Giustizia: carceri italiane, dal "male" dei suicidi ai fiori coltivati tra le celle di Francesco Grignetti La Stampa, 18 agosto 2015 In Italia si trovano gestioni illuminate e norme paradossali. Premessa doverosa: i dati dell’associazione padovana Ristretti.org (sinonimo di detenuti nel gergo carcerario) dicono che dal 1° gennaio a oggi, in carcere sono morte 73 persone. I decessi vengono catalogati per suicidio (e sono stati 29), mancata assistenza sanitaria, cause da chiarire. Se il sovraffollamento in carcere sembra per fortuna un problema superato, insomma, in cella si continua a morire. E ieri la polizia penitenziaria ha sventato ben due suicidi nel carcere di Teramo, dove qualche giorno fa erano in visita Marco Pannella e una delegazione di radicali. Ora che i numeri tranquillizzano il governo - è stabile la percentuale di 52 mila negli istituti penitenziari e 30 mila ai domiciliari; un anno fa erano rispettivamente 64 e 19 mila - e che l’Italia ha evitato la clamorosa condanna di Strasburgo per "trattamento inumano e tortura", è giunto il tempo di guardare meglio a quello che accade nelle singole realtà. È normale, per dire, che nel carcere di Tempio Pausania non ci sia l’acqua potabile? È giusto che a Pozzuoli, una delle carceri femminili più grandi del paese, il tasso di affollamento sia ancora superiore al 150%? E perché la Toscana è in vetta per numeri di suicidi in carcere e gesti di autolesionismo? Gli studi dell’associazione Antigone fanno riflettere. Emerge una realtà carceraria a macchie di leopardo, con istituti ottimi e ben gestiti, altri molto meno. A Palermo si lamentano regole assurde: sono obbligatorie le maniche lunghe fino a quando la direzione non decreta ufficialmente l’arrivo dell’estate, altrimenti si rischia un provvedimento disciplinare. A Isernia si prevedono corsi di canto o per lavorare la cera che francamente appaiono ben poco utili al reinserimento. Di contro, a Larino ogni piccolo fazzoletto di terra tra una sezione e l’altra è utilizzato come orto, ci sono serre, una cucina dedicata all’alberghiero, la falegnameria, la pasticceria, e una biblioteca che funziona. "Entrano - scrive Antigone - con qualifiche e compiti intriganti. Accanto a degli psicologi volontari, ci sono due "filosofi". Si organizzano cene all’aperto nell’area antistante l’ingresso alle sezioni trasformata in "giardino" destinate alla popolazione di Larino e Termoli che vuole intervenire, pagando un biglietto". Per cambiare le cose, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha avviato i cosiddetti Stati generali dell’esecuzione penale: 18 tavoli tematici "a cui contribuiranno innanzitutto - annunciava il ministro - coloro che operano ai diversi livelli, dalla polizia penitenziaria agli educatori, agli assistenti sociali, a chi ha compiti amministrativi o di direzione e di coordinamento del sistema, ai volontari". Al termine, dagli elaborati dei tavoli tematici discenderanno tanti fondamentali decreti ministeriali. Ma siccome non può bastare l’analisi e lo studio, e occorre anche un impulso politico più immediato, il 9 settembre sono stati convocati dal ministro tutti i direttori di carcere. E la prima volta che si fa una riunione plenaria del genere. Il regolamento carcerario, pur lodato, ha ormai 40 anni e merita una revisione. Un tempo in cui non c’erano, come oggi, un terzo dei detenuti di nazionalità straniera. E perciò oggi occorrono figure professionali, quali i mediatori culturali, all’epoca non previste. La tecnologia, poi, galoppa: se un detenuto chiama un’utenza fissa ha diritto a una telefonata a settimana; se chiama un cellulare, la telefonata gli spetta ogni 15 giorni. Misteri della burocrazia. Figurarsi se si può usare Skype. Eppure sarebbe utilissimo, e economico, potersi tenere in contatto con la famiglia quando si è lontani. Non tutti quelli che stanno in Sardegna, ad esempio, sono sardi, le famiglie le vedono poco o niente. Si dice: in cento istituti è stato previsto il colloquio al pomeriggio e in spazi aperti, per permettere ai figli di vedere i padri senza saltare la scuola. Benissimo. Ma siccome le carceri sono il doppio, c’è ancora tanta strada da fare. Giustizia: l’Unione camere penali; carceri fatiscenti, senza riscaldamento e senza acqua di Francesco Grignetti La Stampa, 18 agosto 2015 Finita l’emergenza sovraffollamento restano le questioni dell’età delle strutture e dell’ingresso degli ex ospiti degli Opg. L’Unione camere penali: in molti istituti i detenuti subiscono sofferenze non previste da alcuna norma. Ferragosto, tempo di visite in carcere. Il Governatore della Liguria, Giovanni Toti, Forza Italia, ha visitato il carcere di Marassi, Genova. "Nonostante i problemi di vetustà, di contesto urbano e di sovraffollamento può considerarsi una struttura di eccellenza. Ma certe strutture andrebbero vendute per costruire nuove carceri fuori Città". Roberto Giachetti, Pd, è stato a Regina Coeli, Roma. Di nuovo un vecchio carcere che arranca. "Per quanta manutenzione si faccia, la struttura è troppo antica. Sarebbe da trasformare in uno straordinario museo". A problemi antichi, si sommano però questioni nuove. Con la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, molti detenuti con problemi mentali non gravissimi sono tornati in cella. E gli effetti si sono visti immediatamente. Aumentano i casi di autolesionismo, fino all’estremo del suicidio. La questione della malattia mentale è parte del problema della salute in carcere. "Con il passaggio alle Asl, che hanno i problemi loro, la salute in carcere non è più garantita - denuncia Rita Bernardini, segretaria dei Radicali italiani. Ci sono casi gravissimi di malattie non curate o di interventi chirurgici sempre rinviati". Bernardini a Ferragosto ha visitato i carceri di Pescara e Teramo. "Nel primo caso ho trovato un direttore entusiasta e attività lavorative serie. Nel secondo, il sovraffollamento non c’è più, ma tutto il resto". Marco Pannella era con lei a Teramo, non a Pescara perché provato da un ennesimo sciopero della fame: chiede a Sergio Mattarella di prendere di petto il problema del carcere e della giustizia come aveva fatto Giorgio Napolitano, ovvero spingere per un’amnistia e indulto. Ma è un’impresa titanica: i numeri, a questo punto, non sono più così catastrofici. Anche l’Unione camere penali è critica: "Non sono i numeri - scrive l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carceri - a garantire la legalità delle carceri, molte delle quali hanno enormi criticità strutturali. In alcune, d’estate non è garantita l’erogazione idrica. In altre, d’inverno non vi è il riscaldamento. Chiediamo ai politici di far dimenticare un passato di promesse non mantenute. In carcere ancora oggi si subiscono pene e sofferenze non previste da alcuna norma". Giustizia: Antimafia, la fine del pensiero unico di Giuseppe Romeo Il Garantista, 18 agosto 2015 Se il Rapporto Svimez ha affondato, giustamente per certi versi, il Sud offrendo motivo di discussione estiva a chi dalle pagine de La Stampa o del Corriere della Sera si erge a sacerdote non richiesto dei nostri drammi, certo è che la Relazione Antimafia fotografa ancora una volta aspetti di una realtà che sociologicamente è rappresentata quasi incurabilmente come criminale. Questa volta coinvolgendo anche il direttore di questo giornale. Non conosco personalmente il Direttore. Leggevo la testata nazionale da lui diretta molti anni fa perché, pur essendo intellettualmente orientato verso altre idee, riconoscevo a tale quotidiano una particolare capacità di interpretazione dei fatti internazionali che andava oltre ciò che la stampa ufficiale proponeva. Ho iniziato a scrivere saltuariamente su queste pagine - dopo averlo fatto in passato per un altro giornale calabrese - perché per la prima volta in Italia ho notato il coraggio di andare oltre quel pensiero unico che tende a dare del Sud, e della Calabria in particolare, una rappresentazione senza vie d’uscita che marca come mafiosa questa terra. Ebbene, come il Direttore e altri oggi, provo a scrivere di legalità quando posso perché mi sembra evidente che questa sia ancora una "emergenza". Ma è una emergenza diversa. Una emergenza che si divide tra la criminalità quale patologia di una società e un fronte -sempre meno compatto - che attraverso la legalità produce analisi sociologiche che condannano tutto e tutti senza giungere ad una soluzione che non sia, alla fine, la criminalizzazione costante di questa terra. Una emergenza che vede molte tesi investigative orientate spesso a dimostrare la rilevanza, o solo censurare senza titolo penale, comportamenti ritenuti devianti in se. Comportamenti ed idee giudicati secondo personali metri etico-morali che, se utili per definire l’ambiente in cui maturano determinati fenomeni, non possono sostituirsi alla certezza di individuare il reato specifico e la corrispondente specifica responsabilità. In questo scenario che ripropone quasi una sorta di caccia al dissidente, intenzioni ed idee diventano paradossalmente elementi essenziali se non di un possibile reato, quanto meno di una plausibile, usando un termine innovativo, cointeressenza. Intenzioni ed idee diventano elementi di un pre-giudicato disvalore intellettuale punito con una dichiarazione di prossimità se non peggio. In questo gioco alla ricerca di una sorta di colpa attribuita al solo fatto di essere portatore di un pensiero dissonante - di essere direttore di un giornale fuori dal coro, o semplicemente calabrese, o dovuta per rendita di cognome - vi è il rischio per chiunque abbia un’opinione diversa di sentirsi indicato come compiacente o contiguo a ciò che non gli appartiene, per storia, per formazione, per comportamenti. Vi è il rischio che chiunque - per il solo fatto di non voler avallare pensieri unici, dominanti, semplificati, utili per avvalorare tesi piuttosto che fatti o per criminalizzare vite - possa essere indicato come teleologica-mente vicino a fenomeni dai quali ogni persona onesta e intellettualmente libera se ne dissocia senza dubbi e paure, senza secondi fini. Una cultura del sospetto, della facile trasmigrazione dal campo del diritto a quella delle sensazioni e dei convincimenti personali di chi detiene l’idea giusta contro la quale scrivere o pensare diversamente rischia di essere una "intelligenza" con il nemico. Dove una giusta critica ad un modo di fare antimafia, che crea incertezze e getta nel mucchio chi combatte a suo modo il crimine senza scavalcare il limite di ciò che è giuridicamente, costituzionalmente, corretto diventa ufficialmente pregiudizievole. Tutto questo mentre chi vuole la criminalità sconfitta sul serio attende delle risposte. Si chiede, ad esempio e guardando alla Calabria, come mai una regione con poco meno di due milioni di abitanti residenti e con il più stretto rapporto nazionale tra cittadini e operatori di polizia nel totale dei tre corpi, con i rispettivi comandi e reparti speciali, non sia uscita dal ricatto criminale. Come mai, nonostante le molti sedi di tribunali e di procure ordinarie e distrettuali compresi gli uffici distaccati - presenza che in proporzione agli abitanti non ha eguali in altre e ben più popolate regioni d’Italia - i risultati stentano da decenni ad arrivare mentre, seguendo le linee dell’antimafia, le cosche prolificano e continuano a presidiare il territorio. Come mai, nonostante la presenza di molti esperti, di una pubblicistica ricca e che produce libri in quantità, non si riesce a giungere ad un punto di arrivo. Ecco, sono queste le semplici domande che colui che si preoccupa della lotta ad un fenomeno criminale dovrebbe porsi e trovare dei più convincenti argomenti per offrire al cittadino migliori condizioni di sicurezza e di fiducia nelle garanzie della legalità. A quel cittadino calabrese posto da decenni al centro di un sistema di vita quotidiana che lo colloca tra la paura della criminalità e il timore che uno Stato solo inquisitore lo possa perseguire per colpa del suo modo di pensare o per essere portatore di una scomoda storia di famiglia. Credere nello Stato di diritto significa credere in uno Stato dei diritti, oltre che dei doveri. E tutti hanno il diritto di manifestare pensieri ed idee laddove libertà, giustizia e dignità rischiano di essere valori, se non compressi, quanto meno asserviti alla celebrazione di luoghi comuni che ormai sembrano non avere soluzione. La differenza tra il non cadere nella trappola del disinteresse rappresentata dall’adagio "del tutto è mafia, nulla è mafia" e la vera, seria, volontà di combattere un fenomeno criminale sta proprio in questo. Nel rispetto delle dignità di pensiero e delle garanzie. Nell’evitare pregiudizi fondati sulla diversità di idee. Pregiudizi che dilatano spazi di vita portandoli, se divergenti dal punto di vista istituzionale, nel magmatico indistinto sul quale proprio la criminalità confida. Se così non sarà, l’ennesimo vortice estivo trascinerà con se molte, troppe idee poste all’indice solo perché credono in una giustizia giusta, pagando il prezzo di essere soltanto delle altre idee di legalità. Giustizia: nel segno dell’efficienza, pronti restyling e rinforzi per l’amministrazione di Beatrice