Giustizia: intercettazioni e carcere preventivo, tutti i capitoli aperti in Parlamento di Dino Martirano Corriere della Sera, 14 agosto 2015 Accelerazione di Orlando sul Csm. Istituita la commissione per la riforma del Consiglio superiore. Anche se il nuovo accordo tra Renzi e Berlusconi è ancora da scrivere, Forza Italia confinata all’opposizione e orfana del patto del Nazareno non ha mai mollato l’osso della trattativa sui temi della Giustizia con la maggioranza. E da ieri gli azzurri che sognano di contare sui temi caldi della giustizia hanno un elemento in più cui appigliarsi: è fresca di inchiostro, infatti, la firma del ministro Andrea Orlando in calce al decreto che istituisce la commissione incaricata di riscrivere la legge elettorale del Consiglio superiore della magistratura e di rendere più autonoma la commissione disciplinare che giudica i magistrati. Fin qui, tuttavia, il partito di Berlusconi è rimasto a bocca asciutta (fatta eccezione per la responsabilità civile dei magistrati), dovendo pure ingoiare un rospo con il ddl anticorruzione (sull’efficacia del nuovo reato di falso in bilancio, però, sì è poi sviluppato ampio dibattito tra i giuristi) e sulla delega fiscale. Ma ora, al tornante della legislatura, sulla tavola che il Cavaliere potrebbe apparecchiare per il premier ci sono piatti molto elaborati: limiti all’utilizzo delle intercettazioni, prescrizione, custodia cautelare, riforma radicale del Csm e, dulcis in fundo, ma questo non viene urlato, modifica della legge Severino che impone a Berlusconi (dopo la condanna per frode fiscale e la decadenza da senatore) sei anni di panchina sul campo della politica. Csm e organizzazione Orlando ha preso in visione per la firma il decreto per istituire una commissione che dovrà confezionare la nuova legge elettorale del Csm (per arginare l’influenza delle correnti dell’Anm) e la riforma della commissione disciplinare: "Chi giudica non nomina, chi nomina non giudica...", secondo lo slogan coniato da Renzi un anno fa quando il consiglio dei ministri affrontò il nodo. A Fi tutto questo piace (anche se la commissione verrà presieduta dall’ex Guardasigilli Luigi Scotti, un magistrato poco incline agli inciuci) ma l’obiettivo di Berlusconi di ottenere la separazione delle funzioni tra giudici e pm, con la creazione di due Csm, è fuori da ogni programma di governo e dello stesso Consiglio superiore, presieduto dal capo dello Stato, che sta elaborando una sua "autoriforma". Sull’organizzazione giudiziaria, quella "rivoluzionata" dal leghista Castelli e poi dal dc Mastella, un’altra commissione ministeriale è stata assegnata alle cure di Michele Vietti, centrista, ex vice presidente del Csm, con l’innesto di magistrati di rango come Natoli, Castelli, Birritteri, Anna Maria Tosto, Pina Casella e il costituzionalista Luciani. Le intercettazioni A settembre ripartono in aula alla Camera le votazioni sulla delega penale nella cui pancia viaggia un articolo che limita, con l’udienza filtro, la mole di intercettazioni che si possono allegare agli atti poi pubblicabili. I presupposti investigativi delle intercettazioni non sono compresi nella delega che invece prevede una norma (emendamento Rossomando, Pd) finalizzata a stabilire tempi obbligati per i pm (tre mesi al massimo) tra la chiusura indagini e la richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione. La custodia cautelare Dopo una riforma di segno garantista già varata dalla maggioranza, FI può trovare un solido alleato nel Ncd di Alfano che ha ripresentato alla Camera l’emendamento Pagano al ddl penale con l’obiettivo di far scattare l’azione disciplinare per i magistrati che determinano una ingiusta detenzione. Su questo fronte è molto impegnato il vice ministro Enrico Costa (Ncd). La prescrizione La legge è da mesi al palo al Senato affidata alla trattativa tra Rosaria Capacchione (Pd) e Nico D’Ascola (Ncd). In commissione, comunque, vigilano Francesco Nitto Palma e Giacomo Caliendo. Di Forza Italia. Giustizia: le quattro condizioni di Berlusconi per tornare al tavolo delle riforme con il Pd Il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2015 Secondo il Corriere della Sera l’ex Cavaliere è pronto al Nazareno bis a patto che Renzi sia disposto a: limitare le intercettazioni, rivedere l’uso del carcere preventivo, sperare le carriere dei magistrati e cambiare il meccanismo di formazione dei collegi giudicanti. Stretta sulle intercettazioni, limiti alla carcerazione preventiva, separazione delle carriere dei magistrati e cambio sulla formazione dei collegi giudicanti. Le condizioni di Silvio Berlusconi per tornare al tavolo delle riforme con il Pd e pensare a un patto del Nazareno bis passano per il suo tallone d’Achille: la riforma della giustizia. Secondo quanto ricostruito dal Corriere della Sera, l’ex Cavaliere sarebbe pronto a rimettersi alle spalle il gran tradimento di febbraio dell’elezione del presidente della Repubblica a patto che Matteo Renzi sia disposto a quattro interventi mirati. Italicum, elezione diretta del Senato e altri dettagli importano poco, il leader di Forza Italia ha altre richieste in testa. "Ipotesi giornalistiche ben argomentate", commenta il deputato Francesco Paolo Sisto. "A me non risulta niente del genere: Berlusconi e Renzi sono in vacanza e non ci sono stati incontri. È chiaro però che quelli sono temi molto sensibili per Forza Italia e che su quelli saremmo pronti a dialogare". Smentisce la ricostruzione anche il senatore Ghedini: "Non ho mai partecipato a tavoli di questo tipo in passato, né so nulla riguardo a quelli in corso. Non mi risulta sia mai iniziata una trattativa simile". Nella lista in questione ci sarebbero: un intervento per limitare la pubblicazione e l’utilizzo delle conversazioni nelle indagini, tema di cui il governo ha già intenzione di occuparsi; il ricorso al carcere preventivo solo nei casi di reati considerati "gravi"; la creazione di due Consigli superiori della magistratura, uno per chi giudica e uno per chi indaga; infine un intervento sui criteri di formazione dei collegi giudicanti. Per parlarne Berlusconi chiede di organizzare un tavolo di discussione tra i due partiti, proprio come quello ai tempi del primo patto del Nazareno gestito dall’avvocato e senatore Nicolò Ghedini e dall’ex presidente della Camera Luciano Violante. La bozza della proposta sarebbe circolata tra alcuni fedelissimi e incaricato della trattativa è, scrive il Corriere, il capogruppo azzurro al Senato Paolo Romani. In vacanza a Forte dei Marmi, abbastanza vicino geograficamente al segretario Pd per non destare troppi sospetti nei suoi spostamenti, è il portavoce incaricato di ridare il via alle danze. Berlusconi ha visto che l’aria era cambiata dopo l’elezione di Monica Maggioni alla presidenza della Rai: l’accordo tra Renzi e Fedele Confalonieri per il via libera al nome proposto a sinistra ha dimostrato che il dialogo non solo è possibile, ma serve a entrambi. Mentre la politica sotto l’ombrellone minaccia rappresaglie e barricate al rientro in Parlamento, Renzi cerca i voti che gli serviranno per far approvare la riforma del Senato a settembre. Minoranza Pd, Sel, M5S, Lega Nord e Forza Italia hanno la possibilità di far saltare il banco se compatti chiederanno l’elezione diretta della seconda Camera e il presidente del Consiglio sa che per farcela dovrà trovare una mediazione o almeno un accordo. "Ci auguriamo un approfondimento politico di Forza Italia per recuperare un legame che serve al Paese", ha detto il capogruppo Pd Ettore Rosato. "Aspettiamo pazienti", ha ribadito il vicesegretario Lorenzo Guerini. I democratici guardano a Forza Italia e ignorano la sinistra Pd: gli azzurri quella riforma l’hanno già votata una volta, prima che saltasse tutto, e potrebbero essere la sponda che richiederà meno compromessi sul testo. Anche perché Berlusconi ha in mente altro. Giustizia: Toti presenta il dossier sulle toghe "ma nessuno dica che è uno scambio…" di Tommaso Labate Corriere della Sera, 14 agosto 2015 "Prima le faccio una premessa. Nessuno deve permettersi di parlare di "scambio". Premessa fatta. "Una volta chiarito questo, se Matteo Renzi è disposto a discutere con noi in modo serio di una riforma della giustizia, noi ci siamo. E ci saremmo anche se le sue risposte sulla riforma del Senato non fossero quelle che noi vogliamo". Giovanni Toti, governatore della Liguria e consigliere politico di Silvio Berlusconi, sta facendo su e giù in macchina per la Liguria per tenere sotto controllo l’emergenza dei profughi a Ventimiglia. Durante uno spostamento in macchina, "e ci sono cinquanta gradi", parla del rischio caduta del governo Renzi e dell’attacco dei vescovi a Palazzo Chigi, delle ragioni di Matteo Salvini sull’immigrazione e del caos sul Senato. Partendo da là, da quel dossier "giustizia" di cui si parla tanto tra gli ambasciatori di Pd e Forza Italia. Toti, che cosa vuol dire discutere sulla giustizia "in modo serio"? "Separazione delle carriere dei giudici, con l’istituzione di un doppio consiglio superiore, uno per chi giudica l’altro per chi indaga. Poi, limitazione all’uso della carcerazione preventiva. E ancora, fermare i continui abusi sulle intercettazioni. Ribadisco, se Renzi vuole mettere mano a una riforma seria della giustizia, Forza Italia è già pronta. Abbiamo detto mille volte che, se si fanno le cose seriamente e non si stravolgono le riforme nel chiuso di una stanza, noi siamo un’opposizione responsabile". Secondo lei, il governo Renzi rischia di non arrivare all’anno prossimo, come sostiene Salvini? "Lo vedo molto traballante in Senato. E credo che anche Renzi stia iniziando a fare i conti con questa realtà. Detto questo, non è soltanto una questione di numeri. Riforme come