Giustizia: a Ferragosto i politici tra i detenuti di Luca Liverani Avvenire, 15 agosto 2015 Preziosi (Pd): è parte del nostro lavoro da credenti in Parlamento. I parlamentari democratici di area cattolica in visita in otto penitenziari: Milano, Opera, Como, Bergamo, Bologna, Ancona, Napoli e Trani. Ferragosto in carcere per ascoltare dalla voce dei detenuti, degli agenti e dei direttori i problemi più impellenti. E per portare un segno di attenzione politica e umana. Sarà una festa dell’Assunzione diversa, per Ernesto Preziosi. Il deputato Pd, in contemporanea con una decina di altri parlamentari democratici di area cattolica, oggi visiterà altrettanti penitenziari: lui sarà a San Vittore a Milano, i suoi colleghi a Opera, Bergamo, Napoli, Bologna, Como, Ancona, Trani. Per non dimenticare le decine di migliaia di cittadini che, pur dovendo saldare un debito con la società, non possono perdere i loro diritti fondamentali. "Siamo un gruppo di parlamentari di area cattolica vicini all’associazione "Argomenti 2000", che fa formazione politica e da tre anni organizza il Natale in carcere, quest’anno 53 visite anche con parlamentari al di fuori del Pd, e una relazione di fine anno. Radio Radicale mi ha intervistato complimentandosi perché seguiamo le orme di Marco Pannella. Ho risposto che veramente abbiamo avuto l’indicazione da qualcun altro un paio di millenni fa". Oggi in visita a Regina Coeli a Roma ci sarà anche il vicepresidente della Camera, Roberto Giachetti del Pd, di area radicale. Pannella e la segretaria dei radicali italiani Rita Bernardini saranno nel carcere di Teramo, domani in quello di Pescara. Il leader prosegue lo sciopero della fame e della sete per i problemi del mondo penitenziario. Preziosi sottolinea che "come parlamentari credenti non possiamo occuparci solo di terni bioetici, maa360 gradi di scelte di politica sociale, economica, estera. La mia preoccupazione è che anche il Pd, e la stessa coalizione - il ministro Alfano è sensibile sul tema carcere - sui nodi dell’emarginazione mostrino una maggiore attenzione. Fatico nel mio partito a far incardinare la discussione di certe proposte di legge. E poi vedo che per il divorzio breve, che io non ho votato, c’è una corsia preferenziale". Ferragosto in carcere dunque "è la prosecuzione del lavoro in Parlamento per intervenire su situazioni che spesso rendono insopportabili condizioni già gravi". La cronaca è costellata dai suicidi. "Nel 2014 sono stati 43 casi, per non parlare dei 6.919 atti di autolesionismo, dei 966 ferimenti e delle 3.575 colluttazioni. Mi rendo conto che le risorse sono scarse, ma è necessaria una riconsiderazione, anche a parità di costi, del personale presente negli istituti penitenziari. Accanto agli agenti è necessario avere più operatori medici e psicologi. A San Vittore ci sono tre psicologi per oltre 700 detenuti". Preziosi ricorda che "la Società di medicina e sanità penitenziaria e la Società di malattie infettive e tropicali segnalano dati epidemiologici allarmanti". I cosiddetti decreti "svuota carceri" hanno in qualche modo raggiunto l’obiettivo: "Il sovraffollamento sta rientrando. È certo che la dislocazione nelle carceri italiane non è omogenea. Su 202 istituti, 44 presentano un sovraffollamento del 60%, altri 80 sono al di sotto della soglia massima. A dicembre 2014 il sovraffollamento era pari al 109,21%, in netta diminuzione rispetto al 151,5% del 2009. Per il deputato del Pd però "va potenziato l’affidamento dei detenuti a comunità educanti. Qui a differenza di quanto "necessariamente" accade in carcere, l’impegno di operatori e volontari favorisce l’azione di recupero. Consentendo, tra l’altro, un notevole risparmio. È urgente attuare la legge 67 del 2014 sulle misure alternative alla detenzione che manca dei i decreti attuativi". Anche perché è dimostrato come sia un’ottima medicina contro la recidiva: "L’inserimento dei detenuti nelle cooperative sociali abbassa il tasso dal 70 al 10%. Basta questo dato per comprendere l’importanza dei fondi per il lavoro nelle carceri, premessa di un possibile reinserimento nella società, ma anche possibilità data al detenuto di contribuire alla spesa ingente che la collettività sostiene: dai costi processuali agli oneri carcerari". Giustizia: donne e carcere, quel 5% che rende invisibile il "gender" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2015 Le pale dei ventilatori sono un lusso per poche, nelle celle di Rebibbia. Il sole brucia forte su questo carcere romano femminile, dove il ferragosto passerà senza neppure la tradizionale visita dei politici di turno. Le detenute ci guardano con stupore e curiosità mentre giriamo tra i reparti, il nido, i laboratori, in una giornata identica a tutte le altre. Nulla di nuovo sotto il sole, neanche qui, malgrado le numerose misure che hanno ridotto il sovraffollamento e l’impegno della direttrice Ida Del Grosso di rendere la detenzione più vivibile, operosa, rispettosa dei diritti. "La vita ci spezza tutti. Solo alcuni diventano più forti nei punti in cui si sono spezzati" scrive Hemingway in Addio alle armi, ma la galera non fortifica. Anzi. E per le donne è più vero ancora, perché, paradossalmente, "pagano" la loro residualità numerica e scarsa pericolosità con una residualità di attenzione che rende più afflittiva la pena, oltre che con una maggiore emarginazione sociale e affettiva. Sebbene siano più della metà della popolazione mondiale e italiana, in carcere le donne non sfondano mai il 5% della popolazione. Due giorni fa se ne contavano 2.035, su 52.222 detenuti. Un dato sorprendente eppure inspiegabile. "Non c’è una risposta risolutiva - conferma Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, professore ordinario alla Sapienza di Roma. Sul tema gender and crime possiamo solo invocare la maggiore tendenza, biologica e culturale, dei maschi a comportarsi in modo aggressivo, a rientrare nello spettro delle personalità esternalizzanti, a compiere azioni violente e/o rischiose". Lingiardi ricorda che la frequenza diagnostica del disturbo di personalità antisociale - definibile come "inosservanza e violazione dei diritti degli altri, tendenza a manipolare, mancanza di empatia e incapacità di sentirsi in colpa" - è decisamente maggiore in campioni di maschi rispetto alle femmine, anche se, aggiunge, "le trasformazioni dei contesti e degli assetti sociali stanno mostrando che, con la modifica dei ruoli tradizionali, va cambiando anche il rapporto tra gender e crimine/ anti socialità". Certo, la storia racconta crimini di ferocia inaudita consumati da donne, quasi sempre nel contesto di relazioni personali: partner, figli, genitori o uomini (ma anche donne) da cui hanno subìto violenza. La Giuditta che decapita Oloferne, dipinta nel 1620 da Artemisia Gentileschi (stuprata a 18 anni dal pittore Agostino Tassi, collaboratore del padre), ritrae una violenza (subìta e restituita) che neanche il grande Caravaggio riuscì a rendere con tanta efficacia. È il grido di disperazione di una giovane violata, consegnato alla storia dell’arte per far comprendere a tutti la sofferenza provata. Artemisia si fermò lì, al treno. I numeri dicono che - dopo furti, rapine e droga (1.751 detenute, con pene medio-basse) - sono "i delitti contro la persona" i più frequentati dalle donne: 157 le recluse per omicidio volontario (121 con pene che vanno da 10 anni ai 21 "fine pena mai"); 168 per lesioni volontarie (4 ergastoli), 138 per violenza o minaccia (5 ergastoli). Le italiane superano le straniere (407 rispetto a 249), che peraltro sono oltre un terzo (789) delle detenute, con in testa romene (212) e nigeriane (93). Il "femminile" di Rebibbia rispecchia quest’universo, con le sue 300 detenute, 9 delle quali alloggiano in un chiostro ristrutturato, adibito a nido, con i rispettivi figli (fino a 3 anni). Sono delle "privilegiate" perché vivono in un carcere di sole donne. Che in genere sono invece sparse in piccole sezioni di istituti maschili, dove hanno meno spazi per la socialità, lo studio, il lavoro. Le "Regole di Bangkok" del 2010 adottate dall’Onu imporrebbero speciale attenzione ai bisogni fisici, sociali, psicologici della "donna in quanto donna" mentre il nostro ordinamento si concentra sulla donna solo "in quanto detenuta madre". Chissà se l’annunciata riforma aggiusterà il tiro. A Rebibbia - celle sempre aperte - si cerca di riempire al meglio la giornata di tutte: lavorano in 100 tra sartoria, azienda agricola e classiche attività carcerarie; vanno e vengono tra studio, musicoterapia, biblioteca, campi sportivi, parrucchiere. Eppure, l’impatto è con una massa quasi informe, a dispetto delle differenze di etnia, età, cultura. La cura di sé non sembra più appartenerle, anche se si respira una seduttività sconosciuta nei "maschili". L’affettività/sessualità è un aspetto essenziale della vita di relazione delle persone ma in galera è confinata in poche telefonate e nelle visite di parenti e amici. Spiccioli. Le donne ne soffrono più degli uomini, anche perché non hanno neppure...una "moglie" che si precipiti con biancheria pulita e qualche carezza. Il crimine le condanna a un isolamento che va oltre le sbarre. Al contrario degli uomini, però, cercano di coltivare l’affettività come possono, tant’è che l’omosessualità è più diffusa, spesso ostentata. Come nel caso di Mariella e Liù, che a vederle con quei capelli rasati all’ultimo dei Mohicani, tatuaggi, calzoni larghi, canotta e scarpe da carpentiere, sembrano due bei giovani corpulenti. Salgono e scendono per i reparti buttando giù muri, alzando tramezzi, riparando impianti, tinteggiando pareti. Sono le addette alla Mof, la squadra adibita alla "Manutenzione ordinaria fabbricati": piccoli lavori che l’Amministrazione riserva ai detenuti maschi (il che spiega perché "i femminili" sono più fatiscenti). Qui, però, vince la deroga. E il buon senso. Mariella e Liù imparano un mestiere, sono brave, contente. E si concedono una battuta liberatoria: "Diciamo la verità, quando stai in un carcere, il massimo della soddisfazione è buttare giù un muro". Giustizia: Human Rights Watch "governo italiano indaghi sull’attività di Hacking Team" di Gina Musso Il Manifesto, 15 agosto 2015 Le accuse di Human Rights Watch per gli abusi sui diritti umani in Etiopia. "Il governo italiano indaghi sulle attività di Hacking Team in Etiopia e altrove, in modo da regolamentare la vendita di tecnologie di sorveglianza che vengono utilizzate per calpestare i diritti umani". Human Rights Watch ieri è tornata a puntare il dito sull’Italia, perché malgrado le rassicurazioni del passato, poco o nulla è stato fatto per sgombrare il campo dall’accusa, rivolta appunto a Hacking Team, azienda italiana specializzata in sofisticati sistemi informatici di sorveglianza a distanza, di collaborare consapevolmente con alcuni tra i regimi più liberticidi e repressivi del mondo. La recente pubblicazione di un’enorme quantità di email e documenti altamente riservati, "intercettati" negli archivi dell’azienda di spyware, proverebbe secondo Hrw che "la tecnologia e l’assistenza fornita da Hacking Team al governo etiope ha direttamente contribuito a violazioni dei diritti umani e nonostante diversi richiami colpisce la totale assenza di preoccupazione da parte di Hacking Team per il modo in cui il suo business poteva recare danno a voci dissidenti o indipendenti". Con la scusa globalizzata della "sicurezza nazionale" e della "guerra al terrorismo", la coalizione di governo, l’Ethiopian Peoplès Revolutionary Democratic Front (Eprdf), che ha ottenuto il 100% alle ultime elezioni, ha intensificato negli ultimi anni i suoi sforzi per silenziare qualsiasi dissenso. Decine i giornalisti e blogger incarcerati o perseguitati anche all’estero (particolarmente colpita la diaspora negli Usa) e anche grazie ai servizi di social engineering e a sistemi che permettono di monitorare chat, decifrare file criptati, ascoltare conversazioni Skype, attivare a distanza microfoni e videocamere. L’Etiopia, ai primi posti nel mondo per aiuti umanitari e militari ricevuti, nel 2012 ha versato nelle casse di Hacking Team 1 milione di dollari. Nel marzo scorso l’azienda ha sospeso la collaborazione, non tanto per motivi etici, quanto perché l’uso "incauto e impacciato" da parte delle autorità etiopi si stava rivelando un boomerang per il marchio italiano. Al momento della pubblicazione dei file segreti era in discussione un nuovo contratto da 700 mila dollari. Giustizia: il Ministero della Salute e il caso Soldi "Tso, a Torino operatori impreparati" di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 15 agosto 2015 Gli ispettori inviati dalla Lorenzin: "Imperizia, inefficienza e poco coordinamento". Critiche a Regione, Comune e Asl: "Nessuna presa in carico del paziente, da 7 mesi saltava i controlli". Non c’era un coordinamento nell’intervento. Gli operatori non erano preparati a fronteggiare un Tso (Trattamento Sanitario Obbligatorio) di un paziente con un disagio psichico. Ma la cosa più grave è che da sette mesi Andrea Soldi era totalmente abbandonato a se stesso e alla propria famiglia. Aveva saltato i controlli imposti dai protocolli e dalle linee guida della Regione per verificare l’efficacia della terapia e la corretta assunzione dei farmaci. Ma nessuno, né dalla Asl, né dai servizi sociali, si era mosso per capire perché. Eccola la relazione degli ispettori del ministero della Salute sulla drammatica morte di Andrea Soldi, 45enne torinese schizofrenico, avvenuta il5 agosto scorso sull’ambulanza del 118, poco dopo che era stato prelevato dai vigili urbani nel capoluogo piemontese. Un documento ancora in fase di completamento, che oggi arriverà sul tavolo del ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ripercorre le drammatiche fasi che hanno portato al risultato paradossale. Il giovane torinese che rifiutava i medicinali, doveva essere aiutato a curarsi, come chiedeva la famiglia (che ora non si dà pace), invece è stato ucciso. Emerge un quadro