Migliorini Italia Oggi, 18 agosto 2015 Slitta il termine della messa a riposo per i magistrati ordinari che non abbiano compiuto 72 anni entro la fine del 2015. Per questi soggetti, infatti, la questione è rimandata al 31 dicembre 2016. Novità pronte anche per la magistratura onoraria. I giudici di pace, i giudici onorari dei tribunali e i viceprocuratori onorari che abbiano compiuto 72 anni entro la fine del 2015 cesseranno la loro attività. E per andare incontro alle esigenze derivanti dall’aumento di procedimenti per il riconoscimento dello status di persona internazionalmente protetta, il Consiglio superiore della magistratura individuerà le unità necessarie da assegnare agli uffici giudiziari maggiormente coinvolti. Queste alcune delle misure contenute nel dl 83/2015 (di fallimenti) la cui legge di conversione dovrebbe essere pubblicata in G. U. giovedì prossimo con il numero 132. Pronta, quindi, non solo la prima parte del piano per il ricambio generazione della magistratura, ma anche incrementi di organico legati a situazioni di emergenza sul territorio. Le novità, però, non riguardano solo la magistratura. Nel biennio 2016-2017, infatti, è previsto l’arrivo di 2 mila unità di personale amministrativo proveniente dalle province. Potranno essere trasferite al massimo 1.000 unità per anno e, cosi come stabilito dall’art. 21 del dl 83/2015, "saranno da inquadrare nel ruolo dell’amministrazione giudiziaria in deroga alle clausole dei contratti o degli accordi collettivi nazionali". L’iter, infatti, avrà carattere prioritario su ogni altra procedura di trasferimento all’interno dell’amministrazione giudiziaria. Previste, poi, anche misure ad hoc per la riqualificazione del personale. Al fine di sanare i profili di nullità per la violazioni di disposizioni del Ccnl comparto ministeri, il dicastero di via Arenula è autorizzato a indire procedure di contrattazione collettiva ai fini della definizioni di procedure interne, riservate ai dipendenti già in possesso dei requisiti necessari e già in servizio alla data del 14 novembre 2009, "per il passaggio del personale inquadrato nel profilo professionale di cancelliere, ufficiale giudiziario dell’area seconda al profilo professionale di funzionario giudiziario e di funzionario dell’ufficio notificazioni, esecuzioni e protesti dell’area terza, con attribuzione della prima fascia economia di inquadramento". Il rapporto tra posti riservati ai dipendenti e posti riservati agli accessi dall’esterno sarà, inoltre, del 50%. Infine, per quanto riguarda le attività di custodia, telefonia, riparazione e manutenzione ordinaria, gli uffici giudiziari che prima si avvalevano del personale dei comuni distaccato, potranno continuare a usufruire del servizio sulla base di accordi da concludere con le sedi locali. Giustizia: gli incubi dei bambini in carcere "la sera chiudono a chiave..." di Elena Romanazzi Il Mattino, 18 agosto 2015 Alcuni sono condannati già prima di nascere. Piccoli con l’unica colpa, se così può essere definita, di avere la mamma in carcere. Il regime è identico malgrado gli sforzi e la libertà concessa per andare all’asilo o al nido interno e colorato. Ma quando si torna dentro, per chi è in grado di capire, è il rumore della chiave che chiude la porta a fare la differenza con il mondo esterno. Prigionieri fino a quando non sorge il sole e riprende la giornata e la parziale libertà. Entro la fine dell’anno "nessun bambino sarà più detenuto", ha promesso il ministro della Giustizia Andrea Orlando appena un mese fa. I numeri sono contenuti. Le madri detenute con figli sparse sul territorio a luglio risultavano essere 33. Quindici sono state accolte negli Icam (Istituti a custodia attenuata) per detenute madri aperti a Milano, Milano, Venezia, Senorbì (Sardegna) e Torino. Ma sono stari avviati i progetti per la realizzazione di altri due istituti a Barcellona Pozzo di Gotto e a Roma. Le altre 19, invece, sono in carceri normali. Per lo più a Roma, a Rebibbia. Ma anche ad Avellino ed in altre istituti penitenziari. Costretti a vivere dietro le sbarre e certo non in camere singole in modo tale da essere protetti dai rumori, dalle voci, dai racconti criminali. Potrebbero essere trasferiti in comunità protette, questo era lo spirito della legge, ma queste strutture non sono mai state costruite. Questioni di risorse. Troppi fondi occorrono per ospitare madri e figli fino a sei anni. Perché questo la legge prevede l’estensione fino a sei anni della possibilità di poter stare accanto alla propria madre. I progetti alternativi per evitare ai piccoli di vivere dietro le sbarre esistono. Il coordinatore dei cappellani carcerari, don Virgilio Balducchi, è riuscito a portare in case famiglia per ragazze madri 18 donne con i relativi figli prima detenute. Ma ne restano ancora molte in attesa. Una iniziativa che in termini di costi spiega Antonio Mattone, responsabile per la comunità di Sant’Egidio delle carceri in Campania, può essere la soluzione visto il contenimento della spesa, ma che soprattutto, consente al minore una vita umana e la tutela e il rispetto dei suoi diritti. Gli consente - aggiunge Mattone - di vivere una infanzia serena, perché chi è costretto a dividere una cella pur trovandosi con la propria madre può essere irrimediabilmente segnato malgrado gli sforzi che vengono fatti all’interno delle strutture. I tecnici del ministero della Giustizia stanno lavorando su input del Guardasigilli ad una soluzione tesa ad eliminare quella che in più occasioni è stata definita come una vera e propria vergogna che non riguarda solo l’Italia. Bimbi fuori con le proprie madri, ma anche regole diverse per le visite in carcere dei figli di detenuti. Più aree protette, meno vincoli. Una maggiore libertà ed anche frequenza per i 100mila minori che hanno i genitori detenuti. Ma in attesa che venga modificata la legge, si trovino i fondi e soprattutto una soluzione, i piccoli più fortunati sono negli Icam gli altri in carcere. Questa mattina esce un bimbo di due anni con la mamma dal penitenziario di Avellino. Dietro le sbarre ci è stato un bel po’ di tempo. Nello stesso carcere altre due donne, sempre con i figli, che non possono ancora andare in strutture adeguate. Ma almeno uno esce e con la propria madre. Perché il momento più doloroso, ricorda Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, è quello del distacco, quando con la propria madre con la quale si è vissuti in simbiosi, non sì può più stare, per l’età, per la mancanza di strutture. Giustizia: il caso Martina Levato, così hanno punito anche il suo bambino di Francesco Lo Piccolo (Direttore di "Voci di dentro") huffingtonpost.it, 18 agosto 2015 Un giudice, che mi sembra spinto da una logica da grande inquisitore e non certo dal compito-dovere di fare giustizia, ha strappato alla madre detenuta il neonato appena partorito. Da quanto si legge, la giovane madre (Martina Levato condannata per aver aggredito con dell’acido il suo ex compagno) non ha neppure visto il bimbo, neppure un minuto, nemmeno un abbraccio. E allora resto inorridito per due motivi. Primo perché con questa decisione di allontanare il neonato dalla madre è come se si fosse voluto punire la detenuta due volte: non solo il carcere, non solo la pena della cella ma anche la pena a non vedere il figlio appena partorito. Secondo, e questo mi sembra ancora più grave, perché così facendo il giudice ha di fatto punito il neonato che non ha nessuna colpa. Allontanato dalla madre...quasi sequestrato come una cosa. Davvero non riesco a comprendere come un giudice, e si tratta di una donna, non sappia che sono proprio i primi momenti della vita che segnano quello che viene dopo. Dice una mia vecchia amica: dei bambini se ne fregano tutti. E ha proprio ragione. L’ennesima dimostrazione che dei diritti si fa un gran parlare ma la realtà è un’altra. È dal 1990 ad esempio che si dice "mai più un bimbo in carcere". Non c’è ministro che non l’abbia detto. E oggi sono ancora una quarantina i bambini che vivono in carcere e che imparano a dire "apri" prima di dire "mamma". E ogni giorno ad orrore si aggiunge orrore: nell’istituto di Pisa l’altro ieri il trentesimo suicidio dall’inizio dell’anno in Italia, questa volta è una ragazza. Giustizia: qualcuno amerà il figlio della "coppia diabolica" di Francesca Sforza La Stampa, 18 agosto 2015 Sarebbe bello che il bambino di Martina Levato e Alexander Boettcher avesse un futuro nuovo, senza la più piccola traccia del crimine odioso di cui i suoi genitori si sono macchiati, lontano dalle pagine dei giornali, dalle sbarre di un carcere, dall’angustia psichica in cui il suo stesso concepimento è avvenuto. Fuori, da un’altra parte, con genitori veri, capaci di accudimento vero, che possano dargli ciò a cui ogni bambino ha diritto: amore e guida. Ma per questo non basterà il provvedimento di un giudice, né gli sforzi di un’intera tradizione giurisprudenziale fondata sulla tutela dei diritti del minore prima di tutto. Troppe braccia si stanno già tendendo verso il nuovo nato per strapparlo a quel luogo immaginario in cui ognuno che abbia un po’ di cuore vorrebbe vederlo: quelle della madre e del padre biologici a cui è stato sottratto, che gli hanno già lasciato un nome da gestire - Achille - e chissà in quale delirante colloquio privato i due hanno stabilito di battezzare il loro figlio, incuranti del suo e del loro stesso futuro. Quelle dei giudici che hanno presentato il ricorso per l’adottabilità del bambino, aprendo la strada a un’udienza i cui esiti sono tutti da vedere. Quelle dei nonni, che invocano il diritto a prendersi in carico l’educazione del nipotino, forti di una giurisprudenza che mira a non recidere i legami con le famiglie di origine, per quanto disgraziate esse siano. E ancora quelle di un’eventuale famiglia affidataria che dovrebbe assumersi il compito di gestire la transizione fino a un altrettanto eventuale ritorno a casa, posto che nel frattempo una casa sia stata costruita. Infine, quelle di una famiglia adottiva, che dovrebbe raccogliere e riparare ciò che altri hanno lasciato così brutalmente cadere. È realistico immaginare che il futuro di questo bambino possa non portare traccia di un inizio tanto tragico? Fra meno di vent’anni Martina Levato e Alexander Boettcher saranno presumibilmente fuori dal carcere, e anche se così non fosse, chi mai potrebbe preservare un adolescente dalla legittima ricerca delle proprie origini, consentita dalla legge e, prima ancora, dagli algoritmi di Google? È finito il tempo in cui le nascite clandestine potevano essere prese in carico da lupe, capre, ninfee o anse di fiumi, e da lì dar vita a miti fondativi più in linea con epiche gloriose. Ma l’esigenza, a pensarci, è la stessa di allora: rendere sostenibile una storia difficile, spiegarne il senso cercando di rendere il momento oscuro una fonte di forza, non di debolezza. Chiunque prenderà su di sé il compito di crescere il figlio biologico di Martina Levato e Alexander Boettcher - siano essi i nonni, i genitori affidatari o adottivi - avrà soprattutto il compito di costruire per lui una narrazione coerente e coraggiosa, senza bugie né vittimismi, capace di dosare la verità con il passare degli anni e il mutare dei linguaggi. Si tratterà di raccontare una storia antica, quella che da sempre fa chiedere agli uomini come può essere che da un "seme amaro" fiorisca un buon germoglio (e viceversa), e che poi è la storia delle storie, dove i protagonisti sono la trasformazione, la rivoluzione, il perdono. Trovare le parole non sarà facile, e per questo è importante che le persone che si occuperanno di cercarle siano non solo amorevoli, ma anche attrezzate. Missione estrema, si dirà, ma estreme sono le condizioni di questa nascita, e non rispettarne l’altezza sarebbe infantile, oltre a rivelarsi inutile alla prova del tempo. E allora, più che ipotizzare un luogo in cui il piccolo potrebbe restare immune dalla sua origine, è meglio costruire per lui il giorno in cui dovrà guardare negli occhi le due persone che lo hanno messo al mondo, e testimoniare che quel mondo lo ha reso migliore di loro. Giustizia: ma io dico che quella mamma poteva rinascere di Ferdinando Camon La Stampa, 18 agosto 2015 Stanno per togliere il figlio appena nato a una madre condannata per aver sfigurato con l’acido l’ex fidanzato. Data la gravità della colpa, in molti avevano previsto questa conclusione. Anch’io, ma con una riserva: se una donna giovane commette una colpa pesante e merita una condanna pesante perché non è pentita, possiamo noi ritenere che quella donna non possa cambiare (cioè pentirsi) con l’esperienza della maternità? La domanda può anche essere un’altra: che cos’è la maternità? Gli uomini lo sanno? La mia risposta è "no". Poiché sono uomo, includo nell’ignoranza anche me stesso: non sapevo cosa fosse la maternità, e per scriverci sopra un libro ("Il Super-Baby") ho fatto un lungo viaggio nei diari delle incinte, nelle scuole che frequentano (specialmente in America), nei libri e nelle riviste dedicate a loro. Quei nove mesi, nei quali per noi uomini non succede nulla, in realtà sono un intenso scambio non solo di nutrimenti, dalla madre al figlio, ma anche di