quelle della costituzione, come la legge elettorale, e anche come quella della giustizia, non le puoi fare raccattando consensi nel bidone del peggior trasformismo della Prima Repubblica...". Si riferisce al soccorso dei verdiniani? "Mi riferisco al fatto che Renzi non può ergersi a uomo nuovo e poi fare come nelle peggiori democrazie. Che ha fatto finora il premier in Senato? Ha litigato con la sinistra del suo partito e ha provato a blindarsi con numeri che gli arrivano dai peggiori trasformisti all’italiana. Questa è la realtà". L’attacco della Chiesa sull’immigrazione è una spia della debolezza del governo? "Su questo ho altre idee...". Anche lei, come Salvini, pensa che il capo dei vescovi Galantino sia un "comunista"? "Se è comunista non lo so. Dico però che se si fosse risparmiato le uscite infelici avrebbe fatto il bene di tutti". Quindi, nello scontro Chiesa-governo, lei difende governo? "No. Gliela spiego così. La Chiesa deve fare la Chiesa lasciando che la politica faccia la politica. Sono due mestieri diversi. La prima è un’eccellenza morale, la seconda rappresenta l’arte del possibile". E qual è "il possibile" sull’immigrazione? "Controllo dei flussi migratori, protezione delle frontiere, espulsioni dei clandestini. Mi spiega perché ricette adottate nelle democrazie più apprezzate da noi debbano essere bollate come xenofobe? Mi spiega perché paesi come l’Australia e gli Stati Uniti si muovono seguendo queste direttrici e noi no? Salvini, sul punto, ha ragione. E a Galantino dico un’altra cosa. Se San Martino, invece che in due, avesse diviso il suo mantello in mille brandelli, non solo non avrebbe salvato mille persone dal freddo. Ma sarebbero morti anche lui e l’altro". Quindi? "Quindi va bene, anzi benissimo, la carità della Chiesa. Ma la politica ha un altro compito. Deve saperla legare alla concretezza, al massimo di quello che si può fare. E noi, come Italia, abbiamo un problema grosso con risorse molto scarse per fronteggiarlo". Non dica che anche lei vede nell’attacco della Chiesa lo stesso canovaccio di quando i vescovi presero di mira l’allora governo Berlusconi. "Non lo so, lascerei perdere mani e manine. E concentriamoci sulla realtà". Giustizia: il futuro delle toghe tra carrierismo e modernità di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2015 Su una cosa sono tutti d’accordo: nulla sarà più come prima. La futura classe dirigente della magistratura - Procuratori, Aggiunti, Presidenti di Corti e Tribunali - sarà diversa e, a cascata, diverso sarà il modello di magistrato. Ma le strade si dividono sulla qualità di questo cambiamento. Che, a seconda dei diversi punti di vista, assume le sembianze del "dirigente moderno, efficiente ed esperto" o, al contrario, "dell’uomo senza qualità, carrierista e burocrate". A dispetto del voto unanime con cui il Csm ha approvato a fine luglio la riforma della dirigenza, l’universo giudiziario è infatti spaccato e inquieto sul futuro che l’attende. Anche perché sullo sfondo c’è il problema scottante dell’autogoverno e della sua crisi di credibilità, finora rimosso per "difendersi" dal rischio di normalizzazione che ha segnato il ventennio berlusconiano ma che continua ad agitare le notti dei magistrati anche nel post-berlusconismo. Alibi o necessità, non è più tempo di rimozioni e i panni non si possono lavare solo in casa poiché il modello di giudice del futuro non è "affare" di categoria ma questione democratica. La riforma della dirigenza giudiziaria va quindi letta in chiave non solo giuridica ma anche politico-istituzionale per coglierne significato, implicazioni e proiezioni nel tessuto democratico del Paese. La cronaca della sua approvazione ha invece lasciato nell’ombra quest’aspetto o lo ha ridotto alla contrapposizione tra "arbitrio" del passato e "oggettività" del futuro, tra "trasparenza" delle nuove scelte e "vecchie logiche di appartenenza". Anche tra i magistrati il dibattito è rimasto confinato nelle mailing list, forse per paura che critiche e autocritiche possano essere cavalcate all’esterno da un revanscismo politico sempre in agguato. Nata dalla richiesta "dal basso" - trasversale a tutte le correnti - di una maggiore "prevedibilità" delle decisioni sui capi degli uffici, la riforma riflette l’indiscutibile esigenza di arginare scelte frutto di logiche spartitorie tra le correnti nonché il peso di una componente laica che, nella perenne transizione politica, si presenta sempre più spesso come blocco unitario. Ma il testo - e la sua genesi - tradisce una resa a quelle logiche: l’incapacità di emanciparsene rivendicando la responsabilità di decisioni chiare, razionali, motivate, e perciò accettabili anche se criticabili. Tradisce, insomma, la fragilità di un Csm che, per recuperare credibilità, sceglie di ingabbiarsi formalmente in un recinto, finendo così per assomigliare più a una Prefettura che a un organo costituzionale di autogoverno autonomo. Per il timore di non resistere all’impulso spartitorio, si lega le mani. E invece di un messaggio forte sulla qualità del servizio e della tutela dei diritti - che lo chiamerebbe alla responsabilità di scelte motivate su esperienze, attitudini, qualità e storia professionale dei magistrati - preferisce mandare il messaggio rassicurante di un percorso vincolato che garantisce benefici di carriera. Ed è questo messaggio - per quanto attutito dalla mediazione di Mattarella - l’aspetto politico più critico - e denso di incognite - della riforma. Fedeli al mandato sulla "prevedibilità" delle decisioni, i togati si sono messi al lavoro dall’ottobre scorso. Il primo approdo è stata la creazione di una struttura burocratica della carriera, basata su "indicatori specifici preminenti" che riducevano quasi a zero i margini di valutazione del Csm, tagliando fuori, ad esempio, profili professionali eccellenti se privi di un curriculum strettamente aderente a quegli indicatori. L’impostazione iniziale è stata poi mitigata da una serie di correzioni, molte suggerite dal ministero della Giustizia e soprattutto dal Quirinale, preoccupato che l’eccessivo dettaglio della proposta consegnasse, "mani e piedi", il Csm ai Tar. La "tavola" di regole approvata il 31 luglio è dunque figlia di una mediazione che vincolerà le scelte dei prossimi anni, a cominciare dalle 200 nomine in agenda da qui alla fine del 2015, tra cui la Procura di Milano. E come ogni mediazione, al di là delle dichiarazioni ufficiali, scontenta tutti: per i fautori dell’impostazione iniziale, la riforma è stata annacquata "dai poteri forti della magistratura" e quindi, nei fatti, cambierà poco o nulla; i critici temono invece che, poiché nei prossimi tre anni le nuove regole saranno applicate da chi le voleva più rigide, nei fatti si consoliderà un’interpretazione più burocratica di quella voluta dalla mediazione. "Non c’è alcun rischio di questo genere" assicura Claudio Galoppi togato di Magistratura indipendente nonché relatore della riforma. Ma Giuseppe Cascini, pm romano con una storia di leader in Magistratura democratica e nell’Anm, vede solo il "trionfo della mediocrazia e della deresponsabilizzazione del Csm". "Anzitutto le nuove regole non disegnano un profilo unico di dirigente - puntualizza Galoppi -perché i requisiti attitudinali variano per tipologia e dimensioni dell’ufficio. Per i piccoli e medi, che sono l’85% del totale, abbiamo esaltato il requisito del lavoro giudiziario e di come è stato svolto, il che garantisce la massima apertura all’accesso: l’esatto contrario del cursus honorum di cui siamo stati accusati falsamente". Galoppi spiega che se finora un presidente di sezione aveva un titolo in più per fare il presidente di Tribunale, ora sarà sullo stesso piano di un giudice "semplice" che, però, dimostri di aver contribuito in modo efficiente all’organizzazione dell’ufficio. Per il restante 15% degli uffici, quelli di grandi dimensioni, viene invece richiesta una "specifica" capacità manageriale e un’esperienza già maturata in un ufficio direttivo, con il conseguimento di determinati risultati. "Abbiamo quindi creato un sistema di "statuti differenziati" a seconda dei diversi mestieri del dirigente" dice Galoppi, ricordando, tra le novità, che nel giudizio di comparazione - in cui finora vinceva il migliore - adesso si farà riferimento anche a indicatori attitudinali specifici "che avranno un peso maggiore". Giustizia: Unione Camere Penali; regolamento di specializzazione premia nostre battaglie Adnkronos, 14 agosto 2015 "Da dieci anni ci battiamo per garantire alla società un avvocato qualificato". "Va all’Unione delle camere penali italiane, insieme ad altre associazioni specialistiche, il merito di questa vittoria che realizza finalmente l’affermazione della piena tutela dei diritti dei cittadini". Lo afferma in una nota l’Unione delle camere penali italiane (Ucpi) dopo la firma, ieri, del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, del regolamento "per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista". "Sono oltre dieci anni che ci battiamo - sottolinea l’Ucpi - per garantire alla società un avvocato qualificato e deontologicamente attrezzato, un avvocato consapevole del ruolo di garante dei diritti delle persone, un avvocato in grado di imporre il rispetto delle regole del gioco". Il regolamento ministeriale sulla specializzazione forense recepisce "tutte le richieste dell’avvocatura penalista, nessuna esclusa, e non è un risultato banale" perché, precisa la nota, "in quest’ultimo anno, quotidianamente, i nostri contenuti hanno rischiato di vacillare sotto le spinte di istanze tese a minare da un lato il ruolo delle associazioni specialistiche, dall’altro l’unitarietà della specializzazione del penalista". Una "difficile battaglia" nella