di "imperizia" e "inefficienza" totale che ha fatto da sfondo all’ultimo atto della vita sfortunata di Andrea Soldi. Quello con i vigili urbani che lo stringevano al petto e al collo e, ammanettato a faccia in giù, lo lasciavano soffocare in ambulanza. Gli ispettori lasciano al procuratore Raffaele Guariniello il compito di verificare le responsabilità penali. Accertamenti che ora si appuntano su cinque telefonate dell’autista dell’ambulanza, che ha provato, invano, a reagire alle maniere forti dei vigili. L’intervento "è stato un po’ invasivo" dice il ragazzo alla centralista del 118. "Lo hanno preso al collo... lo hanno fatto un po’ soffocare". "Mi hanno detto di caricarlo, ma siccome aveva le manette ed era a pancia in giù non volevo farlo e ho detto di no. Ma loro me l’hanno ordinato e io l’ho lasciato così, a pancia in giù". Una posizione che gli impedirà di respirare: se lo avessero messo di fianco, sarebbe stato possibile mettergli la mascherina dell’ossigeno. Ma la relazione analizza, anche punto per punto, quali cause abbiano prodotto questo epilogo. E punta il dito contro la Regione Piemonte, il Comune, il 118, i vigili urbani, la Asl. Il nodo cruciale, secondo gli ispettori della Lorenzin, è che "è mancata totalmente la presa in carico del paziente". Andrea Soldi per sette mesi non è stato visitato. Le linee-guida del ministero della Salute impongono, in casi di diagnosi simili, che almeno una volta al mese il paziente venga controllato. Perché nessuno si è posto il problema? Nella relazione vengono segnalati a riguardo problemi organizzativi da parte della Regione già riscontrati: la giunta Chiamparino sapeva di non avere tutte le carte in regola. Le linee guida non erano rispettate sui Tso. Come peraltro accade in molte altre regioni. Carenze alle quali si stava tentando di sopperire. Ma il caso di Andrea è esploso prima che potessero essere risolte. Poi c’è la parte dedicata all’intervento. E viene denunciata l’assoluta mancanza di coordinamento tra 118, Vigili Urbani e il personale. Chi è intervenuto non era adeguatamente preparato e ha finito per trattare quel gigante buono, ma agitato, come un criminale. Condannandolo a morte. Giustizia: ammanettamento, in preparazione un manuale di polizia per evitare tragedie di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2015 "Fate respirare i fermati, girare subito la persona bloccata ventre a terra". "Dialogo", manette solo se "strettamente necessario" e soprattutto "nulla che interferisca con la capacità di respirare normalmente". A leggere la scheda operativa sulle "tecniche di ammanettamento" che il Viminale sta mettendo - finalmente - a punto, sembra che tra le intenzioni dei vertici della Polizia italiana ci sia quella di limitare il più possibile i danni. Tradotto: i morti. Casi come quello di Federico Aldrovandi a Ferrara, di Riccardo Magherini a Firenze e, da ultimo, di Andrea Soldi a Torino insegnano, anche a processi aperti, che il momento in cui scattano le manette in un fermo di polizia è potenzialmente il più pericoloso per la vita della persona fermata. Federico, Riccardo e Andrea hanno trovato la morte a terra in posizione prona, con le braccia ammanettate dietro la schiena, e non sono più riusciti a respirare. E allora per il Dipartimento di Pubblica sicurezza è tempo di correre ai ripari, specificando, per la prima volta per iscritto, cosa si può e si deve fare. Una scheda operativa che sicuramente troverà l’opposizione di molti sindacati, impegnati a difendere l’operato dei colleghi anche laddove questo si dimostri indifendibile. "Si può procedere all’ammanettamento - si legge nel protocollo - nel rispetto della dignità e della riservatezza della persona, quando è strettamente necessario per respingere una violenza o vincere una resistenza o per impedire la consumazione di reati". O in esecuzione di un arresto. Ma alle manette, specifica il Viminale, bisogna arrivare per gradi: "L’operatore deve privilegiare tecniche di approccio basate sul dialogo, avendo cura di comunicare al diretto interessato le ragioni dell’azione di polizia. In caso di soggetti in stato di alterazione psichica, fisica o vulnerabili, l’approccio deve essere maggiormente caratterizzato dalla gradualità nell’uso dei mezzi a disposizione". La scheda operativa sottolinea la necessità che gli operatori siano in due e indica addirittura la posizione "a base di un triangolo" da assumere rispetto alla persona da fermare. Se costui collabora, i problemi per gli operatori si riducono e basterà "intimare di allargare le braccia e appoggiare le mani su una superficie" prima di inserire una delle due manette ai polsi. Diverso è il caso di un "soggetto non collaborativo" che "oppone resistenza fisica". L’agente allora dovrà "bloccargli le braccia, effettuare una spinta nella parte posteriore del ginocchio per fargli assumere la posizione in ginocchio, collocare le mani della persona dietro la sua nuca" e, a quel punto, ammanettarlo. Oppure - e sono i casi più frequenti, e pure quelli che finiscono peggio - "por - tarlo a terra in posizione prona; controllare il braccio da ammanettare tra le proprie gambe posizionando le ginocchia una sulla spalla e una sul fianco della persona; cercare di non gravare oltre il necessario con il proprio peso sul dorso del fermato". E soprattutto, specificano ancora le istruzioni operative, "non appena possibile, l’interessato deve essere girato su un fianco o messo a sedere per terra, con il torace in posizione tale che nulla lo opprima o interferisca con la sua capacità di respirare normalmente". Questi sono i punti fondamentali: nessuna contenzione, né singola né di gruppo, sulla schiena della persona a terra e il dovere di girarla per farla respirare. "Mettere per iscritto queste tecniche - spiega al Fatto una fonte autorevole del Viminale - significa prestare il fianco all’accusa di omicidio colposo. È difficile codificare i fermi, troppo diversi tra loro, ma così come sono state pensate le nuove regole saranno spesso non applicabili". Eppure se fossero state applicate prima, oggi molte famiglie avrebbero ancora i loro cari. Giustizia: Bruno Contrada "nessun errore della corte Ue, quanto accanimento dei media" di Dimitri Buffa Il Tempo, 15 agosto 2015 "Io ormai mi sono rassegnato alla ostilità della stampa nei miei confronti ma da un giurista come Luigi Ferrarella non me l’aspettavo questa cosa di confondere la non retroattività della legge penale con questioni inerenti alla natura giurisprudenziale ovvero legislativa del reato di concorso esterno in associazione mafiosa". Parla forte e chiaro Bruno Contrada sull’ultima polemica, estiva, scaturita da un articolo del "Corriere della sera" dello scorso 12 agosto secondo cui la condanna europea contro l’Italia dell’anno passato sarebbe dovuta a errori sulla natura del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Più precisamente Ferrarella scrive che il fatto di aver sottoscritto e concordato "tra le parti" una "premessa" nella quale proprio la rappresentanza italiana a Strasburgo dava per assodata "l’origine giurisprudenziale" (anziché normativa) del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, preambolo da quel momento in poi vincolante per i successivi ragionamenti della Cedu, dove le parti devono sempre dare dimostrazione di tutto, anche delle leggi nazionali in discussione", sarebbe alla base della condanna del nostro paese. A dimostrazione dell’assunto Ferrarella scrive: "preambolo che invece ora la Cassazione - nel processo di ‘ndrangheta "Infinito" nel quale alcuni boss invocavano l’incostituzionalità della propria condanna sulla scia appunto della decisione di Strasburgo su Contrada - rimarca essere "un’affermazione giuridicamente inesatta", un autogol davanti alla Cedu." "Peccato - racconta al "Tempo" Contrada - che nella sentenza Cedu l’Italia sia stata condannata semplicemente perché io non dovevo neanche essere processato e tantomeno condannato per un reato, il concorso esterno in associazione mafiosa, che al momento del presunto compimento dei reati a me imputati non esisteva neppure. E questo a prescindere dalla sua natura legislativa o giurisprudenziale". Non solo: "Anche il 416 bis, cioè l’appartenenza a cosche mafiose o camorristiche o della ‘ndrangheta esiste dal 1982, introdotto dalla legge Rognoni - La Torre, e i reati a me contestati, ammesso che si possa credere che io li abbia commessi, risalgono a un periodo tra il 1977 il 1980..quindi in teoria neppure per mafia potevano condannarmi...", prosegue Contrada. Quello che lei dice fa pensare a un certo accanimento dei mass media contro di lei... "Che ci vuole fare, io ormai mi sono rassegnato. Sono anziano e non so se riuscirò a vivere fino al momento che la verità sostanziale e non solo formale delle cose sarà ristabilita, attualmente esiste la possibilità di una revisione del processo dopo la sentenza europea, senonché tocca attendere i tempi della Cassazione che dovrà recepire la sentenza 113 del 2011 della Consulta, che ha dichiarato incostituzionale l’articolo 630 del codice di procedura penale laddove non prevede come causa di revisione di un processo penale il mancato rispetto della normativa europea e delle sentenze Cedu. Ma lei capisce quanto tempo se ne passerà...". Sì, lo capisco, campa cavallo si potrebbe dire... e magari a qualcuno farà anche piacere che rimanga il dubbio sulla sua contiguità a Cosa Nostra. "È il non detto che pensano un po’ tutti. Anche a questo mi sono rassegnato. Chi mi conosce sa benissimo che io con i mafiosi gli unici rapporti che ho avuto sono quelli di intelligence, quelli per arrestare altri mafiosi, che non ho mai protetto nessuno, che anzi quelli che avrei protetto ho contribuito a seppellirli sotto anni di carcere e che chi mi accusa ha motivi di rivalsa in quanto si tratta di collaboratori che devono al sottoscritto l’assicurazione alle patrie galere...ma poi la cosa incredibile è che il mio reato di concorso esterno rimane, nel movente appeso al nulla...". Che intende dire? "Semplice, nelle motivazioni delle varie sentenze di condanne si esclude una mia corruttela. È come se io avessi favorito i boss per hobby, invece di giocare al tennis mi divertivo ad aiutare il boss Riccobono o altri". Sarebbe sempre ipotizzabile la follia? "Neanche quella, sennò avrebbero dovuto chiedere un esame delle mie capacità di intendere e volere. Ma loro sanno benissimo che il mio è stato un processo politico legato alla storia di Andreotti e al clima dell’epoca, ad Andreotti non sono riusciti a incastrarlo e quindi io sono stato il contentino dei teoremi di quella parte di magistratura che altrimenti rischiava di vedere sconfessato tutto il proprio lavoro. Un premio di consolazione che ha avuto come oggetto la mia stessa esistenza, la mia onorabilità. Ho dovuto prenderla con filosofia". Oggi è tornato di moda parlare dei problemi della giustizia penale in Italia. Lei ha un’idea in proposito a prescindere dal suo caso? "Beh salta agli occhi che mentre nel 1988 si è riformato il codice di procedura penale quello penale vero e proprio è rimasto grosso modo quello di Alfredo Rocco, al netto delle sentenze costituzionali che hanno abolito le leggi razziali, l’adulterio come reato eccetera. Questo ha provocato scompensi. Inoltre spero di non dire un’eresia se insisto come tanti sulla separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti e qualche cosa si potrebbe fare a livello costituzionale anche a proposito dell’obbligatorietà dell’azione penale che è più teorica che pratica". Puglia: Sappe; poliziotti aggrediti in carcere, l’emergenza è la sanità penitenziaria leccetoday.it, 15 agosto 2015 In sei mesi si registrano 54 ferimenti nelle carceri pugliesi. Federico Pilagatti del Sappe: "Non solo sovraffollamento, il più grande problema è la sanità penitenziaria, a partire dalla gestione dei detenuti con problemi psichiatrici". Non si ferma nemmeno a Ferragosto la scia di violenza che ha attraversato ed attraversa le carceri pugliesi e che sembra non finire mai. Purtroppo si registra l’ennesimo episodio di violenza contro tre poliziotti penitenziari avvenuto nel carcere di Foggia, a seguito di una perquisizione in cui un detenuto, senza un motivo apparente, dopo aver minacciato gli agenti, al termine della perquisizione della cella, si sarebbe scagliato contro i tre poliziotti, procurando lesioni refertate dal sanitario dell’Istituto. A denunciare l’accaduto è il Sappe - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. "Il detenuto P.R. di 41 anni, napoletano detenuto per estorsione con fine pena 2017, è stato denunciato all’autorità giudiziaria, e nella data di ieri è stato giudicato per direttissima. Questo episodio - spiega il segretario nazionale Federico Pilagatti - segue gli altri di Taranto, Bari, Trani, Lecce, Turi, Brindisi, ove detenuti, per motivi vari, ma soprattutto per problemi psichiatrici, hanno aggredito poliziotti ed operatori provocando agli stessi lesioni che, in alcuni casi, segneranno per sempre la loro vita". "E questa catena di aggressioni, ha fatto sì che proprio la Puglia, con circa 54 ferimenti, è ai primi posti di questa infausta graduatoria. Questi dati, una volta tanto, non sono il frutto catastrofista del sindacato, ma rilevazioni statistiche del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) che ha fotografato la situazione delle 198 carceri italiane dal 1° gennaio al 30 giugno, con dati che dovrebbero far riflettere". Infatti, i numeri parlano di 19 suicidi di detenuti, 2 di poliziotti penitenziari, 34 detenuti morti per cause naturali, 465 tentati suicidi evitati all’ultimo momento grazie all’intervento della polizia penitenziaria, 3163 atti di autolesionismo di detenuti, e 449 ferimenti di operatori penitenziari di cui come già scritto, 54 in Puglia. "Da anni i radicali a Ferragosto visitano le carceri nazionali e pugliesi e lo fanno con grande attenzione, sincerità e responsabilità, cosa diversa dai tanti parlamentari che fanno un po’ di