Lettera aperta a Glauco Giostra, coordinatore del Comitato scientifico degli Stati Generali di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 17 agosto 2015 "Dicono che in carcere si sta al fresco, ma non è vero. In questi giorni fa troppo caldo, sopra la mia cella c'è il tetto dove picchia il sole tutto il giorno. E di notte, per trovare un po' di fresco, dormo per terra con sotto un gande asciugamano di spugna". (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com). Gentile Glauco Giostra, mi è capitato di leggere il suo bell'articolo sul Corriere della Sera del 7 luglio 2015. E ho letto cose molto interessanti "Come è possibile che con un ordinamento penitenziario al tempo tra i più avanzati del mondo siamo giunti a subire una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo per trattamento inumano e degradante delle persone detenute?". Forse si è dimenticato però di dire che quei funzionari dell'Amministrazione che hanno infranto i trattati europei, la nostra Costituzione, la legge non hanno ancora moralmente e penalmente pagato, sono ancora al loro posto e con stipendi d'oro. "Sono stati costituiti tavoli tematici su aspetti nevralgici della realtà dell'esecuzione penale, interpellando quelle professionalità e quelle esperienze (circa duecento persone) che per ragioni diverse la intersecano". Professore come mai Lei non parla e non accenna a una presenza dei detenuti (o ex) o a una eventuale loro rappresentanza in questi tavoli? Probabilmente il caso di Adriano Sofri vi ha spaventato, ma Le assicuro che nelle celle delle nostre Patrie Galere ci sono detenuti che con la loro esperienza avrebbero potuto aiutare a portare la legalità in carcere. Sì è vero si dice che i detenuti saranno ascoltati, ma io sinceramente sognavo (sono un romantico) per loro un ruolo e una collaborazione attiva (un po' come è accaduto con alcuni padri della nostra Carta costituzionale, alcuni di loro ex detenuti o come è accaduto in passato ai detenuti inglesi che, deportati In Australia, hanno poi contribuito a fondare uno Stato). Poi alcuni politici nei vari convegni, tavole rotonde e seminari definiscono criminogene le carceri, subito dopo però in Parlamento votano per aumentare le pene. Professore, io credo che senza l'aiuto e il coinvolgimento attivo delle persone detenute non riuscirete a portare la legalità in carcere e purtroppo temo, ma spero di avere torto, che questi Stati Generali sulla esecuzione della pena rischino di non servire a molto. Ripeto io sono un sognatore ed a uno di questi tavoli speravo che si sedesse qualche mio compagno. E proprio in questi giorni ho ricevuto una lettera da uno di loro, Pasquale De Feo, "deportato" in Sardegna, che trascrivo qui sotto perché mi pare offra importanti spunti di riflessione. Buon lavoro. Caro Carmelo, ho ricevuto e rispondo alla tua del 26 giugno. Nelle carceri non puoi che incattivirti per il modo disumano con cui prendono certe decisioni. Erano quindici anni che non vedevo mio fratello Antonio, ora si trovava sotto di me in AltaSicurezza3, siccome mi hanno messo di fronte alla porta del passeggio tutti i giorni mio fratello faceva un salto a salutarmi. Ieri non l'avevo visto, vado a telefonare, c'erano anche i figli, mio fratello Vito mi chiede come mai Antonio ancora doveva telefonare, gli rispondo che non lo so. Rientro in cella e busso sotto e mi dicano che l'hanno trasferito. Ormai hanno fatto diventare routine la crudeltà. Al Dap ormai vige la disumanità. Dopo tanti anni non si finisce di meravigliarsi delle cattiverie che sono capaci di escogitare. Scusami per lo sfogo, ma sono incazzato per questa ulteriore malvagità che mi hanno fatto. Risposte alle domande poste dal Tavolo 17 degli Stati Generali di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 17 agosto 2015 Rapporti con i familiari a) Quali sono le principali difficoltà che una persona in carcere incontra per mantenere buoni rapporti con i propri familiari? "I colloqui si svolgano in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale del personale di custodia" (articolo 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354) "I detenuti usufruiscono di sei colloqui al mese. Quando si tratta di detenuti per uno dei delitti previsti dal primo periodo del primo comma dell'articolo 4 bis della legge e per i quali si applicano il divieto di benefici ivi previsto, il numero di colloqui non può essere superiore a quattro al mese. (…) Il colloquio ha la durata massima di un'ora" (D.P.R. 30 giugno 2000, n.230) Per un detenuto amare in carcere i suoi figli è difficile. Ogni tanto è anche doloroso, ma il più delle volte l'amore è l'unica cosa bella che abbiamo per non sparire del tutto nell'ombra. Ho visto crescere i miei figli prima tramite un vetro divisorio, dopo dietro un bancone e adesso tramite delle panche con sporadici colloqui. Sono da ben ventitré anni in carcere, dove non posso scambiare una carezza e un bacio affettuoso con la mia compagna, ma la cosa che ci manca di più a tutte e due non è tanto fare l'amore, ma potere piangere insieme abbracciati senza che nessuno ci guardi. In ventitré anni non l'abbiamo potuto mai fare perché siamo sempre stati osservati e circondati da guardie o dai familiari degli altri detenuti. Credo che la legge di uno Stato non dovrebbe impedire ai suoi prigionieri il diritto di amare ed essere amati. Gli svedesi trattano meglio i loro prigionieri perché si dicono "Il detenuto di oggi sarà il mio vicino di casa domani", invece in Italia, nella maggioranza dei casi, la detenzione è a volte più illegale e stupida del crimine che hai commesso. E spesso non serve a nulla. In molti casi serve solo a farti incazzare o farti diventare più delinquente. In carcere in Italia sembra che il tuo reato ti faccia perdere tutta la tua umanità. In fondo non chiediamo molto, solo una vita più umana ed un po' d'amore. È già difficile essere dei buoni padri (e nonni) fuori immaginatevi dentro con in totale solo tre giorni all'anno di colloqui (sei ore al mese) che se sei sbattuto in carceri lontani non riesci neppure a fare. b) L'articolo 45 dell'ord. penit. prevede che il trattamento dei detenuti sia integrato dall'assistenza alle loro famiglie. Nella vostra esperienza detentiva, quali soggetti sono intervenuti e quali tipi di aiuto hanno avuto le famiglie delle persone recluse? Nel quadro del trattamento penitenziario, la legge attribuisce particolare rilevanza ai rapporti del detenuto con la famiglia, non solo con quella di provenienza, ma anche con l'eventuale famiglia di fatto. In realtà in Italia ci sono delle buone leggi, ma spesso non vengono applicate. E questo articolo di legge, in particolar modo, lo dimostra più di tutti, perché personalmente la mia famiglia non ha mai avuto nessuna assistenza e non conosco nessuna famiglia che l'abbia mai avuta. c) Quali sarebbero le misure di carattere organizzativo della vita carceraria che consentirebbero di conservare e migliorare le relazioni coi propri familiari? L'introduzione della normativa riguardante l'affettività e la sessualità in carcere sarebbe molto importante: ci sarebbe restituita una parte di noi che nulla ha a che fare con la privazione della libertà e con la sicurezza sociale. Penso che i sentimenti e l'amore per i propri familiari non devono e non possono essere emarginati dal carcere. Credo che una buona politica non dovrebbe impedire ai cattivi in carcere di poter dare e ricevere baci e carezze da chi gli vuole bene. Penso che l'amore potrebbe cambiare in meglio le persone più di qualsiasi punizione in inutili anni di carcere. Credo che una affettività più umana in carcere potrebbe impedire ai detenuti, una volta fuori, di commettere di nuovo dei reati. Penso che "liberalizzare" le telefonate e consentire i colloqui riservati delle persone detenute con i propri famigliari, come già avviene in molti Paesi, contribuirebbe di molto a migliorare le relazioni con i propri familiari. d) Quali sono i soggetti che dovrebbero essere maggiormente coinvolti in questa attività di assistenza alle famiglie? Innanzi tutto bisognerebbe coinvolgere gli stessi detenuti, i loro familiari e gli organi dell'assistenza alle famiglie tramite il servizio sociale della Giustizia (Uepe) e gli enti pubblici e privati con atti concreti. e) Sapreste indicare dei progetti di assistenza alle famiglie che conoscete per avervi partecipato o per averne sentito parlare da altri reclusi che siano da proporre esempi positivi d'intervento? Purtroppo no. Ripeto, ancora una volta, che l'assistenza alle famiglie, diretta al mantenimento delle relazioni con il detenuto prevista dalla legge penitenziaria in realtà non viene quasi mai applicata. E l'Italia è veramente uno strano paese, ci vogliono anni, se non secoli, per fare una buona legge e poi ci vogliono altri anni, e altri secoli, perché una legge dello Stato venga applicata. 2) Percorso di reinserimento sul territorio f) Quali sono le principali difficoltà che una persona scarcerata affronta nel momento in cui viene reinserita sul territorio? Ci sono particolari difficoltà per specifiche categorie di persone recluse (stranieri, tossicodipendenti, giovani infra 25enni, persone in età matura etc.). Il carcere non dovrebbe essere solo un luogo di punizione, ma dovrebbe anche essere un'occasione di recupero, rieducando e aiutando chi ha sbagliato a reinserirsi nella società, ma purtroppo così com'è pensato non fa altro che affermare il criminale in carriera. In carcere si è tagliati fuori dal mondo. E ogni giorno ti tocca inventarti e pensare come trascorrere la giornata. Poi vivendo in pochi metri quadri con delle sbarre dietro e un cancello davanti non è facile. Dentro, purtroppo, disimpari a vivere e poi una volta fuori è difficile reimparare a vivere sia in famiglia che nella società. Le pene lunghe poi sono devastanti, e penso a come sono stupidi alcuni politici se pensano che aumentando le pena diminuiscono i reati. Poveri illusi. Vorrebbero chiudere i criminali buttando via le chiavi, ma possibile che non si rendano conto che prima o poi molti di loro usciranno? E poi alcuni di questi quando saranno fuori si vendicheranno di essere diventati in carcere più cattivi di quando sono entrati, perché per la maggior parte le persone non sono malvage, almeno quando entrano in carcere, lo diventano dopo perché le nostre attuali Patrie Galere sono fabbriche di odio sociale. E penso che sia difficile migliorare le persone con la sofferenza e l'odio. Sono fortemente convinto che le pene lunghe, solo detentive, creano tossicodipendenza carceraria. Ed in tutti i casi la pena di per sé non può migliorare chi la subisce, ma lo può fare l'ambiente in cui la pena si sconta. g) L'art. 46 dell'ordinamento penitenziario prevede che la persona che sta per essere scarcerata e nel periodo successivo sia aiutata nel suo percorso di reinserimento. Nella vostra esperienza detentiva, quali soggetti sono intervenuti e quale tipo di aiuto avete ricevuto per il vostro reinserimento? In realtà anche questo articolo dalle legge penitenziaria non viene mai applicato ed invece sarebbe molto importante che l'obiettivo del reinserimento sociale dei detenuti venisse perseguito a partire dal periodo della carcerazione, e in particolare nei mesi che precedono e seguono le dimissioni dall'istituto. Un accenno particolare meritano i problemi legati al reperimento del posto di lavoro, poiché non può dubitarsi che l'opportunità di svolgere un lavoro stabile e dignitoso rappresenti il principale strumento di reinserimento sociale. Il legislatore del 1975 non si è preoccupato a sufficienza di intervenire sul vero e costante ostacolo al reinserimento lavorativo dei liberati dal carcere. Spesso il detenuto che finisce la sua pena viene letteralmente sbattuto fuori dal carcere e molti non hanno un lavoro e non sanno dove andare perché non hanno neppure una famiglia e una casa. h) Quali sarebbero le misure di carattere organizzativo della vita carceraria che consentirebbero un aiuto nel percorso di reinserimento? (indicare proposte che consentono di migliorare l'attuale situazione) 1) La territorialità della pena: la legge penitenziaria prevede: "Nei disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza della famiglia" (Art. 42 O. P.). E il regolamento di esecuzione dice che "Nei trasferimenti per motivi diversi da quelli di giustizia o di sicurezza si tiene conto delle richieste espresse dai detenuti e dagli internati in ordine alla destinazione" (Art. 83 comma I del Regolamento di esecuzione O.P.) ma la stragrande maggioranza dei detenuti sono ristretti in carceri lontani dai luoghi di residenza dei propri famigliari. 2) Più lavoro remunerativo o risarcitorio (con eventuali sconti di pena): si vuole che i detenuti prendano coscienza, si vuole i prigionieri più responsabili ma di fatto quasi sempre viene negata ogni responsabilità. Ci si vuole costruttivi e positivi, ma si crea in realtà un ambiente statico. Noi pensiamo che bisognerebbe riconoscere ai detenuti un ruolo attivo non da semplice frequentatore delle patrie galere, per educarsi ed educare. Invece spesso ci sentiamo parcheggiati nel limbo in una situazione incerta e indefinibile per mancanza di risposte e di atti concreti. Il lavoro in carcere dovrebbe essere ciò che è per tutti i cittadini liberi, cioè un diritto, un mezzo di sussistenza e uno strumento di integrazione sociale. Solo il lavoro remunerativo potrebbe diventare un buon strumento di sviluppo dell'autonomia personale e del reinserimento. In questo modo il lavoro in carcere avrebbe anche una funzione elementare di dare la possibilità al detenuto di guadagnare un po' di soldi da usare al momento dell'uscita (per non tornare a delinquere), per mantenere una eventuale famiglia all'esterno e per rispondere alle esigenze vitali proprie del prigioniero nel periodo di detenzione senza pesare sulla famiglia. In prigione tutto costa, generi alimentari per migliorare i pasti quotidiani, mandare qualcosa a casa, comprare libri per studiare e tante altre cose. 3) Un carcere trasparente e più aperto alla società civile e ai famigliari. 4) Più libertà di movimento del detenuto all'interno dell'istituto perché la vita carceraria dovrebbe assomigliare il più possibile a quella esterna. 5) Liberalizzare i colloqui e le telefonate con incontri riservati con i propri familiari o conviventi. 6) Accesso alle tecnologie per comunicare con l'esterno tramite la posta elettronica. 7) Automatismi nell'usufruire di permessi premi e di pene alternative, perché la certezza nel modo di scontare la pena rieduca di più di una probabile speranza. i) Quali sono i soggetti che dovrebbero essere maggiormente coinvolti in questa attività di aiuto al reinserimento post condanna? Cooperative sociali. Associazioni esterne al carcere. Comunità come la Papa Giovanni XXIII con le sue case famiglie e di accoglienza. j) Sapreste indicare dei progetti di reinserimento sul territorio che conoscete per avervi partecipato o per averne sentito parlare da altri reclusi, che siano da proporre come esempi positivi di intervento? La Comunità Papa Giovanni XXIII. 