quale l’Unione delle camere penali ha "avuto sempre accanto il Consiglio nazionale forense che, da ultimo, con il presidente Mascherin ha condiviso ogni nostra iniziativa, in piena sintonia", spiega la nota. "Non è stato infatti facile - prosegue - in un momento di grave crisi dell’avvocatura, convincere la politica e prima ancora l’avvocatura medesima che il tempo dell’avvocato che sa fare tutto è ormai finito e che sarebbe stato anzi dannoso protrarne la sopravvivenza; non è stato facile, ma ce l’abbiamo fatta. Dobbiamo esserne, a buon diritto, orgogliosi", conclude la nota. Cnf: bene Orlando su specializzazioni forensi, ora monitoraggio Il Consiglio nazionale forense, dopo la firma, ieri, da parte del ministro della Giustizia Andrea Orlando, del decreto che introduce e disciplina le specializzazioni forensi in attuazione della legge di riforma dell’ordinamento professionale, sottolinea "l’importanza delle specializzazioni come processo di sempre maggior qualificazione della professione di avvocato a garanzia dei cittadini" e dà atto al ministro Orlando "di aver compreso e condiviso l’importanza di tale processo". "Ora - precisa il Cnf in una nota - si tratta di monitorare l’efficacia della disciplina introdotta con il decreto ministeriale anche al fine di valutare con il ministro eventuali futuri tagliandi". Giustizia: intervista a Frank Cimini "beato chi cerca giustizia perché sarà giustiziato" di Stefano Lorenzetto Il Giornale, 14 agosto 2015 Ex giornalista del "Manifesto" lancia un sito per tenere sotto tiro i magistrati. "Fui il primo al mondo a venir querelato da Di Pietro e dal pool Mani pulite". Nonostante le generalità da boss mafioso italoamericano, peraltro conformi al luogo di nascita (New Haven, Connecticut), Frank Cimini è riuscito a vivere per 36 anni a piede libero all’interno del Palazzo di giustizia di Milano, esercitandovi l’arte di cronista giudiziario. Il prolungato contatto con i magistrati lo ha indotto a coniare una massima su calco del Discorso della Montagna, il che è sorprendente, trattandosi di un ateo: "Beato chi ha fiducia nella giustizia perché sarà giustiziato". Forte di questo convincimento, ha fondato su Internet un seguitissimo blog dal titolo coerente, Giustiziami.it, in cui la sigla automobilistica del capoluogo lombardo trasforma il potere del diritto in un imperativo robespierriano. Nell’avventura ha coinvolto Manuela D’Alessandro, che da otto anni batte il tribunale per conto dell’agenzia Italia: "Bravissima. Insieme con Jari Pilati, collega della Rai, la mia più degna erede. Eppure è ancora precaria, l’Agi non si decide ad assumerla con regolare contratto". Giustiziami.it è cliccatissimo da quando ha narrato la guerra fra il procuratore generale Edmondo Bruti Liberati e il pm Alfredo Robledo, meritandosi una menzione speciale del premio Guido Vergani. Lo scoop più sapido servito di recente riguarda il processo iniziato il 19 giugno a carico di Selvaggia Lucarelli, la blogger transitata dalle pagine di Libero a quelle del Fatto Quotidiano, ribattezzato Manette Daily da Cimini. Una brutta storia che vede alla sbarra anche la giornalista Guia Soncini e Gianluca Neri, alias Macchianera, curatore dell’omonimo blog, e che sulla stampa sarebbe passata sotto silenzio se Giustiziami.it non avesse pubblicato sul Web capi d’imputazione e retroscena. Secondo l’accusa, ci sarebbero in ballo password violate e accessi abusivi alle caselle di posta elettronica di Mara Venier, Sandra Bullock, Scarlett Johansson, Federica Fontana e altre star, per conseguire "un profitto consistente nella vendita di fotografie e di informazioni o conversazioni personali" o "comunque al fine di arrecare danno a Elisabetta Canalis". Irrimediabilmente in preda alla sindrome di Stoccolma, invece di godersi la pensione agguantata dopo un tormentato percorso professionale, Cimini continua a frequentare il fascistissimo tempio razionalista in corso di Porta Romana, eretto negli anni Trenta da Marcello Piacentini, l’architetto prediletto dal Duce. Del primo giorno in cui vi mise piede, ricorda la parola d’ordine (ancor oggi richiesta in sala stampa a tutti, uomini e donne indistintamente) coniata da Annibale Carenzo, il decano dei cronisti di giudiziaria, che ha lavorato una vita per l’Ansa e che a 82 anni ancora bazzica il tribunale dal lunedì al venerdì: "Come ce l’hai?". La risposta di rito fu purtroppo usurpata da Umberto Bossi in un comizio pronunciato nel febbraio 1991 a Pieve Emanuele: "La Lega ce l’ha duro". Ciò consentì allo sfrontato Cimini di chiedere allo stesso Bossi, reduce da un interrogatorio sulle tangenti Enimont: "Ma fra lei e Antonio Di Pietro, chi ce l’ha più duro?". La risposta del segretario leghista, madido di sudore, fu: "Ce l’abbiamo duro uguale". Ecco, se c’è una benemerenza di cui Frank Cimini va orgoglioso è quella di essere stato il primo giornalista al mondo a venir querelato dal pubblico ministero molisano e dall’intero pool di Mani pulite, nelle persone di Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D’Ambrosio, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo. "Era il 28 aprile 1993. Avevo scritto che Cesare Romiti non era stato arrestato perché i manager della Fiat si erano accordati con i magistrati per non finire in galera. Il pool reagì con causa civile e richiesta di danni: 400 milioni di lire. Vinse in primo grado. L’astuto Di Pietro preferì incassare un adeguato indennizzo dal mio editore. I suoi colleghi persero in appello. Come sia finita in Cassazione, non lo so". Come finì dal Connecticut a Milano? "Mio nonno Francesco andò negli Stati Uniti a estrarre carbone. Nel 1930 mio padre Luigi emigrò a sua volta da Minori, costiera amalfitana, a New Haven, per fare il parrucchiere. Nel 1952 tornò al paesello e conobbe Trofimena. Si sposarono e partirono per gli Usa, dove l’anno dopo nacqui io. Rimanemmo là fino al 1959, quando papà rientrò per sempre in patria. Nel 1975, con 70.000 lire in tasca, salii a Milano perché avevo vinto un concorso nelle Ferrovie". Qualifica? "Manovale. Ma, più che per i treni, stravedevo per i giornali. Ero sempre nella redazione del Manifesto, in via Valtellina. Alla fine il povero Walter Tobagi, che era mio amico, mi suggerì di fare causa. Vinsi e fui liquidato con 400.000 lire al mese per due anni". Stipendiato per non lavorare. "Militando nella sinistra extraparlamentare, cominciai a occuparmi di carceri. Entrai in Soccorso rosso. Dirigevo Controinformazione. Dopo l’arresto del responsabile Emilio Vesce, prestai anche la firma ad Autonomia, la testata del gruppo padovano di Toni Negri". Ma nei giornali veri come ci arrivò? "Con una sostituzione estiva di due mesi al Gazzettino di Venezia, diretto dal democristiano Gianni Crovato. E poi con un contratto come corrispondente da Milano per l’Aga, l’agenzia di stampa legata a Confindustria". Bella serpe in seno, si sono allevati. "Scopro la giudiziaria grazie a Marco Borsa, che mi assume nel neonato Italia Oggi. Primo scoop: un paginone dedicato a ex militanti di Lotta continua che aprivano locali sui Navigli, tipo Le Scimmie, pagando in nero i dipendenti. Pasquale Nonno nel 1987 mi assume al Mattino di Napoli, dove rimango, con base a Milano, fino al 2012". Il suo barbone è anarchico o cheguevariano? "Tutt’e due. Non lo taglio dal 1986". Come manovale prestato al giornalismo che studi ha avuto? "Ho abbandonato il liceo scientifico in quarta. Per iscrivermi all’albo ho dovuto sostenere l’esame di cultura generale. E dire che Di Pietro è meno intelligente di me. Stiamo parlando di un arrampicatore sociale che s’è trovato al posto giusto nel momento giusto. Ambiva a far carriera ed è stato usato dalla sua corporazione per accontentare le masse, vogliose di vedere in prigione i politici ladri. La magistratura ne ha approfittato per prendersi il potere. Dopodiché, Di Pietro si è candidato guarda caso nell’unico partito uscito indenne dalle sue indagini. I magistrati non sono meglio dei politici. Anzi, la mia personale opinione, dopo averli visti all’opera, è che siano molto peggio". Se ho ben capito, secondo lei certa magistratura non sarebbe faziosa per pregiudizio politico bensì per avidità di potere. "Esatto. Non c’entrano né le toghe rosse né l’ideologia. I magistrati puntano solo ad avere un potere superiore a quello dei parlamentari. Per conquistarlo, hanno ottenuto lo stravolgimento dello stato di diritto con la legge sui pentiti, una vergogna che ha esteso i suoi effetti perversi dai processi di mafia a quelli politici. Persino Alfredo Rocco, guardasigilli del governo Mussolini e autore del codice penale tuttora vigente, era contrario alle leggi premiali perché sosteneva che non bisogna favorire la delazione nemmeno fra scellerati. Che poi ‘sti pentiti sono furbissimi. Leggono i giornali, guardano la tv, capiscono al volo ciò di cui i magistrati hanno bisogno e gli scodellano su un piatto d’argento che dietro le stragi c’erano Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri". Ha seguito tutte le traversie giudiziarie del Cavaliere? "Fin dai tempi della contesa con Carlo De Benedetti per la Mondadori. Avevo chiesto che fosse affidato in prova ai servizi sociali presso il nostro sito. Almeno in sala stampa ci saremmo divertiti a parlare di figa. Ma lui ha preferito andare dai vecchietti". Dovrebbe moderare il linguaggio. "È lo stesso invito che mi rivolse Bruti Liberati, sorridendo, in giorno in cui gli dissi che stava processando Berlusconi per un pelo di quella cosa lì". Ha un buon rapporto con il procuratore capo di Milano? "Lo conosco da quando simpatizzava per Il Manifesto. Però non mi ha invitato alla festa di compleanno nel giardino di casa sua, dove c’era solo la metà dei Pm, e senza coniugi, perché tutti non ci