messaggi, domande, risposte, emozioni, reazioni, sentimenti: un uomo diventa padre quando il figlio nasce, ma una donna diventa madre fin dal primo concepimento, e il figlio vive quei nove mesi in compagnia di parole, chiamate, segnali. Non è vero che il figlio si forma nel silenzio, il figlio si forma accompagnato da un tamburo incessante, come un treno che batte sulle rotaie. Quel tamburo è il cuore materno. Il figlio è confortato dalla monotonia di quel rumore, gli dà sicurezza. Se la monotonia s’interrompe, il nascituro trema. Un’équipe americana stava osservando un nascituro, tranquillo nel suo spazio monotono, quando nello studio entrò il padre, e sbatté la porta. Il non-ancora-nato ebbe un tremito. Scrivendo sulle donne incinte, ho scoperto la canzone di una incinta italiana, che quando il figlio scalciava lo cercava con la mano e pregava: "Santo Piero / dimmi il vero: / la testina dove sta? / Questa qui? / Questa qua?". E di una francese che di sera s’affacciava al cielo stellato col piccolo nel pancione e gli spiegava: "L’étoile se promène / au dessus de ton lit, / régarde! Elle t’emmène / dans le bleu de la nuit". In America hanno provato a mettere musica nelle stanze dove stanno le, chiamiamole così, figlianti, e hanno fatto una scoperta: sentendo musica classica, il nascituro muove le mani, con la musica rock muove i piedi. Non chiedetemi spiegazioni. Non sono un ostetrico e neanche un musicologo, sono soltanto uno scrittore. Entrando negli spazi della maternità, dove si forma la vita, sono un ospite, forse neanche gradito. Ma credo che una scoperta del genere, una volta confermata, dovrebbe avere influenza sullo studio della musica e sulla critica musicale. Nei mesi prenatali il figlio assorbe dalla madre ciò che la madre assorbe dalla vita. Se la madre assorbe veleni, in senso fisico e reale, anche il figlio è avvelenato, in senso fisico e reale. Quegli ammonimenti che adesso stampano sui pacchetti di sigarette, "Il fumo danneggia il feto", dicono la verità. Ma se è facile capire questo rapporto chimico-fisico, non ci è altrettanto facile capire il rapporto neuro-psichico che corre tra la generante e il generato. Eppure, certamente una generatrice ansiosa o nevrotica immette ansia o nevrosi nel generato. Abbiamo sempre pensato che l’uomo sarà nel resto della vita quel che è nei primi 4-5 anni. A questi 4-5 anni dovremmo aggiungere i precedenti nove mesi. Che sono ancora più importanti. La maternità è una rivoluzione. Con la maternità nascono due vite nuove, quella del figlio e quella della madre. Non si è mai pentita, questa ragazza dell’acido? Ma era una ragazza. Adesso è una madre. Tanto più si pentirà e diventerà buona, quanto più starà col figlio. Se glielo tolgono, la vogliono proprio perdere. Giustizia: tutti i dubbi sulla morte di Andrea Soldi, ecco la relazione del ministero di Marco Accossato La Stampa, 18 agosto 2015 Andrea Soldi aveva 45 anni soffriva di schizofrenia paranoide ed era seguito da diverso tempo dai servizi psichiatrici. C’è anche "il rispetto della dignità della persona" tra le sette procedure da modificare nei casi di Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio per pazienti con problemi psichiatrici. Lo scrive a chiare lettere la Direzione generale del ministero della Salute nella relazione dei suoi ispettori sulla morte di Andrea Soldi, 45 anni, lo scorso 5 agosto. "Dopo aver cercato di convincere il paziente a salire in ambulanza - si legge nel documento che ricostruisce il dramma - il medico chiede ai vigili urbani di intervenire. Questi si dispongono ai due lati del paziente che seduto sulla panchina porta le mani dietro la spalliera e vi si aggrappa". E qui, il comportamento ritenuto implicitamente quantomeno "poco rispettoso": "Due vigili gli prendono le braccia e contemporaneamente il terzo, dietro, gli passa il proprio braccio intorno al collo". Inutile, per Soldi, "tentare di divincolarsi". Messo a terra, a pancia in giù, viene ammanettato e caricato in barella, tenuto sempre prono. Finché in ambulanza "inizia a manifestare difficoltà respiratorie, diviene cianotico, perde urina e il battito cardiaco si apprezza a malapena". L’uomo muore poco dopo, appena giunto in ospedale, malgrado i tentativi di rianimazione. Non c’è solo la dignità da rispettare maggiormente nelle indicazioni da Roma sui Tso: si dice che d’ora in poi sarà necessario scegliere personale in grado di gestire questi trattamenti sanitari con una formazione idonea, oltre a integrare ruoli e funzioni di tutte le persone che ogni volta sono coinvolte negli interventi di emergenza. Nulla, insomma, deve essere lasciato al caso, sembra dire la relazione. Molto è da rivedere, secondo gli ispettori del ministero della Salute. Fin dall’inizio di un intervento: occorre "definire protocolli e procedure operative secondo tempi e modalità appropriate". E nel caso di minorenni stabilire procedure operative dedicate. Gli ispettori hanno ascoltato quasi tutte le persone coinvolte in questo dramma, compresi il padre e la sorella di Andrea: sono stati sentiti i medici e il personale del pronto soccorso del Maria Vittoria dove Soldi ha smesso di vivere, il rianimatore che ha tentato di salvarlo, il personale dell’ambulanza del 118 intervenuta per caricare Soldi in barella ai giardinetti dove i vigili lo avevano raggiunto. Ma mancano tre voci, nel rapporto del ministero. Voci fondamentali: quelle dei tre vigili urbani della pattuglia intervenuta. Quelli che lo hanno tenuto per le braccia e per il collo. Soltanto all’ospedale Maria Vittoria Andrea Soldi è stato messo in posizione supina, a pancia in su. Troppo tardi perché potesse tornare a respirare. Inutile anche l’uso del defibrillatore: già in ambulanza Andrea diceva di non riuscire a respirare, ma nessuno - ha accertato sempre l’indagine del ministero - gli ha neppure tolto le manette messe dai vigili quand’era sulla panchina. Anche se non retroattive le nuove norme sulle misure cautelari orientano il giudice di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2015 Corte di Cassazione - Sezione IV - sentenza 12 agosto 2015 n. 34848. Il giudice non può negare gli arresti domiciliari basandosi sulla gravità del reato. La Corte di cassazione, con la sentenza 34848 depositata ieri, pur escludendo la retroattività delle nuove norme sulle misure cautelari (legge 47/2015) invitano i giudici a far pesare le innovazioni - introdotte sulla scia della condanna dell’Italia (sentenza Torreggiani) da parte della Cedu per il sovraffollamento delle carceri - quando sono chiamati a decidere se permangono o meno le condizioni che hanno legittimato la custodia in carcere. Del principio affermato beneficia il ricorrente, condannato per traffico di droga, al quale il Tribunale della Libertà aveva negato i domiciliari, ritenendo ancora possibile sia il rischio di fuga sia la reiterazione del reato malgrado le gravi condizioni di salute e una lunga collaborazione con la giustizia. La Cassazione ricorda che, alla luce della nuova norma, non basta più che un pericolo sia concreto ma deve essere anche attuale. Condizione che nel caso esaminato mancava sia per lo stato di salute sia per effetto della collaborazione con la quale certamente l’imputato si era comunque "bruciato" i rapporti con i gruppi criminali dediti al narcotraffico. I giudici sottolineano come il trascorre del tempo possa incidere sulla pericolosità del soggetto accusato del delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, per il quale non può valere la presunzione assoluta della misura come nel caso dell’associazione mafiosa. Una considerazione basata sulla diversità "tra l’associazione di tipo mafioso e quella meramente finalizzata, quale illecita compagnia di ventura, al traffico, anche all’ingrosso, di stupefacenti, senza ulteriori implicazioni". Fermo restando che "la fase genetica della misura non può che rimanere retta e regolata dalla legge del tempo" al giudice si impone una continua verifica del permanere della condizioni che hanno fatto scattare la limitazione della libertà personale: e questa va fatta anche alla luce delle indicazioni contenute nella legge 47. Anche se, precisa la Cassazione "talune delle regole espresse con la novella altro non costituiscono che la formalizzazione di affermazioni di principio largamente condivise". Tra queste rientrano la nozione di concretezza del pericolo, non automaticamente scindibile dal dato temporale dell’attualità. Sulla prima casa sì all’ipoteca di Equitalia come misura cautelare di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2015 Anche l’unico immobile del contribuente può essere legittimamente ipotecato da Equitalia, poiché la legge inibisce l’espropriazione e non la misura cautelare volta a garantire la riscossione del credito. Ad affermarlo è la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza n. 340/03/2015 depositata il 12 agosto scorso. Equitalia informava un contribuente di aver iscritto ipoteca legale su un fabbricato di sua proprietà e contestualmente lo invitava all’integrale pagamento del debito poiché in caso contrario l’avrebbe venduto all’asta. Il debitore ricorreva contro il provvedimento, eccependo, tra l’altro, l’illegittimità dell’iscrizione ipotecaria poiché l’immobile era l’unico di sua proprietà e vi risiedeva anagraficamente. Dal 2 marzo 2012 (data di entrata in vigore del Dl n. 16/2012), è possibile l’iscrizione dell’ipoteca solo se l’importo complessivo del credito non è inferiore a 20mila euro. Con l’iscrizione di ipoteca, all’Agente della riscossione è attribuito il diritto di espropriare il bene immobile per soddisfare così il suo credito. Il Dl 69/2013, però, ha modificato la disciplina che regola le espropriazioni, escludendole sia quando si tratta dell’unico immobile di proprietà del contribuente (fatta eccezione per le abitazioni di lusso) nel quale vi ha la residenza anagrafica e sia quando il debito è inferiore ai 120mila euro. Il Collegio emiliano, respingendo il ricorso, ha rilevato che la norma consente a Equitalia, nell’ipotesi in cui il credito erariale non sia inferiore a 20mila euro, di iscrivere ipoteca anche sull’unico immobile di proprietà del contribuente ove abbia la residenza anagrafica. Ciò che è inibito è l’espropriazione forzata del fabbricato, poiché la norma è volta a garantire il credito attraverso la conservazione del bene. Il Giudice, una volta riscontrato il superamento delle soglie, ha pertanto concluso che Equitalia aveva legittimamente iscritto la misura cautelare e che, a prescindere dalle indicazioni contenute nella comunicazione, mai avrebbe potuto vendere all’asta il bene trattandosi del solo immobile non di lusso nel quale il contribuente risiedeva anagraficamente. La decisione chiarisce uno degli aspetti più discussi della nuova norma sulle espropriazioni e cioè che l’Agente della riscossione sebbene non possa procedere ad esecuzione forzata sull’abitazione principale del debitore, può legittimamente iscrivere l’ipoteca che si traduce in una mera garanzia del credito erariale. Tuttavia se tale circostanza tutela il contribuente, dall’altro rende più difficile l’ottenimento di prestiti da terzi e, di fatto, paralizza l’incasso delle somme dovute. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui il debitore, a causa di difficoltà finanziarie, sia decaduto dalla rateazione. Equitalia può così legittimamente iscrivere l’ipoteca anche sull’unico immobile di proprietà. Purtroppo però, una volta iscritta la misura cautelare, sarà difficilissimo l’ottenimento di un finanziamento da parte di una banca, stante l’impossibilità di avere una garanzia reale. A ciò consegue che se le difficoltà finanziarie permangono, il credito rimarrà in stallo poiché da un lato il contribuente non potrà pagare alcuna somma, dall’altro l’Agente della riscossione non avrà alcun bene su cui rivalersi. Esecuzione sentenze Cedu: Italia, nel 2014 indennizzi giù del 59 per cento di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2015 Relazione 2014 sull’esecuzione delle pronunce della Cedu - Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri. Strategie amministrative più efficaci e modifiche legislative che attuano i principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo secondo l’interpretazione di Strasburgo. Con un filo diretto con le richieste della Corte europea. È il mix di fattori che ha portato l’Italia a una diminuzione del contenzioso dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo e a un netto calo degli indennizzi versati, a vantaggio delle casse dello Stato. È il quadro che emerge dalla relazione annuale sull’esecuzione, nel 2014, delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia presentata dal Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri. È la nona relazione prevista dalla legge n. 12/2006, che segna non solo una riduzione dei casi pendenti, ma soprattutto una diminuzione sensibile degli indennizzi che lo Stato è tenuto a versare alle vittime di violazioni dei diritti riconosciuti nella Convenzione. Se nel 2013 la Corte aveva attribuito alle vittime che avevano presentato ricorsi contro l’Italia, nel complesso, ben 71.284.302 di euro, nel 2014 l’importo è sceso a