3) I soggetti della rete d'intervento A) L'Ord. Penit. prevede il coinvolgimento di alcuni soggetti nel percorso di reinserimento della persona a fine pena. Partendo della vostra esperienza personale e da quelle di cui avete sentito parlare dai compagni reclusi, indicate per ognuno di questi soggetti che tipo di interventi fanno, aspetti positivi e criticità, proposte di miglioramento del loro intervento etc. A parte qualche eventuale associazione esterna al carcere i detenuti che escono dal carcere sono privi di qualsiasi altro appoggio sostanziale. Proporrei interventi cogenti (e di legge) per questi soggetti citati e il coinvolgimento delle università per "adottare" quei detenuti che si sono laureati durante la carcerazione. E perché no, un sussidio di sostegno finanziario di sei mesi per i detenuti che escono dal carcere dopo una lunga o media pena. 4) Conoscenza della normativa e dei servizi socio-assistenziali da parte della popolazione reclusa. Purtroppo la popolazione reclusa (e i familiari) conoscono ben poco la normativa di cui stiamo parlando e sotto un certo punto di vista ne hanno paura. Ecco una testimonianza diretta di una giornata da ergastolano: Una giornata da ergastolano Questa mattina ho aperto gli occhi incazzato perché anche oggi mi sono svegliato in prigione. Da un po' di anni non sogno più il mondo di fuori come prima, probabilmente perché dopo ventitré anni di carcere duro e un anno in media sicurezza il mondo libero inizia ad essere lontano dai ricordi e non poter sognare la libertà è ancora più doloroso di non averla. Invece questa notte ho sognato di trovarmi davanti casa mia, ma non riuscivo ad entrare dentro perché avevo perso le chiavi. Poi ho sognato di passeggiare mano nella mano con i miei nipotini. Chissà un domani adesso che non ho più l'ergastolo ostativo, tutto è possibile. D'altronde niente esiste se prima non viene sognato. Credo che fino a quando teniamo in vita i nostri sogni rimaniamo creatori del nostro destino. Ed inizio a parlare con il mio cuore. Cazzate! Il tuo destino è già segnato. Sotto un certo aspetto siamo noi i creatori del nostro mondo, se lo vogliamo cambiare in meglio bisogna sognarlo sul serio e poi costruirlo passo a passo. Si! All'aria a passeggiare avanti ed indietro per il resto della tua vita perché anche se non hai più l'ergastolo ostativo ai benefici il tuo fine pena rimane sempre mai. Quando riesco a sognare mi sento vivo. come dire, sogno quindi sono vivo. Invece di sognare dentro perché non sognavi fuori? Fuori ero troppo confuso per credere ai sogni. Ora invece, quando intorno a me ci sono solo ostacoli e mi sento triste, solo per evadere guido la mia mente nello spazio dei sogni. Ed è uno spazio dove non esistono limiti, neppure quello di mangiare un gelato insieme ai miei due nipotini. Non ci sono limiti? Ma se ci sono sbarre, muri e non hai un fine pena, stai ancora sognando? Svegliati! Che male c'è se uno sogna di stare meglio? Sento nostalgia della libertà, di casa, dei miei figli e della donna che amo. E poi mi piace avere nostalgia, così sconfiggo la solitudine. Sei irrecuperabile, dopo tanti anni di carcere non ti sei ancora abituato all'idea che non finirai mai la tua pena. La cosa più brutta del carcere è che per tirare avanti, ti obbliga a sognare di non esserci. Ma tu ci sei, alzati che se vuoi dimagrire devi andare a correre nel cortile del passeggio. Smetto di parlare con il mio cuore perché in vece di tirarmi su mi tira giù peggio di un pubblico ministero. E penso che la cosa più brutta del carcere è la monotonia, e al mattino quando ti svegli ed hai gli stessi pensieri del mattino precedente il giorno non passa mai il mese invece passa in fretta, un anno ancora di più ed intanto la vita di una persona se ne va. Decido di alzarmi dalla branda. Faccio colazione, la solita mela ed un tozzo di pane e bevo il caffè che passa l'Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io). Poi mi guardo allo specchio e vedo che la mia barba sta diventando tutta bianca. Il tempo in carcere non ha tempo, per questo ti senti vecchio o giovane a seconda dei giorni. Una delle cose più difficili del carcere è che devi vivere alla giornata senza la possibilità di fare progetti, in questo modo più che dei muri, siamo prigionieri di noi stessi. Ritorno dal passeggio e mi accorgo che ormai si sono fatte le undici. Mentre mangio qualcosa dal carrello, penso che in quasi tutta la mia vita. dal collegio alla prigione, c'è sempre stata una porta chiusa davanti a me ed una finestra con le sbarre dietro, forse è per questo che amo così tanto la libertà. Arriva la posta e leggo che una studentessa che sta facendo la sua tesi sull'ergastolo mi elogia per il modo in cui affronto il carcere: "Ammiro la tua caparbietà, il tuo coraggio e la tua determinazione". Queste parole mi fanno sorridere poiché non ci vedo nulla di eroico nel tentare di sopravvivere. Poi leggo la lettera di mia figlia "Papà, ogni volta che ti sentì solo, chiudi gli occhi e vedrai che io sono lì con tè... possono toglierci tutto ma non possono impedirci di sognare e di amarci così tanto!!!" Come mi fa commuovere mia figlia non ci riesce nessuno. Per un attimo mi ricordo di quando era piccola e ci si commuoveva insieme guardando le scene tristi dei cartoni animati alla televisione. E mio figlio ci prendeva in giro dicendo che eravamo scemi a piangere per cose non vere. Leggo un'altra lettera: "Tu non mi conosci, mi chiamo Antonella, io però ti conosco: ho avuto il piacere di leggere la tua tesi di laurea in anteprima e mi è piaciuta molto. Per tutto quello che racconta e per tutta la dignità che ispira. Qualche giorno fa le mie sorelle mi hanno regalato un tuo libro "Zanna Blu", e a parte la commozione questo libro ha portato in me una piccola (ma grande) rivoluzione. Leggo un'altra lettera di Giuditta, una laureanda in psicologia che mi chiede aiuto per la sua tesi di laurea sul carcere: "...attendo con ansia una sua risposta sperando che le faccia piacere accompagnarmi in questo viaggio...". Le rispondo subito: "Sono io che ringrazio te che mi dai la possibilità di aiutare me... dandomi la possibilità di essere utile a qualcuno". Al pomeriggio esco di nuovo al passeggio a prendere un'altra boccata d'aria. Mi accorgo che per fortuna ha smesso di piovere. Nel cortile siamo in tanti ma io mi sento solo, più solo che in qualsiasi altro posto e preferisco passeggiare in solitudine, in compagnia di me stesso. Mentre cammino su e giù penso a tutte le persone che per anni ed anni sono passate e hanno vissuto il dolore in questi luoghi. Molti detenuti si sentono soli ed io, che invece non sono solo, sento dentro di me la loro solitudine. La vita in carcere è la più triste di tutte le vite che ci sono fuori, perché in carcere si vive di passato e di futuro, il presente alla fine della giornata si preferisce cancellarlo. Ci sono dei giorni che non passano mai, non accade nulla e poi ancora nulla. Tutto è come al solito: noia, tristezza e solitudine. Rientro in cella e mi metto a parlare con Franco che è appena rientrato da un altro carcere per processo. Mi dà la brutta notizia che è stato condannato a vent'anni. Per consolarlo provo a dirgli che vent'anni sono molti anni ma non troppi per non riuscire a vederne la fine, invece il mio ergastolo è per l'eternità. Dall'espressione del suo viso mi accorgo di non averlo proprio consolato. Viene finalmente la sera, leggo qualcosa, scrivo, giro per la cella come un leone in gabbia. Spesso faccio finta di essere con qualcuno e parlo da solo, tanto che m'importa se qualche guardia mi prende per matto. In carcere non puoi vivere se non sei un po' pazzo, devi per forza chiudere gli occhi e sognare perché se ti guardi intorno non riesci a sopravvivere. Prima di sdraiarmi sulla branda, metto in ordine la cella, mi guardo la televisione, dopo un po' la spengo e provo a dormire. Nel frattempo penso che ci sono dei giorni, come questo che è passato, che mi sento un morto che respira. Credo che solo i sogni mi fanno sopravvivere e prima di addormentarmi provo a guidare la mia mente nello spazio dei sogni, un universo dove non esistono limiti e questa notte spero di sognare di non passare più una giornata da ergastolano. Riflessioni per il Tavolo 2 degli Stati Generali di Tommaso Romeo Ristretti Orizzonti, 17 agosto 2015 Alcune riflessioni sui Circuiti di Alta Sicurezza, e l'assenza di TRASPARENZA Racconto la storia di un ragazzo calabrese che all'età di venti anni finisce al regime di carcere duro del 41bis, e ci rimane per due anni, fino a quando gli viene revocato quel regime e viene collocato nella sezione AltaSicurezza1. Ci incontriamo nella sezione AS1 di Padova, mi racconta la sua storia, comincia dicendomi che fino al suo arresto non era mai uscito dal suo paese, era finito in carcere con l'accusa di 416 bis (Associazione di tipo mafioso), solo perché frequentava alcuni ragazzi che avevano familiari pregiudicati, mi giura che non fa parte della ‘Ndrangheta. Questo ragazzo prima del suo arresto non aveva conosciuto persone di grande spessore criminale, è da precisare che il suo paese, Bovalino, è circondato da paesi con forte densità mafiosa. Un giorno mi dà i saluti di un paesano che si trova in un altro carcere, stupidamente gli domando dove l'aveva incontrato, mi risponde "al 41bis". Logico, in quei due anni che era stato al 41bis ne ha conosciuti di criminali e non solo calabresi ma anche di altre regioni, che mai avrebbe potuto conoscere in tutta la sua intera vita da libero. Quando lo vedo affascinato da un certo mondo lo avverto che se non vuole fare la mia fine di ergastolano senza speranza deve stare lontano da un certo mondo, lui mi risponde che avendo subito una condanna a otto anni per 416bis, una volta fuori cosa poteva fare? Lo incoraggio dicendogli che ancora poteva sperare in quanto non era definitiva la sua condanna, in effetti dopo qualche anno viene assolto in via definitiva da tutte le accuse. Il paradosso è che un ragazzo, che da libero non aveva nessuna possibilità di conoscere grandi criminali, si ritrova che quella possibilità gli viene data dallo Stato, non perché lo arresta ma perché subito lo colloca nelle sezioni di 41bis e poi in quelle di AS1. Questo mi fa pensare che un ragazzo incensurato quando finisce in carcere dovrebbe essere collocato in una sezione di Media Sicurezza indipendentemente dalla gravità del suo reato. Ecco il motivo per cui voglio anche cercare di spiegare perché secondo me per un detenuto con una condanna di 416bis che ha passato anni al 41bis e altrettanti ancora nelle sezioni AS1 una volta declassificato e collocato nella sezione di Media Sicurezza non vi è il pericolo che faccia arruolamenti o proselitismo. Andiamo al concreto, una organizzazione come la ‘Ndrangheta, definita oggi fra le più potenti al mondo, ha bisogno di arruolare ladri, scippatori, spacciatori di bustine o rapinatori? Penso proprio di no. Addirittura alcune organizzazioni come la ‘Ndrangheta prima di affiliare una persona vanno a guardare chi erano i nonni, i genitori, se avevano avuto una condotta di vita esemplare, esempio la madre o le sorelle non dovevano avere storie sentimentali al di fuori del matrimonio, alcune famiglie della ‘Ndrangheta non affiliano gente che fa uso di droghe o che eccede nel bere alcolici, e ci sono tante altre "regole" simili. Di certo è una rarità trovare un detenuto della Media Sicurezza con le "carte in regola" per una affiliazione ad una grande organizzazione criminale. Sicuramente il detenuto a cui viene concessa la declassificazione, dall'Alta Sicurezza alla Media Sicurezza, dopo anni e anni di regimi speciali non vuole nemmeno sentire la parola "Organizzazione criminale", almeno nel mio caso è così, ma sono sicuro che per quasi tutti è così, perché è da pazzi buttare via l'unica occasione che ti può far migliorare i rapporti con la tua famiglia, che è la cosa più importante che ti resta, dopo venti r più anni di isolamento. Ma la vita che siamo costretti a vivere è perennemente sotto indagine Nel nostro Stato la persona che subisce una condanna per associazione mafiosa sarà segnata per tutta la vita. Qualunque cosa farà verrà vista con sospetto; in qualsiasi suo successo si sospetterà esserci un imbroglio oppure un fine criminale. Sarà perennemente sotto indagini giudiziarie ed ogni persona che entrerà in contatto con lui avrà dei problemi. Provo a descriverveli raccontando questo breve aneddoto. Mi trovavo in carcere da un paio di anni. Un Natale ricevo un telegramma di auguri. La persona che mi spedisce questo messaggio nel bel mezzo delle feste natalizie riceve la visita di un ufficiale della Dia, che comincia a farle domande nello specifico. Voleva che gli spiegasse quali erano i suoi rapporti con me. La persona chiarisce che con me in passato aveva avuto una storia sentimentale per qualche anno. L'ufficiale le evidenzia che io ero un pericoloso criminale. La persona gli conferma con fermezza che la nostra era stata solo una bella storia d'amore e adesso di vera amicizia. Tutto il resto le interessava poco. A quel punto l'ufficiale della Dia si altera motivandole che io sicuramente mi sarei avvicinato a lei per qualche fine criminale. Arrivò addirittura ad ipotizzare un mio progetto di sequestro di persona nei suoi confronti, in quanto la sua famiglia era molto ricca. Come se i mafiosi o sospettati di essere mafiosi non potessero avere storie d'amore con persone normali al di fuori del mondo criminale. Quando venni a sapere di quella visita, oltre a provare rabbia, mi sentii in colpa per aver causato problemi a quella persona. Dopo molti anni lei per il suo lavoro era diventata una persona nota, a un certo punto ricevo una sua lettera dove mi dice: "Solo in Italia una bella storia d'amore la possono far diventare un inferno, posso immaginarmi cosa passano quelle donne che sono legate per tutta la vita agli uomini con il tuo trascorso". Ogni volta che entro in contatto con persone dalla vita "normale" subito mi assale la paura. Penso che potrei provocargli dei problemi, in quanto quelli come me sono perennemente sotto indagini anche dopo decenni di carcerazione. Purtroppo in Italia chi è condannato per mafia, oltre a rimanere sempre sotto indagine giudiziaria, dovrà rimanere per sempre cattivo e isolato, o quanto meno frequentare esclusivamente criminali. E niente storie d'amore con donne "regolari" troppo note. Quella cosa strana chiamata "Informative non ostensibili" Ogni detenuto è in qualche modo incatenato alle informative che invieranno le autorità di polizia da cui dipende, queste informative che possono migliorargli o peggiorargli la vita detentiva il più delle volte sono coperte dal segreto investigativo, perciò "non ostensibili". Queste informative principalmente indicano il gruppo criminale di appartenenza avendo come riscontro i procedimenti e le condanne a carico del soggetto, ma chi le invia può anche basarsi solo su ipotesi investigative. Spesso queste informative non vengono aggiornate, capita che dopo anni ancora le informative riportino incriminazioni che poi si sono concluse con una assoluzione. Giugno 2009, mi trovo davanti al magistrato di Sorveglianza per l'udienza per la revoca del 41bis, quel regime mi era stato applicato nel 2002, quel giorno sentendo il parere contrario del procuratore, motivato dal fatto che le informative erano negative, mi rivolgo al giudice dicendo che era impossibile che dopo molti anni di detenzione potessero dire su di me fatti nuovi e concreti. Il giudice prende un fascicolo e legge "la nota informativa della Direzione Centrale Anticrimine del Ministero dell'Interno, nella quale il Romeo Tommaso viene descritto quale esponente di vertice della cosca Serraino", e continua leggendo "la nota della Direzione Nazionale Antimafia, nella quale si dà atto delle numerose condanne subite dal Romeo Tommaso, quale esponente di vertice della cosca Serraino". Informo il magistrato che ero stato assolto da quella accusa nel 1999, cioè dieci anni