stavano. Si è bevuto benissimo, mi dicono". Giustiziami.it descrive il Palazzo di giustizia come un lupanare. "Racconto ciò che ho visto. Come in tutti i luoghi di sofferenza, in tribunale si tromba. Anche negli ospedali, sa?". So, so. "C’era un collega che tutti i pomeriggi fornicava nella cabina di regia della postazione Rai in sala stampa. E quante chiavate in camera di consiglio, dove il giudice presidente, il giudice a latere e i sei giurati popolari hanno a disposizione le brande per quei processi in cui la sentenza va per le lunghe". Non starà romanzando? "Potrei farle i nomi di un presidente che copulò in camera di consiglio con la sua giudice a latere, ma a che servirebbe? Mica li può pubblicare. È accaduto anche fra due giudici, uomo e donna, in un processo di primo grado a Berlusconi. Non lo dica all’interessato". E lei? "Ho sempre resistito alle tentazioni, a cominciare da quella per una Pm dai capelli ramati che anni fa, in Sardegna, ebbi la fortuna di vedere in bikini. Proprio una bella topa". Qui finisce con una querela. "Se usa l’imperfetto, scrivendo che "era" una bella topa, può giurarci". Una pagina del sito s’intitola Camera di coniglio anziché di consiglio. "Ci piace lo sberleffo. Ma i contenuti sono seri. Siamo stati gli unici a scrivere che la Procura ha applicato una moratoria sull’Expo, con tanti saluti all’esercizio obbligatorio dell’azione penale. Eppure si tratta di un’inchiesta ben più rilevante di Mafia capitale. È evidente che, a Expo in corso, i magistrati hanno preferito astenersi per carità di patria in base a una valutazione di tipo politico". Che cosa glielo fa dire? "Non lo dico io. Se lo dicono fra di loro. Di recente la Procura di Brescia ha prosciolto Bruti Liberati per aver archiviato l’esposto di un esponente della Lista Bonino-Pannella, scrivendo che "alcune remore del procuratore appaiono caratterizzate da valutazioni di natura squisitamente politica". Più chiaro di così". Esiste una categoria che abbia più potere dei magistrati? "No, neppure l’alta finanza, perché loro sono gli unici che possono sbatterti in galera e tenertici a vita. Usano i codici come se fossero carta igienica. Colpa della sinistra, la quale da decenni pensa che il mondo debba cambiarlo la magistratura. Ma quando mai il diritto ha modellato la società? Tocca alla politica farlo. Invece la politica è assente. È un gravissimo deficit di democrazia". Mi sembra puerile ritenere che le toghe spadroneggino solo in Italia. "Infatti la giustizia ha i suoi problemi ovunque. Ma la politicizzazione che esiste da noi non ha paragoni in Occidente. Con l’aggravante che viene negata. Negli Stati Uniti i magistrati sono eletti, quindi rispondono al popolo. Ma qui a chi rendono conto, visto che sono assunti per concorso?". Rimedi? "Abolire l’obbligatorietà dell’azione penale e separare le carriere di pubblici ministeri e giudici. Campa cavallo". L’avrà pure incontrato un magistrato simpatico, in tanti anni di lavoro. "Antonio Bevere. Adesso è in Cassazione. A Milano invitava i cronisti a casa sua e ci cucinava pizza e pasta". Che doti deve avere un cronista giudiziario? "Deve pensare con la propria testa, essere autonomo dai magistrati. Oltre a separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, bisognerebbe separare quelle di magistrati e giornalisti, che spesso procedono di pari passo. Tant’è che i processi si celebrano prima sulla stampa che in tribunale". Comoda la vita del cronista che può attingere ai faldoni della Procura. "Basterebbe una riformina semplice semplice: se da una Procura escono carte che sono a disposizione della sola accusa, il magistrato titolare dell’indagine subisce un procedimento disciplinare davanti al Csm. E poi si dovrebbe proibire la pubblicazione dei nomi dei Pm sui giornali. Così cesserebbero le smanie di protagonismo di certe toghe". Che cosa consiglia a un giovane agli esordi in questa professione? "Di avercelo duro". Giustizia: il poliziotto rambo ammanetta dietro la schiena di Mauro Ravarino Il Manifesto, 14 agosto 2015 Forze dell’ordine. La rimilitarizzazione dei corpi dopo l’illusione della riforma democratica. Pestato, brutalmente immobilizzato, Federico morì "riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena". Aldrovandi è solo uno dei tanti casi di violenze e abusi di polizia. Dino Budroni, Aldo Bianzino, Stefano Cucchi, Michele Ferrulli, Riccardo Magherini, Riccardo Rasman e Giuseppe Uva sono solo i più eclatanti degli ultimi dieci anni. Persone che, sotto la custodia dei tutori della legge, hanno trovato la morte, vittime dello Stato. C’è spesso un filo ricorrente in queste storie: l’ammanettamento dietro la schiena. Non direttamente la causa dei decessi ma spesso corresponsabile. Anche Andrea Soldi, già senza forze e con una crisi respiratoria in corso, è stato ammanettato dietro la schiena e così caricato sull’ambulanza. È una pratica diventata consuetudine da vent’anni a questa parte. Esiste una fotografia, che mai si è sbiadita nel tempo e che ha "sdoganato" questa modalità nell’immaginario pubblico: è l’arresto di Giovanni Brusca, soprannominato in siciliano u verru (il porco), oppure lo scannacristiani per la sua ferocia, il 20 maggio del 1996. Negli anni è diventato un approccio abituale da parte delle forze dell’ordine, dal pericoloso mafioso allo studente in corteo. Anche quando assolutamente non necessario. Non è raro assistere, durante manifestazioni, al fermo di ragazzini buttati a terra, ammanettati dietro la schiena, con almeno tre agenti sopra che li immobilizzano. Una pratica rischiosa per la salute del fermato. Come mai è diventata prassi? Se si ricercano vecchi scatti che immortalano l’arresto di terroristi spesso fanno saluti politici con le manette ai polsi. L’ammanettamento dietro la schiena è figlia dell’involuzione iniziata nei Novanta, gli anni di un’americanizzazione della polizia italiana, di una rimilitarizzazione dopo l’illusione della riforma del 1981, che fu il tentativo di democratizzare un corpo facendolo diventare istituzione. Ecco, il filo che porta a Genova 2001. Si radicò un’impostazione di stampo americano, che diede il via all’era dei superpoliziotti, incarnati dalla figura del futuro capo della polizia, Gianni De Gennaro. La sua inarrestabile scalata iniziò nel 1992 alla Dia e si coronò nel 2006 con la Medal of Meritorious Achievement dell’Fbi, attribuita per la prima volta a un rappresentante di polizia fuori dagli Usa. Nei primi 90, un’anomala efficienza delle volanti di polizia a Bologna (gli arresti erano aumentati del 75%) fu elogiata dai vertici dell’amministrazione, che decisero di organizzare, tra il ‘91 e il ‘92, al Jolly Hotel un ciclo di lezioni teoriche proprio per insegnare nuovi modelli organizzativi e tecniche. "Contestammo - racconta Luigi Notari, all’epoca segretario provinciale del Siulp - i corsi: quell’efficienza corrispondeva a un discutibile rambismo. C’erano stati comportamenti insoliti, che poi, dopo i fatti della Uno bianca, furono riferiti alla commissione d’inchiesta interna". Infatti, per la cronaca Roberto Savi, componente della banda, era un operatore delle volanti a Bologna, formatosi in quel nuovo clima. Allora, come oggi relativamente al caso di Andrea Soldi, il problema non è quello delle "mele marce", che si comportano senza seguire i protocolli, ma la formazione e la mentalità delle forze dell’ordine. Giustizia: caso Andrea Soldi; la chiamata dal 118 "lo hanno fatto soffocare" di Elisa Sola Corriere della Sera, 14 agosto 2015 Storia disumana, qualcuno pagherà? Un audio dei soccorritori del 45enne morto mercoledì dopo essere stato caricato a forza su un’ambulanza e portato in ospedale per un ricovero forzato: "Intervento invasivo". "È stato un intervento un po’ invasivo… lo hanno fatto un po’ soffocare". È racchiusa in cinque telefonate acquisite dai Nas la conversazione che potrebbe dare la svolta all’inchiesta sulla morte di Andrea Soldi, il 45enne schizofrenico morto il 5 agosto pochi minuti dopo essere stato prelevato dai vigili in piazza Umbria a Torino per un Tso. A parlare è l’autista dell’ambulanza che ha trasportato Andrea all’ospedale Maria Vittoria. Un ragazzo della Croce rossa di Beinasco. Quel giorno c’era lui alla guida della 291, il veicolo in "seconda partenza" avvisata dal 118 dopo le 14 per un intervento urgente. È un testimone importante perché ha visto tutto. E ha provato a reagire, suo malgrado, invano. Dopo che Andrea è stato fermato e ammanettato, l’uomo ha chiamato la centrale per riferire cosa aveva visto. E la sua preoccupazione. Quando ha telefonato, era agitato per due motivi. Perché aveva appena assistito a un intervento da parte degli agenti non del tutto ordinario, piuttosto "violento". E perché sarebbe stato costretto a fare qualcosa che non dovrebbe fare e che non rientrava nel protocollo di soccorso: portare un paziente in crisi respiratoria a pancia in giù e con le manette. Un paziente lasciato solo. "Costretto a caricarlo a pancia in giù" "È stato un po’ invasivo..." dice il ragazzo alla centralista del 118, la dottoressa con cui era già in contatto dall’inizio dell’operazione. Il riferimento è alla manovra di contenimento con cui i tre vigili hanno immobilizzato Andrea Soldi, prelevandolo dalla panchina su cui era seduto e ammanettandolo. "Lo hanno preso al collo... lo hanno fatto un po’ soffocare" sottolinea il testimone, che a un certo punto rivela: "Mi hanno detto di caricarlo, ma siccome aveva le manette ed era a pancia in giù non volevo farlo e ho detto di no. Ma loro me l’hanno ordinato e io l’ho lasciato così, a pancia in giù". Andrea, già in stato di difficoltà respiratoria e probabilmente cardiaca, non avrebbe potuto essere sistemato prono sulla barella, per di più ammanettato, perché