quota 29.540.589 (l’Italia, però, nel 2014 ha liquidato solo poco più di 5 milioni di euro contro i 61 del 2013). Una riduzione di 59 punti percentuale dovuta anche all’utilizzo di procedure conciliative e ai Piani d’azione con procedure transattive. E c’è di più se dopo la condanna italiana nel caso Torreggiani, la riforma messa in campo per fronteggiare il sovraffollamento delle carceri è segnalata come una "best practice". Un modello - si legge nella relazione - "indicativo di una svolta emblematica nei rapporti di collaborazione instaurati con la Corte". I risultati: diminuzione del 30,55% dei ricorsi assegnati a una formazione giudiziaria a Strasburgo. Certo, rimane ancora alto il numero di ricorsi (10.1000), ma con una diminuzione rispetto ai 14.400 casi del 2013. E già i primi mesi del 2015 hanno condotto a risultati ancora più positivi perché la quota di ricorsi è scesa a 8.800. Non è però del tutto chiuso il capitolo riguardante i ricorsi seriali dovuti ai ritardi nella liquidazione degli indennizzi ex legge Pinto. Preoccupa, poi, il numero rilevante di ricorsi in materia di leggi retroattive, di asilo e respingimento e di danni per emotrasfusioni e vaccinazioni obbligatorie. Pende, inoltre, il ricorso "Idep s.a. e altri", una società che contesta all’Italia la violazione dell’articolo 6 della Convenzione (equo processo) perché, con la modifica del regime di prescrizione in materia penale con l’ex Cirielli, di fatto, ha ridotto il termine anche per le azioni civili per il risarcimento dei danni verso i responsabili della gestione del patrimonio del gruppo. Tra i casi pendenti dinanzi alla Grande Camera, il divieto di sperimentazione scientifica su embrioni umani, gli effetti della maternità surrogata all’estero e la confisca senza reato, che vede nuovamente sotto i riflettori della Corte, la vicenda Punta Perotti. Sul fronte dell’esecuzione delle sentenze depositate nel 2014, per attuare la pronuncia Cusan sull’attribuzione del cognome materno, l’Italia è partita subito con l’adozione, da parte del Consiglio dei ministri, di un disegno di legge ma poi tutto si è fermato. Con il rischio di nuovi ricorsi. Tuttavia, è la questione del ne bis in idem a provocare più problemi nell’attuazione anche perché il divieto di cumulo di sanzioni penali e amministrative - segnala la relazione - coinvolge gli accertamenti amministrativi tributari, gli illeciti riguardanti la circolazione stradale, quelli depenalizzati e i procedimenti disciplinari in materia di impiego. Con la necessità di una revisione generale. Resta ancora al palo l’azione di rivalsa introdotta con l’articolo 43 della legge n. 234/2012. Nel 2014, il Governo ha avviato 7 azioni di rivalsa (per un totale di 1.628.240 euro) delle quali 5 nei confronti di enti territoriali e 2 verso enti trasformati in società per azioni, ma nulla è andato avanti per i contrasti sulla gradazione delle responsabilità. Processo tributario, valore della perizia di parte come fonte di convincimento del giudice Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2015 Tributi - Contenzioso - Processo tributario Disposizioni comuni ai vari gradi del procedimento - Istruzione del processo - Documenti - Impugnazione di accertamento di maggior valore ai fini Invim e dell’imposta di registro - Stima dell’Ute - Valore probatorio di atto pubblico - Esclusione - Fonte di convincimento del giudice - Configurabilità - Condizioni. Dinanzi al giudice tributario l’amministrazione finanziaria è sullo stesso piano del contribuente pertanto la relazione di stima di un immobile, redatta dall’Ufficio tecnico erariale, prodotta dall’amministrazione finanziaria, costituisce una semplice perizia di parte, alla quale può essere attribuito il valore di atto pubblico soltanto per quel che concerne la provenienza, ma non anche per quel che riguarda il contenuto. Nel processo tributario, nel quale esiste un maggiore spazio per le prove cosiddette atipiche, anche la perizia di parte può costituire fonte di convincimento del giudice, che può elevarla a fondamento della decisione a condizione che spieghi le ragioni per le quali la ritenga corretta e convincente. • Corte di Cassazione, sezione Tributaria, sentenza 25 giugno 2014 n. 14418. Tributi - Contenzioso - Processo tributario - Disposizioni comuni ai vari gradi del procedimento - Istruzione del processo - Prove atipiche - Perizia di parte - Ammissibilità - Condizioni. Nel processo tributario, nel quale esiste un maggiore spazio per le prove cosiddette atipiche, anche la perizia di parte può costituire fonte di convincimento del giudice, che può elevarla a fondamento della decisione a condizione che spieghi le ragioni per le quali la ritenga corretta e convincente. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 6 febbraio 2015 n. 2193. Tributi - Contenzioso -- Decisione fondata su perizia tecnica di parte stragiudiziale - Legittimità - Condizioni - Obbligo di motivazione - Sussistenza. Il giudice del merito può porre a fondamento della propria decisione una perizia stragiudiziale, anche se contestata dalla controparte, purché fornisca adeguata motivazione di tale sua valutazione, attesa l’esistenza, nel vigente ordinamento, del principio del libero convincimento del giudice. • Corte di cassazione, sezione VI - 5, ordinanza 12 dicembre 2011 n. 26550. Tributi - Contenzioso - Procedimento - Produzione di perizia stragiudiziale - Portata - Obbligo del giudice di motivare il proprio dissenso - Esclusione - Limiti - Esposizione in motivazione di considerazioni incompatibili con le conclusioni della perizia - Sufficienza - Ragioni. Nel giudizio di impugnazione di avvisi di accertamento, il giudice del merito non è tenuto a dare conto del fatto di aver valutato analiticamente tutte le risultanze processuali, né a confutare ogni singola argomentazione prospettata dalle parti, essendo sufficiente che egli, dopo averli vagliati nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter logico seguito, implicitamente disattendendo gli argomenti morfologicamente incompatibili con la decisione adottata, come nel caso di mere allegazioni difensive quali sono le osservazioni contenute nella perizia stragiudiziale. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 29 luglio 2011 n. 16650. Liguria: il governatore Toti visita Marassi "chi delinque sconti la pena nel proprio Paese" primocanale.it, 18 agosto 2015 Il governatore della Liguria Giovanni Toti ha fatto visita al carcere di Marassi accompagnato dall’assessore alla Formazione, Cultura e Spettacolo Ilaria Cavo. A ricevere i due membri del centro-destra era presente il direttore del carcere Salvatore Mazzeo. Dopo la visita alla struttura Toti ha rilasciato dichiarazioni su vari argomenti, dall’immigrazione alla giustizia. "Le carceri sono uno dei due terminali di quelle esigenze di sicurezza che rivendichiamo di più per questo paese. Serve più rigore e più rispetto della legge. La situazione del centro storico di Genova parla da sola. Servono carceri efficienti. In un carcere come Marassi ci sono oltre il 60% di detenuti in attesa di giudizio di cui moltissimi stranieri. Così il problema del sovraffollamento non si risolverà mai. Ci vogliono meno detenuti in attesa di giudizio, occorre inoltre che gli stranieri che delinquono in Italia scontino la pena altrove ed occorre inoltre avere la certezza che chi delinque vada in galera e in galera riceva un trattamento umano". "Se fai entrare in un paese un paese persone senza un lavoro e senza una prospettiva diventeranno preda della criminalità organizzata. In più il sistema delle espulsioni non funziona e le nostre frontiere sono un colabrodo ed è così che si creano situazioni come quella del carcere di Genova. Vanno bloccati gli arrivi e va espulso chi deve essere espulso. Non so se l’Italia abbia bisogno di essere bloccata come suggerisce Salvini, di certo il governo Renzi sta facendo poco e male e la nostra economia non cresce". Dopo il presidente della Regione ha parlato anche Ilaria Cavo: "Ho voluto essere presente perché sono diverse le deleghe che interessano questa esperienza in carcere, innanzitutto quella della formazione professionale: c’è una misura del fondo sociale europeo che riguarda l’inclusione sociale. Bisognerà riprogrammare questi fondi e bandi, bisogna dare uno sbocco sociale una volta che questi ragazzi hanno terminato la pena. È già stato investito un milione di euro ma c’è ancora molto da fare al riguardo. La Regione ha investito anche su spettacoli teatrali per i detenuti, un’esperienza che unisce la realtà di chi sconta una pena e la realtà di registi e attori di successo. Sembra che sia servito molto a entrambe le parti". Servono nuove strutture fuori da città "All’Italia servono nuovi carceri fuori dalle città, dove ci siano sistemi di sicurezza più sofisticati per gli agenti penitenziari, più conforto ai detenuti e meno manodopera, vanno dismesse le strutture carcerarie nelle zone di eccellenza". È la sollecitazione lanciata dal presidente della Regione Liguria Giovanni Toti a Genova al termine di una visita al carcere di Marassi. "Servono nuove strutture e un piano strategico del governo - dichiara Toti - Il compito del governo è fare dei piani di medio-lungo periodo sul sistema carcerario, non far restare il problema endemico della giustizia italiana così com’è: troppi detenuti in attesa di giudizio, sovraffollamento, troppi stranieri che scontano la pena in Italia quando potrebbero essere rimpatriati. Soprattutto manca la certezza della pena e la sicurezza per la polizia penitenziaria. Gli agenti devono poter lavorare in condizioni degne della settima-ottava democrazia del mondo. Da come si trattano i detenuti c’è il termometro della civiltà di un Paese". Umbria: Sappe; non c’è più sovraffollamento ma bisogna eliminare l’ozio, primo nemico di Anna Lia Sabelli Fioretti Corriere dell’Umbria, 18 agosto 2015 Quando un detenuto si toglie la vita in carcere, come è successo di recente a Terni e poco prima in altri due casi a Milano, la prima cosa che si sottolinea è l’insufficienza di personale di custodia della polizia penitenziaria, l’impossibilità di un controllo attento e capillare delle celle soprattutto laddove si registra un sovraffollamento di carcerati. Invece, pur in presenza di una carenza di Baschi Azzurri ma non al punto da gridare allo scandalo come avvenne alcuni anni addietro quando si sfiorò il collasso, ci sono altri fattori che influiscono in maniera determinante sulla psiche di chi sconta la pena dietro le sbarre, a cominciare dalla noia e dalla inattività. "Bisogna eliminare l’ozio - precisa Fabrizio Bonino responsabile del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). Nonostante i richiami di Bruxelles l’amministrazione penitenziaria non ha affatto migliorato le condizioni di vivibilità all’interno di un carcere. Il numero dei detenuti che lavorano è irrisorio rispetto al totale. Chi sconta la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4%, chi fruisce di misure alternative del 19% e chi è inserito nel circuito produttivo addirittura dell’1%". Il lavoro che salva Secondo Bonino tenere i detenuti nelle celle a non far nulla è una scelta assurda e pericolosa. "Dovrebbero lavorare, i meno pericolosi in progetti di recupero ambientale nelle città, pulendo i greti dei fiumi e i giardini pubblici, gli altri in attività all’interno del carcere. Manca la volontà politica di cambiare ma è anche il risultato delle politiche penitenziarie sbagliate degli ultimi 30 anni che hanno lasciato solo al sacrificio e alla professionalità del corpo della polizia penitenziaria la gestione quotidiana delle sovraffollate carceri umbre". Che poi tanto sovraffollate non lo sono più. Non c’è più un’emergenza. Oggi (l’ultima rilevazione è del 30 giugno 2015) nei quattro istituti di pena ci sono 1.299 persone (1.266 uomini e 33 donne): 59 a Orvieto, 310 a Capanne, 498 a Spoleto e 432 a Terni. Nello stesso periodo dell’anno scorso ce n’erano 1.526. L’organico umbro è di 1.002 poliziotti ma in forza ce ne sono in realtà 874. "I Baschi Azzurri attualmente in servizio in Umbria - aggiunge - fanno sacrifici quotidiani per garantire sicurezza e umanità. Spesso sono stati lasciati soli a gestire all’interno del carcere molte situazioni di disagio sociale. Non si può chiedere al personale carcerario di accollarsi la responsabilità di tracciare profili psicologici che possono far intuire l’eventuale rischio di autolesionismo e di suicidio dei detenuti. A questo debbono provvedere i sanitari e gli assistenti sociali. Una cosa comunque è certa: se non fosse per la professionalità, l’attenzione e il senso del dovere dei poliziotti penitenziari le morti per suicidio sarebbero molte di più di quelle attuali". Morti che in Italia sono decisamente scese, dai 72 casi del 2009, ai 60 casi del 2012, ai 44 del 2014. Nei primi 7 mesi di quest’anno sono 25. Coinvolgere D’accordo con l’analisi di Bonino anche chi lavora dalla parte dei detenuti come Noemi Scacciatelli di Arci Solidarietà Ora d’Aria. Anche lei punta il dito sull’ozio. "Un sistema che a Capanne sta funzionando molto bene è quello della "sorveglianza dinamica", un patto tra il detenuto e il direttore, legato