passerella per poi scomparire insieme alle problematiche presenti nelle carceri. Il Sappe ritiene che il sovraffollamento non sia più l’unico grande problema (anche se in Puglia la percentuale è ancora alta);quello per cui è necessaria una presa di posizione forte e decisa è il problema della sanità penitenziaria, a partire dalla gestione dei detenuti con grossi problemi psichiatrici e da quelli affetti da patologie gravi che non possono essere curate nel carcere". Conclude Pilagatti: "Il Sappe, oltre ad augurare buon lavoro ai 2350 poliziotti penitenziari che anche il giorno di Ferragosto presidiano le carceri pugliesi, spera che il nuovo presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, diretto conoscitore della situazione penitenziaria per il lavoro svolto prima della politica, possa affrontare tale problematica in maniera seria, e dia delle risposte concrete al fine di migliorare sia le condizioni di detenzione dei detenuti che degli operatori penitenziari, ottenendo con ciò, anche maggiore sicurezza per i cittadini pugliesi". Puglia: ferragosto in carcere per i senatori D’Ambrosio Lettieri e Liuzzi puglialive.net, 15 agosto 2015 Anche quest’anno il sen. d’Ambrosio Lettieri, componente della Commissione Sanità del Senato, visiterà a Ferragosto i penitenziari di Bari e Taranto. Con lui, il sen. Liuzzi. Non solo solidarietà, ma un segnale concreto di attenzione a problemi che presentano ancora dati allarmanti e che il cosiddetto "Decreto svuota carceri" non ha comunque risolto. "Lo scorso anno", spiega il senatore dei Conservatori e Riformisti d’Ambrosio Lettieri, "ho presentato un odg accolto dal governo nell’ambito del Decreto svuota carceri perché, sul fronte sanitario, fosse varata al più presto la cartella sanitaria nazionale informatizzata, fosse assicurata in tutti gli istituti di pena la continuità delle cure per la persona condannata e perché fossero individuati strumenti normativi ed operativi volti a migliorare il sistema sanitario negli istituti di pena al fine di garantire tempestività negli interventi sanitari urgenti, superando i ritardi a cui soggiacciono le persone detenute qualora si verifichi la necessità di sottoporle a visite specialistiche o cure mediche in strutture sanitarie esterne agli istituti di pena, nonché azioni preventive e di profilassi relative alla salute mentale, alla prevenzione del suicidio e dell’autolesionismo, dell’Hiv e delle altre malattie trasmissibili". Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), proprio nei giorni scorsi, ha assegnato la maglia nera alla Puglia per le aggressioni in carcere ai danni degli operatori penitenziari, un aspetto legato a doppio filo all’assistenza sanitaria ai detenuti. Questo perché la maggioranza delle aggressioni o atti di autolesionismo sarebbero dovuti, come spiega anche il sindacato della polizia penitenziaria, "al comportamento dei detenuti affetti da gravi problemi psichiatrici che vengono custoditi nelle stanze insieme ad altri detenuti, determinando tensioni e nervosismo tra la popolazione detenuta che si tramutano poi in aggressioni ai poliziotti". L’ultimo a Foggia. "Vorrei sottolineare che il Governo è chiamato a dare seguito agli obiettivi contenuti nell`intervento alle Camere dell`ottobre scorso dell’ex presidente Napolitano", afferma ancora d’Ambrosio Lettieri, "Mi rendo conto che di fronte ai gravissimi problemi legati alla mancanza di lavoro e alla crisi economica, i problemi delle carceri italiane, dal punto di vista sia dei detenuti che degli operatori penitenziari, possa sembrare di secondo piano. Ma non è così. Il recupero ad una vita normale di chi ha sbagliato non è argomento secondario per una società civile, non solo sul piano etico, ma anche culturale, sociale ed economico. Restituire al carcere la sua funzione primaria di rieducazione e reinserimento attraverso strumenti idonei ed efficaci deve essere un impegno costante della politica". Abruzzo: i Radicali Pannella e Bernardini in visita alle carceri di Castrogno e San Donato radicali.it, 15 agosto 2015 Il giorno di Ferragosto i radicali saranno in visita nel carcere di Teramo e il giorno successivo (domenica 16 agosto) in quello di Pescara. La delegazione, guidata dal leader radicale Marco Pannella e dalla segretaria di Radicali italiani Rita Bernardini, vedrà la presenza del Direttore di Radicale Alessio Falconio, del Segretario di Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi Vincenzo Di Nanna, dell’esponente di Forza Italia doppia tessera radicale Ricardo Chiavaroli e di Rosa Quasibene, Maria Cristina Polidoro, Laura De Berardinis e Francesco Radicioni. Si ricorda che il leader radicale prosegue la sua iniziativa nonviolenta di digiuno della sete "per il rispetto del diritto e della legalità, per la giustizia, i processi e i problemi legati al mondo carcerario" con l’obiettivo di "sostenere e aiutare le difficili funzioni dei massimi organi istituzionali" - Presidente della Repubblica e Premier Renzi - chiamati ad ottemperare agli obiettivi fissati nell’intervento alle camere dell’ottobre 2014 dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano. Alba (Cn): detenuto si impicca in cella, è il 28esimo suicidio nelle carceri italiane nel 2015 Ansa, 15 agosto 2015 Un romeno di 30 anni detenuto nel carcere di Alba si è suicidato impiccandosi alle grate della sua cella con un cappio ricavato da un lenzuolo. A rendere noto l’episodio è l’Osapp, sindacato di polizia penitenziaria. "È il 72/o morto del 2015 nelle carceri italiane, il 28/o per suicidio", dichiara il segretario Leo Beneduci. "Tale cifra - aggiunge - dimostra più di tante chiacchiere quanto poco si sia fatto in Italia nell’ultimo anno per migliorare le condizioni nelle carceri. Non ultimo e grave segnale di preoccupante disattenzione è rappresentato dal fatto che solo la polizia penitenziaria, rispetto alle altre forze di polizia italiane, è stata esclusa dalle assunzioni straordinarie disposte dal governo in occasione del prossimo Giubileo. Peccato infatti che proprio il diminuito numero di agenti penitenziari in servizio a contatto con la popolazione detenuta determini una minore sorveglianza anche rispetto ai numerosissimi tentativi di suicidio posti in essere dalla popolazione detenuta". Porto Azzurro (Li): da Cassa ammende finanziati per 3 progetti per la Casa di Reclusione Adnkronos, 15 agosto 2015 Visita del sottosegretario del ministero della Giustizia Cosimo Maria Ferri al carcere di Porto Azzurro, all’Elba, dove ha incontrato il direttore dell’istituto Francesco D’Anselmo, il comandante della polizia penitenziaria, il garante per i detenuti, l’educatrice responsabile dell’area trattamentale, vari esponenti del mondo del volontariato, il sindaco di Porto Azzurro e i giornalisti. In una nota, Ferri sottolinea che "questa struttura ha tutte le potenzialità per tornare a essere un punto di riferimento per le attività rieducative, lavorative e trattamentali. L’amministrazione penitenziaria, come era stato auspicato anche nel corso di una mia precedente visita, ha designato un direttore e un comandante a tempo pieno e l’amministrazione comunale ha nominato un garante per i detenuti". Per Porto Azzurro "saranno finanziati -annuncia Ferri nella nota - dalla Cassa ammende tre progetti che porteranno rispettivamente alla pulizia delle aree detentive interne ed esterne, al rifacimento della sala colloqui e infine al restauro del terzo reparto al fine di fruire di nuove stanze di pernottamento a norma. Questi progetti verranno realizzati con il lavoro dei detenuti. L’obiettivo emerso nel corso della riunione è quella di rilanciare alcune attività che riguarderanno lo sviluppo dell’azienda agricola gestita dai detenuti, la produzione di prodotti tipici locali per far conoscere ancora meglio le eccellenze alimentari come i capperi elbani e le marmellate, l’implementazione delle attività sportive, teatrali e lavorative". Un progetto che partirà il mese prossimo, "e che ritengo particolarmente importante e interessante, è quello di attuare la raccolta differenziata all’interno della struttura al fine di produrre un ingente risparmio per l’amministrazione, dare un segnale di tutela dell’ambiente e fornire un buon esempio di rispetto delle regole per i detenuti. Lo stesso direttore proporrà ai detenuti un coinvolgimento e una partecipazione effettiva, concedendo una telefonata in più al mese ai propri familiari a coloro che si impegneranno fattivamente in questo progetto. Ritengo che sia importante realizzare il progetto della raccolta differenziata in tutti i penitenziari, per unire il risparmio economico, il rispetto dell’ambiente e una formazione sulle regole dello smaltimento dei rifiuti". Quest’ultimo progetto, che vede impegnati Legambiente e il comune di Porto Azzurro, "sarà posto sotto osservazione per vedere i risvolti applicativi e potrà essere eventualmente esportato in altri istituti. L’intenzione è quella di usare i rifiuti umidi per produrre compostaggio da riutilizzare nelle attività agricole che si svolgono all’interno del carcere. L’attenzione verso questo settore produttivo emerge anche dalla volontà di ampliare l’offerta formativa e rieducativa tramite l’apertura di una sezione dell’Istituto professionale di Stato per l’Agricoltura, da affiancare alla sezione del liceo scientifico già attiva. È importante -conclude Ferri- che tutti questi progetti vengano supportati e potenziati e che questa struttura torni ad essere un esempio per il reinserimento dei ristretti all’interno della società". Torino: entro fine settembre più agenti per l’Ipm Ferrante Aporti Adnkronos, 15 agosto 2015 Entro la fine di settembre l’Istituto per minori Ferrante Aporti di Torino avrà un nuovo comandante di polizia penitenziaria e la disponibilità di un numero maggiore di agenti. Lo ha annunciato oggi il viceministro alla Giustizia Enrico Costa, che ha visitato la struttura con il garante regionale per i detenuti Bruno Mellano. Al momento l’Istituto, che ha una capienza di 48 posti, ospita 35 detenuti, di cui 4 italiani, 13 sono minorenni e 22 di età compresa tra 18 e 25 anni. Accolti dal dirigente del Centro Giustizia minorile di Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e Massa Carrara Antonio Pappalardo, il viceministro Costa e il garante Mellano hanno visitato con il direttore dell’Istituto Gabriella Picco e il vicecomandante della Polizia penitenziaria Giovanni Camillo i laboratori d’informatica e di ceramica, la cioccolateria, le aule scolastiche e la chiesa. "Per i minori - ha dichiarato Mellano - il carcere resta l’ultima alternativa possibile quando i servizi sociali e territoriali non riescono nell’intento di formulare proposte alternative di rieducazione e di recupero. È necessario che l’attuale modello di giustizia minorile si estenda sempre più a quello degli adulti affinché, con le risorse e gli investimenti necessari, il carcere possa rappresentare una scelta sempre più residuale per l’esecuzione della pena". Roma: arrestato per falsa perizia medica è stato assolto, in realtà salvò la vita al detenuto Ansa, 15 agosto 2015 Era finito agli arresti con l’accusa di aver redatto una falsa perizia medica per evitare il carcere a un boss, ma proprio grazie alla sua diagnosi il detenuto fu curato ed evitò la morte. È la vicenda che ha avuto come protagonista il cardiologo Alfonso Sestito, originario della Calabria ma residente a Roma, dove esercita la professione, il cui corretto operato ha trovato definitivo riscontro anche in sede giudiziaria: di recente, infatti, è diventata irrevocabile - hanno fatto sapere fonti vicine al cardiologo - la sentenza di assoluzione con formula piena emessa il 6 marzo scorso dalla settimana sezione penale del Tribunale di Roma. Sestito era stato indagato nell’ambito di un’inchiesta della procura di Roma sfociata nel febbraio 2013 nell’arresto di otto tra medici ed avvocati che - sosteneva l’accusa - attraverso false perizie, avrebbero procurato sconti di pene a criminali e ricoveri in strutture ospedaliere ai detenuti. Il professionista ha sempre respinto gli addebiti, sostenendo di aver redatto la sua perizia "secondo scienza e coscienza", e lo stesso giudice delle indagini preliminari che ne aveva disposto gli arresti domiciliari li aveva revocati dopo tre giorni, prevedendo l’obbligo di dimora poi cancellato dal tribunale del riesame. Nel corso del processo, la presunta falsa perizia attribuita a Sestito - che, dopo l’arresto, rimase sospeso dal lavoro per oltre quattro mesi - non solo è risultata corretta, ma è stato confermato che era stata decisiva per salvare la vita al detenuto accusato di essere stato favorito dal cardiologo. A questi, infatti, era stata diagnosticata "una rara forma di ischemia miocardica", uno stato pre-infartuale, confermata dalla coronarografia. I consulenti medici del pm arrivarono a conclusioni difformi da quelle di Sestito solo - per loro stessa ammissione ribadita in sede di interrogatorio - per non aver tenuto conto dell’intera documentazione medica depositata agli atti. "Singolare carenza informativa in cui sono incorsi i consulenti del pm", ha evidenziato il collegio giudicante; carenza per la quale Sestito ha annunciato che adirà le vie legali per un risarcimento "pari agli enormi danni personali e professionali subiti". Siracusa: detenuto prende a morsi un assistente di Polizia penitenziaria siciliainformazioni.com, 15 agosto 2015 Un assistente capo della Polizia penitenziaria è stato preso a morsi da un detenuto, a Siracusa. Lo rende noto Gioacchino Veneziano, segretario regionale della Uilpa Penitenziari Sicilia. "Ci mancavano pure i cannibali a completare le difficoltà della Polizia Penitenziaria in questo caldo ferragosto a gestire l’ordine e la sicurezza nelle carceri", commenta il sindacalista, spiegando che, ieri sera, un detenuto extracomunitario trasportato d’urgenza al pronto soccorso, per un trattamento sanitario obbligatorio, si è scagliato contro un assistente capo della scorta addetto al