questa posizione avrebbe contribuito a impedirgli di respirare. E questo l’autista lo sapeva bene. Alla polizia giudiziaria del procuratore Raffaele Guariniello, che lo ha sentito, il volontario della Croce rossa ha dichiarato: "Ero scandalizzato perché mi hanno costretto a caricare una persona contro le nostre procedure operative… io ho tentato di fermali dicendo loro: ma cosa state facendo? Ma loro mi hanno costretto a fare una cosa che non volevo…". Così Andrea Soldi ha trascorso gli ultimi minuti della sua esistenza. In affanno, rosso in volto, schiacciato dal suo stesso peso - 120 chili - su una barella, senza la possibilità di girarsi o anche solo di muoversi. Senza nessun medico a bordo in grado di rianimarlo. "Se lo avessero messo di fianco", ha spiegato il soccorritore agli inquirenti, sarebbe stato ancora possibile mettergli la mascherina dell’ossigeno per farlo respirare. "Il mondo è dei prepotenti" Ma c’è un altro particolare rilevante riferito dal teste. Quando la barella è entrata in ospedale, i vigili hanno chiesto all’autista del 118 una copia del verbale che aveva redatto a bordo dell’ambulanza. Un foglio in cui veniva descritta l’operazione effettuata. "Ho detto loro che non potevo dargliela io e subito, che dovevano rispettare le procedure" confida l’autista alla centralista del 118 durante l’ultimo colloquio intercorso tra i due. "Ma uno degli agenti - aggiunge - col cellulare ha fotografo il foglio lo stesso". "Il mondo è dei prepotenti", risponde la dottoressa della centrale, che pochi istanti dopo avvisa il volontario della sorte subita da Andrea: "Ormai è morto". "Urca!" esclama il ragazzo, che agli inquirenti spiegherà come la richiesta dei vigili di ottenere subito il suo verbale fosse, a suo modo di vedere, un gesto aggressivo dettato dalla necessità di "volersi parare", di cercare elementi per cautelarsi. Come se avessero intuito di avere esagerato. "Vediamo adesso se la famiglia si muoverà", conclude la centralista dal 118 prima di congedarsi, riferendosi a una ipotetica azione legale dei parenti di Andrea nei confronti dei vigili e dello psichiatra che ordinò il Tso. Testimoni increduli Nelle prossime ore i Nas sentiranno altre due testimoni: le due ragazze volontarie che erano a bordo del mezzo della Croce rossa insieme all’autista. Sono decine i verbali che i Nas hanno scritto negli ultimi cinque giorni, anche a mano, con carta e penna, direttamente in piazza Umbria, dopo aver sentito chi, per l’ultima volta, aveva visto Andrea Soldi vivo. Non ha urlato Andrea, quando i vigili lo hanno accerchiato e stretto. Ha emesso un unico gemito, soffocato, dopo essere stato stretto al collo e avere perso i sensi. Prima di precipitare a terra, a faccia in giù. "Era appena venuto da me a comprare una bottiglietta d’acqua - precisa la barista del locale che Andrea frequentava di giorno - lui beveva solo acqua. Non alcol. Poi è andato alla panchina. Era tranquillo. Abbiamo visto i vigili arrivare e abbiamo pensato tutti: ma non ce l’avranno mica con Andrea?". "Ma lui era buono. Io lo facevo giocare coi miei figli". "Chiedeva sempre sigarette - aggiunge un secondo teste sentito dai Nas direttamente nel locale - ed era educato. Quando aveva i soldi per comprarne un pacchetto, le restituiva a tutti". Mentre i vigili trattenevano Andrea dalle braccia e lo stringevano da dietro la schiena all’altezza del collo e del petto, un carabiniere in pensione di 76 anni si era affacciato dalla finestra. Aveva gridato: "Smettetela! Così lo ammazzate". "Vuoi venire tu a fare il nostro lavoro?" è stata la risposta che uno degli agenti gli ha dato. La sorella: rancore no, giustizia sì "C’è tanto dolore, ma non c’è rancore, neppure dopo ciò che abbiamo appreso oggi. Chiediamo giustizia e la magistratura sta facendo bene". Maria Cristina, la sorella di Andrea Soldi prende a prestito le parole dell’omelia del funerale: "Io prego anche per coloro che sono indagati per la morte di Andrea e dico: Padre perdonali perché non sanno quello che fanno, ma ciò non toglie che io, come mio padre, vogliamo giustizia. E a chiedere giustizia sono anche gli amici che sono stati vicini ad Andrea. Quelli che lo hanno conosciuto ai giardinetti seduto su quella panchina che era la tua seconda casa". Sulla telefonata registrata tra il conducente dell’ambulanza e l’operatrice del 118, interviene Giovanni Maria Soldi, il legale della famiglia: "Il contenuto conferma i nostri sospetti e le dichiarazioni di numerosi testimoni. L’acquisizione dell’audio e di altri che possono essere intercorsi tra i vigili e la loro centrale era stato sollecitato al magistrato anche da noi". Giustizia: caso Andrea Soldi; una storia di disumanità, i colpevoli pagheranno? di Marco Imarisio Corriere della Sera, 14 agosto 2015 Il caso del Tso di Andrea Soldi, la chiamata dal 118: "Lo hanno fatto soffocare" "Il mondo dei prepotenti". Le urla di quel ragazzo malato che comincia a morire su una panchina appena fuori dal centro di Torino non possono essere coperte dai tempi lunghi della giustizia. E neppure, peggio, dal torpore e dalla distrazione d’agosto. Quel che è accaduto negli ultimi minuti di vita di Andrea Soldi è abbastanza chiaro per non nascondersi dietro ad attese burocratiche e un po’ pelose. Dalle conversazioni degli addetti ai lavori emerge una disumanità quasi di routine nei confronti dei deboli, di quelli che non ce la fanno, che sono considerati un peso. Le responsabilità penali verranno equamente distribuite. Ma quando si tratta del rapporto tra gli ultimi e lo Stato, serve anche altro, rimettere tutto nelle mani della Procura spesso è una comoda scorciatoia se non un alibi. I vigili urbani responsabili di quel Tso sono stati trasferiti ad altro incarico. Nessuno qui intende fare esercizio di accanimento nei loro confronti. Quel provvedimento è dettato solo da un giusto minimo di decenza. Ci vorrebbero invece parole forti da parte dell’amministrazione pubblica, che chiariscano e spieghino qual è il livello di preparazione, e rispetto, richiesto alle persone che si occupano degli interventi su chi ha difficoltà psichiche, quali sono competenze e poteri del medico chiamato in causa. Chi lavora per lo Stato deve essere al servizio di tutti i cittadini, nessuno escluso. Non esiste una serie A o una serie B. La vicenda del Tso di Torino non è un tormentone da delitto estivo. È qualcosa di molto più serio, perché rivela mancanza di attenzione verso le vite degli altri, è uno spiraglio dal quale si intravede qualcosa che mai vorremmo vedere, le forme di sopruso esercitate nei confronti di chi è più debole, ma non per questo dovrebbe avere minori diritti davanti alle istituzioni, anzi. Ecco perché non è giusto nascondersi dietro il lavoro dei magistrati. Quel ragazzo gigantesco che passava le giornate a fare versi in una piazza assolata doveva avere un trattamento diverso da parte di uno Stato che deve servire i cittadini e non commettere soprusi voluti o meno verso chi non è importante, è "matto", non può neppure protestare. Le vite umane contano, sempre. Altrimenti si finisce per dare ragione alla sconsolata operatrice del 118. E non si può accettare l’idea di uno Stato dove i deboli muoiono senza un perché e vincono sempre i prepotenti. Giustizia: caso Garlasco; 8 anni dopo Alberto Stasi è disoccupato e "presunto colpevole" Agi, 14 agosto 2015 Otto anni dopo non ci sono ancora certezze giudiziarie su chi abbia assassinato Chiara Poggi in quella tersa giornata estiva a Garlasco. Il 13 agosto di quest’anno rappresenta comunque una data significativa in uno dei più intricati casi di cronaca nera perchè è il primo dalla morte della fidanzata che Alberto Stasi trascorre da condannato. La Corte d’Assise d’Appello di Milano gli ha inflitto 16 anni di carcere col rito abbreviato il 17 dicembre 2014 dopo che la Cassazione aveva cancellato due precedenti assoluzioni: una pronunciata dal gup di Vigevano Stefano Vitelli nel 2009, l’altra dai giudici milanesi di secondo grado nel 2011. L’ex studente bocconiano vive un momento molto delicato anche perchè, nei giorni successivi alla condanna, si è chiuso il suo rapporto di lavoro con lo studio commercialista in cui era impiegato. I clienti dell’ufficio non avrebbero gradito di essere seguiti da un professionista condannato per omicidio. Disoccupato, dunque, e con scarse possibilità di trovare un altro impiego in attesa del processo la cui data d’inizio la Suprema Corte deve ancora fissare. Forse in autunno, ma non è escluso che si arrivi al 2016. Dopo la condanna, la Procura Generale non ha preso in considerazione la possibilità di arrestarlo tenendo conto che il giovane, sempre presente alle udienze, non ha mai manifestato la minima volontà di allontanarsi dall’Italia. A Stasi non resta che sperare nel torrenziale ricorso presentato alla Cassazione dai sui avvocati, 360 pagine firmate dal professor Angelo Giarda affiancato dal figlio Fabio e dall’avvocato romano Antonio Albano, nuova entrata nel collegio difensivo. Un ricorso l’ha presentato anche il sostituto pg Laura Barbaini che chiede il riconoscimento dell’aggravante della crudeltà, esclusa dalla Corte d’Appello, e quindi la condanna a 30 anni di carcere. Per la difesa, si legge nel ricorso, la sentenza di condanna è "gravemente viziata, oltre che costellata di macroscopiche violazioni sia dei diritti fondamentali dell’imputato che della legge processuale penale". "Emerge un’approssimazione decisoria - scrivono i legali impugnando "tutti i capi e tutti i punti della sentenza" - che pare il frutto di un convincimento del tutto personalistico, maturato isolatamente nella mente del giudicante più che nel corso del processo di rinvio, che si scontra, però, irrimediabilmente con le risultanze probatorie". Se