nel Mediterraneo. Nella lunghissima lista delle vittime anche i 49 soffocati nella stiva del barcone soccorso nel giorno di Ferragosto, poi arrivato nel porto di Catania con oltre 300 superstiti. Da questi ultimi le testimonianze che hanno permesso di fermare otto giovani scafisti. Nel mentre la Capitaneria di Reggio Calabria salvava 113 iracheni individuati a bordo di un barcone in legno al largo della costa reggina. Braccianti agricoli: la quarta vittima, una strage infinita di Gianmario Leone Il Manifesto, 19 agosto 2015 Arcangelo è in coma, stroncato da un infarto: raccoglieva uva nel barese. L’operaio, di 42 anni, lavorava per la stessa agenzia interinale di Paola, morta in identiche circostanze poco più di un mese fa. È finito in coma dopo essere stato colpito da un infarto mentre lavorava in una vigna sotto un tendone nelle campagne del nord-barese. Arcangelo, questo il nome del 42enne di San Giorgio Ionico (paesino della provincia di Taranto), stava svolgendo le operazioni di acinellatura, che consistono nello staccare dal grappolo d’uva gli acini più piccoli, quelli che non si sono sviluppati: un lavoro complesso e stancante visto che comporta lo stare in piedi su una cassetta per ore con la testa all’insù. A un certo punto però, il cuore di Arcangelo ha ceduto di schianto. L’episodio è avvenuto circa dieci giorni fa, ma la notizia è stata diffusa solo ieri dalla Flai Cgil Puglia. Il bracciante "lavorava circa 7 ore al giorno, alle quali si devono aggiungere le 5 ore di trasporto - spiega Giuseppe Deleonardis segretario generale della federazione pugliese - Proprio per il trasporto l’uomo pagava 12 euro al caporale, a fronte di una paga che supera di poco i 27 euro al giorno. Salario, quest’ultimo, che viene corrisposto alle donne". L’ennesimo caso di caporalato insomma. Tra l’altro, per un macabro scherzo del destino, il bracciante stava lavorando nella stessa zona di campagna, fra Andria e Canosa di Puglia, nel nord-barese, in cui il 13 luglio scorso è morta per un malore un’altra bracciante di San Giorgio Jonico, Paola Clemente, di 49 anni, madre di te figli. "Quel che è certo - ha aggiunto Deleonardis della Flai Cgil - è che Arcangelo lavorava per la stessa agenzia interinale per cui lavorava Paola". Il sindacalista Cgil ha poi avanzato un sospetto tutto da approfondire: ovvero che "in quelle campagne si usino fitofarmaci pericolosi che fanno sentire male gli operai". Il segretario ha promesso che la Flai Cgil farà di tutto "per rompere il muro di omertà che copre quelle che sono le reali condizioni di vita dei braccianti agricoli in Puglia". La regione soltanto nell’ultimo mese ha registrato ben tre decessi. L’uomo originario del tarantino, sarebbe stato colpito da infarto, secondo quanto appreso dalla stessa Flai Cgil che però ha avuto grandissime difficoltà nel ricostruire la vicenda per la solita cortina di silenzio che ogni volta si alza quando accadono episodi del genere. Ora il bracciante si trova ricoverato all’ospedale San Carlo di Potenza. "Al di là del singolo episodio - ha concluso Deleonardis - da anni denunciamo uno sfruttamento che non riguarda solo gli immigrati ma anche italiani e molte donne. E magari si verificano in aziende finanziate da fondi pubblici. Abbiamo una legge regionale di eccellenza, quella che prevede gli indici di congruità, che però non esplica completamente la sua efficacia per la mancanza di controlli. Basterebbe semplicemente applicarla". A tal proposito, il 6 agosto scorso, dopo il decesso di Zakaria Ben Hassine, il 52enne tunisino morto il 3 agosto in un’azienda di Polignano a Mare, si svolse nella sede della Regione Puglia a Bari un incontro tra l’assessorato al Lavoro e all’Agricoltura e i sindacati confederali e di categoria per la questione del lavoro nero nelle campagne. "Abbiamo voluto - spiegò nell’occasione l’assessore al Lavoro Sebastiano Leo - affrontare con i sindacati, e lo faremo anche con le parti datoriali, la questione ognuno per le proprie competenze. Abbiamo una convenzione del 2013 per la lotta al lavoro nero e occorre capire come e quanto sia stata applicata, visto pochissime aziende sembrano aver aderito alle liste di prenotazione, utilizzando pochissimo dei fondi a disposizione". Il giorno dopo, i ministeri del Lavoro e delle Politiche Agricole promisero una stretta sui controlli contro il caporalato: la Direzione generale per l’attività ispettiva del ministero del Lavoro informò di aver dato indicazione alle Direzioni interregionali e territoriali di coinvolgere i responsabili dei servizi prevenzione delle Asl nelle attività di vigilanza già programmate e sulla base di intese preventive o prassi consolidate. Il ministero delle Politiche agricole chiese inoltre la convocazione urgente della Cabina di regia della "Rete del Lavoro agricolo di qualità". Introdotta con il provvedimento Campolibero e operativa da febbraio, per la prima volta in Italia si è creato un coordinamento per il contrasto dello sfruttamento nel lavoro agricolo. Ma di lavoro da fare ce n’è ancora molto. Secondo il rapporto "Agromafie e Caporalato 2014?, redatto dall’Osservatorio Placido Rizzotto per conto della Flai Cgil, sono circa 400 mila i lavoratori che trovano un impiego tramite i caporali, di cui 100 mila presentano forme di grave