prima. L'udienza viene rinviata di pochi giorni per poter produrre le sentenze di assoluzione. Dopo tre giorni dall'ultima udienza mi viene revocato il 41bis, nell'ordinanza di revoca il magistrato di Sorveglianza cita proprio le sentenze dove sono stato assolto dall'accusa di far parte della cosca (Serraino). Se quel giorno il magistrato non mi avesse letto quelle informative ancora sarei al 41bis. Purtroppo nemmeno due assoluzioni definitive sono riuscite a far scomparire dalle informative che mi riguardano quelle incriminazioni che in passato mi hanno tenuto al 41bis, e oggi ostacolano qualsiasi mia richiesta perché ancora mi capita di leggere in qualche rigetto la dicitura "il suo gruppo di appartenenza Serraino è attivo e pericoloso". Il tempo passa ma si resta marchiati per tutta la vita. Qualsiasi mia richiesta, come quella della declassificazione, se il magistrato o il funzionario del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria che dovrà deciderla leggerà sulle informative quella dicitura, non sapendo della mia assoluzione riterrà di dovermela rigettare. Questo succede per un motivo preciso, che il detenuto non ha la possibilità di difendersi perché non visionerà mai quelle informative, o quantomeno forse solo quando gli verrà notificato il rigetto della sua istanza. Per una giustizia giusta è vitale la TRASPARENZA, e solo in casi eccezionali è accettabile la segretezza. "No" all'inutile detenzione che genera rabbia. Dagli Stati Generali la strada per cambiare Il Mattino di Padova, 17 agosto 2015 Il Ministro Orlando negli scorsi mesi ha lanciato una grande iniziativa sulle pene e sul carcere, riunendo quasi duecento esperti negli Sati Generali, che dovrebbero promuovere politiche nuove su questi temi e coinvolgere la società in un grande confronto sul senso che dovrebbero avere le pene. Il cuore del lavoro degli Stati Generali sarà tra settembre e novembre, il contributo che possono portare le persone detenute è fondamentale, perché è proprio il racconto di chi ha scontato una pena in modo inutile e sbagliato che può far capire per quali ragioni il nostro sistema punitivo ha costi particolarmente elevati, ma è fallimentare perché produce una recidiva altissima. Non mi sono fermato neppure di fronte al dolore più forte che può colpire un uomo Io sono un detenuto che fa parte da qualche anno della redazione di Ristretti Orizzonti. Da quando nella redazione abbiamo iniziato a riflettere a fondo sul senso che dovrebbero avere le pene, inevitabilmente io ho dovuto ripercorrere quella che è stata la mia vita, e mi sono reso conto che quest'anno faccio 39 anni, l'anno prossimo arriverò ad aver passato metà della mia vita dentro al carcere. È una consapevolezza nuova, una specie di traguardo sicuramente non positivo che raggiungo. Quello che mi è mancato di più nella mia vita è avere la capacità di fermarmi, è una cosa che non sono mai stato in grado di fare, di fermarmi e di riflettere. Sono una persona che magari molte altre persone, quelle della società esterna, identificano come il delinquente abituale. Ho fatto tante carcerazioni nella mia vita e ogni volta che sono uscito sono tornato a commettere lo stesso reato, sono in carcere per rapine. Quindi io, uscendo dal carcere, commettevo lo stesso reato ma più grave, e questo mi ha portato oggi a capire che non ho mai avuto questa capacità di fermarmi per ripensare alla mia vita. Io sono sempre stato fermato dalle istituzioni, dal carcere, però oggi comincio anche a chiedermi se il carcere, e chi lo gestisce, visto che ha avuto questa forza, ha fatto il suo dovere a fermarmi, mi chiedo se oggi ha fatto il suo dovere anche a farmi riflettere. Io tutte le carcerazioni le ho sempre vissute in maniera molto passiva, ero una di quelle persone che se ne stava sdraiato sulla branda, oppure passeggiava avanti e indietro all'aria e pensavo sempre al prossimo reato da commettere, non accettavo niente da nessuno, e questo mi ha portato ad avere condanne per 30 anni di carcere. Ho sempre fatto carcerazioni molto rabbiose, non accettavo mai niente da nessuno, non accettavo il dialogo soprattutto se di fronte a me c'era qualcuno che rappresentava le istituzioni, e molto onestamente vi dico che non mi sono neanche fermato fuori di fronte al dolore più forte che può colpire un uomo, il lutto per la morte del proprio figlio, neanche questo mi ha fermato. Io oggi faccio sicuramente una carcerazione diversa, sicuramente ho delle consapevolezze diverse, ma ho un motivo di arrabbiarmi in più pur facendo una carcerazione che rispetta un po' l'art. 27 della Costituzione, quello che afferma che la pena deve tendere alla rieducazione, però ho una rabbia diversa perché mi sto chiedendo come sarebbe andata la mia vita se questa possibilità mi fosse stata data prima, se io avessi conosciuto prima una pena più riflessiva. Credo che oggi non sarei qui con una condanna così grossa, perché stupido non lo sono. Oggi vedo, parlo anche in maniera diversa, se prima usavo cento parole per parlare era perché parlavo il gergo carcerario, il gergo della strada. Oggi per me le parole assumono un senso diverso, parole che magari prima neanche avevo il coraggio di pronunciare, ora le pronuncio e le rivolgo a me stesso, e sicuramente ho il coraggio di ammettere che nella mia vita ho delle responsabilità pesanti. Con il progetto di confronto tra le scuole e il carcere che facciamo ogni settimana con la redazione io ammetto sempre di fronte agli studenti la mia responsabilità personale, però credo che anche altre persone si potrebbero assumere la responsabilità per il sistema penitenziario che c'è in Italia. In questo momento, che io sono qui a parlare, a fare delle riflessioni, in giro per le carceri italiane ci sono migliaia di ragazzi che stanno pensando al prossimo colpo da fare e questo perché non gli viene concessa, per mancanza di spazio o per i soliti discorsi di sovraffollamento e di mancanza di personale, non gli viene concessa l'opportunità di rivedersi in maniera critica, di riflettere, di fermarsi. Poi ognuno è libero di prendere la propria decisione, però credo che al di là delle opportunità, come quella di uscire con qualche beneficio come i permessi premio, la vera possibilità sia quella di ripercorrere i gesti che una persona ha commesso, un po' quello che sto facendo io oggi, anche se purtroppo ho i miei 30 anni di condanna sulle spalle, spero che tanti detenuti possano avere prima questa opportunità. Lorenzo Sciacca Stare in carcere passando il tempo a guardare il soffitto genera rancore e rabbia Sono Gaetano Fiandaca, dal 1994 ad oggi ho espiato 20 anni di carcere e tutti trascorsi in circuiti speciali. Otto anni fa mi è stato revocato il regime duro del 41bis e sono stato trasferito nella sezione di Alta Scurezza qui a Padova, quella che ora stanno chiudendo. Sono rinchiuso in questa sezione da ben otto anni, poiché alcune relazioni di polizia ritengono che ci sia una mia attuale pericolosità e che io abbia contatti con l'esterno con organizzazioni criminali. Voglio fare presente che queste relazioni che oggi asseriscono ciò, sono le stesse relazioni che anni fa mi hanno sottoposto al regime del 41bis, cioè sono identiche. A seguito però degli attenti vagli di ben due tribunali di Sorveglianza, prima quello di Torino e successivamente quello di Napoli, i quali hanno ritenuto queste relazioni veramente generiche e stereotipate, relazioni che non riportavano alcuna attualità di una mia pericolosità, mi è stato revocato il 41bis, ma nonostante quelle relazioni che dicono, che dicevano che non vi era una mia attuale pericolosità, io mi trovo da otto anni in questo circuito di Alta Sicurezza e non riesco ad essere declassificato. Io penso che oggi sarebbe giusto che venissi declassificato e sistemato in una sezione di media sicurezza, dove avrei la possibilità di proseguire la mia carcerazione più serenamente, senza temere il fatto di essere trasferito da un momento all'altro, su e giù per l'Italia e in carceri dove si rimane chiusi 20 ore al giorno a oziare tutto il tempo. Ecco questo è un tipo di ozio che causa rancore e rabbia. Io credo che il carcere debba limitare il detenuto nella propria libertà e non nella propria dignità, e purtroppo queste sezioni, un po' tutto il carcere, ma in particolare queste sezioni di Alta Sicurezza, privano spesso della dignità il detenuto, perché tenere il detenuto tutto il giorno a guardare il soffitto è veramente umiliante, è veramente far sentire una persona totalmente inutile. Io credo, anzi ne sono sicurissimo, che un carcere che applica un po' il reinserimento è questo di Padova. Questo di Padova toglie la libertà al detenuto, ma non gli toglie la dignità, gli dà la possibilità di muoversi, di potersi migliorare culturalmente, lo mette a confronto con realtà diverse da quelle che l'hanno portato in carcere. A tale proposito io voglio ringraziare quelle persone che hanno il coraggio di portare la nostra voce all'esterno del carcere, perché ci vuole veramente tanto coraggio a portare la voce dei detenuti dell'Alta Sicurezza, dei detenuti del 41bis, perché su questi temi magari si preferisce girarsi dall'altra parte. E invece è importante ragionare su questo tipo di carcerazione, perché se anche a noi, rinchiusi in questi regimi poco umani, viene dato modo di scontare una pena sensata, forse le nostre famiglie, i nostri figli potranno avere finalmente verso le istituzioni non più rabbia, quanto piuttosto stima e rispetto. Gaetano Fiandaca Giustizia: gli amplificatori della paura di Ilvo Diamanti La Repubblica, 17 agosto 2015 Vulnerabili. Assediati dal mondo che incombe. Sopra di (e intorno a) noi. È il nostro ritratto, delineato, un giorno dopo l'altro, dalla Lega. E, anzitutto, dal leader, Matteo Salvini. Che, a Ponte di Legno, nel tradizionale raduno estivo dei militanti padani, ha "promesso" di bloccare l'Italia per alcuni giorni, il prossimo novembre. In segno di protesta. Contro l'invasione dei migranti. Una questione evocata anche dal M5s. In particolare, dal portavoce e megafono, Beppe Grillo. Si cerca, in questo modo, di amplificare la "paura degli altri" che ci invadono da Sud. Magrebini e nord-africani: scavalcano i muri, pardon: i mari. A bordo di navicelle e barconi, guidati da pirati e briganti. E arrivano da noi, lasciando dietro di sé un numero innumerevole di morti. Annegati e abbandonati, senza sepoltura e con pochi rimpianti. Perché non possiamo e non dobbiamo rimpiangere chi se l'è cercata. Chi ha perfino pagato per intraprendere questa crociera dell'orrore. In fuga dalle guerre e dalla fame. E non possiamo rimpiangere chi non ha volto. Chi è senza biografia. E senza patria. (Altrimenti, perché lasciarla?). Se gran parte di questi disperati parte dalla Libia, comunque, noi che c'entriamo? La Libia oggi è libera. Non c'è più il Tiranno. Anzi non c'è più nessun potere. Nessuna autorità. Non per nulla vi si è installato l'Is... Se i poveri ci invadono, noi ci dobbiamo difendere. Abbiamo impiegato decenni e decenni a conquistare il benessere. Dopo che i nostri avi - anche i miei - se ne sono andati altrove. Lontano. Oltre oceano. Dove ci trattavano con diffidenza. Per questo oggi è giusto contrastare l'invasione. I nuovi barbari. Ed è giusto difenderci dal mondo. Non solo dall'Africa. Anche dall'Europa. Che ci impone le sue regole, le sue politiche. Ma non è disposta a condividere i costi delle scelte "comunitarie". L'Euro(pa). Una moneta senza Stato. Un Marco mascherato. Sul quale incombe il profilo minaccioso di Schäuble. Accanto a quello, non meno inquietante, della Merkel. Viviamo tempi difficili. E indecifrabili. Dove si fatica a individuare il pericolo. A dargli un nome e un volto. Per questo la sfiducia cresce e si diffonde in modo rapido e profondo. Lo abbiamo già segnalato. Da gennaio ad oggi, il timore dell'immigrazione, in tema di sicurezza, è salito dal 33% al 42%, fra i cittadini (Sondaggio Demos, giugno 2015). Contemporaneamente, nella percezione sociale, si assiste al declino di ogni istituzione e di ogni potere. La fiducia nell'Unione Europea, in particolare, è ormai ridotta al 27%. Mentre la convinzione che "stare nell'Euro", per noi, sia vantaggioso è condivisa dall'11%. In meno di dieci anni, dunque, ci siamo trasformati nel popolo più euroscettico, mentre prima eravamo i più euro-entusiasti. Il problema è che ci sentiamo indifesi. Senza autorità che ci proteggano. Senza ideologie che ci offrano certezze. Ma soprattutto, senza frontiere. Perché senza confini perdiamo identità. E l'identità serve a distinguere (ciascuno di) noi dagli altri. Serve a capire di chi ci possiamo fidare. A separare gli amici dai nemici. Senza confini: non riusciamo più a riconoscere gli altri e noi stessi. E la globalizzazione ha complicato tutto. Perché - per citare Giddens - ha "stressato" il rapporto spazio-temporale. La comunicazione globale, in particolare, ci fa sentire ancora più esposti, fragili. Interdipendenti dalle mille crisi - economiche, politiche, sociali - che, in ogni attimo, avvengono dovunque. Noi le percepiamo immediatamente. (Subito e senza mediazioni). E il nostro senso di impotenza si moltiplica. Figurarsi il flusso, quotidiano dei migranti. Seguito e amplificato, sui media, minuto per minuto, sbarco dopo sbarco, un morto dopo l'altro. La pietà? Quando non sfinisce nell'indifferenza (non ci possiamo far carico di tutti i problemi del mondo...), sconfina nell'ostilità. È un sentimento irrazionale. Materia di fede. Se ne occupino Papa Francesco e Monsignor Galantino. "Pietosi" di professione. Basta che poi non pretendano di rovesciare su di noi la loro Caritas irresponsabile. Per questo - ci esortano Salvini, ma anche Grillo e altre grida di "all'armi" - dobbiamo reagire: contro ogni invasione. Che provenga dal Nord Africa, da Bruxelles o da Berlino. Prendiamo esempio dalla Gran Bretagna, disposta a bloccare il tunnel della Manica. Pur di arrestare l'invasione e difendere i propri "confini". La propria identità. Anche noi, sostiene Salvini, per tornare "padroni a casa nostra": presidiamo le frontiere. I mari del Sud. Allarghiamo le distinzioni e le distanze dall'Europa. Ma, seguendo questo percorso logico e politico (non, per carità, politologico), potremmo spingerci perfino oltre. Oltre lo stesso Salvini, che vorrebbe conquistare il Sud e Roma, con la sua Lega Nazionale. Meglio, invece, rilanciare la Questione Meridionale. Per rammentare che l'Italia non esiste. È un'invenzione. Esistono, semmai, le Italie. La più affluente e sviluppata: il Nord. Pardon: la Padania. Perché dovrebbe pagare i costi "dei" Sud? Noi, orfani di frontiere e confini, di bandiere e ideologie. Oggi non sappiamo più chi siamo. Molto meglio, allora, seguire l'esempio di Viktor Orbán. Un faro. Il premier dell'Ungheria, per fermare i profughi, ha avviato la costruzione di un muro. Lungo i confini con la Serbia. Per difenderci dal Mondo, allora, erigiamo anche noi - non uno, ma - molti muri. Lungo le coste del Sud. Anche in Italia. Per difenderci dal "nostro" Sud. E visto che tutto è cominciato nel 1989, ricostruiamo il muro di Berlino. Neutralizzerà la Germania. E ci restituirà un mondo "finito". Diviso. Un mondo più sicuro. Prima di allora, però, avvertitemi. Preferisco emigrare. Giustizia: Associazione Antigone; calo reati, meno detenuti vuol dire anche più sicurezza Ansa, 17 agosto 2015 Le proposte di Antigone approvate dalla commissione Giustizia della Camera: attenzione ai diritti degli stranieri, dei minori, più misure alternative e sessualità. Il calo dei reati annunciato dal