anche ad un basso uso di farmaci. In pratica è il detenuto che sceglie di fare dell’attività, di uscire dalla cella suonando un campanello. La porta gli viene automaticamente aperta da una sala operativa di videosorveglianza. In questo modo c’è bisogno di meno guardie (sono 230 per 400 carcerati) e loro si sentono più liberi. Tutto è legato però alla presenza di associazioni di volontariato. Una si occupa di vestiti, un’altra fa corsi di cucina e di cucito. C’è un’azienda agraria per detenuti in semilibertà, Fattoria Capanne, che vende tutto quello che loro producono il giovedì a Pian di Massiano e il lunedì a Ponte San Giovanni. E persino un allevamento di polli ruspanti. In questo modo si combatte l’ozio e la noia. Più si sentono coinvolti ed in attività, ascoltati, meno stanno chiusi in cella e più vivono una situazione psicologica migliore, evitando la depressione". Se il piatto piange "Il sostegno psicologico è molto importante - conferma Federica Porfidi che si occupa dei carcerati di Sabbione a Terni - ma non vengono fatti investimenti su questo settore. La cura e il trattamento psicologico per i soggetti più a rischio è sempre la cenerentola degli investimenti. I fondi per svolgere le attività sono stati azzerati. Possiamo dare conforto solo con le parole, non con i corsi di formazione o con i laboratori". "Se si rimuovessero gli sbarramenti che impediscono l’accesso alle misure alternative al carcere e si incentivassero gli interventi per il reinserimento sociale - conclude Bonino - se si usasse sempre la custodia cautelare, se si procedesse a bonificare l’ordinamento penitenziario dagli automatismi preclusivi e si desse maggior manovra alla magistratura di sorveglianza, le presenze stabili di detenuti potrebbero scendere di 50mila unità nel giro di un anno. Con 15-20 mila detenuti in meno. Queste le vere riforme strutturali: lavoro in carcere, espulsione degli stranieri con meno di 3 anni di pena, detenzione in comunità per i tossicodipendenti e alcoldipendenti". Biella: il progetto "Ricominciare" all’interno del carcere di Via dei Tigli di Marcelo Profumo ilperiodicodibiella.com, 18 agosto 2015 La "Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri di Torino", ha lanciato una nuova iniziativa denominata "Pollici al Verde", dedicato al reinserimento sociale dei detenuti della casa circondariale di Biella. Il progetto, che gode dell’appoggio di svariate associazioni volontaristiche locali, vede un gruppo di detenuti della sezione "Ricominciare" impegnati nella filiera agricola. Alla presentazione del progetto ha partecipato anche la Lilt Biella, attraverso il suo vicepresidente Daniela Alberici Mancini, la quale ha dato piena disponibilità nel rendere la sede di via Belletti Bona, punto di raccolta per le attrezzature da giardinaggio necessarie ai detenuti. Infatti, chiunque avesse a disposizione un decespugliatore, delle motozappe e tutto quanto possa servire alla coltivazione e alla manutenzione di orti e giardini in buono stato d’uso, può portarli direttamente presso la sede Lilt di Biella, sarà poi un addetto a provvedere nella consegna del materiale alla Casa Circondariale. "È un piacere per noi di Lilt Biella poter dare un contributo a questa meritevole iniziativa - afferma il vicepresidente Daniela Alberici Mancini - ammiro l’impegno e la forza di volontà di queste persone, che con perseveranza e dignità hanno colto il progetto come l’opportunità per ricominciare e cominciare a costruirsi una vita al di fuori delle mura. Il nostro impegno sarà costante e lancio l’appello a tutti coloro che in casa abbiano un utensile da giardino che non utilizzano più, di portatelo da noi o se pesante di contattarci telefonicamente o via mail. Questa iniziativa è un esempio di come insieme si possa realmente contribuire ad offrire un’opportunità per ricominciare". Il progetto nato dalla fondazione torinese, è un’opera che vuole promuovere all’interno dell’area penale, il reinserimento sociale e lavorativo di persone coinvolte dal sistema della giustizia. "Pollici al Verde" è un’iniziativa che coinvolge 15 detenuti del carcere di Biella, che hanno avuto l’opportunità di accedere a un corso di formazione professionale per occuparsi delle aree verdi. Questo percorso rappresenta un impegno forte da parte delle Istituzioni, per reinserire le persone all’interno della società, ed è pensato appositamente per dare un bagaglio di conoscenze da sfruttare quando la pena sarà scontata. Le attività che i detenuti svolgeranno all’interno del progetto sono: il ciclo del compost, utilizzando gli scarti organici provenienti dalla cucina detenuti e dagli sfalci verdi legati alla manutenzione del verde interno; la vivaistica e taleaggio, per la riproduzione delle piante da orto inizialmente resa possibile dal ripristino di funzionalità della serra stabile, la manutenzione del verde all’interno delle mura detentive e la messa a coltura di una zona per la produzione di verdure. Grazie alla collaborazione con la Caritas Biellese, tutti i prodotti agricoli coltivati biologicamente all’interno del carcere, andranno alla mensa di condivisione. Per conoscere le modalità di raccolta delle attrezzature da giardinaggio da parte della Lilt, è possibile telefonare allo 015.835211 o scrivere a info@liltbiella.it. Milano: con "Officina Giotto" il panettone del carcere di Padova è protagonista a Expo Vita, 18 agosto 2015 Officina Giotto presenta oggi i suoi prodotti di punta: il dolce tipico milanese nella sua versione più "padovana" e il gelato realizzato con il latte, la frutta e le altre materie prime naturali di Coldiretti. Si intitola "Non Farmers No Party" il padiglione Caldiretti di Expo (vicino all’ingresso del Cardo Sud) che il 17 agosto dedica l’intera giornata alla Pasticceria del carcere di Padova con la presentazione al mondo dei suoi prodotti di punta: il panettone, nella sua versione più "padovana" e il gelato realizzato con il latte, la frutta e le altre materie prime naturali di Coldiretti Padova. Panettone e gelato potranno essere degustati per tutto il giorno, serviti da alcuni pasticceri detenuti. Una vetrina internazionale, quindi, per un prodotto che nasce con la vocazione a varcare i confini, non solo per gli ordini che provengono da tutto il mondo e per i 200 punti vendita che propongono i nostri prodotti, ma anche per gli esempi sempre più numerosi di realtà sociali e imprenditoriali che dalla Pasticceria Giotto prendono esempio per realizzare imprese analoghe: dal Venezuela al Portogallo, da Chicago fino al Brasile. "Esiste qualcosa di più vicino allo spirito dell’Expo?", si chiede Nicola Boscoletto, presidente del consorzio sociale padovano di Officina Giotto, "l’Esposizione internazionale non è un’enorme fiera del cibo, ma un’occasione per riflettere sul fattore umano che sta alla sua base. Prodotti alimentari di eccellenza, la storia lo dimostra, nascono solo in una cultura e in un contesto umano in cui c’è una piena valorizzazione della persona in tutti i suoi fattori, anche di persone che vivono in condizioni svantaggiate o di disagio. Ne sono un esempio i nostri pasticceri e gli altri lavoratori del carcere di Padova: per chi segue i percorsi lavorativi e viene poi accompagnato al lavoro esterno in misura alternativa, la percentuale di recidiva, che normalmente si attesta sopra il 70 per cento, viene letteralmente abbattuta: parliamo del 2-3 per cento di persone che tornano a delinquere. Puntare tutto sulla persona è l’unica vera possibilità per rispettare davvero il pianeta e valorizzare le sue risorse". Anzitutto a Expo ci sarà il più volte premiato panettone Giotto, per confermare la scelta del "Panettone a Ferragosto" da sempre adottata dalla pasticceria di Padova, che nell’occasione sarà presentato in versione al Fior d’Arancio. Le uvette ammostate per ventiquattro ore in questo splendido passito docg dei Colli Euganei esaltano morbidezza e profumi dell’impasto di questo splendido panettone, con note di frutta candita. Anche il miele presente nell’impasto conferisce rotondità al gusto. Un prodotto del territorio veneto, realizzato da pasticceri che contano, imparando una professionalità molto richiesta sul mercato, di pagare il loro debito con la società e reinserirsi a pieno titolo. Accanto al panettone ci sarà l’ultimo nato di casa Giotto: il gelato, espressione di una scelta naturale a partire dalle materie prime dei produttori locali di Campagna Amica. Un’alleanza tra giovani imprenditori di Coldiretti Padova che hanno scelto di credere ancora nell’agricoltura e nella valorizzazione del territorio e un’impresa sociale come Officina Giotto che si propone sul mercato ma allo stesso tempo punta tutto sul fattore umano, con i suoi 500 dipendenti, di cui 214 persone svantaggiate, soprattutto in condizioni di disagio sociale, ma anche con disabilità fisiche e psichiche. Il laboratorio di gelateria della casa di reclusione Due Palazzi ha iniziato la sua attività nel gennaio 2015, grazie al finanziamento della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e della Cassa delle Ammende del Ministero della Giustizia. A pranzo e cena, nel roof garden del padiglione Coldiretti si alterneranno ai fornelli gli agri chef di Coldiretti Terranostra: il giovane e promettente Manuel Innocenti (Agriturismo il Caliero di Villa del Conte) insieme a Franca Dussin (Agriturismo Alle Rose di Massanzago), Giuliano Ravazzolo (Agriturismo Scacchiera di Padova), Cinzia Calaon (Agriturismo Bacco e Arianna di Vò). A tavola saranno protagonisti i prodotti del territorio, a partire dalla frutta fresca, dalla verdura condita con l’olio extravergine Veneto Euganei Berici Dop "Evo del Borgo", dal prosciutto di Montagnana Euganeo Berico Dop, fino ai formaggi prodotti con il latte dell’Alta Padovana, ai meloni e alle zucche dell’azienda Bressan di Santa Margherita d’Adige e ai vini delle Doc Merlara e Colli Euganei. Per concludere con il Re dei prodotti del territorio, il Panettone al Fior d’Arancio, naturalmente accompagnato dal gelato Giotto. Verona: l’ex direttore del Sert reintegrato dal giudice a assegnato alla sanità penitenziaria Corriere di Verona, 18 agosto 2015 Il giudice aveva annullalo il licenziamento dell’ex direttore del Sert. Il dg lo assegna alla sanità penitenziaria. Nervi tesi all’Usl 20, dove si registra l’ennesimo colpo di scena nell’ormai interminabile querelle che vede contrapposti il direttore generale Maria Giuseppina Bonavina e gli ex vertici del Sert di via Germania. Ma riavvolgiamo un attimo il filo della memoria. Eravamo rimasti alla "riassunzione" per ordine del Tribunale del dottor Maurizio Gomma, l’ex direttore del Sert licenziato dal dg Bonavina insieme ai colleghi Giovanni Serpelloni e Oliviero Bosco per la contestata titolarità dei diritti d’autore relativi al software MFP attualmente in uso a oltre un centinaio di Sert in tutta Italia. A novembre 2014 Gomma era stato "cacciato" dall’Usl 20, martedì scorso il giudice del Lavoro Antonio Gesumunno ne ha annullato il licenziamento rilevando un vizio di forma nella delibera di risoluzione del rapporto di lavoro e ieri, dagli uffici dell’Azienda, la nuova svolta. Con la delibera 517, il dg Bonavina ha disposto il reintegro di Gomma in esecuzione alla sentenza del Tribunale ma, come si era del resto già intuito, non lo ha riassegnato alla sua precedente funzione ricoperta al Sert. A decorrere da lunedì prossimo, 24 agosto, Gomma infatti riprenderà servizio... in carcere. Più esattamente, lavorerà alla sanità penitenziaria. Ineccepibile, nelle motivazioni, il provvedimento firmato ieri dal dg Bonavina: "Con la delibera 580 del 23/10/2014 - ricorda - si è provveduto alla riattribuzione delle funzioni e del personale dei Sert alla nuova unità operativa prevista dall’atto aziendale e in particolare al Servizio Dipendenze a decorrere dal 1/11/2014 e, a seguito della riorganizzazione effettuata in ordine sia a spazi che ad attività, il personale attualmente assegnato al Servizio Dipendenze assicura tutta l’attività prevista per i servizi dipendenze e, pertanto, la medesima struttura non necessita di ulteriore personale medico". Traduzione: al momento, l’organico del Sert è al completo e non necessita di nuovi innesti. Al contrario, invece, "risulta estremamente urgente e necessario procedere alla assegnazione dì una unità medica nell’ambito della sanità penitenziaria, considerate le attuali carenze di personale medico, in grado di assicurare i previsti livelli di assistenza sanitaria ai detenuti, molti dei quali tra l’altro, hanno problemi legati alla tossicodipendenza". Del resto, il dottor Gomma risulta "in possesso della specializzazione in medicina interna, ha maturato una esperienza di servizio oltre che nelle attività specifiche del Servizio Dipendenze anche nel trattamento dei tossicodipendenti in carcere". Tutte ragioni in base a cui il dg dell’Usl 20,"acquisito agli atti il parere favorevole del Direttore Sanitario, del Direttore Amministrativo, nonché del Direttore dei Servizi Sociali e della Funzione Territoriale per quanto di rispettiva competenza", ha deliberato dunque di reintegrare Gomma "invitandolo a riprendere servizio dal 24/8/2015", di "confermare l’inquadramento