trasferimento dall’istituto penitenziario all’ospedale di Siracusa, prendendolo a morsi e causandogli ferite guaribili in otto giorni. "Ancora una volta - dichiara Veneziano - si arricchisce il bollettino della guerra per la gestione della sicurezza nelle carceri di cui gli unici che soccombono sono i poliziotti penitenziari in front-office in questi eventi che oramai hanno toccato livelli di quasi quotidianità insopportabile, ma il silenzio del Ministro Orlando e del Capo del Dipartimento Consolo è la prova certificata che i Poliziotti Penitenziari sono orfani". "In realtà - conclude il sindacalista - è chiaro che l’evento critico generato dal detenuto aveva lo scopo di procurarsi una possibile evasione, prontamente sventata dai colleghi, che per evitare siffatti atti purtroppo pagano un prezzo altissimo in termini di danni psico-fisici. La Uil esprime piena solidarietà al collega ferito auspicando una completa e pronta guarigione". Aosta: le verdure coltivate in carcere al mercato del collettivo "La Terra che ride" aostasera.it, 15 agosto 2015 L’iniziativa, organizzata per favorire la vendita diretta di prodotti bio e a Km zero, è in programma venerdì 21 agosto, dalle 16 alle 19, nel campetto dell’Oratorio della Cattedrale di Aosta. Ci saranno anche le verdure coltivate dai detenuti del carcere di Brissogne al Mercato del Collettivo contadino "La Terra che ride", organizzato per favorire la vendita diretta di prodotti bio e a Km zero, in programma venerdì 21 agosto, dalle 16 alle 19, nel campetto dell’Oratorio della Cattedrale di Aosta. L’Associazione Valdostana di Volontariato Carcerario sarà presente con un banchetto in cui distribuirà, dietro un’offerta, le verdure coltivate dalle persone detenute in un’orto all’interno della casa circondariale di Brissogne. Il progetto è stato possibile grazie ad un finanziamento ad hoc ottenuto presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali per il 2014 e 2015. Nello stesso banchetto sarà in distribuzione anche il miele prodotto dagli alveari interni al carcere valdostano. Tutte le risorse raccolte da questa iniziativa saranno utilizzate per attività di sostegno e assistenza delle persone detenute all’interno della casa circondariale. Cinema: il cortometraggio "Fuori", donne in carcere tra ironia e dolore di Silvia Fumarola La Repubblica, 15 agosto 2015 "Il racconto mi ha colpito perché nella tragedia è molto ironico, Agnese usa con intelligenza la leggerezza". Non è una storia come le altre quella che Anna Negri ha finito di girare: il cortometraggio "Fuori" (prodotto da Iterfilm con Rai Fiction) è tratto dal lavoro di Agnese Costagli, seconda classificata nel 2014 del premio letterario Goliarda Sapienza, l’unico in Europa dedicato ai detenuti, affiancati da scrittori. "Un osservatorio privilegiato" spiega la curatrice Antonella Bolelli Ferrera "che rivela un desiderio crescente di mettersi a nudo attraverso la parola scritta". Dalla collaborazione col premio è nato il progetto di RaiFiction, che prevede ogni anno la realizzazione di un corto tratto da uno dei racconti finalisti del concorso. Il primo è stato Mala vita trasmesso da RaiTre, con Luca Argentero e Francesco Montanari. La Negri ha scritto la sceneggiatura di Fuori con Monica Zappelli, la protagonista è Isabella Ragonese. "Visto che è il punto di vista di una detenuta hanno deciso di creare una troupe al femminile, l’aiuto regista è Marcella Libonati, il direttore della fotografia Daria D’Antonio, Laurentina Guidotti è la produttrice, nel cast con Isabella c’è Teresa Saponangelo" racconta la regista. "Sul set è venuta a trovarci l’ex presidente della Rai Anna Maria Tarantola, formavamo un bel gruppo". Dolore e ironia s’intrecciano "perché è vita vera. Sono andata a parlare con Agnese nel carcere di Sollicciano. Fuori racconta il suo giorno di permesso, la vita "fuori", appunto, e il contrasto con quella "dentro". Analizza un tema molto forte, la privazione della maternità, mette nero su bianco le sue impressioni, noi abbiamo inserito un conflitto quando rincontra la figlia (interpretata da Lisa Andreotti), che non vede da quattro anni. Abbiamo aggiunto un meccanismo narrativo per cui qualcosa mette a rischio il ritorno in carcere". "Lavorare con la biografia ti fa sentire che racconti un bene prezioso", continua la Negri "girare nel braccio di Rebibbia con 40 gradi, ti mette di fronte a una realtà durissima. L’importante era rendere l’umanità dei personaggi. Abbiamo avuto la possibilità di coinvolgere le detenute per interpretare se stesse, la Ragonese è di una naturalezza straordinaria. Il percorso della protagonista è recuperare il rapporto con i figli, una possibilità di redenzione. Agnese scrive senza commiserarsi, tenevamo molto alla rappresentazione non retorica ma umanizzata della sua ironia". Televisione: stasera a "La tredicesima ora" (Rai3) la storia di Cosimo Rega Askanews, 15 agosto 2015 La Tredicesima ora, il programma di Carlo Lucarelli torna con un nuovo appuntamento sabato 15 agosto alle 23.55 su Rai3. La storia di Cosimo Rega, un uomo che viene condannato all`ergastolo per omicidio e associazione mafiosa. I suoi crimini hanno lasciato una scia di dolore che farà male per sempre. Cosimo Rega - detto anche Sumino Ò Falco, piccolo boss della Camorra di Angri, in provincia di Salerno - con la sentenza che gli infligge il carcere a vita per aver compiuto i suoi delitti, perde tutto: la patria potestà, la patria maritale, i diritti politici. Dal fondo della sua condanna comincia un lento e duro percorso di consapevolezza. Rega non è più un boss rispettato, non più il padre di due figli, né il marito di una donna coraggiosa che nonostante le enormi difficoltà gli sarà accanto per tutta la vita, è solo un ergastolano che vivrà per sempre lo squallore del carcere. Dopo un lungo e drammatico peregrinare tra i penitenziari italiani approda alla Casa di Reclusione di Rebibbia di Roma, dove grazie all’incontro con alcune persone - volontari e personale del carcere - e attraverso il lavoro, lo studio e il teatro comincia un percorso di consapevolezza e ripensamento della propria esistenza che lo porterà a rifiutare la cultura della malavita organizzata e a fondarsi una nuova identità. Cosimo sarà scelto come uno degli attori protagonisti del film dei fratelli Taviani "Cesare deve morire" - Orso d’oro nel 2012 al Festival di Berlino. Migranti, discoteche, studenti, lo spostamento delle responsabilità di Luca Ricolfi Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2015 Forse sbaglierò, ma c’è qualcosa che non mi torna nelle cronache di questi mesi. Molti minorenni passano la notte in discoteca, normalmente con il permesso delle famiglie, ma se un ragazzo o una ragazza muore dopo aver assunto una pasticca di ecstasy, il telegiornale ci informa che è indagato chi "ha esaudito il suo desiderio ", o che le autorità stanno pensando alla chiusura del locale in cui ha ballato tutta la notte. Di chi è la colpa? È ovvio che se si muore per l’assunzione di una sostanza pericolosa ci dev’essere qualcuno che ha esaudito il desiderio di entrarne in possesso, come è ovvio che ci dev’essere stato un luogo in cui la si è consumata. È altrettanto ovvio che gli spacciatori vanno perseguiti, le pastiglie di ecstasy sono illegali, e nelle discoteche ne circolano troppe. Stranamente, però, quasi nessuno ama ricordare che viviamo in una società libera, e che l’assunzione di rischi è una scelta personale, che nessuno è obbligato a fare. Ma "era solo una bambina", o solo un ragazzino, si ribatte, per spostare le responsabilità sulle cattive compagnie, sui pusher, o sulle discoteche. Non viene in mente che appunto perché "è solo una bambina" non è il caso che stia fuori casa fino alle 6 del mattino. Un misto di pietà e di bisogno di trovare comunque un colpevole ci impedisce di distinguere fra le responsabilità primarie e le condizioni collaterali. Se non si desidera assumere sostanze non vi è nessun amico e nessuna discoteca che possano costringerci a farlo. E se lo vogliamo fare, ci sarà sempre un fornitore che esaudisce il nostro desiderio e un luogo, discoteca o lungomare, che riterremo appropriato per lo "sballo". La responsabilità primaria è in capo a noi stessi. La stessa cieca incapacità di individuare gli attori principali di una tragedia, e lo stesso bisogno di trovare comunque un colpevole, possibilmente punibile, si ripresenta di fronte al dramma dell’immigrazione. Qui dovrebbe essere chiaro che almeno una parte dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa via mare, e specificamente quelli su cui più si attarda l’umana compassione, fuggono da crudeli dittature, da paesi insanguinati dalle guerre e dalle lotte fratricide. Eppure, come ha giustamente fatto notare Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere della Sera", dalle bocche degli esponenti della Chiesa sentiamo solo dure rampogne ai partiti e alle istituzioni perché non fanno abbastanza per accogliere i profughi, e mai nulla di altrettanto severo per condannare i governanti dei paesi da cui i profughi fuggono. Né si tratta di sviste, o di prese di posizione isolate. È stato il Papa stesso, a proposito di un altro dramma, quello dei migranti Rohingya che fuggono dal Myanmar (Birmania) e sono respinti dagli stati vicini, che si è ben guardato di elevare una filippica, alta e solenne, contro i dittatori del Myanmar, ma ha usato parole forti come "atto di guerra", "violenza, "uccidere" per stigmatizzare la mancata accoglienza dei profughi. Eppure dovrebbe essere evidente di chi sono le responsabilità primarie, nel Mediterraneo come nell’Oceano indiano. Così come dovrebbe essere evidente che, per nessuno Stato, neppure per il Vaticano e per le strutture della Chiesa cattolica nel mondo, il principio di accoglienza può essere illimitato e incondizionato. E ancora più evidente dovrebbe essere la pericolosità di giocare con le parole: parlare di atto di guerra, di violenza, di uccidere può essere forse un modo metaforico, peraltro assai impreciso e discutibile, per descrivere le persecuzioni cui i migranti sono sottoposti nei paesi di origine, ma diventa del tutto arbitrario, e fondamentalmente ingiusto, per parlare dei comportamenti dei paesi di arrivo. Sono due esempi volutamente diversissimi ma che, proprio per la loro diversità, mostrano quanto forte e profondo sia il meccanismo di spostamento della responsabilità. Un meccanismo che abbiamo descritto nel caso di due tragedie, i giovanissimi che rischiano di morire per droga e i migranti che rischiamo di morire per mare, ma che opera un po’ ovunque nelle nostre società. Alla sua radice, azzardo un’ipotesi, potrebbe esservi semplicemente questo: quando sentiamo che la causa di un problema non può essere rimossa, o perché quella causa è troppo forte e radicata (dittature) o perché noi non abbiamo voglia di combattere (educazione dei figli), o per entrambi i motivi (intangibilità della "cultura giovanile"), allora cerchiamo qualcosa di aggredibile, un nemico che sia alla nostra portata, un capro espiatorio sufficientemente accessibile e ben definito da poter essere sacrificato sui nostri altissimi principi morali. Ciò ci farà sentire buoni e impegnati, e al tempo stesso tranquillizzerà il nostro bisogno di trovare un responsabile (diverso da noi stessi) per ogni fatto sociale che inquieti le nostre coscienze. Non avendo il coraggio di dire di no ai nostri figli, ce la prendiamo con le cattive compagnie, gli spacciatori, i gestori delle discoteche, i controlli insufficienti, le forze dell’ordine. Non avendo né l’intenzione né la possibilità politico militare di normalizzare il nord-Africa ce la prendiamo con l’egoismo dell’Europa e l’incapacità del governo italiano di accogliere tutti dignitosamente Un mix di rassegnazione e di paternalismo indirizza la nostra indignazione verso i bersagli più alla nostra portata. Diamo per scontato che i popoli dell’Africa non sappiano auto-governarsi, come diamo per ineluttabile che i giovani siano attratti dalla movida e dallo sballo. Succede lo stesso nella scuola, dove non si consuma alcun dramma ma da decenni assistiamo alla medesima sceneggiata. Con tutta evidenza il problema di base è che gli studenti non studiano, e non lo fanno per la semplice ragione che alla maggior parte dei genitori interessa solo il pezzo di carta e la serenità dei figli. E tuttavia torme di quei medesimi genitori, assetati di vacanze e intrattenimento, non trovano di meglio che mettere alla sbarra gli insegnanti, evidentemente incapaci di motivare a sufficienza i loro figli. Anche qui il meccanismo è il solito: i giovani sono considerati non responsabili e irrecuperabili, ma avendo noi bisogno di un colpevole, e disperando di poter intervenire sui giovani stessi, lo cerchiamo nel più adatto a lasciarsi colpevolizzare, in questo caso la scuola e il corpo insegnante. Una sorta di strabismo etico ci fa distogliere lo sguardo dai veri responsabili dei drammi piccoli e grandi del mondo, e indirizza il nostro bisogno di "individuare i colpevoli" solo sui colpevoli facilmente perseguibili o stigmatizzabili, anche quando sono semplici comparse. È un gioco pericoloso, perché talora i capri espiatori sembrano starci (è il caso di parecchi insegnanti, inclini all’autoflagellazione), altre volte sono rassegnati (è il caso dei gestori delle discoteche), ma altre volte possono stufarsi di essere colpevolizzati. È questo, talora, l’esito non previsto delle grandi campagne "pedagogiche", in cui l’élite al potere prova ad educare la massa, giudicata rozza, incolta e bisognosa di essere illuminata. Così come gli eccessi del politicamente corretto, portati oltre una certa soglia, possono sortire una reazione uguale e contraria (vedi, in questi giorni, il successo dello scorrettissimo Donald Trump negli Stati Uniti), analogamente i richiami delle anime belle all’imperativo morale dell’accoglienza, con l’implicita stigmatizzazione di ogni voce dissenziente, alla lunga possono suscitare sentimenti opposti