ministro Alfano (-9,2% rispetto al 2014) è veramente una buona notizia. Ed è contestuale alla decrescita della popolazione detenuta. Oggi i detenuti sono circa 52 mila. Nel 2010 erano 68 mila. Ciò significa che meno detenuti comportano anche più sicurezza pubblica. La giustizia mite paga. La giustizia dal volto truce, dalle pene esemplari e simboliche non ha alcuna efficacia deterrente. Per questo va assecondato un percorso di deflazione numerica senza cedimenti o passi indietro verso un diritto penale invadente e dalle pene sproporzionate. Va anche detto che il modello di carcerazione deve sempre più essere ispirato a principi di rispetto della dignità umana. Più vi è legalità e umanità nel sistema penitenziario più questo produce effetti significativi nell'abbassamento della recidiva. Sono in corso gli stati generali sull'esecuzione della pena voluti dal Ministero della Giustizia. L'intenzione è riformare il sistema penitenziario. Vanno contrastate tutte le resistenze. Abbiamo presentato le nostre proposte, alcune delle quali recepite e approvate dalla Commissione giustizia della Camera dei Deputati. Ora la parola spetta all'Aula di Montecitorio. Ne segnaliamo alcune: 1) attenzione specifica ai bisogni e ai diritti sociali, religiosi e di giustizia degli stranieri detenuti che a volte non sanno neanche il perché sono in carcere in quanto nessuno traduce loro finanche gli atti giudiziari (in alcune carceri si usa addirittura google translator per le ordinanze di custodia cautelare); 2) estensione delle misure alternative; 3) norme specifiche per i minori ai quali non vanno più applicate le norme degli adulti (ad esempio quelle sull'isolamento, sul contingentamento dei rapporti telefonici e visivi con la famiglia, sull'alimentazione, sui rapporti con l'esterno; 4) modifiche all'ordinamento penitenziario che tengano conto delle competenze del servizio sanitario nazionale sulla salute in carcere; 5) diritto ad avere rapporti sessuali in carcere. Quest'ultima sarebbe una grandissima novità per il sistema penitenziario italiano. Giustizia: tolto figlio a Martina Levato. Il pm: fatelo adottare. La mamma: sono disperata di Alessandra Corica e Emilio Randacio La Repubblica, 17 agosto 2015 Milano, polemica sul piccolo della coppia dell'acido. Il legale di una vittima: doveva pentirsi, ora è tardi. Il suo tentativo di trovare la "purificazione", è durato solo pochi istanti. Il tempo che il team della sala operatoria della clinica milanese Mangiagalli portasse a buon fine il parto cesareo programmato da tempo. Poi, a mezzanotte e un quarto di Ferragosto, quel fagotto di tre chili e 700 grammi, perfettamente in salute, è stato tolto dalle mani della madre, Martina Levato. L'équipe ha semplicemente eseguito un "provvedimento d'urgenza e di prassi" firmato poche ore prima dal pm del Tribunale dei minorenni di turno, Annamaria Fiorillo - la stessa del caso Ruby - in cui in una semplice pagina stabiliva come il neonato dovesse essere separato dalla madre, "in attesa di una decisione del Tribunale dei minorenni". Al reparto maternità del Policlinico il magistrato anticipava anche come "in qualsiasi momento, incaricati del Tribunale potranno presentarsi per portare via il bambino". La ragazza è troppo pericolosa, per l'accusa. La "purificazione" era ciò che Martina - fino al dicembre scorso studentessa della Bocconi - aveva detto di cercare proprio con la maternità insieme al suo compagno Alexander Boettcher, agli psicologi che l'hanno visitata in questi mesi in carcere. La "coppia dell'acido", gli sfiguratori, i giovani che oltre ad aver rovinato per sempre il ventenne Pietro Barbini - un lontano ex della Levato - se non fossero stati fermati in tempo, avrebbero continuato nel loro disegno. Purificarsi dal passato, era l'intento. O, forse, l'ordine che il broker, Alexander Boettcher, aveva impartito alla sua nuova fidanzata, per spezzare definitivamente e a suo modo il legame con gli "ex" di Martina. Quattordici anni di carcere in primo grado per entrambi gli imputati - oltre a un risarcimento plurimilionario - come aveva chiesto il pubblico ministero Marcello Musso. Da poco più di due giorni, il neonato - al momento riconosciuto solo dalla madre - si trova in una stanza isolata della clinica Mangiagalli. I nonni materni possono vederlo solo per pochi minuti, la madre per nulla. "Nostra figlia è totalmente disperata", hanno fatto sapere i signori Levato al telefono ai loro avvocati. "È una barbarie", fa eco la madre di Boettcher. Il bambino si trova nella nursery con un pigiamino messo a disposizione dallo stesso ospedale. Ai nonni non è stato permesso vestirlo con le tutine che stavano preparando da mesi. "Sono perplessa del provvedimento - commenta l'avvocato Laura Cossar, che sta seguendo la famiglia Levato. Mi sembra che sia troppo punitivo, soprattutto nei confronti del bambino". Non si dice invece "sorpreso", il legale di Barbini, Paolo Tosoni. "È una decisione difficilissima, non vorrei essere nei panni del Tribunale dei minori - ragiona Tosoni - ma, forse, l'atteggiamento di Martina non ha aiutato, se avesse dimostrato un minimo di pentimento, di volontà di sottoporsi a un cammino di recupero, forse la decisione avrebbe potuto essere diversa". Materialmente già oggi il Tribunale potrebbe vagliare la richiesta del pm Fiorillo. Decidendo di mantenere la distanza tra madre e figlio e avallando la pratica per l'adottabilità. Il verdetto odierno non avrà controparti, i giudici infatti avranno a disposizione la richiesta del pm e il fascicolo riguardante Martina, composto dalle carte raccolte nel processo concluso poche settimane fa. Si tratta solo di una tappa di quello che si preannuncia come un lungo braccio di ferro. Sia i Levato che i Boettcher si sono detti disponibili a chiedere l'adozione del piccolo, in attesa che le vicende giudiziarie facciano il loro corso. Se venisse respinta la richiesta dell'accusa, Martina sarebbe invece autorizzata tra qualche giorno ad abbandonare l'ospedale e a trascorrere il tempo che le resta da scontare in una struttura protetta, destinata alle madri detenute. Questo almeno fino al compimento del decimo anno d'età, come recita la legge. Se, invece, il Tribunale avviasse le pratiche di adottabilità del neonato, i contatti tra madre e figlio si interromperebbero. Giustizia: sulla presunta tutela del minore, sottratto alla madre detenuta camerepenali.it, 17 agosto 2015 Quanto accaduto è l'ennesimo inaccettabile segnale della distanza di quella cultura della dignità della persona che troppo spesso governa l'amministrazione della giustizia, l'esecuzione delle pene detentive e l'utilizzo dello strumento custodiale. L'Unione Camere Penali Italiane, con il suo Osservatorio Carcere, è dalla parte del bambino, dalla parte della madre, contro la vergogna di Stato che rapisce il neonato ad una donna detenuta. Violentata la natura; stracciati anni di studi medici; inflitta ad una donna una pena suppletiva non prevista da alcuna norma; negato al nuovo nato, innocente, il calore materno. La stessa madre è "presunta innocente" perché condannata con sentenza appellata e quindi non definitiva. Ma seppure fosse colpevole? Esiste forse una pena che possa coinvolgere la creatura che si porta in grembo? Quando arriverà - ma quando ? - la decisione del Tribunale per i Minorenni sarà troppo tardi. L'attimo fuggente sarà svanito. Il piccolo avrà sentito altri odori, altre voci, altro calore . Calore artificiale, avendo invece diritto a quello di sua madre. L'unico immediatamente riconoscibile. Dopo chissà! Eppure l'evento era annunciato. Non sono bastati nove mesi alla Giustizia Italiana per predisporre quanto necessario per evitare questa barbarie. Abituata a rinvii di ogni genere, ad aggirare principi di civiltà predisponendo norme che non troveranno applicazione, la nostra malandata Giustizia è stata "sorpresa" dalla nascita ed ora , in attesa della decisione dei suoi Giudici, mette i sigilli al rapporto madre-figlio, sovrapponendosi alla natura, minando per sempre una giovane vita. Occorre rivendicare con la massima decisione che le persone condannate a pene detentive - e nel caso di specie si tratta addirittura di soggetti ancora in attesa di giudizio definitivo - non cessano per ciò stesso di essere titolari di diritti, quale che sia la gravità dei delitti che vengono loro ascritti, e che lo Stato ha il dovere di tutelare il loro diritto a coltivare gli affetti e, prima di tutti, l'affetto genitoriale. La legge in particolare tutela il diritto delle madri detenute ad occuparsi personalmente della cura dei propri figli in tenera età (ed il correlato diritto dei figli a godere dell'affetto e delle cure delle proprie madri recluse) anche in contesto detentivo, quando eccezionali esigenze di cautela non consentano di concedere loro gli arresti domiciliari. Nessuna condanna penale può autorizzare a sottrarre d'imperio un neonato alla propria madre, a meno che essa non venga motivatamente giudicata incapace di accudirlo. Per converso, lo straordinario clamore mediatico che circonda il caso in questione, come tanti altri, sembra ammantare di normalità anche una simile incondivisibile decisione giudiziaria, nel cinismo della cronaca che deborda in pubblica invettiva contro il colpevole. Signor Ministro, faccia sentire la Sua voce. L'Unione Camere Penali crede nella svolta impressa alla cultura dell'esecuzione ed alle parole significative ed innovative e soprattutto in linea con la legislazione interna e comunitaria, con le quali ha sostenuto la necessità di una complessiva riforma del sistema. Quanto accaduto è l'ennesimo inaccettabile segnale della distanza di quella cultura della dignità della persona che troppo spesso governa l'amministrazione della giustizia, l'esecuzione delle pene detentive e l'utilizzo dello strumento custodiale. La Giunta dell'Unione Camere Penali Italiane L'Osservatorio Carcere dell'Unione Camere Penali Italiane Giustizia: quel paradosso pietoso di allontanare per proteggere, in una catena di crudeltà di Elena Loewenthal La Stampa, 17 agosto 2015 Quella di Martina e di un bimbo che forse si chiamerà Achille - ma un nome ancora non ce l'ha - è una storia terribile. Più che una storia, è una tragica sequenza di crudeltà che si susseguono una dopo l'altra e sembrano non finire più. È una storia che coinvolge tante persone, dove sino ad ora non ci sembrava difficile distinguere le vittime dai colpevoli: c'era una coppia diabolica che aveva per progetto di vita quello di sfregiare il prossimo con delle secchiate di acido. Ci sono delle vite sfigurate, come quella di Pietro Barbini, che quell'acido ha ricevuto in faccia. Ci sono delle vite assurde, come quelle di Martina e Alexander. E c'è la vita di un bambino che ha avuto la "colpa" di nascere a cavallo di Ferragosto, quando è più che mai difficile prendere delle decisioni tanto drastiche quanto delicate come quelle che riguardano il destino di un neonato. Il provvedimento di urgenza stabilito dal pm in servizio, dunque, ha stabilito di non concedere a madre e figlio quella prima intimità che è per entrambi una specie di dolce distacco dal cordone ombelicale, togliendo subito l'uno all'altra. Questo in previsione della richiesta di adottabilità del bimbo, cioè di un distacco definitivo e irrevocabile. È ovvio che immaginando la scena siamo tutti attraversati da una scossa di orrore e rifiuto: come si fa a commettere - o anche solo ad assistere - a una tale crudeltà? "Mia figlia non ha più occhi per piangere", ha detto il padre di Martina e non possiamo non credergli. Ora il male e il bene sembrano confondersi, la colpevole sembra diventare vittima: è una giovane madre che si vede strappare via il figlio neonato. E piange. Ma purtroppo non possiamo isolare questa scena, perché essa fa parte di una storia che è un'assurda concatenazione di atrocità dettate da una violenza oscura, fine a se stessa. E quel bambino portato via alle braccia di sua madre è vittima non del giudice che ha preso una decisione tanto difficile quanto dettata da ragioni inoppugnabili, ma dell'assurda storia che l'ha portato al mondo, dove una crudeltà insegue l'altra. E, come si dice di solito con il conforto della distanza, ora la giustizia farà il suo corso. Anche se in questo caso dovrà camminare su un filo più fragile e sottile che mai, in bilico sopra il destino di una vita appena cominciata. Dovrà dare in qualche modo coerenza al provvedimento d'urgenza preso a cavallo di Ferragosto, quando quasi tutto è fermo e molti sono in vacanza anche se questo poco importa a un bambino che ha deciso di nascere. Dovrà fare i conti con la presenza di nonni "biologici". E soprattutto, stabilire al di là di ogni dubbio, che quella ragazza colpevole di insensate crudeltà ai danni del prossimo è incapace di affrontare il ruolo di madre. Che come tutte sappiamo, non sta soltanto nell'adagiarsi sulla pancia appena sgonfiata il proprio neonato ancora umido di utero, ma vuol dire ben di più. Per il resto della vita. Il tutto, come si dice con il solito conforto della distanza, andrà deciso per il bene del bambino. Allora certamente, per il bene del bambino e anche della madre, allontanarli l'uno dall'altra subito dopo la nascita è stato paradossalmente pietoso, in prospettiva di un'adozione - cioè di un distacco definitivo. Questa terribile ambiguità è quasi insopportabile, manda in cortocircuito le nostre emozioni. È - speriamo - l'ultima tappa di una concatenazione di atti feroci, uno dopo l'altro. È quasi l'emblema di quel conflitto fra giustizia e misericordia che di tanto in tanto produce nella realtà delle voragini buie e profonde. Toccherà al tempo e a tanta, tanta umanità - là dove la giustizia e il destino manderanno il bimbo, cercare di rimarginare la ferita di questa vita appena iniziata, scacciare la maledizione di tanta crudeltà. Giustizia: il dilemma davanti al figlio di una "mamma cattiva" di Massimo Recalcati La Repubblica, 17 agosto 2015 Esistono ragioni per togliere ad una madre il diritto di abbracciare la propria creatura dopo averla messa al mondo? Esistono ragioni per privare un bambino del suo diritto di sentirsi accolto e accudito da chi lo ha generato? Esiste una Legge più forte della Legge della natura? IL caso di Martina Levato pone in questi giorni, tra gli altri, questi interrogativi, ai quali, però, se ne devono aggiungere altri ancora: una donna che si è macchiata di un reato gravissimo come quello di sfregiare con l'acido un proprio ex mentre già sapeva di essere incinta può diventare una madre sufficientemente buona? L'insegnamento della psicoanalisi è che la maternità - come la paternità - non è mai solo un evento biologico, ma è innanzitutto un evento del desiderio. La natura non è mai sufficiente in sé - come spiega bene anche il testo biblico - per fare sorgere la vita in quanto vita umana. È necessario qualcos'altro; l'intervento di un elemento terzo, l'intervento della parola e di una adozione simbolica. Il caso di Martina Levato e del suo partner dovrebbe già bastare ai sostenitori incalliti della cosiddetta famiglia naturale a comprendere che essere una coppia eterosessuale non è mai una condizione sufficiente per garantire una genitorialità sufficientemente buona. Lo sappiamo: quello che davvero conta è l'apertura verso il figlio, la disponibilità ad arretrare, a diminuire, a fare spazio, a decentrarsi, a donare, come direbbe Lacan, quello che non si ha. Diventare genitori comporta un taglio, una discontinuità nella nostra esperienza del mondo e di noi stessi: una responsabilità illimitata