economico in godimento alla data di cessazione", di assegnarlo "al Distretto - Sanità Penitenziaria - con sede in via del Capitel, n. 22", di rifondergli come decretato dal giudice le spese legali per circa 4mila euro e infine "di imputare la spesa complessiva del trattamento economico dalla data di rientro quantificata in 32.223,92 euro (di cui 25.353,18 euro per competenze e 6.870,74 euro per oneri a carico del datore di lavoro) al Bilancio di Previsione anno 2015". Improbabile, comunque, che il caso si chiuda qui. Avellino: la Presidente del Consiglio regionale D’Amelio visita il carcere di Sant’Angelo ilquaderno.it, 18 agosto 2015 La Presidente del Consiglio regionale Campania, Rosetta D’Amelio, ha visitato in mattinata il carcere di Sant’Angelo dei Lombardi accompagnata dal giornalista Samuele Ciambriello, Presidente dell’Associazione La Mansarda, da sempre vicino alla tematica dei diritti dei detenuti. Accolta dal direttore della struttura Massimiliano Forgione, dal comandante Giovanni Salvati, dal responsabile dell’area educativa Enrico Farina e da quello della tipografia Emilio Cozzolino, la Presidente D’Amelio ha potuto apprezzare ancora una volta il prezioso lavoro svolto all’interno del penitenziario per il recupero e reinserimento sociale dei detenuti. "Non è la prima volta che ho modo di osservare - ha sottolineato Rosetta D’Amelio - la straordinaria realtà di un carcere che ha tra le altre cose l’unica tipografia d’Italia, una lavanderia, frutteti, un’area sanitaria riservata a detenuti provenienti dagli ex ospedali psichiatrici giudiziari, un’area didattica all’avanguardia e circa il 50% dei detenuti impegnati in attività lavorativa durante la giornata. Ricordo con piacere il lavoro portato avanti in favore di questa struttura da assessore alle Politiche sociali, in collaborazione con l’assessorato all’Agricoltura e il dirigente dello Stapa Cepica Tommaso Vitale. A partire dalla visita odierna - conclude - assumo l’impegno a vigilare come Regione Campania sulla situazione carceraria". "La filosofia sottesa al reinserimento dei detenuti in questa realtà - dichiara Samuele Ciambriello - dovrebbe contaminare positivamente le altre strutture penitenziarie non solo campane, dove ora sono realizzati interventi occasionali che invece dovrebbero diventare attività strutturate e continuative grazie a un impegno maggiore delle amministrazioni carcerarie nell’organizzazione e gestione delle stesse". Milano: arrestato il detenuto 20enne evaso dopo una visita all’ospedale Pertini di Roma Ansa, 18 agosto 2015 Il 20enne marocchino evaso domenica dal carcere romano di Rebibbia dopo essere stato trasferito per alcuni accertamenti medici all’ospedale "Sandro Pertini", è stato arrestato a Milano, arrestato a Milano il detenuto evaso durante una visita all’ospedale Pertini di Roma. La notizia è stata confermata dal segretario dell’Osapp, Leo Beneduci. Il ragazzo era stato trasferito a Roma dopo aver aggredito un agente nel carcere di Viterbo ma qui aveva accusato dei dolori alla spalla, motivo per cui dal carcere di Rebibbia era stato portato all’ospedale Sandro Pertini per accertamenti ma durante la visita in ospedale, si era dato alla fuga. Immigrazione: aiutiamoli a casa nostra di Guido Viale Il Manifesto, 18 agosto 2015 Altro che "problema dei profughi". Per salvare l’Europa potrebbe essere l’immigrazione la vera risorsa. Profughi e migranti sono persone che oggi distingue solo chi vorrebbe ributtarne in mare almeno la metà: fanno la stessa strada, salgono sulle stesse imbarcazioni che sanno già destinate ad affondare, hanno attraversato gli stessi deserti, si sono sottratte alle stesse minacce: morte, miseria, fame, schiavitù sanno già che con quel viaggio, che spesso dura anni, mette a rischio la loro vita e la loro integrità. Quelli che partono dalla Libia non sono libici: vengono da Siria, Eritrea, Somalia, Nigeria, Niger o altri paesi subsahariani sconvolti da guerre o dittature. Quelli che partono dalla Turchia per raggiungere un’isola greca o il resto dell’Europa attraversando Bulgaria, Macedonia e Serbia non sono turchi: sono siriani, afgani, iraniani, iracheni, palestinesi e fuggono tutti per gli stessi motivi. Sono anche di più di quelli che si imbarcano in Libia; ma nessuno ha proposto di invadere la Turchia, o di bombardarne i porti, per bloccare quell’esodo, come si propone di fare in Libia per risolvere il "problema profughi". Non si concepisce nient’altro che la guerra per affrontare un problema creato dalla guerra: guerre che l’Europa o i sui Stati membri hanno contribuito a scatenare; o a cui ha assistito compiacente; o a cui ha partecipato. Bombardare i porti della Libia, o occuparne la costa per bloccare quell’esodo non è che il rimpianto di Gheddafi: degli affari che si facevano con lui e con il suo petrolio e del compito di aguzzino di profughi e migranti che gli era stato affidato con trattati, finanziamenti e "assistenze tecniche". Dopo aver però contribuito a disarcionarlo e ad ammazzarlo contando sul fatto che tutto sarebbe filato liscio come e meglio di prima. Già solo questo abbaglio, insieme agli altri che lo hanno preceduto, seguito o accompagnato - in Siria, in Afghanistan, in Iraq, in Mali o nella Repubblica centroafricana - dovrebbe indurci non solo a diffidare, ma a opporci in ogni modo ai programmi di guerra di chi se ne è reso responsabile. Ma chi propone un intervento militare in Libia, o mette al centro del "problema profughi" la lotta agli scafisti, non sa in realtà che cosa fare. Tra l’altro, bloccare le partenze dalla Libia non farebbe che riversare quel flusso su altri paesi, tra cui la Tunisia, rendendo ancora più instabile la situazione. Ma soprattutto non dice - e forse non pensa: il pensiero non è il suo forte - che cosa sta proponendo veramente: si tratta di respingere o trattenere quel popolo dolente, di ormai milioni di persone, nei deserti che sono una via obbligata della loro fuga, e che hanno già inghiottito più vittime di quante ne ha annegato il Mediterraneo; magari appoggiandosi, con il cosiddetto "processo di Khartum", a qualche feroce dittatura subsahariana perché si incarichi lei di farle scomparire. È il risvolto micidiale, ma già in atto, dell’ipocrisia dietro a cui si riparano i nemici dei profughi: "aiutiamoli a casa loro". Invece bisogna aiutarli a casa nostra, in una casa comune da costruire con loro. Non c’è altra alternativa al loro sterminio, diretto o per interposta dittatura. Bisogna innanzitutto smettere di sottovalutare il problema, come fanno quasi tutte le forze di sinistra, e in parte anche la chiesa, sperando così di neutralizzare l’allarmismo di cui si alimentano le destre. Certo, 50.000 profughi (quanti ne sono rimasti di tutti quelli sbarcati l’anno scorso in Italia) su 60 milioni di abitanti, o 500mila (quanti hanno raggiunto l’anno scorso l’Unione Europea) su 500 milioni di abitanti non sono molti. Ma come si vede, soprattutto per il modo in cui vengono maltrattati, sono sufficienti a creare insofferenze insostenibili. Ma i profughi di questo e degli ultimi anni sono solo l’avanguardia degli altri milioni stipati nei campi del Medioriente o in arrivo lungo le rotte desertiche dai paesi subsahariani: che non possono restare dove sono. Vogliono raggiungere l’Europa e in qualche modo si sentono già cittadini europei, anche se sanno di non essere graditi e desiderano tornare a casa quando se ne presenteranno le condizioni. L’Unione europea in mano all’alta finanza e agli interessi commerciali del grande capitale tedesco ha concentrato le sue politiche nel far quadrare i bilanci degli Stati membri a spese delle loro popolazioni e nel garantire il salvataggio delle sue grandi banche. Così, anno dopo anno, ha permesso o concorso a far sì che ai suoi confini si creassero situazioni di guerra e di caos permanenti, di dissoluzione dei poteri statali, di conflitti per bande di cui l’ondata di profughi e di migranti è la più diretta conseguenza. Non saranno altre guerre, e meno che mai i respingimenti, a mettere fine a uno stato di cose che l’Unione non riesce più a governare né dentro né fuori i suoi confini. A riprendere le fila di quei conflitti, e del conflitto che si sta acuendo per gli sbarchi e gli arrivi, non può che essere un nuovo protagonismo di quelle persone in fuga: le uniche che possono definire e sostenere una prospettiva di pace nei paesi da cui sono fuggiti. Ma questo, solo se saranno messe in condizione di organizzarsi e di contare come interlocutori principali, insieme ai loro connazionali già insediati sul suolo europeo e a tutti i nativi europei che sono disposti ad accoglierli e ad alleviare le loro sofferenze; e che sono ancora tanti anche se i media non vi dedicano alcuna attenzione. Dobbiamo "accoglierli tutti", come raccomandava più di un anno fa Luigi Manconi; dare a tutti di che vivere: cibo, un tetto, la possibilità di autogestire la propria vita, di andare a scuola, di curarsi, di lavorare, di guadagnare. Ma non sono troppi, in un paese e in un continente che non riesce a garantire queste cose, e soprattutto lavoro e reddito, ai suoi cittadini? Sono troppi per le politiche di austerity in vigore nell’Unione e imposte a tutti i paesi membri; quelle politiche che non riescono a garantire queste cose a una quota crescente dei loro cittadini e che in questo modo scatenano la "guerra tra poveri". Ma non sono troppi rispetto a quella che potrebbe ancora essere la più forte economia del mondo, se solo investisse, non per salvare le banche e alimentare le loro speculazioni, ma per dare lavoro a tutti e riconvertire, nei tempi necessari per evitare un disastro planetario irreversibile, il suo apparato produttivo e le sue politiche in direzione della sostenibilità ambientale. Il lavoro, se ben orientato, è ricchezza. D’altronde l’alternativa a una svolta del genere non è la perpetuazione di uno status quo già ora insopportabile, ma lo sterminio ai confini dell’Unione e la vittoria, al suo interno, delle organizzazioni razziste che crescono indicando il nemico da combattere nei profughi e in tutti gli immigrati. E se non proprio di quelle organizzazioni, certamente delle loro politiche fatte proprie da tutte le altre forze politiche. Così il "problema dei profughi", non previsto e non affrontato dalla governance dell’Unione, perché non ha né posto né soluzione nel quadro delle sue politiche attuali, può diventare una leva per scardinarle per sostituirle con un grande piano per creare lavoro per tutti e per realizzare la conversione ecologica dell’economia: due obiettivi che in una prospettiva di invarianza del quadro attuale non hanno alcuna possibilità di essere raggiunti. È a noi italiani, e ai greci, che tocca dare inizio a questo movimento. Perché siamo i più esposti: le vittime designate del disinteresse europeo. Immigrazione: il cardinal Bagnasco "ma l’Onu cosa fa?" di Leo Lancari Il Manifesto, 18 agosto 2015 Bagnasco contro le Nazioni unite: "Mi chiedo se hanno mai affrontato seriamente questa tragedia. Sull’emergenza immigrazione la chiesa torna ancora una volta all’attacco ma questa volta nel mirino non finiscono i "politici piazzisti" o il governo Renzi, ma direttamente l’Onu. A portare l’affondo è monsignor Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana che si chiede se le Nazioni unite si stiano muovendo nel modo gusto per fronteggiare la crisi, "Mi chiedo - ha detto il cardinale - se questi organismi internazionali come l’Onu in modo particolare che raccoglie il potere politico ma anche il potere finanziario, hanno mai affrontato in modo serio e deciso questa tragedia umana". Parole che raccolgono l’adesione del governatore della Lombardia Roberto Maroni. Bagnasco parla nel corso di una visita al seminario arcivescovile che si trova sulle alture di Genova e dove su richiesta della prefettura vengono ospitati 50 profughi provenienti da Nigeria, Senegal, Afghanistan e Bangladesh. "Quando vediamo centinaia, migliaia di persone, esseri umani, di donne, uomini e bambini che affrontano i viaggi della morte per arrivare in Paesi lontani dai propri per motivi che ben sappiamo - dice - non possiamo non concludere che questo problema è un’emergenza veramente umanitaria, una tragedia dell’uomo". Una crisi umanitaria che ogni anno coinvolge nel mondo quasi 60 milioni di persone in fuga dalle proprie case. E forse è proprio pensando a loro che Bagnasco usa parole dure nei confronti delle Nazioni unite alle quali si appella per un intervento più incisivo. In realtà tra gli organismi internazionali l’Onu è tutt’altro che insensibile al problema dei profughi, al punto che attraverso le sue agenzie, Unhcr e Unicef, non c’è settore di crisi in cui non interviene direttamente: in Medio oriente come in Africa e in Asia, allestendo campi e assistendo i profughi con cibo e vestiti. Ma anche intervenendo e facendo pressione su governi. Nei mesi scorsi, ad esempio, quando in Europa infuriavano le polemiche su come agire per mettere fine alle tragedie del Mediterraneo e sulla divisione tra gli Stati membri di poche decine di migliaia di profughi, dal palazzo di vetro sono partite sollecitazioni all’Unione europea perché mettesse da parte egoismi e interessi