a quelli che intendono inoculare. A forza di essere accusata di indifferenza, egoismo, insensibilità, mancanza di carità cristiana, anche l’opinione pubblica più avanzata e democratica rischia di passare dall’altra parte: perché le prediche possono anche andare benissimo, ma dovrebbero evitare accuratamente di prendere di mira i bersagli sbagliati. Immigrazione: l’Ue "la peggior crisi di rifugiati dalla Seconda guerra mondiale" Il Manifesto, 15 agosto 2015 È "la peggiore crisi di rifugiati dalla Seconda guerra mondiale". Al termine della sua visita in Grecia, il commissario Ue all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos prende atto della realtà che da mesi ormai è sotto gli occhi di tutti. Le decine di miglia di profughi che sbarcano quotidianamente sulle isole greche, e principalmente a Kos, e che hanno messo in ginocchio il già fragilissimo sistema di accoglienza ellenico rappresentano ormai qualcosa che va ben al di là dell’emergenza. Tanto più se alla masse di disperati che arrivano in Grecia si sommano quelle che sbarcano in Italia: dall’inizio dell’anno fino a oggi sono 134.988 nel primo paese, 102.000 nel secondo, ai quali se si sommano i 2.166 arrivati in Spagna e i 94 a Malta, fanno un totale di 239.248 persone arrivate in Europa in otto mesi, cifra fornita dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni, secondo la quale a fine agosto si sfioreranno i 250 mila sbarchi. Più di un’emergenza, più delle crisi con le quali siamo abituati a confrontarci. Così dopo settimane di silenzio, anche l’Unione europea alla fine ha dovuto prendere atto di quanto accade lungo le coste greche. E lo ha fatto con Avramopoulos, greco anche lui, sbarcato giovedì ad Atene per fare il punto con sei ministri di un governo Tsipras alle prese con la necessità di far approvare al parlamento l’accordo raggiunto con creditori. "Non c’è una risposta semplice o unica", ha detto il commissario. Né alcuno Stato membro può affrontare la questione in modo efficace da solo. Abbiamo bisogno di un nuovo approccio, più europeo. Abbiamo bisogno del coraggio collettivo di andare avanti con i nostri impegni, anche quando non è facile, anche quando non sono popolari". La risposta che per adesso Bruxelles dà sono un po’ di soldi, neanche tanti e comunque ponendo condizioni precise. Complessivamente Avramopoulos ha promesso 32,74 milioni di euro, 30 dei quali saranno disponibili quando il governo greco renderà operativa l’autorità di gestione degli aiuti. Altri 2,74 milioni di euro dei fondi di emergenza andranno invece all’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, impegnata nell’assistenza ai profughi nelle isole dell’Egeo orientale. Inoltre scatterà il meccanismo di protezione civile europeo sempre per l’assistenza umanitaria dei migranti. Avramopoulos ha poi invitato gli Stati membri a mettere a disposizioni mezzi aerei e navali per Poseidon, la missione di pattugliamento e controllo della coste greca analoga a Triton. "Invito tutti gli Stati membri a rispondere rapidamente a questa richiesta e a mostrare solidarietà", ha aggiunto. Ieri a Kos, l’isola più interessata dagli sbarchi, è arrivata la nave inviata dal governo greco e che dovrà fungere da centro di registrazione dei migranti presenti sull’isola. In questo modo si dovrebbero velocizzare le procedure che al momento si svolgono solo all’interno dell stadio. Ma anche una maniera con cui il governo spera di evitare che si ripetano gli scontri visti nei giorni scorsi tra migranti e poliziotti. E in un vertice che si è tenuto ieri ad Atene al ministero degli Interni, presente anche Avramopoulos, il ministro della Salute ha annunciato che metterà a disposizione un edificio a Leros, adibito in passato per ospitare disabili, per dare accoglienza ai profughi. Immigrazione: l’altro Ferragosto, a tavola con i profughi di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 15 agosto 2015 Solidarietà. Le iniziative da Milano a Roma, da Bologna alla Sicilia. Un altro Ferragosto, all’insegna della solidarietà con i profughi, con chi è solo e con gli "ultimi". Iniziative spontanee, come quelle del "movimento" che non dimentica Ventimiglia e gli altri migranti che faticano ad ottenere i più elementari diritti in altre città italiane. A Milano, invece, 70 famiglie hanno scelto di ospitare a pranzo profughi, mamme sole con bambini, gente senza fissa dimora. È l’iniziativa "Aggiungi un posto a tavola" che la Caritas Ambrosiana ha promosso insieme all’Osservatorio di Milano. E un migliaio di volontari saranno impegnati anche nella distribuzione della spesa alimentare, come nel sostegno a chi a Ferragosto si ritrova da solo (a cominciare dagli anziani). A Roma, c’è la Comunità di Sant’Egidio che si preoccupa di chi non ha un tetto nè famiglia, come pure di animare le case di riposo. "È l’altra faccia dell’Italia, quella che invece di litigare a vuoto costruisce una felice coabitazione fra condizioni di vita diverse" sottolineano i promotori dell’altro agosto nella capitale. Fino al 20 sono previsti incontri e feste nei quartieri: Esquilino, Testaccio e Monti, in cui è molto forte la presenza di anziani soli, e negli istituti e case di riposo della capitale. Stasera c’è anche la cena con i migranti della tendopoli alla stazione Tiburtina, mentre ieri sera tradizionale cocomerata nella mensa di via Dandolo 10. A Bologna a mezzogiorno si ripete puntuale il "Pranzo di Ferragosto" della Caritas diocesana in collaborazione con Camst, Opera di Padre Marella e Confraternita della Misericordia. Tavolata nel cortile d’onore di palazzo d’Accursio in piazza Maggiore con centinaia di ospiti delle strutture di accoglienza, famiglie in difficoltà, senzatetto. "Partecipo perché Bologna è una città accogliente e non è indifferente alle situazioni di disagio sociale in cui si trovano a vivere molte persone a causa della crisi economica" spiega Leonardo Barcelò, consigliere comunale del Pd, nato in Cile e rifugiato in Italia dopo il golpe di Pinochet. "Come amministratore partecipare a questo pranzo speciale rappresenta un modo concreto per dimostrare attenzione alle difficoltà di queste persone". In Val Clarea si rinnova un’altra tradizione: l’appuntamento di Ferragosto dei comitati No Tav che fa da appendice al campeggio contro l’alta velocità Torino-Lione. Gli attivisti si ritrovano davanti alle reti del cantiere che da sempre rappresenta il "cuore" della rivolta popolare. Una giornata particolare, all’insegna della resistenza alla Grande Opera che sindaci, valligiani e ambientalisti considerano una vera e propria follia. Infine, ad Altavilla Milicia (Parlermo) la vigilia di Ferragosto c’è stato "Cambio rotta" per dimostrare concretamente il sostegno alla Cooperativa Nuovi Italiani formata da donne magrebine. Si tratta di un progetto scaturito dalla volontà di mettere in pratica l’inclusione sociale e lavorativa in Sicilia, puntando sulla formazione "rosa". Pasticceria che tiene insieme le ricette locali con i dolci tipici degli altri paesi che si affacciano al Mediterraneo. Tutto nella cornice del centro culturale polivalente, un bene confiscato alla mafia, cena a base di pesce con cui finanziare le iniziative della coop. Immigrazione: morto nella serra bollente un bracciante da 4 euro all’ora pagati in nero di Mauro Ravarino Il Manifesto, 15 agosto 2015 Gli schiavi nei campi del Piemonte esistono e non sono purtroppo una novità. Le vicende di Castelnuovo Scrivia e Saluzzo, con presidi e tende di braccianti stranieri in protesta, sono solo la punta dell’iceberg di un mondo sommerso, sottopagato e sfruttato. E nelle nostre terre, sotto il sole cocente, si può anche morire. E capitare che il corpo esanime della vittima sia pulito, lavato e rivestito e spostato in luogo meno compromettente per simulare un malore casalingo. È successo a Carmagnola, in provincia di Torino, la città dei peperoni. Proprio quelli che stava raccogliendo, il 17 luglio scorso, Ioan Puscasu, 46 anni, originario della Romania. Con il fratello lavorava da diversi anni in un’azienda agricola in via Pret, in località Tuninetti. Quel giorno faceva caldo, davvero tanto, i dati della Stazione meteorologica di fisica dell’atmosfera di Torino riportano una temperatura massima di 37,1 gradi. E sotto le serre poteva addirittura sfiorare i 50 gradi. Ioan, che tutti qui chiamavano Giovanni, lavorava lì, in nero e senza uno straccio di contratto, per poco più di 4 euro l’ora. Una paga da fame per un lavoro durissimo. I compagni lo avrebbero visto accusare un forte dolore al petto e poi accasciarsi a terra. Prima di chiamare l’ambulanza, sarebbe stato però spostato dai colleghi in tutta fretta, forse su indicazione del titolare, sotto una tettoia fuori dal suo modesto ricovero. Questa versione è emersa solo nelle ultime ore, dopo giorni di contraddizioni. La sera del 17 luglio i carabinieri erano stati avvertiti da alcuni conoscenti e avevano trovato Ioan già morto, così anche il 118. Sull’accaduto sono in corso le indagini dello Spresal (Servizio Prevenzione e Sicurezza Ambienti di Lavoro) dell’Asl5 di Torino e dei carabinieri di Moncalieri. Nel corso delle settimane le testimonianze diametralmente opposte hanno fatto emergere nuovi particolari. Ioan non sarebbe morto in casa. Un imprenditore agricolo della zona, che ha dichiarato di conoscerlo solo di vista, ha ammesso di averlo trovato riverso per strada e di averlo caricato in auto per riportarlo nella cascina dove viveva. Dalle testimonianze raccolte è emerso come Ioan lavorasse proprio per quell’imprenditore, che quella sera lo ritrovò di fronte alle serre. L’uomo, aiutato da altri, avrebbe sistemato (o ordinato di farlo) il corpo di Puscasu cercando di eliminare ogni traccia di fango. Una messa in scena. Su questo indagano gli inquirenti che hanno inviato una segnalazione alla Procura di Asti. Tutte le ipotesi sono al vaglio. Gli investigatori vogliono appurare se Ioan sia stato portato dove viveva per soccorrerlo o sia stato invece tolto dal campo proprio per evitare che la verità venisse a galla. Che Ioan lavorava in nero e in condizioni altamente difficili (temi contro cui lotta da tempo la Flai Cgil). Sognava di tornare in Romania, a Botosani, dove si stava costruendo una casa con i pochi risparmi raggranellati lavorando in giro per l’Europa. Immigrazione: questo sfruttamento è un reato penale, si chiama riduzione in schiavitù di Antonio Bevere Il Manifesto, 15 agosto 2015 È interessante l’ostentata sorpresa‚ unita a scarsa informazione, di gran parte della classe politica per la morte di due immigrati e di una cittadina italiana, avvenuta questa estate nelle campagne del Meridione, e principalmente per la presenza di altri cittadini italiani tra questi lavoratori, da considerare vittime del reato, previsto dall’articolo 600 codice penale, di riduzione in servitù. Essa dimostra la scarsa conoscenza, da parte anche dell’area progressista, di quella cronaca giudiziaria che dovrebbe essere strumento e stimolo per meglio organizzare le lotte in difesa della salute e della dignità dei lavoratori. Ai miei tempi, le sentenze dei "pretori di assalto", pronunciate in difesa dei principi della Costituzione e quindi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente, erano diffuse, studiate e condivise da operai, sindacalisti e studenti, mentre erano bersaglio di invettive, procedimenti disciplinari, accuse di partigianeria, controlli dei servizi segreti. Le preture sono state abolite, ma alcuni giudici - a prescindere da etichette correntizie - continuano a pronunciare sentenze necessariamente di parte: nel conflitto, portato nelle aule giudiziarie, tra esigenze di profitto ed esigenze sociali, danno prevalenza alle seconde, conformemente alla nostra Costituzione che riconosce la libertà di iniziativa economica privata, a condizione che non leda l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà, la dignità umana. Queste sentenze e i loro autori hanno perso, però, il carattere provvidenziale ed eroico e la benevola notorietà negli ambienti progressisti: i potenti proprietari di imprese e dei mezzi di informazione stanno addirittura portando avanti una moderna e astuta campagna di satira politica, secondo cui questi giudici, presi da ansia donchisciottesca per la salute di lavoratori e cittadini, minano le fondamenta del sistema produttivo, spaventano i finanziatori stranieri, aggravano la crisi dell’occupazione. I moderni eroi creati dalla stampa e dalla televisione progressisti sono diventati i magistrati che - senza rinunciare alla collocazione nel terzo potere - si offrono come guardie togate nel mondo delitto politico, lasciando il faticoso lavoro giudiziario e inventando un nuovo tipo di ambigua funzione pubblica, che si esprime oggettivamente nel campo del giuridicamente e del "politicamente corretto". Questo vuoto conoscitivo tra cronaca giudiziaria e avanguardia politica, come già accennato, è venuto particolarmente in luce con la morte di tre lavoratori (una donna italiana e due immigrati) nelle campagne della Sud, nell’ambito del fenomeno criminoso - ampiamente sviluppato in Puglia - della riduzione in servitù, cioè del fenomeno dello sfruttamento selvaggio della mano d’opera. Sono decenni che la magistratura segnala la radicata presenza nel nostro sistema produttivo ortofrutticolo di un tipico contratto di lavoro, in cui il soggetto attivo (datore di lavoro o il cosiddetto "caporale"), approfittando della situazione di necessità dell’altro contraente e avvalendosi del reclutamento in violazione del divieto di intermediazione, stipula un accordo oppure crea una situazione di fatto, in cui pone il lavoratore in uno stato di soggezione continuativa costringendolo a prestazioni lavorative che ne comportano lo sfruttamento, (esempio: servitù della gleba). Si vedano al riguardo le sentenze non recenti della Cassazione numero 3909 del 1990, numero 2841 del 2007, numero 37489 del 2004. Quest’ultima sentenza riguarda proprio la campagna pugliese, con protagoniste donne