irrompe modificando per sempre la nostra percezione delle cose. Nel gesto del pm del tribunale dei minori, Annamaria Fiorillo, non c'è alcun esercizio sadico e impietoso del potere. Non si tratta del rovescio speculare della crudeltà dello sfregio di cui si è macchiata Maria Levato. Piuttosto questo atto segnala l'esistenza di una Legge terza che intende tutelare la vita del bambino, segnala una giusta e sacrosanta preoccupazione. La psicoanalisi sottolinea come ogni maternità è avvolta da fantasmi inconsci. Dalle perizie psichiatriche effettuate in occasione del processo, sembra essere stata la maternità stessa a portare questa giovane donna verso l'esigenza "delirante" di una "purificazione" di se stessa che le avrebbe imposto di farla finita con il proprio ex e con il "male" che egli rappresentava. Anziché simbolizzare un passaggio soggettivo così grande e delicato come quello della maternità che implica sempre un salto dall'essere figlia all'essere madre e, dunque, un lutto nei confronti del rapporto con la propria madre e, soprattutto, con la sua ombra, questa giovane donna "agisce" violentemente contro un oggetto, contro il suo ex, contro una presenza divenuta (del tutto immaginariamente) persecutoria; lo sfigura perché la sua immagine le ricorda quello che di se stessa non può più tollerare. Potrebbe fare altrettanto con il proprio bambino? Non è forse a questa questione che dovranno rispondere i giudici? Eccoci di nuovo circondati da domande alle quali non si può rispondere rifugiandosi in facili generalizzazioni: quale oggetto è un bambino per la propria madre? Quali fantasmi la nascita reale di un figlio può sollevare? Cosa comporta passare dal bambino fantasticato nella gravidanza ad un bambino che non è più mio, che appare nel mondo come una vita altra, come una vita diversa? Di quanta disponibilità ad oltrepassare il proprio Io deve testimoniare una madre? È questa una verità profonda che attraversa silente questa triste e drammatica vicenda: nessuna Legge potrà mai riparare un figlio dai fantasmi dei propri genitori. Money transfer e riciclaggio: per sussistenza del reato sufficiente anche il dolo eventuale di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 1 luglio 2015 n. 27806. La Cassazione, con la sentenza del 1 luglio 2015 n. 27806, si sofferma sull'elemento soggettivo del reato di riciclaggio. La vicenda - Si trattava di una vicenda cautelare reale in cui il riciclaggio era ipotizzato a carico dei responsabili di agenzie di money-transfer che avevano provveduto a trasferire all'estero somme di denaro che si ipotizzava fossero provento dei reati di vendita di merci contraffatte, frodi commerciali, evasioni fiscali penalmente rilevanti. La Corte, accogliendo il ricorso del pubblico ministero, ha annullato l'ordinanza con cui il tribunale aveva annullato il decreto di sequestro preventivo emesso ex articolo 12 sexies del decreto legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del 1992, rinviando al tribunale per un rinnovato esame sull'esame soggettivo del reato di riciclaggio, da apprezzare alla luce delle modalità irregolari della condotta incriminata: sistematica violazione della normativa finalizzata a prevenire il riciclaggio; frammentizzazione delle somme di denaro spedite; elevatissimo numero e ammontare delle operazioni compiute; utilizzo di nominativi di soggetti inesistenti o mancata corretta identificazioni degli stessi; irregolarità nella registrazione delle operazioni. L'elemento soggettivo del riciclaggio - La decisione è supportata da una convincente lettura interpretativa del proprium dell'elemento soggettivo del riciclaggio. In tema di riciclaggio, osserva la Cassazione, la consapevolezza dell'agente in ordine alla provenienza dei beni da delitti può essere desunta da qualsiasi elemento e sussiste quando gli indizi in proposito siano così gravi e univoci da autorizzare la logica conclusione che i beni ricevuti per la sostituzione siano di derivazione delittuosa specifica, anche mediata; e ciò anche perché, nel riciclaggio, è sufficiente anche il dolo eventuale, che si configura quando l'agente si rappresenta la concreta possibilità, accettandone il rischio, della provenienza delittuosa dei beni ricevuti. Con l'ulteriore precisazione che, ai fini della configurabilità del riciclaggio, non solo sotto il profilo soggettivo, ma anche sotto quello oggettivo, non si richiedono l'esatta individuazione e l'accertamento giudiziale del delitto presupposto, essendo sufficiente che lo stesso risulti, alla stregua degli elementi di fatto, acquisiti e interpretati secondo logica, almeno astrattamente configurabile. È sulla base di queste premesse che, sia pure ai limitati fini della vicenda "cautelare", la Cassazione ha ritenuto di accogliere il ricorso del pubblico ministero. Abruzzo: Radicali; riammettete Rita Bernardini a candidatura per Garante dei detenuti emmelle.it, 17 agosto 2015 Hanno già proposto alla Regione di riammettere la candidatura di Rita Bernardini a Garante dei detenuti abruzzesi, in quanto l'esclusione sarebbe illegittima. Lo hanno fatto il presidente e il segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi (Marco Pannella e Vincenzo Di Nanna). Pannella, che ieri ha visitato come sua consuetudine nel giorno di ferragosto, il carcere di Castrogno, è in sciopero della fame e della sete per la condizione dei detenuti e per ottenere garanzie come quelle derivanti dalla nomina della figura preposta alla tutela. "Illegittima la non ammissione della candidatura di Rita Bernardini a Garante dei Detenuti abruzzesi per violazione della legge Severino e del bando: la Regione in autotutela ripristini subito la legalità violata. Siamo di fronte a un'evidente violazione del bando e della stessa legge Severino, che prevede la non ammissione solo nel caso in cui la pena comminata per il delitto di cui all'art. 73 sia non inferiore ad un anno di reclusione: le pene inflitte all'onorevole Bernardini per disobbedienza civile per la legalizzazione della cannabis non superano, tuttavia, neppur sommate, il limite previsto dalla legge Severino e dal bando" scrivono in una nota. "Tanto più grave appare questa infrazione se si considera che la figura del Garante dei Detenuti dovrebbe rappresentare la massima tutela della legalità: Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi ha già inviato ai Presidenti del Consiglio e della Giunta della Regione Abruzzo Giuseppe Pangrazio e Luciano D'Alfonso una proposta di riammissione della candidatura con provvedimento da adottarsi in autotutela". Nel frattempo, la candidata "illegittimamente esclusa", spiega il comunicato stampa, continua a visitare le carceri "per vigilare sulle condizioni di vita dei detenuti", e si trova oggi al carcere di Pescara con una delegazione radicale composta da Vincenzo Di Nanna, Alessio Falconio, Francesco Radicioni, Rosa Quasibene, Laura De Berardinis e Maria Cristina Polidoro. "Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi - conclude la nota - continuerà a lottare per il ripristino della legalità in un momento drammatico per la situazione carceraria, a sostegno della candidatura di Rita Bernardini e in linea con gli obiettivi dello sciopero totale della fame e della sete intrapreso da Marco Pannella". Pisa: suicidio di una detenuta al "Don Bosco", i Radicali chiedono di indagare sulle cause Il Tirreno, 17 agosto 2015 L'hanno trovata impiccata con un lenzuolo legato a una finestra. Giornata tragica quella di venerdì 14 agosto nel carcere Don Bosco di Pisa. Una donna di 27 anni si è tolta la vita nel pomeriggio dopo nemmeno quindici giorni di detenzione. Era entrata il 31 luglio, dopo un'ordinanza di custodia cautelare emessa dal tribunale di Grosseto per violenza domestica. La morte della donna, originaria della provincia di Grosseto, ha sollevato le reazioni dei Radicali e del sindacato delle guardie carcerarie Sappe. "Più volte nel corso degli ultimi mesi abbiamo ricevuto segnalazioni dal Don Bosco: invitiamo con urgenza le autorità competenti a indagare a fondo le cause che hanno portato al suicidio della giovane", affermano in una nota Maurizio Buzzegoli e Massimo Lensi, rispettivamente segretario e presidente dell'associazione radicale fiorentina Andrea Tamburi. "Nell'arco di poche ore - osservano - lo Stato è riuscito a mietere due vittime: la prima nel carcere di Alba, la seconda a Pisa. Dall'inizio dell'anno negli istituti penitenziari della Toscana sono morte otto persone, sei delle quali per suicidio o per circostanze non poco sospette: un primato nazionale negativo sintomatico della totale indifferenza delle Istituzioni locali e del Governo nazionale. Marco Pannella è in sciopero totale della fame e della sete dalla mezzanotte del 9 agosto proprio per sollecitare le istituzioni a ripristinare nel Paese la giustizia e lo stato di diritto a partire dai provvedimenti di amnistia e indulto". Il Sindacato della polizia penitenziaria sottolinea come permangano le criticità e le problematiche nelle carceri toscane. "I detenuti complessivamente presenti nelle carceri regionali della Toscana erano, il 30 luglio scorso, 3.223, circa 150 in meno di quelli che c'erano un anno fa. A non calare, però, sono gli eventi e gli episodi critici nelle celle", sottolinea Donato Capece, segretario generale del Sappe. "Per il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria le condizioni di vita dei detenuti, in linea con le prescrizioni dettate dalla sentenza Torreggiani, sono migliorate in Italia. Non si dice, però, che le tensioni del sistema penitenziario italiano continuano a scaricarsi sulle donne e gli uomini del Corpo di polizia penitenziaria". "Dal 1 gennaio al 30 giugno 2015 nelle 18 carceri toscane si sono infatti contati il suicidio di 2 detenuti in cella, 3 tentativi sventati in tempo dagli uomini della polizia penitenziaria e ben 501 atti di autolesionismo, il numero più alto in tutta Italia _ prosegue Capece con il segretario regionale Sappe della Toscana Pasquale Salemme _ posti in essere da detenuti. Ancora più gravi i numeri delle violenze contro i nostri poliziotti penitenziari: parliamo di 213 colluttazioni e 39 ferimenti. Ogni giorno, insomma, le turbolenti carceri toscane e italiane vedono le donne e gli uomini della polizia penitenziaria fronteggiare pericoli e tensioni e per i poliziotti penitenziari in servizio le condizioni di lavoro restano pericolose e stressanti. Ma il Dap queste cose non le dice". Caserta: Opg di Aversa, a cinque mesi dalla "chiusura" uno svuotamento a metà di Ignazio Riccio Il Mattino, 17 agosto 2015 Sono trascorsi cinque mesi dalla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, ma le strutture di reclusione restano ancora lì, in un limbo, con il loro carico umano che attende di conoscere il proprio destino. L'Opg di Aversa non fa eccezione, nonostante la Regione Campania sia stata tra quelle più attive nel mettere a disposizione le cosiddette pre-Rems, le misure alternative alla detenzione, piccole residenze destinate a rendere più "dolce" la degenza degli internati degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. "Il numero varia di giorno in giorno, però posso affermare con certezza che nell'ultima settimana contiamo dai 55 ai 60 ospiti dell'Opg di Aversa (ieri gli internati erano 58, ndr)". La cifra viene fornita, con un sms, dalla direttrice della struttura casertana, che è in vacanza all'estero. Elisabetta Palmieri si limita ad indicare il numero degli internati dell'Ospedale psichiatrico giudiziario. Alla data di chiusura, lo scorso 31 marzo, i reclusi erano 104, segno che la dismissione procede, anche se molto lentamente perché alcune Regioni non si sono attrezzate. "I ritardi sono l'unica nota negativa, ma possiamo ritenerci soddisfatti di ciò che è stato fatto dalle istituzioni". Il senatore aversano Lucio Romano, esponente di Democrazia solidale e componente delle commissioni Affari costituzionali, Sanità e Diritti umani, sabato era in visita all'Opg di Aversa. "Intendo rappresentare vicinanza istituzionale e riconoscimento alle forze dell'ordine, impegnate sempre più, anche in queste settimane di vacanze, a garantire sicurezza alla popolazione. Ci siamo opposti in commissione Igiene e sanità a un'ulteriore proroga degli Opg e il Governo ci ha dato ascolto. Si è passati da una dimensione detentiva a un'assistenza unicamente sanitaria. La sicurezza esterna delle Rems verrà assicurata dalle forze di polizia e dalle prefetture, mentre nei Dipartimenti di salute mentale ci andranno le persone che hanno estinto la pena o che non hanno gravi problemi. Non c'è il rischio che le Rems diventino dei piccoli Opg". Le certezze del senatore Romano non sembrano essere condivise da tutti. Esprime dubbi l'esponente di Antigone, l'osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia, Dario Stefano Dell'Aquila. "Finalmente, dopo tante battaglie, si è deciso di chiudere gli Opg, ma non siamo completamente soddisfatti sui tempi e le modalità adottate. Il rischio è che le strutture alternative, peraltro lontane dall'essere pronte, diventino dei piccoli luoghi di reclusione. Il caso dell'Opg di Castiglione delle Stiviere, in Lombardia, è emblematico. Da Ospedale Psichiatrico Giudiziario è diventato centro polimodulare di Rems provvisorie. È stato cambiato nome alla struttura di reclusione, ma la sostanza rimane la stessa". Per Aversa, invece, è stata trovata la soluzione provvisoria delle due pre-Rems di Mondragone, con 8 posti a disposizione, e di Roccaromana, in località Statigliano, con 20 postazioni letto, in attesa della Rems definitiva di Calvi Risorta. Secondoipro-grammi della Regione questa struttura doveva aprire i battenti il prossimo 31 agosto, ma i lavori di ristrutturazione sono ancora in alto maree la data di consegna non verrà rispettata. Intanto le due pre-Rems sono piene, anche se la maggior parte degli ospiti non sono campani e non provengono dal flusso di dismissione degli Opg. In più, la fase di rodaggio ha procurato una serie di problemi, soprattutto in tema di sicurezza, culminati con la fuga di alcuni pazienti. Intanto, in attesa della dismissione dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, si dibatte da tempo sul futuro della struttura, ubicata nel centro della città, e, nonostante ci sia la quasi totalità di pareri contrari, l'idea resta quella di realizzare in via San Francesco di Paola un carcere a custodia attenuata, per coloro che devono scontare pene meno gravi. Parma: Marcello Dell'Utri, io bibliotecario nel carcere di Totò Riina di Antonio Manzo Il Mattino, 17 agosto 2015 "Più passano i giorni e le ore, scandite solo da una sfera di luce nella mia cella che mi dà certezza del giorno e della notte, più passa il tempo e più mi arrovello con un interrogativo: ma cosa ho fatto per stare in galera, rischiare di finire i miei giorni in carcere?". Chi lo ha visto nelle ultime settimane è pronto ad affermare che nella testa di Marcello Dell'Utri, o meglio di Dell'Utri Marcello matricola enne numeri del carcere di massima sicurezza di Parma, giri rigiri questo interrogativo. È riapparso alla vigilia di Ferragosto al suo avvocato difensore ultraventennale, Giuseppe Di Peri, ancor più smagrito del solito. Il "dottore" per i più vecchi manager di Publitalia, il senatore per i suoi amici e non solo di Forza Italia, "Marcello", semplicemente cosi da cinquant'anni per Silvio Berlusconi è da quindici mesi recluso nel carcere di massima sicurezza di Parma, lo stesso dove al 41 bis sono passati Bernardo Provenzano e Totò Riina. Il recluso Dell'Utri è un uomo di 