locali. Sollecitazioni che, come si è visto, sono rimaste inascoltate. Al punto che l’Unione europea ancora stenta a farsi carico del problema. Tra pochi giorni, i primi di settembre, a Bruxelles i capi di Stato e di governo si vedranno per mettere a punto i meccanismi di divisione di circa 35mila profughi arrivati in Italia e Grecia, ma nonostante le continue tragedie del mare e le immagini degli ingenti sbarchi che arrivano dalle isole greche, a oggi sembra davvero difficile che sia è possibile superare le divisioni viste finora. "Il tema dell’immigrazione è ed è stato una priorità per il presidente Juncker", ha detto ieri con ottimismo una portavoce della commissione, che ha ricordato come lo stesso Juncker sia stato "incoraggiato" da una telefonata ricevuta giovedì scorso dalla cancelliera Merkel. "Italia e Grecia non resteranno sole" ha invece promesso di nuovo il commissario Ue all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos appena tornato dalla Grecia. Lecito dubitare che a settembre vedremo una Ue più solidale rispetto al passato, anche perché le elezioni sono imminenti in Spagna e Polonia e le forze populiste soffiano sull’immigrazione per raccogliere voti. Intanto - ed è già qualcosa - arrivano soldi per l’accoglienza: 7 miliardi di euro fino al 2020, dei quali 558 milioni sono destinati all’Italia e 474 alla Grecia. Serviranno a alloggiare e identificare i migranti, a valutare la loro posizione di richiedenti asilo e, in caso di respingimento, il loro eventuale rimpatrio. Nella consapevolezza, ormai unanime, che quella legata all’immigrazione potrebbe diventare la questione più importante con cui l’Europa dovrà fare i conti molto presto: "Una sfida più grande del debito greco", ha avvertito domenica scorsa la Merkel. Un concetto ribadito ieri anche dal Wall street journal, secondo il quale sarebbe a rischio l’integrazione europea. "C’è bisogno di un approccio su più fronti, incluse misure che creino fiducia nel processo di asilo nei Paesi dove i migranti arrivano in cambio di un fermo impegno europeo a ricollocare i migranti fra i vari paesi europei. Una soluzione come questa appare lontana", afferma il Wsj. La conseguenza è che la crisi "sta già avvelenando la politica in Europa, alimentando l’ascesa del nazionalismo e dei partiti di destra". Un processo che – dice il Wsj – finirà con l’erodere l’integrazione europea". Nigeria: Hacking Team e il delta del Niger, un caso studio del mercato della sorveglianza di Carola Frediani La Stampa, 18 agosto 2015 Così la Nigeria è stata terra di conquista di strumenti di intrusione e monitoraggio informatico prodotti in Occidente. Software spia rivenduti attraverso molteplici intermediari da almeno tre aziende occidentali; sistemi di monitoraggio del traffico internet forniti da statunitensi e israeliani; aziende petrolifere o di comunicazioni satellitari che saltano sul carro dei software di spionaggio; mercanti internazionali di armi e "soluzioni di sicurezza" che mediano tra discusse agenzie di intelligence e startup europee che hanno goduto di fondi regionali. La Nigeria degli ultimi 5 anni è stata terra di conquista di tecnologie per la sorveglianza delle comunicazioni. A ricostruire il quadro ci aiuta anche l’analisi dei materiali pubblicati online dopo l’attacco informatico subito da Hacking Team, l’azienda milanese che vende uno spyware (noto come Rcs o Galileo) a governi di tutto il mondo. Uno spaccato che va ben oltre le vicende della società di via della Moscova, illuminando un intero mercato, tanto opaco quanto in espansione. In nome della lotta al terrorismo e della riduzione del divario digitale, tecnologie e sistemi di sorveglianza strategica e tattica delle comunicazioni sono esportati in Paesi africani dove democrazia e Stato di diritto sono molto fragili. Abbiamo scritto del caso del Sudan, sappiamo dell’Etiopia. Ma pure la Nigeria apre uno squarcio interessante su questo settore. Nella lista clienti di Hacking Team compare infatti anche l’ufficio governativo dello Stato di Bayelsa, in Nigeria. Siamo al delta del Niger, area di estrema povertà e dove è più intensa la produzione di petrolio, e zona d’origine del presidente federale Jonathan, in carica fino al 2015. Il contratto va in porto nel 2012 e arriva tramite i soliti partner commerciali di Nice Systems, la multinazionale israeliana della sorveglianza strettamente legata all’azienda milanese e di cui abbiamo scritto qua. Ma a gestirlo sul campo è un’altra società, che fa da rivenditore del software Rcs allo Stato nigeriano: si tratta di Skylinks Satellite Communications, compagnia con quartier generale in Uk, la cui missione - stando al sito ufficiale - sarebbe quella di fornire servizi di comunicazione satellitare avanzati nel continente africano. Ma che evidentemente non disdegna di colmare il divario digitale del Sud del mondo anche sul fronte dei malware e dei software di intrusione e spionaggio. Per altro il suo Ceo, nelle mail con Hacking Team, sostiene di agire come il rappresentante di Nice in Nigeria. La girandola di intermediari però non finisce qui: quando Hacking Team deve emettere le fatture per il pagamento in due tranche - da 225mila dollari - nota con stupore che a pagare sarà un’altra società, la V&V Nigeria Limited. Il commerciale italiano appare basito e chiede spiegazioni: "perché l’ordine arriva da Skylinks mentre la fattura deve essere rivolta a V&V Nigeria Limited?", domanda al Ceo di Skylinks. "Può spiegare la relazione fra le due compagnie? Magari con una documentazione ufficiale?". Il contatto in Nigeria gli risponde che si sarebbe trattato di V&V fin dall’inizio, insomma che era stato solo un errore e di non farla lunga. L’italiano a quel punto chiede lumi anche agli israeliani di NICE e il collega pure taglia corto, rassicurandolo: "sono due aziende sorelle". La fattura viene dunque intestata a V&V Nigeria mentre il personale di Skylinks andrà a fare un training a Milano per poi occuparsi dell’installazione del sistema sul cliente finale, il governo dello stato di Bayelsa, e nello specifico il consigliere di sicurezza del governatore, il colonnello Bernard Kenebai. Insomma, ricostruire la trafila commerciale per cui passa il software Rcs in Paesi come la Nigeria non è impresa facile, tanto che genera confusione e dubbi perfino fra i dipendenti di Hacking Team. Le mail interne in cui si interrogano su chi sia il cliente finale di una richiesta di assistenza tecnica sono numerose, così come è forte la ritrosia degli intermediari nel rivelare l’identità di un potenziale acquirente. Ma torniamo al Paese africano e all’ultimo anello della catena, V&V Nigeria: secondo la testata nigeriana Premium Times, V&V Nigeria sarebbe una società, controllata da israeliani ma con base ad Abuja, che nel 2010 avrebbe ottenuto due commesse dal governo nigeriano per dei sistemi strategici di tracciamento e intercettazione GSM per la polizia. "Il presidente Jonathan paga 11 miliardi di naira per intercettare i vostri telefoni", titolavano a inizio 2015,, ben prima dell’attacco ad Hacking Team, i giornali del Paese. Non sapevano che al pacchetto di V&V Nigeria andava aggiunto il m alware made in Italy. Il mandato del presidente Jonathan - durato di fatto dal 2010 al marzo 2015, quando si è insediato il neoeletto Buhari - è stato contrassegnato da una espansione delle tecnologie e dei progetti di controllo e sorveglianza delle comunicazioni. "Uno shopping compulsivo", lo definiva nell’ottobre 2014 l’Ong Privacy International: tra le varie tecnologie acquistate, c’è un sistema di raccolta massiva e analisi di dati e comunicazioni costato 40 milioni di dollari e sviluppato dalla Elbit Systems, colosso dell’industria militare israeliana al centro di controversie anche perché specializzato nella sorveglianza di muri e barriere interstatali, dalla Cisgiordania al confine Usa-Messico. Ma la Nigeria, notava nello stesso periodo il laboratorio antisorveglianza Citizen Lab, era terra di conquista anche per gli americani di Blue Coat, specializzati nella gestione e monitoraggio del traffico internet; e per gli anglo-tedeschi di Gamma/Finfisher, che già vendevano i loro software spia. O ancora gli olandesi di Digivox, con soluzioni di intercettazione telefonica. Mancavano all’appello gli italiani, e ora sappiamo che c’erano. Quella dei malware di Stato comunque non è una piazza facile. I rapporti di Hacking Team col cliente nigeriano, e col partner, diventano nei mesi sempre più difficili. Nel 2013 il Ceo di Skylinks invia ad Hacking Team una mail con una serie di lamentele e recriminazioni tecniche, legate soprattutto al fatto che lo stato di Bayelsa vorrebbe riuscire a infettare più facilmente e in modo quasi automatico i cellulari. Cita in modo minaccioso il fatto che un’altra azienda che vende trojan, il gruppo israeliano NSO, starebbe lavorando in un altro Stato nigeriano, con grande successo nell’infezione di dispositivi Android. E precisa: "Inoltre prestate attenzione al fatto che non stiamo trattando con un piccolo cliente di una simpatica famiglia di un sobborgo della città", bensì con i sistemi delle forze dell’ordine governative del Paese, ovvero, "non sono tipi simpatici (nice guys) se non soddisfiamo le obbligazioni che abbiamo nei loro confronti". In Hacking Team c’è perplessità, ribadiscono di non poter fare supporto sul campo, ovvero occuparsi direttamente dell’infezione dei target, così come sembrerebbe invece fare la rivale NSO (almeno secondo le parole riportate dal partner/cliente) e offrono di organizzare un nuovo training a Milano. Il contratto con il governo di Bayelsa sarà poi concluso e non rinnovato a fine 2013. Ma la Nigeria pullula - oltre che di aziende che vendono spyware: Hacking Team, Gamma e NSO - di potenziali offerte e partner per soluzioni di intrusione informatica. Alcuni di questi intermediari si materializzano dal nulla, e appaiono abbastanza avventurosi, spesso accampano pretese nonché contatti tanto altolocati quanto oscuri; altre sono aziende che si occuperebbero d’altro ma che sfruttano le proprie relazioni per accaparrarsi una fetta del crescente mercato della sorveglianza. Una di queste, che a un certo punto contatta Hacking Team, è Tunsmos Petroleum, azienda basata in Nigeria che commercializza e distribuisce prodotti petroliferi. Così si presentano agli italiani: "La nostra visione strategica per il 2013 è diversificare gli interessi della nostra impresa dalla nostra competenza principale nell’industria petrolifera per procurare anche soluzioni di sicurezza a una serie di agenzie statali e governative (…) Siamo interessati a sviluppare una partnership con la vostra azienda … e introdurre le vostre soluzioni alle agenzie di intelligence in Nigeria". Hacking Team risponde di avere già contatti nel Paese e chiede chi sia l’utente finale - che, negli accordi di rivendita (broker agreement) del suo software Rcs dovrà comunque firmare un documento di licenza. Si tratta del consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Jonathan, ovvero il colonnello Sambo Dasuki. Alla fine il contratto non va in porto ma vale la pena riportare una nota a margine: il colonnello Dasuki poche settimane fa è stato licenziato dal nuovo presidente Buhari, e poi accusato di avere lucrato sulla compravendita di armi (che sarebbero dovute servire per contrastare gli estremisti islamici di Boko Haram). Muoversi in questo ambiente insomma è come camminare in un campo minato. Ma la fila di intermediari che bussano alle porte di Hacking Team non è finita. Già nel 2010 l’azienda milanese veniva contattata da un certo Shay Tal che si offriva di rivendere il software Rcs proprio all’ufficio del consigliere di sicurezza del presidente della Nigeria. Si organizza così prima una sua visita agli uffici di Milano, quindi una demo (a distanza) per i non proprio specchiati servizi segreti nigeriani (SSS)- che tra le altre cose, scrivono sia il governo Usa che l’organizzazione Index on censorship, hanno minacciato e arrestato giornalisti. Stando a un riassunto inviato dallo stesso Shay Tal a un commerciale di Hacking Team, nel 2011 la sua azienda e quella milanese avrebbero firmato un accordo per la rivendita di Rcs. Dal 2011 al 2013 Shay Tal avrebbe così presentato Rcs ai servizi segreti nigeriani (SSS) che però nel 2010 avevano già acquistato lo spyware dei rivali di Gamma/FinFisher; il ministero degli Interni e la polizia; il ministero della Difesa; la Commissione per i crimini finanziari ed economici (EFCC); e il governo dello stato nigeriano di Akwa Ibom. Tutto con scarso successo però e anche con qualche intoppo tecnico, dovuto ad esempio a problemi di connettività internet. Ciò nonostante ancora nel 2014 Shay Tal si rifà vivo, perché alcuni clienti che avevano acquistato dalla concorrenza sarebbero stati insoddisfatti dei risultati ottenuti (questa è una situazione tipica: molti governi si aspettano di poter infettare i dispositivi quasi per magia) e quindi ora l’intermediario avrebbe voluto organizzare una nuova demo di Rcs a più agenzie governative di sicurezza del Paese. Da Hacking Team rispondono di non poter incontrare il cliente in Nigeria e propongono a loro volta un appuntamento in Sud