extracomunitarie, rinchiuse a chiave in un casolare, prelevate esclusivamente per essere portate nei campi agricoli, venendo private di gran parte degli emolumenti giornalieri. Ancora la Puglia e i suoi campi riguardano la sentenza numero 40045 del 2010 (cittadini dell’Europa orientale con retribuzioni nettamente inferiori alle promesse, costretti a vivere in alloggi fatiscenti, privi di servizi e con scarsi alimenti) e la sentenza numero 14591 del 2014 (14 cittadini rumeni, di cui uno dodicenne, il cui contratto di lavoro prevedeva la necessaria mediazione di un connazionale e l’impegno a non chiedere il misero compenso pattuito, pena l’esclusione da questo sporco mercato del lavoro). Questi processi si sono svolti con modesta attenzione dei cittadini ed è auspicabile che almeno per quelli che deriveranno dalle drammatiche vicende di quest’estate i mezzi di informazione tolgano la sordina e diano adeguata attenzione alle indagini e alle decisioni, posto che il capitalismo italiano da decenni vive anche sull’incivile sfruttamento dei lavoratori italiani e stranieri nelle campagne del Meridione. È interessante che un presidente regionale - dopo la funesta eco dei tre morti - comunica ai cittadini che "qui si parla di reati, non è solo un fenomeno economico". Si tratta, quindi, di una vergogna nazionale e non soltanto perché i prodotti pugliesi, campani, calabresi sono acquistati all’ingrosso e al minuto, consumati e inscatolati in tutto il Bel Paese; ma anche perché riguarda il livello di civiltà e la dignità del popolo e delle istituzioni . È deprimente che i vertici della sinistra locale hanno sostanzialmente omesso di efficacemente attivarsi e di agire politicamente e giuridicamente contro l’incivile arretramento del territorio formalmente da essi governato. Niente droga per Lorenzo, solo un’emergenza fasulla di Filippo Facci Libero, 15 agosto 2015 L’ecstasy è soltanto l’ultima delle emergenze inventate. Agli stupri ai femminicidi, tutte le invenzioni dei media. La notizia che il 18enne morto nella discoteca del Salente era "pulito" (niente droga: aveva un problema al cuore e non lo sapeva) ci lascia inceppati di fronte alla milionesima emergenza che ci siamo inventati: droga, discoteche e segnatamente "ecstasy", con paginate e reportage magari utili e interessanti ma sempre a proposito di un’emergenza che - ripetiamo - non c’è. E non perché il ragazzo del Salente in particolare non fosse drogato, ma perché i dati (che interessano poco) restano comunque quelli che sono: negli ultimi 16 anni, in Italia, i morti per droga sono calati dai 1.002 del 1999 ai 344 di oggi, ultime cifre disponibili secondo il Dipartimento delle Politiche Antidroga della presidenza del Consiglio; non solo: le droghe omicide (quando è stato possibile appurarlo con analisi tossicologiche) sono state nel 42 per cento dei casi l’eroina, nell’8,4 per cento la cocaina, nel 3,8 il metadone e solo nello 0,8 per cento altre droghe, tra le quali appunto l’ecstasy e dintorni. La droga che uccide . sempre meno - è ancora la vecchia eroina, mentre "l’emergenza ecstasy" e la conseguente "emergenza discoteche", in definitiva, riguardano pochissime persone che peraltro sono molte meno di quanto accade nel resto d’Europa. Il Cororicò di Riccione, chiuso e rovinato, ringrazia. I lettori dei giornali ringraziano pure, visto che hanno dovuto sorbirsi allarmismi mediatici con strampalati commenti politici sparati assolutamente a caso. Se non fosse che, purtroppo, è diventato un vizio: da una parte la percezione, dall’altra i dati. Il 9 gennaio 2014 il Corriere della Sera scrisse che gli omicidi in Italia erano calati ma lo scrisse così: "Nel 2013 sono stati 480: mai così dall’Unita d’Italia. La percezione, però, è che la violenza aumenti". Interessante: se la realtà è una e la percezione è un’altra, forse, c’entriamo noi giornalisti, a meno di credere che agli italiani la percezione della violenza bussi alla porta. Poi - ricorderete - ci sono i suicidi: sono calati a loro volta, ma quelli associati alla crisi economica ebbero una tale enfasi - soprattutto nel 2013 - che nessuno avrebbe creduto che in realtà erano calati, com’era vero: e basti che nella florida Germania si suicidano il doppio che in Italia mentre nella disastrata Grecia, viceversa, poco più della metà. In Italia, nel prospero 1987, si toglievano la vita più di 4mila persone l’anno, mentre oggi, con la crisi, meno di 3mila. Non sono questi - anche questi -dei dati che i giornalisti dovrebbero diffondere? Che razza di giornalismo stiamo facendo? Di fatto è questo: pur di non perdere colpi (e copie) ogni tanto prendiamo qualche fenomeno sempre "notiziabile" (droga, omicidi, suicidi, stupri, incidenti sul lavoro, femminicidio, bullismo) che in qualsiasi momento possa prestarsi a montare campagne e allertare l’opinione pubblica e pressare i legislatori: anche se fosse un fenomeno in calo. Ecco, appunto, altro esempio celebre, altra emergenza pazzesca: gli stupri. Nel 2009 pareva che non si potesse più uscir di casa, i media erano scatenati e fu improvvisata anche una legge disgraziata (poi bocciata dalla Consulta, per fortuna) che prevedeva il carcere automatico per tutti i sospettati (solo sospettati) di violenza sessuale e pedofilia. E invece, parentesi, era la classica bufera mediatica: sia perché molti degli accusati "a caldo" si rivelarono innocenti, sia perché gli stupri risultavano inferiori di numero agli anni precedenti. Omettiamo i dati per non farla lunga - già li scrivemmo - e tanto per far incazzare aggiungiamo un’akra celebre emergenza-bufala: il femminicidio. Da un paio d’anni viene descritto come un’emergenza sociale, ma è semplicemente falso. In Italia si uccidono meno donne rispetto a tutto l’Occidente e non perché siamo più evoluti, ma, paradossalmente, perché siamo più involuti: in Germania, Usa e Scandinavia gli omicidi tra uomini e donne tendono a equivalersi: l’Austria e la Finlandia - citiamo altri due Stati in cui la parità uomo-donna è palesemente superiore - hanno tassi di "femminicidio" tre volte superiori ai nostri. E i dati, anche qui, non ce li siamo mica inventati: sono di Istat, Onu e ministero dell’Interno, anche se una come la presidente della Camera Laura Boldrini parlò di "escalation": ma era solo quella delle sue sparate. Nel silenzio di una prigione. Gli italiani detenuti all’estero di Fabio Polese Il Giornale, 15 agosto 2015 Secondo la Farnesina sono più di 3.000, la maggior parte nei confini dell’Unione Europea. Molti aspettano di essere giudicati. Il silenzio. È questo quello che circonda i tanti - troppi - nostri connazionali detenuti all’estero. Quasi 3500 italiani - secondo i numeri forniti dall’Annuario statistico pubblicato dalla Farnesina - sono incarcerati lontano dalla patrie galere. Più di 2.500 sono detenuti in Paesi dell’Unione europea, 161 nei Paesi extra Ue, poco meno di 500 nelle Americhe, 59 nella regione mediterranea e in Medio Oriente, 12 nell’Africa subsahariana e 75 in Asia e Oceania. La Germania è il Paese europeo che ne ospita di più. Secondo i dati rilasciati, infatti, nelle carceri tedesche ci sono circa 1200 italiani. Mentre nel mondo, il maggior numero di connazionali detenuti si trovano nelle spaventose carceri brasiliane. C’è chi finisce in carcere per le proprie responsabilità. Ma c’è anche chi, invece, è vittima di un’ingiustizia. In ogni caso, innocenti o colpevoli che siano, dovrebbero avere diritto ad un giusto processo e ad una detenzione che rispetti al pieno i diritti umani. Purtroppo non sempre è così. In diversi Paesi del mondo, infatti, sono negati anche i più elementari diritti sanciti dalle convenzioni internazionali e molte volte l’assistenza di un avvocato o di un’interprete non è neanche presa in considerazione. Soprattutto nelle prime ore del fermo, quelle più importanti e delicate, dove molto spesso vengono fatti firmare dei documenti dal contenuto incomprensibile. E poi ci sono tutte quelle difficoltà dovute alla lontananza dalla propria terra e alla diversità culturale. Le persone condannate, secondo la "Convenzione di Strasburgo" del 1983 e secondo diversi "Accordi bilaterali" siglati tra l’Italia e gli altri Stati, dovrebbero scontare la propria pena nei nostri penitenziari. Ma queste convenzioni non sempre vengono rispettate. E qui, dovrebbe entrare in gioco la nostra diplomazia. Una diplomazia che - purtroppo - non riesce sempre a far fronte in maniera adeguata a queste situazioni e, spesso, sembra non essere neanche in grado di porsi correttamente con gli altri Paesi in causa. Molto probabilmente anche perché in Italia manca un concetto di "solidarietà nazionale", cosa che, al contrario, è molto sentita in tanti altri Paesi. Un esempio concreto è quello dell’India con la vicenda dei due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Oppure quello degli Stati Uniti nella mobilitazione - non solo mediatica - per Amanda Knox, prima condannata per l’omicidio della giovane a Meridith Kercher a Perugia e poi liberata per non aver commesso il fatto. Intanto, a queste mancanze dello Stato, cercano di rimediare amici, familiari ed alcune associazioni. Anche attraverso l’aiuto dei social media. Con l’obiettivo di rompere quel muro di silenzio che avvolge le storie dei nostri connazionali e che sta diventando sempre più assordante. La penalista: "Gli italiani detenuti all’estero in condizioni intollerabili" di Fabio Polese Il Giornale, 15 agosto 2015 Francesca Carcinelli si occupa dei connazionali in carcere nel mondo. "Complesso tutelare i diritti umani. Spesso gli Stati li rispettano solo sulla carta". "Le condizioni in cui vivono gli oltre tremila italiani detenuti all’estero sono spesso intollerabili". A parlare a ilGiornale.it è Francesca Carnicelli, avvocato penalista della Onlus "Prigionieri del Silenzio" che dal febbraio del 2008 si occupa di aiutare i nostri connazionali detenuti oltre confine. "I nostri concittadini contraggono malattie e non ricevono quasi mai le cure necessarie. Abbiamo anche riscontrato difficoltà a far pervenire medicinali o far sottoporre a visite specialistiche anche quando la richiesta veniva effettuata dalla autorità consolari". Quali sono le maggiori difficoltà che si hanno quando ci si occupa di un connazionale recluso all’estero? "Le difficoltà sono moltissime e riguardano tutte le fasi del procedimento che porta normalmente allo stato detentivo. La fase più critica è quella dell’arresto, spessissimo ci sono problemi legati alla scarsa comprensione della lingua locale e, conseguentemente, alla scarsa comprensione delle accuse e delle possibilità difensive. La fase dell’arresto è uno dei momenti di maggiore criticità in ogni procedimento penale, affrontarlo anche con difficoltà di comunicazione con le autorità, la polizia e il proprio difensore può portare a conseguenze disastrose. Molto spesso accade che gli arrestati firmino confessioni per reati che non hanno commesso o, comunque, confessioni inutili perché vengono convinti che, una volta firmato, verranno liberati. La prima cosa, quindi, che noi dobbiamo fare è contattare l’autorità consolare o l’ambasciata di riferimento affinché verifichino che almeno i diritti fondamentali siano stati rispettati". Di quanti casi si è occupata e quanti hanno avuto un finale positivo? "Mi sono occupata di decine di casi. Alcuni hanno avuto un finale positivo come Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni ma anche quando abbiamo un esito positivo è bene segnalare che le famiglie si sono dissanguate per sostenere le spese della difesa tecnica e che, comunque, i ragazzi hanno trascorso anni in carcere pur essendo innocenti. In ogni caso noi non ci occupiamo dei casi riguardanti soggetti che riteniamo innocenti ma di ogni cittadino italiano che si trovi detenuto all’estero in quanto lo scopo dell’associazione è quello di cercare di far garantire i diritti umani fondamentali ai nostri connazionali". Ora si sta occupando di qualche caso in particolare? "Al momento sto seguendo casi di cui non posso parlare perché ci è stata chiesta la massima riservatezza". Quali trattati esistono per tutelare gli italiani detenuti oltre confine? "Esistono molte convenzioni a tutela dei diritti umani e trattati bilaterali. Spesso le persone che si rivolgono a noi usufruiscono della Convenzione di Strasburgo per l’esecuzione della pena in Italia". Questi accordi vengono sempre eseguiti? "La tutela dei diritti umani è materia spinosa. E molte volte ci troviamo di fronte a situazioni dove formalmente lo Stato rispetta gli accordi ma nella sostanza no. Ad esempio, torniamo al problema dell’interprete: tutte le convenzioni prevedono che l’esercizio della difesa sia pieno e la comprensione delle accuse ne è ovviamente un elemento determinante. Se un connazionale viene arrestato in uno Stato straniero e non comprende la lingua locale non sempre gli viene dato un interprete e anche quando viene messo a disposizione sovente è soggetto privo della competenza in materia giuridica necessaria per tradurre correttamente. Lei pensi ad un soggetto che ha soggiornato in Italia per qualche anno, privo di titolo di studio, quale potrà mai essere il suo livello di preparazione in materia giuridica? Quale aiuto potrà dare nei colloqui difensore/arrestato?". La diplomazia italiana che ruolo ha? "La diplomazia ha un ruolo fondamentale ma le nostre istituzioni spesso sono inefficienti. Sicuramente da Roma partono sempre input precisi e veloci ma l’attuazione di essi subisce rallentamenti a causa di difficoltà di ogni tipo (carenza di personale, distanze, ostruzionismo da parte dei locali)". Cosa si potrebbe fare? "Potrebbe essere fatto moltissimo. Si dovrebbe essere in grado di indicare a chi ne ha bisogno i nominativi di legali di comprovata capacità e fiducia, si dovrebbe agire immediatamente a livello politico facendo sentire la presenza dello Stato. E poi credo che si dovrebbe poter aiutare economicamente gli Italiani che non siano in grado di provvedere al pagamento di difesa