74 anni. Fa il bibliotecario del carcere, riordina la biblioteca, maneggia libri, li prende e li riprende, li cataloga con quella passione che per una vita lo ha inseguito. Lui, al contrario di Jorge Luis Borges, non si è ma mai immaginato il paradiso come una specie di biblioteca, dice l'avvocato. Dell'Utri torna anche a ricordare Borges, perché "dare ordine a una biblioteca è un modo silenzioso di esercitare l'arte della critica" anche ad una sentenza di condanna pesante, come quella per mafia. È dimagrito, Dell'Utri. Quel volto un po' rubizzo, incorniciato da capelli sempre più bianchi con una calvizie inarrestabile, è smunto, smagrito, ossuto. Gli occhiali? Sono sempre le stesse lenti, senza montatura, rette dalle stanghette. Ha perso oltre dieci chili, mangia solo frutta e verdura, non tocca il pane, una volta a settimana un po' di pasta. Poi è un menu routine anche per assecondare facilmente la necessità di movimento e di esercizio fisico che deve fare in spazio ridotto, poco più si sei metri per sei, quando è grande la cella. Arredamento carcerario: letto, mobiletto e scrivania. Sullo sfondo una tv. Tutt'intorno libri, quaderni, giornali e bloc notes. Dell'Uni Marcello è un detenuto cardiopatico. Ha quattro stent, frutto di allettanti interventi di angioplastica. "Per questo motivo deve fare anche po' di ginnastica quotidiana" dice ancora il suo difensore. Ogni settimana riceve i familiari, sempre puntuali al colloquio per un'ora, così come ogni quindici giorni i suoi difensori. Alla vigilia di Ferragosto, nella sala colloqui del carcere di Parma l'avvocato Di Peri ha potuto sperimentare come con le temperature oltre i trenta gradi il rischio della vita per un cardiopatico è molto alto. "E non solo il dottor Dell'Utri, sia chiaro", ci tiene a puntualizzare. Dell'Utri Marcello è in carcere con condanna definitiva. Un processo conclusosi nel 2014 con al cenno fatti che risalgono al 1974, quando Forza Italia era lontana ma il rapporto con Berlusconi aveva già fatto contare collaborazioni piene, imprenditoriali e finanziarie. "Lui non torna volentieri sul suo processo, pur avendone letto attentamente gli atti. Più va avanti e più si rende conto, come lui stesso dice, di non aver mai compiuto atti nella sua vita che potessero diventare un giorno reati così gravi da mandarlo in carcere per mafia". È in carcere dopo un processo che ha fatto contare cinque tappe e cinque collegi di giudici diversi: in tribunale, due in appello, uno in Cassazione e poi quello della condanna definitiva. E pensare che il detenuto Dell'Utri Marcello non si dà pace, che in Cassazione fu il procuratore generale Iacoviello, con una requisitoria che fece storcere il muso al fronte dell'antimafia, ad affermare testualmente: "Nessun imputato deve avere più diritti degli altri ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri: e nel caso di Dell'Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio. Non si fanno così i processi, si devono descrivere i fatti in concreto. L'accusa non viene descritta, il dolo non è provato, precedenti giurisprudenziali non ce ne sono". La sentenza fu annullata, tutto tornò a Palermo per l'ultima condanna definitiva a sette anni, confermata poi in Cassazione. Si sarà dato una risposta Dell'Utri a questa condanna? "Molti ritengono che, più che per fatti e circostanze di carattere criminale, si sia colpevolizzato Dell'Utri per motivi di carattere politico" dice l'avvocato Di Peri. E pensare che già nel 1999 Dell'Utri Marcello rischiò di finire da senatore come una matricola in un carcere italiano. Fu quando i pm di Palermo chiesero ma non ottennero, fortunatamente, il suo arresto per due vicende dalle quali poi venne definitivamente assolto. Per il reato di calunnia aggravata in danno di pentiti di mafia, chiesero ben sette anni di reclusione. Anche questo processo fini in Cassazione con la conferma delle precedenti assoluzioni. Il processo fece il paio con quello per presunta estorsione in danno della Pallacanestro Trapani: due sentenze di annullamento della Cassazione pervenire ad una ulteriore assoluzione anche su questa tentata estorsione. Gli ultimi libri che Dell'Utri ha prelevato dalla biblioteca sono di Luigi Pirandello. Li ha assommati a quelli di filosofia che sta leggendo. Ha scelto un autore siciliano, come è lui, perché, come disse un giorno Fedele Confalonieri, "se fosse stato bergamasco e si sarebbe chiamato Pesenti non sarebbe stato mafioso". Sì, proprio lui Dell'Utri Marcello, carcere di massima sicurezza, Parma. Firenze: la Fp-Cgil visita il carcere di Sollicciano e scrive una lettera a tutte le istituzioni nove.firenze.it, 17 agosto 2015 "I poliziotti di Sollicciano ancora oggi sono costretti a lavorare in luoghi angusti, con decine e decine di neon divelti, senza un minimo di refrigerio con queste temperature, con infiltrazioni che hanno reso i muri impregnati di muffe e scrostamenti, tutte cose che rendono i luoghi sicuramente malsani e a nostro parere al limite, se non oltre, della legittima idoneità". Lo scrive Santi Bartuccio (Fp Cgil Toscana) in una lettera indirizzata al Provveditore Amministrazione Penitenziaria della Regione Toscana, al Prefetto di Firenze, al Presidente della Regione Toscana, al Sindaco del Comune di Firenze, al Direttore Generale ASL 10 Firenze, al Garante per i Diritti dei detenuti, al Direttore di N.C.P. Sollicciano, al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Roma). La lettera è stata inviata nei giorni scorsi dopo che mercoledì 5 agosto una delegazione di Fp Cgil Toscana (formata dallo stesso Bartuccio, da Donato Nolè, Coordinatore Regionale Polizia Penitenziaria, e da Paolo Sparapano, coordinatore Provinciale Polizia Penitenziaria) ha effettuato una visita al carcere Nuovo Complesso Penitenziario Firenze Sollicciano. La delegazione, riscontrando la massima disponibilità nella Direzione del Carcere, ha potuto effettuare e verificare le condizioni in cui versa la struttura Fiorentina, le condizioni in cui il personale è costretto a lavorare, nonché le condizioni di detenzione dei ristretti. Pur apprezzando lo sforzo messo in atto dall'Amministrazione (in primis la Direzione del Carcere) per migliorare le condizioni igieniche della struttura, che nell'ultimo anno ha sicuramente attenuato il problema igienico collegato alla presenza dei piccioni e ha provveduto ad imbiancare interi padiglioni, la situazione rimane problematica. Descrive Bartuccio nella lettera: "La cinta muraria, causa cedimento parziale, risulta parzialmente chiusa in un settore e la restante parte presenta garitte antiquate, molte disusate con porte divelte, parapetto con parti metalliche arrugginite, camminamento senza illuminazione e pericoloso per la presenza di lamiere. Le garitte - in queste condizioni - sarebbero da chiudere, eppure sono regolarmente presidiate da parte della polizia penitenziaria fiorentina che garantisce, con queste temperature, quasi in modo stoico, il servizio armato per almeno due ore. Polizia Penitenziaria che troviamo assai demotivata se non anche angosciata. Molti lavoratori ci hanno avvicinato per comunicarci il loro disagio. Disagio rappresentato in modi assai diversi, chi attraverso metafore che al momento potevano apparire anche divertenti e simpatiche, chi con vere e proprie richieste di aiuto, chi con desolanti silenzi, ma tutti a nostro parere necessari di ascolto e immediato intervento". Prosegue la missiva: "Il generale malcontento che regna nella più importante realtà penitenziaria toscana non può più rimanere chiuso fra le mura del Carcere di Sollicciano; le donne e gli uomini che lavorano a Sollicciano meritano altro. Non possono lavorare in luoghi angusti con la netta sensazione di sentirsi abbandonati dalle Istituzioni. Non possono lavorare con la concreta percezione del rischio di essere oggetto di rappresaglie da parte di una popolazione detenuta divenuta, non solo, ma anche per il contesto, sempre più aggressiva e intollerante. Lo dicevamo allora, e lo ribadiamo oggi, che aprire le celle, su indicazione della ormai famosa legge Torreggiani, senza riempire gli spazi di forme e contenuti, non avrebbe risolto il problema delle carceri; anzi in molti casi, le statistiche lo dimostrano, gli eventi critici sono aumentati, in modo particolare le aggressioni sul personale di polizia penitenziaria". Queste le proposte di Bartuccio, contenute nella lettera, per migliorare le condizioni di lavoro e detenzione a Sollicciano: "Riteniamo che per migliorare le condizioni detentive, in primis bisognerebbe migliorare le condizioni lavorative del personale, cosa che ancora oggi appare una chimera, e ci domandiamo: come può un personale stanco, demotivato, afflitto, incompreso, rispondere alle richieste sempre più esigenti di una popolazione detenuta, in molti casi formata in modo rilevante da soggetti disagiati, tossicodipendenti, stranieri, sicuramente poco disposti e disponibili al rispetto delle regole? Mentre un discorso a parte meritano gli alloggi collettivi del personale. Personale che in gran parte proviene dal sud, pertanto costretto a dimorare in Caserma, dove però le camere sono tutt'altro che accoglienti e confortevoli. È evidente che il degrado in cui versa Sollicciano non può e non deve essere imputato a chi oggi governa la struttura, ma certamente a costoro chiediamo una maggiore attenzione per il Personale, che se data verrebbe sicuramente riconosciuta e, riteniamo, trasformata certamente in migliore vivibilità per tutti, detenuti compresi. Certo è che la Direzione di Sollicciano per effettuare il cambio di passo che il Carcere Fiorentino merita necessita sicuramente della maggiore attenzione e partecipazione delle Istituzioni locali, quali la Regione, il Comune, l'A.S.L., oltre che dell'Amministrazione Penitenziaria Regionale e, soprattutto, Nazionale, per fare in modo che abbia le giuste risorse economiche ed umane per risolvere le criticità segnalate. Riteniamo che ognuno debba e possa fare la sua parte, chiediamo che tutti i soggetti Istituzionali cui la presente è inviata si attivino, per gli ambiti di competenza, e contribuiscano alla rinascita del carcere fiorentino". Teramo: a Castrogno la Polizia penitenziaria salva due detenuti che tentano di impiccarsi cityrumors.it, 17 agosto 2015 Come riporta il segretario provinciale del Sappe, Giuseppe Pallini, ieri mattina in due circostanze, uno verso le ore 09.00 e l'altro alle ore 12.00, le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno salvato due detenuti, F.S. di 46 anni di Pescara e N.R. di 45 anni, napoletano, che si trovavano presso il reparto femminile ed il reparto protetti della casa Circondariale di Teramo. I due hanno tentato di impiccarsi. Nella stessa mattinata inoltre gli agenti hanno evitato l'aggressione ad un infermiere dell'ASL da parte di un detenuto con patologie psichiatriche bloccandolo mentre cercava di colpirlo alle spalle. "Si continua a voler ignorare, che il carcere di Castrogno non è più in grado di gestire una così vasta pluralità di circuiti detentivi, unica nel panorama italiano, dove sono raggruppati in un unico padiglione ben sei (6) differenti circuiti detentivi (alta sicurezza, comuni, tossicodipendenti, sex offender, protetti e femminile) con divieto d'incontro tra loro - spiega Pallini - a ciò si è aggiunto da qualche tempo anche la gestione dei soggetti psichiatrici e di detenuti riottosi provenienti da altri istituti e a nulla sono valsi i ripetuti appelli, all'Amministrazione penitenziaria Regionale e Nazionale di non inviare ulteriori detenuti e di trasferire quelli con gravi patologie psichiatriche e sanitarie". "Le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria - conclude - ogni giorno, nonostante la carenza d'organico, il diniego del riposo settimanale e delle ferie, che ad oggi risultano ancora da fruire in 12.000 giornate, con grande sacrificio e alto senso di responsabilità cercano di salvaguardare l'incolumità dei ristretti assicurando nel contempo l'ordine e la sicurezza interna ed esterna del carcere e tutti i compiti istituzionali affidati come il servizio delle traduzioni che quotidianamente assorbe mediamente 30 unità". Pescara: Marco Pannella in sciopero della fame e affaticato "salta" la visita al carcere Corriere della Sera, 17 agosto 2015 Affaticato dallo sciopero della sete e della fame degli ultimi giorni, il leader radicale Marco Pannella ieri è stato costretto a saltare la visita al carcere di San Donato di Pescara, prevista nell'ambito del tradizionale giro che i Radicali compiono ogni anno nel periodo di Ferragosto per ribadire il loro impegno sulla condizione delle prigioni italiane. A spiegare le ragioni dell'appuntamento mancato, la segretaria dei Radicali italiani Rita Bernardini: "Marco Pannella è stato costretto a rientrare a Roma per un po' di affaticamento e stanchezza. Gli scioperi della fame e della sete degli ultimi giorni lo hanno debilitato". La settimana scorsa il capo dello Stato Sergio Mattarella aveva telefonato al leader radicale per invitarlo a desistere e a non mettere in pericolo le sue condizioni di salute, prolungando il gesto di protesta cominciato il 9 agosto. Pannella aveva accolto l'invito, bevendo un bicchiere d'acqua in diretta tv: "Lo faccio adesso per poter non bere nei prossimi giorni". Ma poi ha ripreso con lo sciopero. L'iniziativa del leader Radicale - che il giorno di Ferragosto ha visitato il carcere di Castrogno di Teramo - ricalca quelle da lui già messe in atto in passato a favore di amnistia e indulto. Lucca: il Sottosegretario Ferri in visita al carcere "riaprire la quarta sezione" luccaindiretta.it, 17 agosto 2015 Nel giorno di ferragosto il sottosegretario del ministero della giustizia Cosimo Maria Ferri ha fatto visita al carcere di Lucca dove ha salutato il personale di polizia penitenziaria, ha girato i reparti ed ha parlato con operatori e detenuti. "Anche in questa realtà penitenziaria - ha commentato Ferri al termine della visita - si è registrato un calo di detenuti. Sono stati risolti i problemi derivanti dal sovraffollamento carcerario e sono stati rispettati i requisiti richiesti dall'Europa. L'impegno del ministero della giustizia rimane sempre concreto ed attento nella gestione delle eventuali criticità e siamo pronti ad intervenire per migliorare ancora le condizioni dei detenuti, delle strutture e garantire condizioni lavorative ottimali per il personale. L'obiettivo rimane quello di incentivare le attività lavorative per evitare che all'interno delle strutture i detenuti stiano in ozio e non procedano in un cammino di reinserimento e di reintegro all'interno della società". "A Lucca - ha proseguito Ferri - si stanno portando avanti i lavori di ristrutturazione della ottava sezione che l'amministrazione vuole riaprire (era chiusa dal 1960). Entro un anno auspichiamo che la ditta consegni i lavori e che tali spazi possano essere utilizzati anche per migliorare e ampliare l'area destinata al trattamento ed alla rieducazione. Tra le criticità strutturali l'amministrazione dovrà decidere come utilizzare la quarta sezione che è stata chiusa da tempo su richiesta della stessa azienda Usl e l'ex reparto femminile che risulta anch'esso chiuso e solo in parte utilizzato in parte come archivio. Questi spazi andrebbero recuperati per migliorare la strutture e garantire una migliore vivibilità per tutti coloro che devono stare all'interno". Ferri ha poi voluto ringraziare la polizia penitenziaria, le associazioni di volontariato che operano all'interno dell'istituto, gli educatori e tutti gli operatori "per il loro impegno costante e quotidiano". Napoli: Pino Peluso, un sarto dietro le sbarre per insegnare mestiere ai detenuti di Nisida di Giovanni Bucchi businesspeople.it, 17 agosto 2015 Per due mesi il virtuoso dell'ago e vicepresidente della Camera europea dell'alta sartoria ha varcato la soglia del carcere minorile napoletano di Nisida, per insegnare i detenuti più giovani il suo mestiere e regalare loro una speranza per il futuro. Una scuola di sartoria per detenuti in un carcere minorile. Insegnare a usare ago e filo a un gruppo di ragazzi finiti dietro le sbarre per i reati più svariati, dalla rapina all'omicidio. Detta così, sembra un'idea da visionari. C'è infatti la barriera del "machismo" da abbattere, particolarmente alta quando si parla di adolescenti con problemi di giustizia che, al solo sentire una tale proposta, storcono il naso bollandola come "roba da sartine". D'altronde, corsi di quel tipo vengono generalmente riservati alle ragazze. Va però spiegato loro che quell'attività li può aiutare in futuro ad avere una possibilità in più, magari per evitare di commettere gli stessi errori che li hanno privati della libertà. E poi chissà, può essere un'occasione propizia per appassionarli a qualcosa nella vita, la vera esigenza che hanno; e questo sarebbe davvero un grande successo. Regole, cura e soprattutto tanta fiducia. Sono queste le principali esigenze dei giovani del carcere di Nisida. Le mette in fila Gianluca Guida, da 18 anni direttore di questa struttura che ospita attualmente una cinquantina di detenuti tra i 15 e i 24 anni. "Nei nostri progetti educativi", spiega, "cerchiamo da anni di inserire attività che possano permettere ai ragazzi di acquisire competenze e professionalità nel settore dell'artigianato". Da qui le esperienze già ben avviate del laboratorio di ceramica, la cui gestione è affidata all'associazione Il meglio di te onlu, quello di pasticceria finanziato dalla Fondazione Vodafone e infine quello di restauro edile sostenuto da Acen (Associazione costruttori edili), Inail e con la supervisione della Facoltà di Architettura Vanvitelli della Seconda Università di Napoli. "Nei primi due casi si parla di piccole start up di impresa con una ricaduta economica per i ragazzi" aggiunge Guida. A Nisida, il carcere minorile sull'isoletta davanti a Napoli, il primo tentativo in questo senso è andato a buon fine. A febbraio e marzo scorsi per tre giorni alla settimana il maestro Pino Peluso ha varcato alle 7.50 la soglia di ingresso per mettere piede dentro a una realtà mai vista prima e lasciarsela alle spalle a sera, solo dopo aver spiegato per otto ore a quei ragazzi come si fa un gilet. Quarantadue anni, sarto da quattro generazioni ("ho iniziato a lavorare in bottega da mio padre quando avevo 12 anni" racconta), titolare di una rinomata sartoria in piazza Amedeo, zona Chiaia, cuore storico di Napoli, Peluso è abituato a tenere corsi per ben altri studenti, dato che esamina i diplomandi alla Camera europea dell'Alta sartoria, di cui è vicepresidente. "Per me è stata la prima esperienza in carcere", premette. Davanti si è trovato una quindicina di ragazzi tra i 15 e i 24 anni che appena l'hanno visto si sono detti: "E questo che vuole?". "Volevo sì insegnargli qualcosa del mio mestiere, ma soprattutto aiutare qualcuno che ha avuto meno possibilità di me, a prescindere da quello che ha fatto". Per fare questo, insieme alle prime tecniche di sartoria, tra un bottone cucito e una piega, ha cercato di lanciare un messaggio: "Parto sempre dall'idea che sarà la bellezza a salvare il mondo, e la bellezza passa innanzitutto da ciò che di buono e bello ognuno di noi può dare agli altri. Io so fare il sarto e allora insegno questo ai ragazzi". L'avventura più difficile consisteva nel lasciare qualcosa di concreto in mano ai giovani, così da rendere evidente l'utilità di aver passato quelle ore ad ascoltare un sarto. È nata quindi l'idea di accompagnarli nella creazione di un gilet. "Hanno imparato a metterne a misura uno", racconta soddisfatto Peluso, "e così hanno capito che se pensano, progettano e programmano, le cose si possono anche realizzare. Il capo, infatti, lo hanno prima pensato e disegnato su un foglio di carta, poi da lì attraverso le proporzioni matematiche in scala siamo arrivati al modello che, tagliato e messo a misura, hanno pure potuto indossare". Quel gilet è diventato emblema di ben altri valori: "Hanno capito che possono fare anche cose belle, non solo commettere crimini, che basta metterci della volontà e farsi aiutare. Per questo dico che con un semplice corso gli abbiamo pure lasciato una speranza". I problemi non sono certo mancati. "Non potevo perderli di vista un attimo, dovevo sempre trovare un modo per attirare la loro attenzione, perché questi ragazzi non conoscono l'attesa". Insomma, vogliono tutto e subito, con le buone o con le cattive poco importa. "Per questo concentrarsi per due mesi su un gilet, con riflessione, dedizione e pazienza, li ha educati a una responsabilità sul lavoro". A fare breccia nel cuore di Peluso è stato però un altro fatto: "La richiesta di aiuto che in qualche modo, magari non sempre in maniera esplicita, questi giovani rivolgono a chi viene da fuori per incontrarli". Alcune immagini scattate durante le lezioni di Pino Peluso al carcere di Nisida. In apertura, lo stesso Peluso nella sua sartoria in piazza Amedeo, in zona Chiaia, a Napoli. Guardandoli negli occhi, il sarto partenopeo ha capito che "nessuno di noi nasce criminale, lo si diventa per via del contesto in cui si cresce, della famiglia, delle conoscenze e di tanti altri fattori". Tuttavia, "stando con loro in carcere capisci che sono persone che hanno sì commesso un errore e per questo devono pagare, ma chiedono aiuto, che qualcuno insegni loro e li educhi a fare altro rispetto ai reati commessi. Non vogliono venire identificati con i loro sbagli". Secondo Peluso, corsi come quello da lui tenuto, e finanziato dalla Regione Campania in collaborazione con l'Iscom, andrebbero moltiplicati. "Sono iniziative fondamentali", aggiunge, "i giovani detenuti vengono educati a rispettare i ritmi e gli orari della giornata di lavoro, ad acquisire competenze e professionalità, a mantenersi attivi". In questo senso, il carcere di Nisida rappresenta un modello di eccellenza, date le numerose iniziative legate alla formazione professionale nel settore dell'artigianato che vengono svolte all'interno. "Mi piacerebbe davvero ripetere questa esperienza, spero sia possibile farlo", conclude Peluso. Il viaggio infinito di animali e umani di Adriano Sofri La Repubblica, 17 agosto 2015 Immaginare di metter fine alle migrazioni umane è come voler impedire alle rondini di andarsene e tornare. Si può ancora dire qualcosa che non sia stato già detto a proposito dei migranti? Ci provo, partendo da una coincidenza radiofonica. La mattina del 12 agosto Radio 3 ha trasmesso, a mezz'ora di distanza, due servizi senza legame fra loro. Il primo, per il programma "Tutta la città ne parla" . Era dedicato a un nuovo dramma della migrazione: l'approdo di migliaia di fuggiaschi all'isola greca di Kos. Il secondo, per il programma "Radio 3 scienza", era dedicato all'isola di Ventotene, tappa importante delle migrazioni di uccelli, e perciò dell'inanellamento da parte degli ornitologi volontari. Sono stato a sentirlo perché ho anch'io una passione per l'osservazione degli uccelli, ma dopo poche frasi mi sono accorto che il racconto si adattava tal quale ai migranti umani. Riassumo (ma potete andare a riascoltarlo: "La promessa del ritorno"). Per i grandi migratori della nostra parte del pianeta - grandi per le enormi distanze che coprono, ma possono essere uccellini di qualche grammo appena - le traversate più pericolose sono quelle del Mediterraneo e del Sahara: esattamente come per i migranti umani. Se sbagliano il vento, sono morti. In maggioranza, non sanno nuotare: se cadono in acqua, sono morti. Le isole - Ventotene come Lampedusa o Kos - offrono loro una sosta preziosa durante la traversata. Avevo appena sentito un siriano a Kos dire: "Certo che avevamo visto in tv i naufragi nel Mediterraneo. Ma fuggivamo da una morte certa". L'ornitologo alla radio ha detto: "Gli uccelli devono affrontare i pericoli di una morte probabile per scampare a una morte certa". Ho pensato che oggi un ornitologo parla proprio come una portavoce dell'Unhcr, e viceversa. Gli uccelli migrano per due cause essenziali. La prima è, diciamo, naturale: la ricerca di territori in cui nidificare e riprodursi, nutrirsi, e ripararsi da climi estremi. La seconda è anch'essa naturale, perché gli animali umani appartengono anche loro alla natura; ma le appartengono con una specie di privilegio (che ha il suo malaugurato rovescio) cosicché possiamo chiamarla una causa umana. È la modificazione umana dell'habitat, reso sfavorevole o proibitivo per la sopravvivenza degli uccelli: la scomparsa o la riduzione consistente degli insetti è l'esempio più evidente. Queste mutazioni "antropiche" possono sconvolgere le rotte degli uccelli migratori. Avrete già capito che cosa voglio suggerire: che le due cause primarie delle migrazioni degli uccelli ricalcano quelle degli umani, che si vogliono dividere fra migranti "economici" e profughi. Gli uccelli che, da che il mondo è mondo (il loro mondo, perché ci sono arrivati molto prima di noi) volano da un luogo all'altro, preferibilmente da nord a sud, sono "migranti economici", in cerca di nutrimento e clima adatto. Gli uccelli che volano per sfuggire a territori che gli umani hanno reso inospitali o addirittura micidiali a loro e alla loro progenie, sono "profughi". Le analogie non si fermano più: gli inanellatori di Ventotene - o dei posti altrettanto strategici per quei viaggiatori alati - vi hanno la loro "stazione di identificazione". Si può pensare qualsiasi cosa sull'inanellamento, pratica non priva di rischi e di paura (gli uccelli sono catturati nelle reti e maneggiati per ricevere la loro matricola): essa però si conclude presto con la loro riconsegna al cielo libero, senza detenzioni né respingimenti. Trasformati da membri di una specie a singoli individui viventi, gli uccelli eritrei non devono temere che l'anello alla loro zampetta possa servire alle rappresaglie contro le loro famiglie. Sono milioni gli uccelli così registrati: una bella lezione, se solo la si volesse considerare, per le pratiche di identificazione e "inanellamento", diciamo così, di migranti umani. La radio raccontava che peripezie affrontano i merli (sì, anche i merli, benché non tutti, migrano), a che altitudine volano le oche, che incredibili distanze coprono i pettirossi: e quante minacce fatali devono sventare lungo la rotta. Esattamente come gli umani. Proviamo a trarre qualche lezione dal paragone. Gli animali umani migrano, da sempre, come le altre specie viventi, e si deve ricordarlo senza temere il loro orgoglio di signori del creato. Immaginare di metter fine alle migrazioni umane è come voler impedire alle rondini di andarsene e tornare (stiamo facendo anche questo, peraltro). Le migrazioni "economiche" - la fame, la carestia, i disastri naturali, la ricerca di una vita degna - sono quanto di più naturale esista, e basterebbe che ci ricordassimo di quando fummo noi migranti. Gli esodi provocati dalla mano umana, quando provoca la distruzione di ambienti necessari alla vita indigena, sono quelli sui quali è più possibile e necessario intervenire: per gli umani come per i pettirossi e le oche selvatiche. Auspicare l'accoglienza per chi bussa alle nostre porte, senza ripararsi ipocritamente dietro la distinzione fra migranti "economici" e richiedenti asilo (ipocrisia che solo la chiesa cattolica rifiuta), è moralmente necessario. Diventa praticamente efficace se ci si impegni a far finire le guerre per bande nei paesi di origine, e a castigarne i promotori, dall'Iraq alla Siria alla Libia; e sconfiggendo quelli offrire una speranza a chi langue sotto dittature spietate e non vede altra via che la fuga. E questo vale anche per gli uccelli, cacciati da terre e cieli occupati non da guerre di altri uccelli, ma di animali umani. I quali nel frattempo hanno imparato a volare, perfino più in alto delle oche himalayane, e però ai loro migranti non lasciano che dei gommoni sgonfi. Raccontano gli ornitologi di buona volontà che a Ventotene dapprincipio incontrarono ostacoli seri, perché della stazione di passo gli isolani vivevano, per esempio catturando e vendendo a mezza Europa le quaglie per la caccia e il tiro a segno. Piano piano, gli isolani hanno cambiato abitudini, e hanno visto che il bird watching può giovare all'isola più e meglio che lo smercio delle quaglie. Qualcosa del genere, per gli animali umani, l'avevano già imparato gli isolani di Lampedusa, e magari ora quelli di Kos. O le navi mercantili che accettano di cambiare rotta e soccorrere i naufraghi e tirarli a bordo, e già sapevano che gli uccelli esausti, sopra il Mediterraneo, vengono a posarsi sui loro ponti, isole naviganti. I "muri" europei sul caso profughi di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 17 agosto 2015 Gevgelija, nel Sud della Macedonia: centinaia di migranti danno l'assalto a un treno per la Serbia, l'ultimo Paese che rimane fra loro e l'Unione Europea. Gevgelija, una città di 22 mila abitanti del Sud della Macedonia: dopo aver sostato a lungo sulla banchina, centinaia di migranti danno l'assalto a un treno, cercando di assicurarsi un posto per la Serbia, l'ultimo Paese che rimane fra loro e l'Unione Europea. I migranti arrivano dalla Grecia e sono soprattutto di origine mediorientale e afghana. Tra proteste di piazza e scontri politici l'emergenza immigrazione moltiplica le linee di frattura in Europa. A Nord il premier britannico David Cameron non fa retromarcia dopo i richiami di Bruxelles e le dichiarazioni sugli "sciami che attraversano il mare" ma rilancia: "Fermeremo le irruzioni". Dalla Svezia alla Lettonia fino all'Italia, le destre evocano "il genocidio dei bianchi". E a Est s'infiamma l'ex blocco sovietico. Non c'è solo l'Ungheria del nazionalista Viktor Orbán che alza il muro di filo spinato e lancia una campagna per scoraggiare gli ingressi illegali dai Balcani. In Slovacchia migliaia hanno manifestato a Bratislava contro la decisione del governo socialdemocratico di accettare 100 profughi in arrivo da Grecia e Italia secondo le ricollocazioni previste dall'Agenda Immigrazione della Commissione Ue. Gli smistamenti di circa 32 mila persone partiranno a settembre, Bruxelles vuole arrivare a 40 mila. Ci sarà battaglia. La cattolica Polonia si è offerta di accogliere mille-duemila rifugiati, su 38 milioni di abitanti. Cinquanta famiglie siriane sono arrivate a luglio. Il dibattito politico ruota intorno alla richiesta delle frange più conservatrici di aprire le porte solo ai cristiani. Il tema è incandescente, Varsavia non ha i problemi economici dei vicini regionali ma a ottobre va al voto e la destra nazional-populista è in ascesa. Alle ultime presidenziali è stato eletto Andrzej Duda, del partito di Jaroslaw Kaczynski, che considera prioritario il rafforzamento della presenza Nato in funzione anti-russa. Sarà questa la carta negoziale degli occidentali. Come ricorda il ministro dell'Interno tedesco Thomas de Maizière, "la solidarietà dev'essere reciproca". Se il Centro-Est vuole più protezione, la contropartita è l'accoglienza. La Germania, che prevede 600 mila arrivi nel 2015, ha visto negli ultimi mesi una fiammata di violenze anti-immigrati. La cancelliera