Africa. Shay Tal appare seccato e la contrattazione si arena. Ma chi è questo Shay Tal? Il suo nome e il suo indirizzo internet - gli stessi usati nella corrispondenza con Hacking Team - compaiono tra i partecipanti di una conferenza del 2012 in Nigeria dove rappresenta la Energtek Global Resource, azienda americana del ramo energia che opera soprattutto in Israele e nei Balcani. E altri suoi profili rimandano invece alla Israel Aerospace Industries, la più grande compagnia aerospaziale e di difesa controllata dal governo israeliano. Ma nel 2013 Shay Tal compare anche sulla stampa locale, perché coinvolto come mediatore (attraverso un’altra società, M-15) in una trattativa per la vendita alla Nigeria di motovedette poi naufragata con reciproche accuse di frode da tutte le parti coinvolte. E c’è chi lo ritiene anche il mediatore chiave per una serie di commesse attraverso le quali l’amministrazione nigeriana avrebbe comprato una unità di palloni aerostatici usati per sorvegliare il territorio e avrebbe affittato dei satelliti spia. Insomma, un mercante di armi e soluzioni di "sicurezza", spionaggio e sorveglianza. Non è l’unico del ramo a ruotare attorno ad Hackin Team, come abbiamo scritto qua. Ma le connessioni nigeriane non sono ancora finite. Perché a farsi vivo a un certo punto è Sam Igwe, Ceo della Sahara Bells Communications Ltd, azienda la cui missione sarebbe "costruire un ponte sul divario digitale" nigeriano, oltre che specializzata in sistemi satellitari (insomma, un film già visto). Igwe contatta il Ceo di Hacking Team David Vincenzetti via LinkedIn, dicendogli solo di essere nella "posizione per rivendere i vostri prodotti a un cliente governativo". Viene indirizzato ai commerciali e inizia una esplorazione dell’opportunità. Si capisce solo più avanti che il potenziale cliente sarebbe il capo della sicurezza (Chief security officer) dell’allora presidente Jonathan. E anche se alcuni dipendenti di Hacking Team sono dubbiosi e vorrebbero scartarlo da subito, dopo qualche mese si decide di provare a rivendergli il software attraverso il partner locale Skylinks che abbiamo giù visto attivo con Hacking Team su un’altra commessa nigeriana. Ma non funzionerà, a Igwe la soluzione non piace. La spiegazione fornita merita di essere riportata in toto: "Il nostro potenziale cliente ha altri 4 maggiori progetti di intercettazione già in corso o approvati, due dei quali gestiti da direttamente da aziende israeliane e il terzo indirettamente. La principale attrattiva del cliente verso le soluzioni di Hacking Team è che siete un’azienda italiana. Al cliente piace diversificare le fonti di approvvigionamento". Per la cronaca, anche il capo della sicurezza del presidente nell’estate 2015 è stato arrestato con l’accusa di furto di petrolio. Egitto: approvate le norme anti terrorismo, così al Sisi mette il bavaglio anche alla stampa di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 18 agosto 2015 La scorsa primavera è stato sventato un secondo golpe in Egitto dopo il colpo di stato del 3 luglio 2013. Una corte militare ha condannato 26 ufficiali dell’esercito egiziano con l’accusa di voler rovesciare il presidente al-Sisi. Gli ufficiali erano spariti lo scorso maggio e solo ora è stata diffusa la notizia della loro condanna. Tra i capi di imputazione l’intenzione di formare cellule dei Fratelli musulmani all’interno dell’esercito. Quattro dei colonnelli arrestati erano orami in pensione. Le divisioni all’interno della giunta militare egiziana non devono essere esagerate ma neppure taciute. Esistono anche scontri politici nell’elite militare in merito alla gestione corrente e ad un più o meno marcato impegno in politica, a favore degli islamisti, di altri partiti o di alti ufficiali. La stessa ascesa del presidente Abdel Fattah al-Sisi sarà forse ricordata come un golpe all’interno dell’esercito. Il presidente venne sì nominato dall’ex presidente Morsi ma poi fu il primo a volerne la destituzione e a imporre la durissima repressione degli islamisti. La rivalità con al-Sisi delle alte uniformi emerse anche alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2014, quando Sami Annan mostrò l’intenzione di volersi candidare e subì, a detta del suo entourage, un attentato che lo allontanò dalla scena politica. Altri golpe hanno avuto luogo per l’ascesa alle alte cariche del ministero dell’Interno con la destituzione del possibile responsabile di Rabaa al-Adaweya, Mohamed Ibrahim, e con l’ascesa del nuovo ministro della giustizia. In quei giorni di maggio quando i generali sono stati arrestati si sarebbero potute svolgere le elezioni parlamentari poi cancellate. E proprio sul voto ora si gioca il tutto per tutto. Nel caso le parlamentari non dovessero svolgersi neppure questo autunno come fa pensare l’accelerazione di al-Sisi sulla legge elettorale vorrà dire che tutto è possibile e le sorti del nuovo presidente sono ormai segnate. Ma i generali vicini all’uomo che ama rappresentarsi come il nuovo Nasser sono pronti a tutto per difendere il loro leader imponendo una delle leggi più dure mai approvate in Egitto. La legge anti-terrorismo è entrata in vigore la scorsa domenica. Più grave della legge di emergenza di Mubarak, prevede corti speciali per chiunque venga accusato di terrorismo, protezione legale per polizia e militari, la pena di morte per chi guida organizzazioni terroristiche e finanzia i jihadisti, processi per direttissima. La norma è stata approvata in seguito all’attentato contro il procuratore generale Hisham Barakat, responsabile delle condanne a morte contro gli islamiti (che a questo punto potrebbero essere eseguite da un momento all’altro), e all’inasprimento del conflitto nel Sinai. La norma anti-terrorismo prevede misure rafforzate contro la stampa critica. I giornalisti potranno essere multati fino a 50 mila euro se danno conto di numeri e informazioni diverse da quelle stabilite dal regime. Ormai i giornalisti critici sono tutti o espulsi o in prigione. Anche il Segretario di Stato John Kerry ha chiesto la liberazione di 18 reporter nella sua visita al Cairo senza successo. Una fact-checking Commission è stata istituita per controllare il lavoro dei reporter stranieri. Se le informazioni dovessero contrastare con i media ufficiali, i giornalisti saranno espulsi. Ma non ci sono solo notizie negative in vista del possibile voto. Il leader moderato del partito Wasat, Abu el-Ela Madi è stato rilasciato dopo 2 anni in prigione con l’accusa di aver incitato le proteste anti-golpe del 2013. Insieme all’ex esponente della Fratellanza, Moneim Abul Fotuh, Madi ha lasciato il movimento da anni puntando sulla formazione di un partito politico laico e distinto dalla confraternita. Bolivia: migliorano le condizioni dei detenuti, grazie alla mediazione di Papa Francesco Agenzia Fides, 18 agosto 2015 Grazie alla mediazione di Papa Francesco, che lo scorso 10 luglio ha incontrato i delegati delle carceri boliviane durante la sua visita apostolica in Bolivia, è stato portato "il giornaliero" (la cifra spesa del governo per mantenere giornalmente un carcerato) a 8 bolivianos. Il provvedimento riguarda i 13.573 detenuti nelle carceri del Paesi, ha sottolineato il direttore generale delle carceri, Jorge Lopez. "Durante l’incontro dei delegati delle prigioni in Bolivia a Palmasola, si ha parlato della richiesta al Pontefice di intercedere per loro, quindi, abbiamo lavorato con i responsabili del governo per soddisfare queste esigenze", ha detto Lopez in una conferenza stampa, afferma una nota pervenuta a Fides. "Al tal fine - ha detto - è stata approvata la risoluzione amministrativa 62/2015 che stabilisce un aumento del "giornaliero" per i detenuti nelle carceri in Bolivia, che passa così da 6.60 bolivianos a 8, a partire da agosto". Secondo il cambio attuale 8 bolivianos equivalgono a 1 euro. Oltre all’aumento del "giornaliero" si prevede anche di migliorare il servizio sanitario per i detenuti. Kosovo: sciopero fame in carcere, peggiorano condizioni salute del leader serbo kosovaro Nova, 18 agosto 2015 Le condizioni di salute del leader serbo kosovaro, Oliver Ivanovic, che ha iniziato uno sciopero della fame dalla prigione di Mitrovica, dove si trova attualmente in stato di detenzione, stanno peggiorando. Lo riferisce il quotidiano kosovaro "Zeri", che cita fonti dell’ospedale regionale di Mitrovica Nord. Il direttore generale dell’Ospedale regionale di Mitrovica, Milan Ivanovic, ha detto ai media che in base ai test clinici, Ivanovic soffre di stanchezza, anemia, disidratazione e segni di disturbo mentale. Nei giorni scorsi, il direttore dell’Ufficio del governo serbo per il Kosovo, Marko Djuric, ha conferito a Mitrovica con i legali che si occupano della difesa di Ivanovic, nonostante il divieto d’ingresso per i rappresentanti governativi serbi. "Continueremo a sostenere la difesa di Oliver Ivanovic," ha detto Djuric citato dai media serbi, aggiungendo che il primo ministro serbo Aleksandar Vucic sta parlando con i rappresentanti della comunità internazionale della situazione del leader serbo kosovaro, riscontrando insoddisfazione su come è stata gestita la faccenda. Ivanovic ha iniziato uno sciopero della fame "per attirare l’attenzione sull’ingiustizia e la violazione dei diritti umani che starebbe subendo", come dichiarato nei giorni scorsi dallo stesso leader serbo kosovaro. Il collegio giudicante di Eulex, la missione europea in Kosovo, lo scorso 6 agosto ha prolungato fino al 6 ottobre la custodia cautelare nei confronti del leader serbo kosovaro. Ivanovic ha sottolineato che è stato in carcere per 557 giorni, e che il processo riprenderà il 10 settembre. In una lettera pubblica pubblicata dal quotidiano serbo "Politika", Ivanovic si è detto dice profondamente deluso per la decisione di estendere la sua detenzione, ma ancora di più dalle motivazioni che confermano la presenza di una forte pressione politica sul giudice e la corte relativamente al suo caso. "Nessuno dei testimoni ascoltati mi collega ai reati di cui sono accusato", ha detto Ivanovic nella missiva. Il prolungamento della custodia cautelare del leader serbo kosovaro è "scandaloso" e il ministero della Giustizia serbo farà tutto il possibile per fornire tutta l’assistenza possibile per garantire la sua difesa. Questa la reazione del titolare del dicastero serbo, Nikola Selakovic, alla notizia del prolungamento della custodia cautelare nei confronti di Ivanovic. "Sfortunatamente al momento possiamo fare poco e dobbiamo essere consapevoli di quello che si può fare", ha detto Selakovic citato dai media serbi. In precedenza è stato annunciato che Ivanovic aveva iniziato uno sciopero della fame dalla prigione di Mitrovica, dove si trova attualmente in stato di detenzione. Era stata la moglie di Ivanovic, Milena Popovic, a riferire alla stampa di Belgrado la notizia del prolungamento della detenzione del marito. La Popovic ha giudicato "scandalosa" la decisione presa dal collegio giudicante presso il tribunale di primo grado di Mitrovica. "Non mi aspettavo questa decisione - ha dichiarato - perché finora nessuno dei 45 testimoni ascoltati ha accusato direttamente mio marito con accuse ascrivibili ai capi d’imputazione". La prossima seduta processuale è stata fissata al 10 settembre. Il leader dell’iniziativa civica Serbia, democrazia e giustizia è stato arrestato il 27 gennaio 2014, ed è accusato di essere il mandante dell’omicidio di quattro cittadini di etnia albanese nell’ambito di fatti avvenuti a Mitrovica, nel nord del Kosovo, il 14 aprile 1999. Ivanovic avrebbe inoltre, secondo le accuse, favorito l’omicidio di dieci cittadini di etnia albanese nell’ambito di alcuni scontri avvenuti il 3 febbraio del 2000, sempre a Mitrovica. Il processo lo vede come imputato assieme ad altri quattro cittadini di etnia serba, ovvero l’ex agente Dragoljub Delibasic, Ilija Vujacic, Nebojs Vujacic e Aleksandar Lazovic. Ivanovic sarebbe stato visto da testimoni oculari in compagnia di paramilitari serbi responsabili del rapimento di alcuni albanesi uccisi nella guerra del 1999. È quanto emerge dalla ricostruzione di Shahabase Cernobregu, teste dell’accusa, nel processo a carico di Ivanovic per presunti crimini di guerra in corso a Mitrovica, nel Kosovo settentrionale. Durante un collegamento video dalla Finlandia, la donna ha detto che il 14 aprile del 1999 i paramilitari serbi hanno prelevato suo figlio Erduan dal loro appartamento, supplicando Ivanovic di intervenire per fermarli. "Oliver, salva mio figlio", avrebbe detto allora la donna ricostruendo l’accaduto, secondo il sito internet "Balkan Insight". Il figlio della Cernobregu e gli altri albanesi detenuti dai paramilitari sono stati in seguito uccisi. Durante la prima udienza, l’ex ministro kosovaro dell’Interno, Bajram Rexhepi, ha testimoniato nel processo, affermando che Ivanovic era a capo di un gruppo di estremisti serbi che pattugliavano il ponte principale di Mitrovica, struttura che divide etnicamente la città tra serbi (a nord) e albanesi (a sud) "Oliver Ivanovic era il capo dei Guardiani del ponte dopo la guerra", ha detto Rexhepi, ex ufficiale medico dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) a Mitrovica.