adeguata". La criminologa: "Così aiutiamo i detenuti italiani reclusi all’estero" Fabio Polese Il Giornale, 15 agosto 2015 L’Associazione Carcere e Territorio di Brescia (Act) gestisce, anche in collaborazione con altre realtà, circa una ventina di progetti. Tra questi, dal 2011, ha preso avvio l’Italian Prisoners Abroad (IPA), un programma di sostegno ai detenuti italiani reclusi all’estero. Per conoscere meglio le loro attività, ilGiornale.it ha incontrato Luisa Ravagnani, ricercatrice in criminologia presso l’Università degli studi di Brescia, vice presidente di ACT e responsabile del progetto IPA. In cosa consiste questo progetto? "L’attività di IPA si sviluppa nell’ambito dello Special Interest Group on Foreign Nationals, nato in seno al Confederation of European Probation (CEP) con lo scopo di unire gli sforzi di tutti gli Stati che offrono supporto ai connazionali reclusi all’estero in un’unica piattaforma di comunicazione e progettazione che possa favorire lo scambio di buone prassi e la proposizione di idee per il miglioramento della reclusione all’estero. Grazie al forte sostegno dei partner europei e alla preziosa collaborazione con il Ministero degli affari esteri (MAE), IPA ha creato, nel 2013, il primo strumento informativo rivolto ai detenuti italiani all’estero, contenente importanti notizie su come gestire la carcerazione fin dal momento dell’arresto. Tale strumento è già stato messo a disposizione dei detenuti italiani in Spagna e contiamo di diffonderlo il più possibile ovunque, anche attraverso le reti diplomatiche italiane. Inoltre, siamo in grado di offrire supporto nella ricerca di realtà di volontariato che possano sostenere moralmente e materialmente la detenzione del connazionale. Abbiamo anche la possibilità di sfruttare la rete di esperti europea per aiutare il detenuto a reperire un avvocato di fiducia". Riuscite anche a fornire aiuti materiali? "Nel caso si verifichino problemi nel reperimento di medicinali o cibo adeguato nel Paese di detenzione, possiamo attivarci per trovare, tramite altre organizzazioni non governative, una rapida risposta al problema. La disponibilità di intervento di IPA copre, potenzialmente, ogni problematica della quale il detenuto o la sua famiglia vogliano investirci, compatibilmente alle risorse economiche del progetto e alle regole di invio pacchi dell’istituto di pena ospitante. Possiamo, ad esempio, inviare libri e riviste in lingua italiana al detenuto in modo da evitare che perda il contatto con il Paese d’origine, oppure fornire allo stesso strumenti per l’apprendimento della lingua del Paese di detenzione. E molte altre cose. L’unico limite (doveroso) che ci siamo posti è ovviamente quello di non sovrapporci mai all’operato della diplomazia italiana o degli avvocati che seguono il caso e di mettere a disposizione di entrambi ogni eventuale informazione in nostro possesso che il detenuto ci autorizzi a rivelare/condividere". Quali sono le maggiori difficoltà per un detenuto italiano all’estero? "Non è difficile immaginare quali e quante siano le difficoltà incontrate da un detenuto italiano all’estero. Tuttavia, per meglio comprendere la situazione sarebbe sufficiente visitare un istituto di pena italiano e verificare quali siano i principali problemi che lo straniero recluso nel nostro paese debba affrontare. A questo punto basterebbe focalizzare l’attenzione sul Paese nel quale il nostro connazionale si trovi recluso e tentare di comprendere che tipo di rapporto abbia il suddetto Paese con la tutela dei diritti umani. Se l’ago della bilancia si fermasse sul colore rosso, dovremmo seriamente iniziare a temere per le sue condizioni di vita. È dunque scontato dire che, dal momento che davvero molti sono i Paesi che non difendono in modo adeguato (o non difendono affatto) i diritti umani di tutti e, quindi, anche dei detenuti, la differenza fra una situazione difficile da sopportare e una impossibile è normalmente (ed inevitabilmente) segnata dalla posizione geografica in cui ci si trova reclusi". Collaborate con la diplomazia italiana? "Per i casi che abbiamo gestito fino a questo momento abbiamo sempre riscontrato grande disponibilità sia a livello di MAE, sia a livello di rappresentanze diplomatiche all’estero. Nel 2010, prima di dare l’avvio ufficiale al progetto IPA, interpellammo quasi tutte le ambasciate e i consolati d’Italia per chiedere cosa ne pensassero della nostra offerta di supporto (supplementare a quello ufficiale garantito dal nostro Paese) ai connazionali reclusi all’estero: moltissime furono le risposte di gradimento e di apertura alla collaborazione che ci spinsero a proseguire questo progetto. Dall’esperienza anglosassone, da quella belga, da quella dei Paesi Bassi e da quella spagnola ho avuto modo di apprendere come, una stretta collaborazione fra Ministeri competenti e organizzazioni non governative che offrono gratuitamente il loro servizio possa garantire un livello superiore di supporto a chi si trova a vivere l’esperienza detentiva lontano da casa". Secondo lei, si potrebbe fare di più? "In un Paese nel quale non si riesce a pensare di poter destinare fondi per migliorare le condizioni dei detenuti reclusi sul suolo nazionale (ma nemmeno dei malati, degli anziani o dei bambini) cadrebbe certamente nel vuoto qualunque richiesta di destinazione di ulteriori risorse economiche per i nostri detenuti all’estero, invece, investire di più in termini di costruzione di collaborazioni con enti no profit potrebbe dare risultati positivi nel breve periodo a costo zero. Come sempre, tra l’altro, senza nemmeno la necessità di inventare nulla ma solo la volontà di attingere da qualche buona idea funzionante oltralpe". Come possono contattarvi? "Abbiamo un sito internet con tutti i recapiti per poterci contattare: www.act-bs.it". Il giornalista: "Per gli italiani in Guinea non facciamo abbastanza" di Fabio Polese Il Giornale, 15 agosto 2015 Lo Stato africano è un’altra Corea. Andrea Spinelli Barrile è un giornalista che lo conosce molto bene. E dopo il caso Berardi mette in guardia: "Altri rischiano". "In Guinea Equatoriale si può essere arrestati perché si denuncia il proprio stupratore o perché si chiede al dirigente politico di turno di venire pagati per il proprio lavoro". A parlare a ilGiornale.it è il giornalista Andrea Spinelli Barrile che conosce molto bene questo Paese e si è occupato in prima persona del caso di Roberto Berardi, l’italiano detenuto nel carcere di Bata per più di due anni e liberato il nove luglio scorso dopo un incubo fatto di maltrattamenti, pestaggi e abusi di ogni genere. E ora, altri cinque connazionali, rischiano di vivere lo stesso calvario in quella che viene chiamata la "Corea del Nord" dell’Africa. Ci racconta la storia di Roberto Berardi e le ingiustizie che ha subito? "Roberto Berardi ha speso una vita professionale intera in Africa dell’Ovest come imprenditore: una persona di successo, amante profondo dell’Africa e della sua gente e dal carattere avventuriero. Era in Camerun quando gli è stato proposto di realizzare quello che in fondo era il suo sogno: la prima multinazionale edilizia africana. Il suo socio Teodorin Nguema, vicepresidente della piccola Guinea Equatoriale, lo ha però truffato trasferendo ingenti somme da conti correnti paralleli della società con la complicità di un sistema bancario corrotto. Questo reato il socio di Berardi l’ha riconosciuto patteggiando una multa da 30 milioni di dollari negli Stati Uniti per riciclaggio di denaro e corruzione. Gli americani la chiamano "cleptocrazia" mentre noi non sappiamo nemmeno cosa sia. Berardi è stato accusato da questo personaggio di appropriazione indebita e sbattuto in galera, un luogo di disperazione assoluta nella "Corea del Nord" africana. Si è salvato grazie al suo carattere: ha deciso di lottare ogni giorno, guadagnandosi il rispetto dei compagni di detenzione e tantissime violenze, picchiato, minacciato, affamato (ha perso 36kg in due anni e mezzo). Il processo si è svolto senza nemmeno che l’accusa si presentasse o presentasse dei testimoni, gli è stato negato di vedere il suo avvocato, di incontrare i diplomatici italiani, ai quali è stato proibito l’accesso all’Aula. In Tribunale ci è arrivato in manette. Il giudice era al telefono con Nguema durante tutta l’udienza (un’unica udienza). La sentenza è ridicola e contraddittoria, poche pagine che lo hanno condannato a due anni e mezzo di detenzione, di cui 18 mesi trascorsi in isolamento. Avevano chiesto 18 anni. Un calvario incredibile dal quale ne è uscito grazie ad una forza che lo ha persuaso ad utilizzare ogni mezzo possibile per salvarsi la vita: un telefono, anzi dieci, sequestrati regolarmente (e regolarmente pestato), del cibo, medicinali. Io gli feci recapitare un libro". Ci sono altri nostri connazionali detenuti in Guinea Equatoriale? "Nel momento in cui scrivo ci sono ben tre italiani detenuti ed altri due agli arresti domiciliari. Si tratta di Fabio e Filippo Galassi (padre 60enne e figlio 24enne), Daniel Candio (24 anni, amico e collega di Filippo), che si trovano detenuti a Bata Central, un carcere militare dei peggiori, nel quale è stato detenuto anche Berardi. Ai domiciliari ci sono Fausto Candio, padre di Daniel, ed una quinta persona che vuole restare anonima, che sono semplicemente "a disposizione" dell’autorità giudiziaria (che significa sequestro del passaporto e quindi mobilità limitatissima)". Quali sono le loro storie? "Fabio e Filippo sono entrati in carcere il 21 marzo scorso, il 24 Filippo è stato mandato ai domiciliari, ma a loro carico non ci sono ancora capi d’accusa chiari: appropriazione indebita, vendita di beni della società, esportazione di capitali all’estero, truffa, ma francamente sono le stesse accuse che lessi nell’istruttoria del signor Berardi, poco o nulla circostanziate. A carico di Filippo Galassi a dir la verità non c’è proprio nulla nè di ufficiale nè di ufficioso. Come anche per Daniel: niente di niente. Sono tutti di Roma, lavorano in un’azienda italoguineana chiamata General Works e vivono in Africa da poco: il primo a partire fu Fabio, che in Italia era cassintegrato, nel 2011. Poi fu raggiunto dal figlio Filippo all’inizio del 2014 e dal suo amico d’infanzia Daniel, entrambi ventiquattrenni. Seguiti poi da Fausto, padre di Daniel, anch’egli in difficoltà lavorative qui in Italia. Persone le cui famiglie sono composte soprattutto da donne tenaci e che dimostrano ogni giorno una forza ed una determinazione da vere leonesse: parliamo di lavoratori e non di drogati di adrenalina". Qual è la situazione in generale per i detenuti in Guinea Equatoriale? "Terrificante. Il libro che sto scrivendo con il signor Berardi, "Esperanza", sta riportando alla sua mente immagini di puro orrore, che va oltre la sua condizione di "detenuto speciale": la tortura è sistematica, in particolare durante le inchieste di polizia. Esiste una vera e propria squadra specializzata in questo tipo di attività, la Fuerza Especial. I commissariati di Polizia sono luoghi di orrore, le torture e i pestaggi avvengono negli scantinati, durante la notte, per terrorizzare gli altri detenuti con le urla. Le carceri sono in mano ai militari e alla Fuerza Especial e sono letteralmente riempite di guineani e soprattutto stranieri, camerunensi, maliani, ciadiani, gabonesi, ivoriani, persone buttate all’inferno perché senza documento, tra l’altro nemmeno necessario per via degli accordi internazionali tra i paesi dell’area Franco CFA. I detenuti sono chiusi dentro vere e proprie gabbie per fiere, tanti quanti riescono a entrarci in piedi: caldo insopportabile, situazione igienica drammatica (non c’è nemmeno un medico o un infermiere), escrementi ed urina ovunque, pasti inadeguati (un pugno di riso e un’ala di pollo, quando va bene, al giorno), pestaggi continui per mantenere il controllo della paura, torture ed uccisioni (in barba alla moratoria per la pena di morte firmata dal governo di quel Paese)". In un suo articolo scrive che la Guinea Equatoriale "sfida l’Italia". Cosa vuol dire? "Esattamente questo: la vicenda di Berardi e quella dei Galassi, così legate tra loro nel tempo ma così distanti nel merito, è un campanello d’allarme che non va sottovalutato. Un campanello d’allarme per noi, che abbiamo dimostrato di non avere delle procedure chiare ed efficaci in questo senso, sia diplomatiche che giuridiche: la Farnesina ha avuto un comportamento a tratti davvero imbarazzante, soprattutto all’inizio, dimostrando di non conoscere nemmeno la realtà locale e spesso accettando soprusi e bugie manifeste da parte dei suoi interlocutori. Va detto che l’assenza di un’ambasciata italiana in quel Paese non ha certamente aiutato. A troppo poco sono servite le (pure assai) persone di buona volontà come il console Massimo Spano. Non basta, e questo i guineani lo sanno bene: un governo corrotto e criminale in cerca di altro denaro che scopre una falla in un sistema diplomatico non può fare altro che infilarcisi per estorcere più denaro possibile. Le assicuro che è l’unico motore che fa muovere quelle persone. C’è poi un altro aspetto da non sottovalutare: il panafricanismo con il quale quei criminali si fanno scudo altro non è che razzismo (prima di tutto contro la loro stessa gente) utilizzato a scopo di propaganda per consolidare la credibilità politica della corrotta famiglia Obiang. Per questo sia Berardi che Galassi sono finiti sulla tv di Stato in servizi di propaganda, presentati dai giornalisti come dei criminali bianchi venuti in Africa a depredare la povera gente". Cosa fa la diplomazia italiana? "La macchina diplomatica andrebbe, quella sì, rottamata. Ci sono al suo interno ingranaggi, componenti e parti di altissimo valore diplomatico ed istituzionale ma è il meccanismo ad essere terribilmente farraginoso ed elefantiaco. E le mosche bianche non servono a nulla. Spesso non abbiamo gli strumenti giuridici (ad esempio per perseguire la cleptocrazia, ben più grave della semplice corruzione, e