Angela Merkel ieri ha condannato gli attacchi - "Non sono degni del nostro Paese" - e richiamato l'urgenza di "valutazioni comuni da parte della Ue" sulle condizioni di sicurezza negli Stati di provenienza degli immigrati, riferimento alla condivisione di sforzi anche nelle procedure di identificazione e asilo. Il governo lettone, che accoglierà 200 persone giunte in Europa via mare, ha attrezzato una base militare abbandonata dove per ora dormono in 50. Nei raduni della sua Alleanza nazionale, che governa in coalizione con i liberali, il segretario generale Raivis Zeltits ricorda che la dominazione sovietica ha privato il Paese di una tradizione multiculturale e che "nel resto dell'Unione Europea l'integrazione dei musulmani non ha dato buoni risultati". Nella Repubblica Ceca, dopo una rivolta in un centro di immigrati, il presidente socialdemocratico Milos Zeman ha tagliato corto: "Nessuno vi ha invitati, se qui non vi piace andatevene". Il Commissario europeo "soldi Ue per i profughi, ma dopo averli salvati fate di più" di Eugenio Occorsio la Repubblica, 17 agosto 2015 Il commissario europeo alle Migrazioni Dimitris Avramopoulos elogia l'Italia: "Lavoro straordinario, ora non siete più soli 560 milioni entro pochi giorni. Più efficienza nei processi di registrazione e valutazione dei singoli". "L'Italia non deve più sentirsi sola. C'è da parte della commissione tutta la stima e l'ammirazione per il modo con cui il vostro Paese sta fronteggiando la crisi dei migranti. Siamo consapevoli che il problema va risolto a livello europeo e intensificheremo gli sforzi comuni". Dimitris Avramopoulos, commissario europeo alle Migrazioni, si impegna personalmente perché l'impegno dell'Ue faccia un salto di qualità. "Intendiamo collaborare - ci dice nel suo ufficio nel palazzo Berlaymont soprattutto per rendere efficiente ciò che viene "dopo" il salvataggio: il processo di registrazione, catalogazione, valutazione delle singole posizioni, compresa l'eventuale espulsione di chi non ha diritto all'accoglienza. Tutto questo anche con la creazione di "hotspot", unità operative con un nostro staff collocate nelle aree più difficili per aiutare le autorità italiane. Inoltre, per coadiuvare lo sforzo della marina italiana ho rivolto un accorato appello a tutti gli altri Paesi perché collaborino con più unità alle operazioni Triton e Poseidon di Frontex, che non ha mezzi navali propri ma il cui budget è stato recentemente triplicato fino a 90 milioni. L'iniziativa della redistribuzione per quote è nata per venire incontro alle richieste italiane, oltre che della Grecia, l'altro Paese più esposto. Coloro che arrivano sulle nostre coste non sono nemici ma esseri umani che fuggono da guerre e intollerabili povertà: ogni singola morte nel Mediterraneo turba le nostre coscienze". Però nel vertice di fine luglio non è stato trovato neanche l'accordo su 40mila immigrati da redistribuire. "Sono il primo ad essere indignato per quest'atteggiamento. Ci si è fermati a 32mila, e io mi impegnerò strenuamente perché si completi la prima assegnazione concordata che già è insufficiente. Spero che la situazione venga risolta entro fine anno, io vorrei molto prima. Incoraggiamo l'Italia, come la Grecia, a notificare tempestivamente ai nostri uffici il numero dei migranti da ricollocare. L'Europa è stata costruita sui principi della tolleranza e del rispetto. La xenofobia, come i nazionalismi e i populismi, non deve trovare spazio in questo continente. Purtroppo non è semplice passare dalle parole ai fatti, ma deve essere il nostro obiettivo". Ma perché l'Europa si è mossa con tanto ritardo? "Io posso dirle che dal primo giorno in cui si è insediata questa commissione, a fine 2014, quella dei migranti è la priorità numero uno. In questi mesi abbiamo approvato un impegno finanziario senza precedenti, 7 miliardi da qui al 2020, ai quali abbiamo aggiunto nei giorni scorsi 76,5 milioni di emergenza. I primi beneficiari saranno Italia e Grecia, alle quali andranno rispettivamente 558 e 474 milioni, e appena meno alla Spagna. La prima tranche per la Grecia di 30 milioni partirà quando sarà consolidata l'autorità nazionale, per l'Italia dove quest'autorità c'è già e funziona, i fondi partiranno entro pochi giorni. Quanto alle regole di Dublino sull'asilo, posso garantire che saranno riviste entro il 2016, ma l'accoglienza l'Ue ha già oggi i migliori standard del mondo". Come affrontate atteggiamenti come quello dell'Ungheria che sta edificando il suo "muro", ma anche della Gran Bretagna o perfino della Francia rispetto alla crisi di Calais? "L'Unione europea è nata per abbattere, non costruire muri. Finché noi staremo qui, continueremo a perseguire questo che è uno dei principi costituenti dell'Europa. Le iniziative in corso vanno considerate isolate e locali. Sono stato a Budapest e ho concordato un atteggiamento ragionevole con il governo. Vogliamo che i nostri principi vengano salvaguardati: abbiamo offerto all'Ungheria 85 milioni per fronteggiare la crisi, più altri fondi d'emergenza già erogati. Non è semplice: da quando hanno scoperto le vie dei contrabbandieri, un fiume di immigrati sta riversandosi dalle montagne della Serbia: 35mila arrivi nel solo luglio. Va detto che i criteri di difesa dei confini sono decisi dai singoli Paesi, ma resta valido il nostro principio contrario alle barriere anti-immigrazione e fermo sul non-respingimento. Qui la situazione è diversa. Le strutture per mettere in sicurezza il porto servono per proteggere le infrastrutture portuali e per prevenire la perdita di vite visto che è facilissimo, purtroppo è successo, che i migranti restino fulminati dalle condutture elettriche o investiti dai treni". Si dice sempre che il problema va risolto nei Paesi d'origine. L'Europa come si muove? "Siamo pronti a un massiccio investimento in tal senso. L'assistenza europea ha raggiunto i livelli record di 58,2 miliardi nel 2014, e i Paesi membri hanno confermato l'impegno di destinare alla cooperazione per lo sviluppo lo 0,7% del Pil. In novembre a La Valletta terremo un incontro con i Paesi interessati. Mi rendo conto che alcuni di questi sono ridotti a non-Stati, però speriamo in un'adesione il più estesa possibile. Andrò fra poco in Niger dove è in corso la prima iniziativa- pilota di aiuto in loco, un modello che contiamo di allargare". Soffocati nella stiva i morti saliti a 49, oggi in Sicilia i superstiti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 17 agosto 2015 Dramma in Macedonia, dove da giorni in migliaia danno l'assalto ai treni per l'Europa Ai confini con la Serbia scene che rimandano al conflitto nella ex Jugoslavia. Tra immondizia e violenze, migliaia di migranti danno l'assalto a treni che dovrebbero portarli verso l'Unione Europea. Le drammatiche immagini si ripetono da settimane lungo i binari a Gevgelija, al confine con la Serbia. C'è chi tenta di salire dai finestrini, altri vengono schiacciati dalla calca davanti alle porte, altri ancora esausti e disperati si preparano a un'altra notte di attesa all'addiaccio: fino ad oggi sono stati 54mila quelli che dall'inizio dell'anno sono entrati nella Ue attraverso i Balcani, numero che potrebbe più che raddoppiare. Ma la via principe resta il Mediterraneo, con i barconi diretti verso le coste greche e italiane, soprattutto. Nel giorno di ferragosto l'ultima tragedia nel canale di Sicilia, con 49 migranti morti soffocati dai fumi degli idrocarburi e dalla mancanza d'aria nella stiva di un barcone. Che l'imbarcazione si fosse già trasformata in una terribile bara galleggiante lo hanno capito subito i marinai della nave Cigala Fulgosi vedendo quelle ragazze inginocchiate che urlavano e piangevano con le braccia protese verso la stiva. L'odore di morte era inequivocabile. "Quello che abbiamo visto aprendo quella botola è stato terribile - racconta il comandante Massimo Tozzi - decine di corpi ammassati l'uno sull'altro immersi in acqua mischiata a combustibile e ad escrementi". Il drammatico bilancio delle vittime della traversata di ferragosto nel Canale di Sicilia si è andato aggravando man mano che i marinai italiani, dopo aver tratto in salvo 312 profughi tra cui 45 donne e 3 bambini, recuperavano i corpi: 49, tutti uomini, tutti giovani africani dell'area subsahariana, quelli che- come raccontato da un profugo siriano di un'altra tragedia, quella del 5 agosto, - "secondo i trafficanti possono resistere nella stiva fino a tre giorni perché sono più forti". In realtà sono quelli che pagano meno, quelli che non hanno i soldi per pagarsi un posto sul ponte e tantomeno un salvagente. Erano le sette della mattina di ferragosto quando è arrivata la segnalazione di una imbarcazione da soccorrere a 22 miglia a nord dalla Libia. "Il motopesca era sovraccarico e cominciava ad imbarcare acqua - racconta ancora il comandante Tozzi - le condizioni del mare erano in miglioramento rispetto ai giorni precedenti e le operazioni di recupero dei migranti si sono svolte regolarmente. Sono stati loro a dirci che c'erano dei morti nella stiva". Superstiti e salme, trasbordati nel corso della notte dalla nave della Marina ad una unità norvegese, la Siem Pilot, che partecipa alle operazioni di Frontex, sono attesi per questa mattina a Catania dove il sindaco Enzo Bianco ha gia proclamato il lutto cittadino per domani e dato disposizioni per dare una degna sepoltura alle salme. Cittadinanza, una riforma a ostacoli di Giovanna Zincone La Stampa, 17 agosto 2015 Sui temi migratori si prospetta un rientro caldo. Oltre alle polemiche sulla gestione dei flussi di rifugiati e irregolari che certo non si placheranno, a settembre si riaprirà anche la discussione sulla riforma della cittadinanza. Il fronte dei riformatori ha ridotto le proprie ambizioni e ha deciso di concentrarsi solo sui minori anche per evitare che la riforma diventasse un'altra opportunità di consensi elettorali offerta ai partiti anti-immigrati. Un sondaggio di Demopolis del 2014 dà infatti un buon 61% a favore della cittadinanza per i bambini nati in Italia. Questa mossa al ribasso non ha tuttavia evitato reazioni negative. Per tentare di raffreddare il clima politico, almeno su questo tema, possiamo guardarci intorno, in Europa. Una ricerca effettuata in 36 Paesi europei ha osservato una tendenza a convergere: i più severi si aprono, i più generosi mettono qualche paletto. L'Italia sta ferma sulla chiusura. Quanto al testo base adottato dalla Commissione Affari Costituzionali, molti Paesi europei prevedono misure simili rispetto ai figli di immigrati stabili. Secondo quel testo, l'opportunità di essere riconosciuti come concittadini verrebbe data solo a chi avesse un genitore regolarmente residente da almeno 5 anni. Se il bambino non fosse nato in Italia, ma vi fosse arrivato prima dei 12 anni, dovrebbe aver completato un ciclo scolastico di 5 anni. Se arrivasse dopo quell'età, il tempo di istruzione o formazione rimarrebbe lo stesso, ma si richiederebbero anche 6 anni di residenza e la concessione sarebbe discrezionale. Ovviamente i Paesi europei che seguono questa linea prevedono tempi e requisiti diversi. In Spagna, basta un anno di residenza del bambino. Nel Regno Unito, si pretende dal genitore un permesso di soggiorno permanente che si ottiene di solito dopo 5 anni di residenza regolare. In Germania, gli anni sono 8, ma il genitore deve avere una carta di residenza stabile che si ottiene dimostrando una competenza linguistica abbastanza elevata. In compenso, la riforma tedesca del 2014 ha abolito l'obbligo di rinunciare a un'eventuale seconda cittadinanza per i nati in Germania con 8 anni di residenza e 6 di istruzione. Per valutare l'accesso alla cittadinanza dei figli di stranieri bisogna tener conto del fatto che la cittadinanza si ottiene anche per trasmissione da parte di un genitore (per ius sanguinis), quindi una difficile naturalizzazione degli adulti ricade sui minori, che possono trovarsi di fronte a una doppia chiusura: nei confronti loro e dei genitori. È il caso dell'Italia, che per gli adulti ha tempi di residenza richiesti (e tempi per sbrigare le pratiche) tra i più alti. La scelta accomodante del fronte riformatore di concentrarsi sui minori potrebbe quindi non rivelarsi un buon affare. D'altra parte, la richiesta da parte delle opposizioni di destra di richiedere maggiori segnali di integrazione mostra una certa perdita di memoria. Gli indicatori di integrazione non possono riguardare gli appena nati, e per gli altri minori arrivati dopo la nascita i 5 anni di istruzione nelle scuole italiane dovrebbero costituire una rassicurazione sufficiente. Quel che si può semmai dire è che per i più adulti sarebbe opportuna una valutazione di buona condotta. Se volessimo davvero porre al centro il tema della integrazione, si dovrebbe comunque guardare ai genitori. I 5 anni di residenza regolare previsti dal progetto dovrebbero bastare se un provvedimento voluto proprio dal centro-destra funzionasse sul serio. In base all'Accordo di Integrazione, approvato nel 2009 e in vigore dal 2012, la concessione del permesso di soggiorno richiede l'adesione alla Carta dei valori voluta da Amato nel 2007, l'impegno a frequentare un corso di educazione civica e a imparare l'italiano. L'apprendimento viene testato ed è una condizione per il rinnovo. Chi si preoccupa, ora, in occasione del dibattito sulla cittadinanza, dell'integrazione degli immigrati dovrebbe quindi concentrarsi sulle prime fasi dell'integrazione: valutare l'efficacia dei corsi, migliorarli, renderli fruibili. Non mi pare che sia successo. Inoltre, ai regolarizzati per decreto, che non sono stati pochi, non si è chiesto di firmare l'Accordo di Integrazione. E al governo non c'erano i famigerati buonisti. Egitto: una nuova legge antiterrorismo istituisce tribunali "speciali", giornalisti critici Agi, 17 agosto 2015 Nuovo giro di vite contro il terrorismo in Egitto a meno di due mesi dall'attentato con cui venne ucciso il 29 giugno il procuratore generale Hisham Bakarat, figura chiave nei processi contro i seguaci della Fratellanza Musulmana. Azione rivendicata da una cellula vicina agli islamisti. Il presidente, il maresciallo Abdel Fattah al-Sisi ha approvato una nuova legge che istituisce, tra l'altro, tribunali speciali, per far fronte ai continui attentati tesi a minare il suo potere e la sicurezza dello Stato. Nel testo vengono previste nuove pene per i crimini legati al terrorismo che vanno da un minimo di 5 anni alla pena di morte. L'incitamento alla violenza prevede una condanna tra 5 e 7 anni. Pena che sarà inflitta a che a chi si macchia di tale crimine ricorrendo al web. Particolarmente critica la stampa: i giornalisti saranno multati, se contraddiranno la versione ufficiale data dal governo di qualsiasi attacco terroristico. Multe che vanno da un minimo di 200.000 sterline egiziane (22.500 euro) fino ad un massimo di 500.000. La misura, però, è molto meno intransigente rispetto alla bozza iniziale che prevedeva il carcere per questa fattispecie di reato. Israele: in 200 protestano a sostegno di un detenuto palestinese in sciopero della fame rainews.it, 17 agosto 2015 Contro la nutrizione forzata di un detenuto palestinese in sciopero della fame sono scoppiati dei disordini fuori dall'ospedale Barzilay di Ashkelon. Circa 200 persone si sono riunite per protestare chiedendo il rilascio del prigioniero ed esprimendo contrarietà riguardo le intenzioni delle autorità di nutrirlo forzatamente. Le proteste si sono concluse con 10 arresti. La città si è praticamente bloccata durante la manifestazione.