assoggettamento dovute a condizioni abitative e ambientali considerate paraschiavistiche. Per salari da appena 4-500 euro in due mesi di lavoro. Indegno per un paese che continua a considerarsi civile. "Io, a processo nelle isole Faer Oer pronta al carcere per salvare i delfini" Corriere del Veneto, 19 agosto 2015 Alice Bodin, 35enne trevigiana, arrestala dopo un blitz: "Non pago la multa". Dal Veneto alle isole Faer Oer, in Danimarca, per opporsi alla mattanza dei delfini. Dopo Marianna Baldo, 44enne di Romano d’Ezzelino (Vicenza), arrestata lo scorso 23 luglio, pochi giorni fa è finita in manette per aver tentato di boicottare la caccia dei globicefali anche una 35enne di Crespano del Grappa, Alice Rusconi Bodin. Attivista come Marianna Baldo di "Sea Shepherd", organizzazione che lotta contro la distruzione degli habitat naturali e contro i! massacro delle specie selvatiche negli oceani, era partita da Treviso in luglio. Il suo compito? Controllare la spiaggia durante la grindadrap, la caccia tradizionale dei delfini intercettati d’estate mentre salgono a Nord per trovare banchi di pesce. Lo scorso 12 agosto, Alice Rusconi Bodin, animalista e vegana, insegnante di pilates, è stata fermata assieme ad altri 4 attivisti di "Sea Shepherd" mentre tentava dì bloccare l’accesso dei cacciatori alla spiaggia. Dopo l’arresto è stata liberata, ma in attesa del processo le hanno requisito i documenti. Alice, rischiate il carcere? "Siamo in attesa del processo. Doveva essere oggi (ieri, ndr), ma è stato spostato alla prossima settimana. Qui è tutto piuttosto vago. Non possiamo lasciare le isole Faer 0er. Le altre 5 persone arrestate a fine luglio sono state già condannate. La legge prevede una multa salatissima oppure la detenzione per circa un paio di settimane. Di sicuro, anche di fronte a una condanna, non pagheremo: non siamo disposti a piegarci a una legge che riteniamo illegittima. Legge promulgata lo scorso anno proprio per impedirci di interferire col grindadrap". Com’è andata il giorno dell’arresto? "Qui le giornate sono molto lunghe e facciamo dei turni sulla spiaggia: in qualunque momento un branco può essere avvistato. C’eravamo mescolati alla folla e quanto sono arrivati i delfini sulla spiaggia, prima della mattanza, ci siamo frapposti con le braccia alzate. Un omone, che non era un poliziotto, mi ha sbattuto a terra mentre ero sul bagnasciuga, poi mi ha trascinata sulla spiaggia ed infine mi ha girato un braccio e mi si è seduto sopra. A quel punto è arrivata la polizia e mi ha ammanettato". Cosa ti spinge a difendere gli animali? "Mi sono sempre interessata all’ambiente e alla natura, e nel 2011, quando Sea Shepherd è arrivata in Italia, mi sono subito fatta avanti. Mi hanno convinto perché agiscono direttamente: poca filosofia e tanta azione, ma mai violenza. Non riuscivo a dormire la notte pensando a quante cose orribili accadono in giro per il mondo, e così ho deciso di agire per migliorare la situazione. Già lo scorso anno ero venuta alle Faer Oer ed eravamo riusciti a salvare un gruppo di delfini. Si erano inabissati prima che arrivassero i cacciatori". Il giorno del vostro arresto ne sono stati ammazzati tanti? "Ne hanno uccisi 61. Il mare era intriso di sangue. Il giorno in cui hanno arrestato gli altri ragazzi, il 23 luglio, di mattanze ce n’erano state addirittura due. In totale erano stati ammazzati 200 globicefali". In cosa consiste il grindadrap? "I branchi di delfini seguono le correnti durante la migrazione. Cercano il fresco e passano vicino alle Faer Oer incrociando la Corrente del Golfo. I cacciatori tramite degli ultrasuoni riescono a disorientarli: creano una sorta di muro mandando i cetacei nei fiordi, dove si arenano nelle acque basse. Qui vengono uncinati agganciandoli agli sfiatatoi e gli tagliano la spina dorsale. Dicono sia una morte veloce, ma così non è. È una barbarie. Uccidono interi branchi. E poi gran parte della carne viene gettata via: se ne trovano tantissimi di pezzi gettati in giro qua e là". Il presidente Zaia ha espresso solidarietà nei suoi confronti, dicendo che non si tratta così una persona che segue i propri ideali e che vuole opporsi alla mattanza dei delfini. "Per me è stata una sorpresa, ne sono felice. Ma io non ho bisogno di supporto. Ne hanno invece i delfini, e spero che questa mobilitazione permetta di risolvere questa situazione". Stati Uniti: salta l’udienza preliminare del processo contro i detenuti di Guantánamo Ansa, 19 agosto 2015 L’udienza era in calendario dal 24 agosto al 4 settembre. Un giudice militare americano ha cancellato l’udienza preliminare del processo contro i detenuti di Guantánamo accusati degli attentati dell’11 settembre 2001. Lo ha annunciato un portavoce del Dipartimento della Difesa, secondo quanto riporta Abc News. L’udienza era in calendario dal 24 agosto al 4 settembre. Gli avvocati di Khalid Sheikh Mohammed e degli altri quattro presunti cospiratori sostengono di essere stati spiati dall’Fbi nel 2014, sottolineando che questo ha creato un conflitto di interessi. Secondo i più critici, l’incapacità del governo di mandare a processo gli imputati detenuti a Guantánamo nonostante sia trascorso oltre un decennio dalla loro cattura è uno dei segnali più chiari del fallimento dell’iter giudiziario in questione.