tutelarne le vittime), altre volte preferiamo addirittura girare la testa dall’altra parte. Non abbiamo la cultura nè gli strumenti per trattare con queste persone che di fatto sono criminali internazionali (tra l’altro ricercati da mezzo mondo, nonostante il tappeto rosso al Presidente Teodoro Obiang a Città del Vaticano, 4 volte nel 2014) ma sembra anche che spesso ci sopravvalutiamo un po’ troppo, soprattutto con un regime che sembra essere uscito da un libro di Salgari ma in realtà è nel rapporto di Amnesty International sulla tortura nel mondo". Dunque, l’Italia, potrebbe fare di più? "Certamente. Se posso permettermi, da giornalista, dico che la prima cosa da fare è cambiare i protocolli di comunicazione con le famiglie: abbandonare letteralmente le famiglie di queste persone alla disperazione è altrettanto crudele che tenere sequestrato il loro congiunto in Guinea Equatoriale per due anni e mezzo. Non si può dire sempre "stiamo facendo il possibile" senza spiegare cosa sia questo "possibile". E poi: perché non provare a fare l’impossibile? Indipendentemente dalle antipatie o meno che si possono creare, ci dovrebbe essere un dovere istituzionale da rispettare. Sostenere con ogni mezzo le famiglie, che tra l’altro generalmente sopportano anche costi esorbitanti per i processi all’estero. Altrettanto importante sarebbe dare un sostegno psicologico, ai familiari come ai "ritornati". Stati Uniti: la detenzione preventiva è dei poveri senza soldi per la cauzione di Carlo Valentini Italia Oggi, 15 agosto 2015 Dall’Italia all’inferno (nel 2013 sono stati riscontrati 565 episodi di violenza) del carcere di New York. Flavia Robotti, 63 anni, bolognese, psichiatra, vive negli Stati Uniti dal 1981, dove esercita la libera professione. Dal 2004 è impegnata in programmi di assistenza nelle aree difficili del South Bronx e di Harlem e nell’aiuto ai senza casa. Tra le sue attività vi è anche quella di psichiatra all’interno del carcere di New York (che ha ospitato nel 2011 anche l’ex direttore del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, accusato di sfruttamento della prostituzione, poi prosciolto). Conosce quindi assai bene il sistema penitenziario americano ed è su questo che l’abbiamo intervistata. Domanda. Perché è importante un servizio di psichiatria all’interno del carcere? Risposta. Perché un’alta percentuale dei detenuti ha un passato psichiatrico, cioè ha già avuto contatti con la psichiatria ambulatoriale e ospedaliera e spesso sta ancora assumendo farmaci. Quindi una brusca interruzione del rapporto con la psichiatria potrebbe risultare controproducente e rendere impossibile il recupero dei detenuti. Al contrario, in molti casi l’aiuto psichiatrico può consentire a queste persone il superamento dei loro problemi esistenziali e quindi evitare che ripetano reati. D. Che cosa potrebbe insegnare l’organizzazione carceraria americana a quella italiana? R. L’aiuto psichiatrico nel sistema carcerario italiano è pressoché inesistente e questo è un errore. Per il resto, il sistema carcerario americano non ha nulla da insegnare a quello italiano. Anzi, direi che semmai si tratta del contrario. Esso è stato proprio recentemente definito "broken" (rotto), perciò non credo che sia un buon modello. Il carcere di New York è ubicato a Rikers Island (un’isola collegata alla terraferma da un ponte) e si trova in una bellissima posizione geografica, con viste spettacolari della baia, in dissonanza con l’ambiente umano (vi sono 15 mila detenuti!) e con i problemi della promiscuità. La crisi che il carcere sta attraversando (finalmente è oggetto dell’attenzione dei media e della politica dopo anni di disinteresse) è determinata dalle polemiche per alcuni episodi di violenza, per altro non dissimili da quelli recentemente verificatisi in altre parti degli Stati Uniti (Staten Island, Missouri) dove alcuni detenuti sono morti per le violenze subite. D. Colpa delle guardie? R. In certi casi le guardie carcerarie usano metodi diciamo così sbrigativi per contenere fisicamente i detenuti pericolosi ma vi è anche una violenza codificata, quella di un sistema di isolamento punitivo in piccole celle, talmente anguste che è alto il rischio di conseguenze fisiche, specialmente in estate per le temperature insopportabili. Dopo questi episodi e le polemiche che ne sono seguite è stato avviato un sistema di controllo sulla vita nelle carceri, si tratta ora di verificare la sua effettiva efficacia. Inoltre, il sindaco di New York (Rikers dipende dal comune mentre la prigioni dove si scontano pene superiori ai tre anni sono sotto la giurisdizione dello stato) ha promesso di sviluppare programmi di riabilitazione esterni al carcere per chi ha commesso crimini non violenti legati alla droga. Si tratta di un obiettivo che consentirebbe di ottenere risultati più efficaci per quanto riguarda il recupero di queste persone, per lo più giovani, e anche un risparmio poiché il costo di un detenuto è altissimo: 150 mila dollari l’anno. D. Quindi per ora è scarso l’utilizzo di pene alternative al carcere? R. Sì, i programmi di avviamento professionale e di reinserimento sociale sono, per lo più aggiuntivi, alla pena. Speriamo che presto possano diventare sostitutivi, almeno nei casi meno gravi, per esempio lo spaccio di droga da parte di chi ne fa uso. Sarebbe un importante passo avanti poiché eviterebbe l’ingresso in carcere per chi non ha commesso violenze. D. La carcerazione preventiva assume a volte caratteristiche patologiche come in Italia? R. Sì, anche perché la discriminazione sociale è fortissima: ci sono coloro che possono pagare la cauzione e coloro che non se lo possono permettere. E la cauzione è una costante del sistema giudiziario americano, non viene proposta dal giudice solo se si pensa che l’indagato sia a rischio di fuga o propenso a ripetere un’attività criminale. Quindi se quasi tutto ruota attorno alla cauzione, la possibilità di pagarla o meno diventa una discriminante sociale. D. Cosa si fa per evitare che i carcerati una volta usciti non cadano nella recidiva? R. Ci sono programmi di riabilitazione che riescono a raggiungere l’obiettivo di un reinserimento nella società poiché l’individuo viene seguito passo dopo passo fino alla conclusione positiva del suo percorso personale. Invece difficilmente questi programmi hanno successo su chi ha una personalità antisociale (assenza del senso di colpa, sentimento che tutto ti è dovuto, compiacimento verso la crudeltà). Ma il vero ostacolo in molti casi è la mancanza di una casa e di un lavoro e in questa direzione andrebbero moltiplicati gli sforzi per un’efficace prevenzione della recidiva. D. Uomini e donne hanno un approccio diverso alla vita carceraria? R. Certamente. Nel carcere maschile il rumore di base sono le oscenità urlate, le sbarre colpite con rumore assordante, il rap cantato incessantemente e spesso poco artisticamente a squarciagola; nel reparto femminile c’è profumo di cucina, di pulito e la musica è new age. Insomma, il testosterone contro gli estrogeni. D. Qual è l’identikit del carcerato-tipo a New York? R. Africano-americano, giovane, maglietta bianca, pantaloni così bassi sul cavallo da far vedere la biancheria intima, spesso un odore insopportabile. D. Dal punto di vista personale-professionale cosa le sta dando questa esperienza di lavoro? R. Mi sta dando tantissimo. Adoro viaggiare e questo per me è un viaggio: ho avuto il privilegio di entrare in un mondo che esiste parallelamente al nostro, non potrei mai ritornare all’ignoranza di prima. D. Più in generale e al di là del carcere c’è un approccio diverso alla psichiatria negli Stati Uniti rispetto all’Italia? R. Credo proprio di sì. In Italia la psichiatria è vista come qualcosa che riguarda "altri", i "malati" e non tutti noi. C’è una certa vergogna, un certo rigetto ad approcciarsi alla psichiatria. Qui andare da uno psichiatra e poi parlarne tranquillamente è del tutto accettato mentre in Italia è un tabù. Israele: Allan è in fin di vita, digiuna da 60 giorni contro la "detenzione amministrativa" di Michele Giorgio Il Manifesto, 15 agosto 2015 L’avvocato palestinese, in carcere da novembre e che digiuna da 60 giorni contro la "detenzione amministrativa", ieri mattina ha perduto coscienza facendo temere il peggio. I leader del Jihad Islami avvertono: "Dovesse morire reagiremo con forza". Le condizioni dell’avvocato palestinese Mohammed Allan, incarcerato lo scorso novembre da Israele e in sciopero della fame da due mesi, erano peggiorate qualche giorno fa. Ieri mattina ha perduto coscienza, facendo temere il peggio. Nel pomeriggio i medici dell’ospedale Barzilai di Ashkelon, dove Allan è ricoverato da alcuni giorni, sono riusciti a stabilizzare le sue condizioni. Ma in serata era cosciente solo in parte. La notizia ha subito fatto il giro dei Territori occupati palestinesi suscitando reazioni forti. A cominciare dal Jihad Islami, organizzazione di cui Allan sarebbe un simpatizzante o, come sostiene Israele, un militante a tutti gli effetti. Sino ad oggi però i servizi segreti israeliani non hanno prodotto alcuna prova concreta a sostegno di questa tesi. "Dovesse morire Allan, il Jihad reagirà con forza e non si sentirà più vincolato ad alcun accordo per il mantenimento della calma", ha fatto sapere l’organizzazione islamista, rivolgendosi non solo al governo Netanyahu ma anche ad Hamas che, stando alle voci che girano, avrebbe raggiunto dietro le quinte un’intesa con Israele per evitare nuove escalation belliche. Un accordo che il movimento islamico ha imposto alle altre formazioni palestinesi presenti a Gaza. Il caso di Mohammed Allan è seguito da tutta la popolazione palestinese. Manifestazioni e raduni si sono svolti ovunque. Venerdì mattina a Gerusalemme, durante le preghiere islamiche, decine di palestinesi hanno scandito slogan sulla Spianata delle moschee per chiedere la sua liberazione immediata. Altri si sono radunati davanti all’Ospedale Barzilai. Per contrastare le proteste palestinesi è scesa in campo la destra israeliana più radicale. Mercoledì scorso un leader dei coloni, Baruch Marzel, ha guidato una contromanifestazione per bloccare 200 avvocati palestinesi che in strada, poco lontano, esprimevano solidarietà al loro collega. Originario di Einabus (Nablus), Allan attua uno sciopero della fame totale da 60 giorni, per protestare contro la "detenzione amministrativa", senza processo e capi di accusa precisi, che lo tiene in carcere in Israele dallo scorso novembre. Ha rifiutato qualsiasi trattamento medico, vitamine o minerali, spiegando che l’unica cosa di cui ha bisogno è la libertà. Una nuova legge approvata dalla Knesset permetterebbe al governo di chiedere al personale medico del Barzilai di alimentarlo con forza. Ma il comitato etico dei medici israeliani si oppone ad una misura che i centri per i diritti umani descrivono come una forma di tortura. Per questo al Barzilai non sono andati oltre la somministrazione endovenosa di farmaci salva-vita e soluzioni saline che non lo hanno alimentato, rispettando il volere che il detenuto aveva espresso nei giorni scorsi. Le condizioni di Mohammed Allan restano critiche, la madre lo considera già uno shahid, un "martire". Ha perduto in parte la vista a causa del lungo digiuno. Dovesse morire in carcere, i Territori palestinesi occupati si trasformeranno in campi di battaglia. Stati Uniti: era innocente, detenuto libero dopo 34 anni grazie a prova Dna Ansa, 15 agosto 2015 Un uomo detenuto da 34 anni è stato liberato negli Stati Uniti dopo che l’analisi del Dna ha stabilito che non era stato lui a violentare e uccidere una quindicenne nel 1976. L’uomo, Lewis Fogle, oggi 63enne, era stato condannato all’ergastolo nel 1982. Lo racconta il quotidiano locale statunitense Pittsburgh Post-Gazette. A battersi per la liberazione di Fogle è stata l’associazione Innocence Project, impegnata nella revisione di processi dove vi sono dubbi sulla colpevolezza dei condannati. Il caso non è però ancora chiuso. Il procuratore Patrick Dougherty ha ancora tempo fino al 14 settembre per decidere se vi sono altre prove per processare nuovamente Fogle. Secondo Innocence Project un nuovo processo è però poco probabile. "La prova del Dna è abbastanza forte e chiara", ha affermato David Loftis, esponente dell’organizzazione. Fogle, che si è sposato tre mesi fa, ha spiegato che dovrà abituarsi alla vita di oggi. "Non so come ordinare un panino e non ho idea di come si usi un computer", ha detto attorniato dai familiari, al termine dell’udienza che ne ha deciso la scarcerazione da un penitenziario della Pennsylvania. Mauritania: approvata nuova legge, Paese verso definitiva messa al bando della tortura Agi, 15 agosto 2015 Il Parlamento della Mauritania ha approvato, per la prima volta nella sua storia, una legge per prevenire ogni tipo di tortura. Il provvedimento, ha spiegato il ministro della Giustizia Brahim Ould Daddah, punta tra l’altro a monitorare e vigilare sui luoghi dove si sospetta che venga applicata qualunque forma di tortura: dalle prigioni ai centri di rieducazione minorile, dai centri di detenzione temporanea alle zone di transito o posti di frontiera. La nuova legge non solo proteggerà le persone che hanno subito violenze, ma anche testimoni, familiari e tutte quelle persone che dovessero denunciare ogni genere di abuso. Il Parlamento, inoltre, legiferando sempre su questa materia, ha dato il via libera a una proposta di legge che definisce la tortura un crimine contro l’umanità. Questo progetto di legge vieta la detenzione segreta e l’estradizione di una persona che corre il rischio di essere torturata. I relatori di quest’ultimo testo, per metterne a punto i contenuti, hanno ottenuto la possibilità di recarsi in qualunque luogo dove ritengano si commettano crimini e di dialogare in privato con le presunte vittime. In passato diverse organizzazioni dei diritti umani hanno denunciato in Mauritania casi di arresti arbitrari e di torture ai danni di detenuti.