per Stasi questo è il 13 agosto peggiore da otto anni a questa parte, i genitori e il fratello di Chiara (cui è stato riconosciuto un risarcimento di 1 mln), nell’incancellabile dolore, hanno perlomeno il sollievo di avere dato un nome a chi ha distrutto la vita di una ragazza di 26 anni e la loro. E quel nome è l’unico sulla cui colpevolezza hanno sempre giurato, a parte un primo momento di incertezza all’inizio delle indagini. Misure cautelari: come applicare dopo la riforma del 2015 le misure più restrittive di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 2 luglio 2015 n. 28153. Con una sentenza riccamente argomentata, la Cassazione (sezione IV, 18 giugno 2015- 2 luglio 2015 n. 28153, Cassano) affronta la tematica dello ius superveniens introdotto in materia di misure cautelari dalla legge 16 aprile 2015 n. 47. Il tema è quella della rilevanza possibile, trattandosi di norme processuali, delle più rigorose previsioni rispetto a misure cautelari applicate nel vigore della precedente disciplina. Il principio - La Corte ha affermato che la norma di cui all’articolo 274 del Cpp, che definisce le esigenze cautelari, appartiene alla sfera del diritto processuale e soggiace quindi alla regola del tempus regit actum, non potendosi dunque ritenere carente di motivazione il provvedimento che abbia trascurato di esaminare profili delle esigenze cautelari non contemplati dalla norma vigente nel momento in cui è stato emesso. L’affermazione è stata resa in una vicenda in cui la misura cautelare personale era stata emessa ipotizzando il rischio "concreto" di recidiva ex articolo 274, comma 2, lettera c), del Cpp, prima del novum normativo di cui alla legge 16 aprile 2015 n. 47, che ha successivamente richiesto anche l’ "attualità" del pericolo concreto che l’indagato commetta gravi delitti della stessa specie di quello per cui si procede, aggiungendo che l’attualità e concretezza del pericolo "non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede": la Corte, sulla base delle principio di cui sopra, ha ritenuto non censurabile il provvedimento all’epoca adottato in modo coerente rispetto al quadro normativo all’epoca vigente. Il principio è stato ribadito anche dalla sentenza sempre della Sezione IV, 3 luglio 2015- 6 luglio 2015 n. 28640, laddove in particolare, a supporto, si sono richiamati i principi affermati dalle Sezioni unite, sentenza 31 marzo 2011- 14 luglio 2011 n. 27919, Casini. La tematica, senz’altro delicata, è stata caratterizzata da plurimi, articolati interventi della giurisprudenza. Gli altri interventi giurisprudenziali - In particolare, si è autorevolmente affermato in proposito che, in tema di successione di leggi processuali nel tempo, il principio secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronunzia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato, non costituisce un principio dell’ordinamento processuale, nemmeno nell’ambito delle misure cautelari (cfr. Sezioni unite, 31 marzo 2011, Ambrogio). E si è ulteriormente precisato che il principio di necessaria retroattività della disposizione più favorevole, affermato dalla sentenza Cedu del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola contro Italia, non è applicabile in relazione alla disciplina dettata da norme processuali, che è regolata dal principio tempus regit actum (Sezioni unite, 17 luglio 2014, Pinna). È però anche vero che il principio dell’applicabilità della legge di favore è stato ritenuto applicabile alla norma cautelare che, al di là della sua collocazione formale, produce effetti afflittivi per l’indagato/imputato, qualora la modifica successiva, incidendo sulle condizioni di applicabilità, possa determinare il venir meno di tali effetti (Sezione V, 10 giugno 2014, Proc. Rep. Trib. Roma in proc. Florio; per utili spunti, anche Sezione VI, 8 ottobre 2013, Staffetta). Le conclusioni - In questa ottica, volendo trovare una soluzione che sintetizzi le anzidette indicazioni, non sembra dubbio che la nuova disciplina non produce effetti sulle fasi esaurite. Mentre deve senz’altro trovare applicazione rispetto ad una vicenda cautelare ancora in corso. Ciò però non significa che ci si debba porre ex officio il tema dell’applicabilità con effetto retroattivo delle nuove norme, rispetto cioè a valutazioni in punto di sussistenza delle esigenze di cautela e di adeguatezza della misura, legittimamente effettuate nella operatività della previgente disciplina (in un momento valutativo ormai esauritosi, rispetto al quale è stata fatta applicazione della normativa a quel momento vigente). Infatti, vigendo il principio del tempus regit actum il novum non produce effetti automaticamente e retroattivamente sulle fase esaurite e sulle valutazioni in quell’occasione effettuate nel rispetto della normativa allora vigente. Il tema dell’applicabilità del novum potrà porsi, piuttosto, solo se, sulla vicenda cautelare in corso di esecuzione, si debba tornare su sollecitazione della parte, che chieda, ad esempio, la revoca o l’attenuazione della misura: la materia è regolata dall’articolo 299 del Cpp e, come esattamente osservato dalla sentenza delle Sezioni unite Ambrogio, mentre la fase genetica della misura non può che rimanere retta e regolata dalla legge del tempo, si impone una continua verifica delle condizioni che hanno determinato la limitazione della libertà personale e la scelta di una determinata misura cautelare. Diffamazione: lecita la critica basata su un’indagine in seguito archiviata di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 13 agosto 2015 n. 16815. Daniele Luttazzi e Marco Travaglio non hanno leso la reputazione della Fininvest quando, nel corso della trasmissione Satyricon, hanno ipotizzato la provenienza mafiosa dei capitali di rischio utilizzati per costituire e finanziare le holding. La Cassazione, (sentenza 16815) ha depositato ieri le motivazioni con le quali ha respinto il ricorso del Gruppo di comunicazione milanese che aveva citato per diffamazione l’intervistatore Daniele Luttazzi, l’intervistato Marco Travaglio e il delegato al controllo della trasmissione Carlo Freccero per diffamazione, ai quali chiedevano i danni non patrimoniali, ritenendo le affermazioni fatte del tutto prive del requisito della verità, anche putativa. Una ricostruzione dei fatti che la Suprema corte non avalla, confermando la correttezza della scelta compiuta dai giudici di Corte d’appello, secondi i quali, nonostante l’archiviazione, quanto riportato non poteva ritenersi gratuito e diffamatorio perché trovava un riscontro nelle indagini dell’autorità giudiziaria. Secondo i giudici è ininfluente che i dati raccolti dalla Procura per sostenere l’ipotesi accusatoria contro i vertici della holding, fossero giudicati incompleti e quindi non sufficienti a reggere in dibattimento. La Suprema corte lascia cadere anche la contestazione riguardante la parzialità dell’informazione. Nella trasmissione, lamentavano i ricorrenti, non era stata data notizia dell’esistenza di una richiesta di archiviazione relativa al procedimento penale sui cosiddetti mandanti a volto coperto delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Per la Corte d’appello la giustificazione era nel carattere riservato della notizia, normalmente, conoscibile solo dalla parte offesa su domanda. La richiesta presentata dal Pm era arrivata poi solo 12 giorni prima della trasmissione. La Fininvest fa inutilmente presente che nel corso dell’intervista si era fatto riferimento solo ai risultati che portavano acqua al mulino della tesi denigratoria, tacendo gli elementi a favore della società. Non era inoltre condivisibile riconoscere il libero esercizio del diritto di satira in una trasmissione che, per la delicatezza dei tempi trattati, avrebbe dovuto avere un taglio giornalistico. Per la Corte di Cassazione è stato rispettato il criterio della continenza e non sono stati oltrepassati i limiti del diritto di critica che "gode" di una maggiore libertà di "movimento" rispetto alla cronaca per quanto riguarda l’elemento del punto di vista soggettivo. Secondo i giudici cronaca, critica e satira hanno preso le mosse da un dato di fatto oggettivo ed erano giustificate dall’interesse pubblico rispetto ad una vicenda sulla quale i vertici Fininvest non avevano "sino ad allora chiarito e documentato la provenienza del capitale di rischio della società". La Fininvest è stata condannata a pagare le spese del giudizio di legittimità sostenute da Travaglio e Luttazzi, mentre nulla è stato disposto per Freccero che non si è difeso. Si può pignorare senza la revocatoria di Angelo Busani e Emanuele Lucchini Guastalla Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2015 Il bene donato oppure posto sotto il vincolo di un fondo patrimoniale o di un trust può essere pignorato dai creditori del donante (o del disponente) senza dover esperire vittoriosamente l’azione revocatoria: è quanto dispone il nuovo articolo 2929-bis del Codice civile, introdotto dal decreto legge 83/15 (il cosiddetto "decreto fallimenti"), convertito in legge nei giorni scorsi. Questa nuova norma stabilisce dunque che quando il debitore (con riferimento a beni immobili o a beni mobili "registrati", vale a dire aerei, navi e autoveicoli), abbia, posteriormente al sorgere del credito: istituito un "vincolo di indisponibilità" (come accade, ad esempio, nel caso dell’istituzione di un trust o di un altro vincolo "di destinazione", quale il fondo patrimoniale o il vincolo di cui all’articolo 2645-ter del codice civile); oppure effettuato un atto di alienazione a titolo gratuito (si pensi, ad esempio, a una donazione); e con ciò abbia recato pregiudizio alle ragioni di un suo creditore, questi può direttamente procedere a esecuzione forzata (ma solo ove sia munito di titolo esecutivo: ad esempio, un atto notarile che reca un obbligo di pagamento o una sentenza di condanna a un pagamento), ancorché non abbia preventivamente ottenuto una sentenza dichiarativa di inefficacia (che è l’effetto tipico dell’azione revocatoria), a condizione che il pignoramento venga trascritto in pubblici registri (ad esempio: nei registri immobiliari) nel termine di un anno dalla data in cui l’atto pregiudizievole (e cioè l’atto alienativo gratuito o istitutivo del vincolo di destinazione) sia stato a sua volta trascritto. La nuova norma in sostanza permettere di "saltare" la fase giudiziaria di accertamento del diritto del creditore (ritenendo evidentemente sufficiente il fatto che il creditore sia munito solamente di un titolo esecutivo) e si giunge immediatamente alla fase dell’espropriazione. Nel panorama normativo previgente succedeva invece che, nel caso in cui il debitore sottoponesse a vincolo di destinazione un proprio bene immobile o mobile registrato oppure lo facesse oggetto di donazione, in tanto il creditore poteva giungere alla trascrizione di un pignoramento (e quindi iniziare con ciò la fase espropriativa) in quanto il vincolo di destinazione o l’atto di donazione fossero dichiarati inefficaci a seguito del passaggio in giudicato di una sentenza di accoglimento di una "azione revocatoria": questa azione è infatti il rimedio che l’ordinamento concede per fare dichiarare un dato atto, in presenza di certi presupposti, inefficace nei confronti dei creditori del soggetto agente, perché ritenuto lesivo delle ragioni di questi ultimi, Nel giudizio promosso con l’azione revocatoria, evidentemente, si discuteva della fondatezza dell’azione stessa e, in particolare, della lesività nei confronti dei creditori dell’atto dispositivo o alienativo del debitore. Ora invece il panorama si rovescia del tutto: se ricorrono i presupposti del non intervenuto decorso del termine di un anno dalla trascrizione in pubblici registri dell’atto dispositivo o alienativo e se si tratti della istituzione di un vincolo di indisponibilità oppure di un atto a titolo gratuito (in sostanza, di una donazione), il creditore che sia munito di titolo esecutivo può comunque pignorare il bene fatto oggetto del vincolo o di alienazione gratuita. In altri termini, se Tizio ha donato a Caio un dato bene immobile, Sempronio, creditore di Tizio, può pignorare detto bene anche se esso è ora di proprietà di Caio e anche se Caio ha ricevuto la donazione prima che nei registri immobiliari fosse segnalato il promuovimento da parte di Sempronio di un’azione volta a soddisfarsi sul bene donato passando attraverso una declaratoria di inefficacia della donazione. Se poi il debitore intenda lamentarsi di questa iniziativa del creditore (o se ne lamenti il terzo avente causa dal debitore, vale a dire il donatario) a costoro è dato di promuovere, nell’ambito del processo esecutivo che ha preso avvia con il pignoramento, un giudizio di "opposizione agli atti esecutivi". Cosicché non più al giudice del merito (come accadeva nel caso della necessità di un previo promuovimento dell’azione revocatoria), ma al giudice dell’esecuzione, verrà in tali casi rimesso il giudizio sulla legittimità dell’iniziativa del creditore. Detto in altre parole, per il periodo di un anno dalla trascrizione del vincolo di destinazione o della donazione si genererà, inevitabilmente, un regime di incommerciabilità e di non ipotecabilità dei beni che siano soggetti a detti atti istitutivi di vincolo o di donazione. Esecuzione forzata, l’ordinanza di assegnazione di crediti Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2015 Esecuzione forzata - Opposizioni all’esecuzione - Ordinanza di assegnazione ex articolo 553 cod. proc. civ. - Titolo esecutivo di formazione giudiziale - Efficacia nei confronti del terzo pignorato inadempiente - Esistenza di fatti estintivi o impeditivi sopravvenuti o contestazione della pretesa azionata con il precetto - Rimedio oppositivo - Opposizione all’esecuzione. L’ordinanza di assegnazione resa dal giudice dell’esecuzione all’esito di un procedimento di pignoramento presso terzi, anche se non idonea al giudicato costituisce titolo esecutivo di formazione giudiziale che, munito di formula esecutiva, può essere a sua volta portato in esecuzione dal creditore assegnatario nei confronti del terzo pignorato, sicché legittimamente quest’ultimo si avvale dell’opposizione all’esecuzione ove intenda opporre al creditore assegnatario fatti estintivi o impeditivi della sua pretesa sopravvenuti alla pronuncia del titolo esecutivo ovvero per contestare la pretesa azionata con il precetto. • Corte di cassazione, sezione VI - 3, sentenza 3 giugno 2015 n. 11493. Esecuzione forzata - Provvedimenti del giudice dell’esecuzione - Ordinanza di assegnazione ex articolo 553 cod. proc. civ. - Impugnazione - Opposizione agli atti esecutivi - Necessità - Utilizzo di essa quale titolo esecutivo verso il terzo - Opposizione all’esecuzione per i medesimi vizi - Ammissibilità - Esclusione. In tema di espropriazione presso terzi, il rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi è l’unico esperibile avverso l’ordinanza di assegnazione del credito ex articolo 553 cod. proc. civ., non solo quando si contestino vizi formali suoi, o degli atti che l’hanno preceduta, ma pure quando si intenda confutare l’interpretazione che il giudice dell’esecuzione ha dato alla dichiarazione del terzo, anche quanto alla entità ed alla esigibilità del credito. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 20 novembre 2012 n. 20310. Esecuzione forzata - Ordinanza di assegnazione di un credito - Natura di atto esecutivo - Sussistenza - Conseguenze - Impugnazione con l’opposizione agli atti esecutivi o con l’appello - Condizioni e limiti. L’ordinanza di assegnazione di un credito, costituendo l’atto conclusivo del procedimento di esecuzione forzata per espropriazione di crediti, ha natura di atto esecutivo. Pertanto, essa va impugnata con il rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi tutte le volte in cui si facciano valere vizi, ancorché sostanziali, attinenti all’ordinanza di assegnazione oppure ai singoli atti esecutivi che l’hanno preceduta, mentre va impugnata con l’appello qualora il contenuto di tale ordinanza, esulando da quello ad essa proprio, decida questioni che integrano l’oggetto tipico di un procedimento di cognizione. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 9 marzo 2011 n. 5529. Provvedimenti del giudice dell’esecuzione - Esecuzione forzata presso terzi - Dichiarazione del terzo - Sua qualificazione da parte del giudice e successiva emissione dell’ordinanza di assegnazione del credito - Condizione legittimante l’instaurazione del giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo - Insussistenza - Individuazione del rimedio esperibile per far valere l’assenza della dichiarazione positiva - Opposizione agli atti esecutivi - Configurabilità. L’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione, nell’espropriazione forzata presso terzi, su istanza di assegnazione del creditore procedente qualifica la dichiarazione resa dal terzo come positiva ed emette il relativo provvedimento di assegnazione rappresenta un atto del processo esecutivo poiché è assunta nell’ambito dell’attività esecutiva e non di quella di accertamento del credito; ne consegue che detto provvedimento deve essere contestato con l’opposizione agli atti esecutivi, allegando che la dichiarazione era in realtà negativa e che, dunque, mancava il presupposto per l’assegnazione. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 22 febbraio 2008 n. 4578. Esecuzione forzata - Esecuzione forzata presso terzi - Dichiarazione del terzo (sua qualificazione da parte del giudice) e successiva ordinanza di assegnazione del credito - Valore di accertamento - Esclusione - Rimedio esperibile - Opposizione agli atti esecutivi. L’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione, nell’espropriazione forzata presso terzi, su istanza di assegnazione del creditore procedente qualifica la dichiarazione resa dal terzo come positiva ed emette il relativo provvedimento di assegnazione rappresenta un atto del processo esecutivo poiché è assunta nell’ambito dell’attività esecutiva e non di quella di accertamento del credito. Pertanto detto provvedimento deve essere contestato con l’opposizione agli atti esecutivi, allegando che la dichiarazione era in realtà negativa e che dunque mancava il presupposto per l’assegnazione. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 16 maggio 2005 n. 10180. Lettere: non si deve morire di Tso di Stefano Cecconi Ristretti Orizzonti, 14 agosto 2015 La morte di Andrea Soldi a Torino durante l’esecuzione di un Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso) è inaccettabile, al di là di eventuali responsabilità penali che spetta alla magistratura accertare. Una misura sanitaria voluta a garanzia del malato non può trasformarsi in un atto che conduce alla morte. La qualità del Tso - cioè proprio il modo in cui viene eseguito - riguarda il rispetto dei diritti e della dignità della persona malata. Non può svolgersi come se fosse l’arresto di un criminale (che peraltro deve avvenire sempre nel rispetto dei diritti dell’imputato). Il Tso non è ammesso, salvo i casi disciplinati dalla legge: "Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". Da questo imperativo della nostra Costituzione (articolo 32) nasce il Tso psichiatrico. Fu la riforma Basaglia le Legge 180 del 1978, quando decretò la fine dei manicomi, che regolò le modalità di esecuzione di questa extrema ratio a tutela del malato. Fu pensato come misura limitata nel tempo e da eseguirsi con modalità ben precise a garanzia della libertà e dei diritti della persona, proprio per evitare gli abusi del ricovero coatto in manicomio. Questa norma di civiltà e progresso oggi è rispettata? La tragica vicenda di Torino, che non è isolata, impone un’approfondita ed urgente verifica. Per questo il Ministro Lorenzin non po’ accontentarsi di inviare gli ispettori a Torino. Bisogna aprire subito un confronto sullo stato e sulla qualità dei servizi di salute mentale nel nostro Paese, sulle condizioni difficili in cui sono spesso costretti a lavorare gli operatori spesso in conseguenze dei tagli alla sanità, sulle buone e sulle cattive pratiche. Una situazione ben illustrata nella relazione conclusiva dell’ultima inchiesta parlamentare sulla salute mentale presentata al Senato dalla Commissione Sanità nel 2013. Bisogna parlare delle porte chiuse in troppo reparti psichiatrici (e in troppe strutture residenziali), bisogna parlare della contenzione, fenomeno diffusissimo come segnala il recente documento del Comitato Nazionale di Bioetica. Per questo non bastano gli ispettori del Ministero: bisogna reagire contro tutto ciò che può farci arretrare ai tempi e alle pratiche del manicomio. La stessa chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) segnala un pericolo, per i ritardi con cui sta avvenendo (urge il commissariamento per le regioni inadempienti) e per l’idea di sostituire i vecchi Opg con i nuovi manicomi regionali, le Rems. Bisogna invece far emergere, valorizzare e diffondere le tante esperienze in cui la salute mentale si tutela con servizi aperti e accoglienti nel territorio, favorendo l’inclusione sociale e la vita nella comunità e non il ricovero in luoghi separati, sostenendo le famiglie dei malati troppo spesso lasciate sole. Insomma non c’è tempo da perdere, per evitare che altri possano morire di Tso, per garantire ad ogni cittadino che il trattamento sanitario, anche quando obbligatorio, è sempre davvero una misura a tutela della salute e mai può "violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". Molise: tensione nelle carceri della regione, l’allarme del sindacato Sappe Giornale del Molise, 14 agosto 2015 Cento detenuti in meno rispetto allo scorso anno ma tensione costante nelle carceri regionali del Molise. È quello che emerge dalla fotografia scattata dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe che sottolinea come "i detenuti complessivamente presenti nelle carceri regionali del Molise erano, il 30 luglio scorso, 271. Cento in meno di quelli che c’erano un anno fa quando, nello stesso giorno del 2014, erano 371. Restano però costanti gli eventi e gli episodi critici nelle celle". "Per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria le condizioni di vita dei detenuti, in linea con le prescrizioni dettate dalla sentenza Torreggiani, sono migliorate in Italia. Non si dice, però, che le tensioni del sistema penitenziario italiano continuano a scaricarsi sulle donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, quotidianamente impegnati a contrastare le tensioni e le violenze che avvengono nelle nostre carceri vedono spesso i nostri Agenti, Sovrintendenti, Ispettori picchiati e feriti dalle violenze ingiustificate di una consistente fetta di detenuti che evidentemente si sentono intoccabili", sottolinea Donato Capece, segretario generale del Sappe. "I dati utili a comprenderli organicamente la situazione delle prigioni del nostro Paese: ometterli è operazione mistificatoria", prosegue il leader del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria con il Segretario regionale Sappe del Molise Luigi Frangione. "Dall’1 gennaio al 30 giugno 2015 nelle 3 carceri molisane si sono infatti contati, il tentato suicidio in cella di un altro detenuto sventato in tempo dagli uomini della Polizia Penitenziaria e 20 atti di autolesionismo posti in essere da detenuti. Significativi i numeri delle violenze contro i nostri poliziotti penitenziari: parliamo di 2 colluttazioni ed un ferimento. Ogni giorno, insomma, le turbolenti carceri molisane ed italiane vedono le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria fronteggiare pericoli e tensioni e per i poliziotti penitenziari in servizio le condizioni di lavoro restano pericolose e stressanti". "Ma il Dap queste cose non le dice", denunciano infine Capece e Frangione: "l’unica preoccupazione, per i solerti dirigenti ministeriali, è evidentemente quella di migliorare la vita in cella ai detenuti. I poliziotti possono continuare a prendere sberle e pugni, a salvare la vita ai detenuti che tentato il suicidio nel silenzio e nell’indifferenza dell’Amministrazione penitenziaria". Campobasso e Larino le due carceri molisane con il più alto numero di atti di autolesionismo (quando un detenuto si lesiona il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo): rispettivamente 16 e 4 casi. Napoli: il Ferragosto rovente dei detenuti, viaggio nei padiglioni degli istituti napoletani di Giuseppe Letizia Cronache di Napoli, 14 agosto 2015 Le problematiche: non si dorme la notte, manca l’aria nelle celle e i passeggi sono infuocati. Come si vive in mia cella nel mese dì agosto? Quali sono le difficoltà per un detenuto nel mese più caldo dell’anno? Lo abbiamo chiesto a tre ex reclusi, clic conoscono le problematiche delle carceri. Abbiamo chiesto quali sono le vere difficoltà e cosa vorrebbero gli internati. Antonello Merenda ha 38 anni e abita a Forcella: "In estate il caldo è soffocante. Alle 23 e 30 chiudono il cancello blindato delie celle e si soffoca, perché le finestre sono chiuse, ci sono le brande davanti e non passava un filo d’aria. Sono stato nel carcere di Poggioreale per sei anni, ho girato i padiglioni Firenze, Napoli, Avellino. Non c’era aria e non scendevamo a passeggio. All’epoca c’erano 50 minuti di aria, perché ci chiamavano sempre dieci minuti prima. Ora per fortuna le cose sono cambiate. Poi ricordo che a volte l’acqua mancava per 4, o 5 ore. Io una volta presi l’acqua dal termosifone per lavarmi. Chi aveva i soldi comprava la bottiglia d’acqua. Chi non aveva denaro, soffriva anche la sete. Una cosa è raccontarlo, un ‘altra è vivere questa esperienza. È stato il periodo più brutto della mia vita, Cosa si può fare per migliorare la vivibilità in carcere? "Serve più tempo per stare all’aria aperta. Ma soprattutto serve più socialità, gli psicologici, o una sala con carte e tavolini, che servirebbe ai detenuti anche solo per alcuni minuti per smaltire la tensione del carcere. Ricordo che molti scleravano e davano di matto poi nelle celle, con tutte le conseguenze del caso. Io ho assistito a un suicidio nel 2001 nel carcere di Lucca. Gli do la buonanotte e alle tre mi sveglio e troviamo il milanese impiccato con il laccio della sua tuta". Poi aggiunge: "Soprattutto in estate servirebbe avere le celle aperte dalla mattina, in modo che i detenuti possano uscire a! passeggio con una certa libertà di orario, come già fanno nel carcere di Pescara ". Domenico Leva ha 52 anni e abita a Forcella. È stato nelle carceri di Poggioreale e Busto Arsizio: "Io ho problemi al cuore e non respiro bene. Per un cardiopatico è l’anticamera dell’obitorio. Ricordo solo che ad agosto non respiravo. Selle celle non passa aria e trascorriamo li la maggior parie della giornata". Quali le soluzioni: "Noi ci bagnavamo e ci mettiamo nel letto bagnati per poter dormire, o ci sistemavamo per terra sulle lenzuola bagnate. Ma era una soluzione temporanea". Poi conclude perentorio: "Servirebbe solo ristrutturare alcune parti delle carceri e renderle più agevoli, anche con un sistema di aria condizionata generale, come quella che e ‘è nei grandi capannoni. Un impianto da accendere in quei momenti critici solo la notte, per fa dormire i detenuti. Se un recluso oggi costa tanto allo Stato è anche perché c’è poca attenzione alla loro condizione". Rieti: area psichiatrica del carcere chiusa, detenuti ricoverati in ospedale Il Messaggero, 14 agosto 2015 Due detenuti ricoverati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, nel reparto Diagnosi e Cura dell’ospedale de Lellis, agenti penitenziari costretti a coprire i turni di piantonamento, "e durante questi periodi estivi bisogna fare i salti mortali per organizzarsi, considerata la naturale riduzione di personale per le ferie" spiega un rappresentante sindacale della polizia penitenziaria. Una situazione di (quasi) emergenza, determinata dal fatto che all’interno del carcere di Vazia non è stata mai attivata l’area sanitaria destinata alla degenza breve di detenuti che devono essere sottoposti a controlli psichiatrici, come è stato nel caso dei due reclusi ricoverati al de Lellis, gli ultimi di una lunga serie. La mancata attivazione è causata dall’assenza di uno specialista, che costringe la direzione del carcere, in caso di necessità, a rivolgersi all’ospedale. L’assistenza sanitaria è garantita durante tutto l’arco delle ventiquattr’ore da un medico presente in istituto oppure reperibile. "A questo dobbiamo aggiungere le condizioni, davvero difficili, nelle quali siamo costretti ad operare - sottolinea D’Antonio (Sappe) - al De Lellis. Non disponiamo di una stanza a fianco di quella dove si trova ricoverato il detenuto, dobbiamo arrangiarci con delle sedie vicino al bagno, a volte ridotto a una latrina, con i disagi che questo comporta, né possiamo intervenire se qualche altro paziente mostra segnali di squilibrio perchè significherebbe interrompere il piantonamento. La situazione è peggiorata anche perchè in ospedale, dopo l’incendio, non sono stati recuperati all’ultimo piano i locali, adeguatamente attrezzati, dove venivano ospitati i detenuti". Attualmente, nel Nuovo Complesso di Vazia sono ospitati 250 detenuti (in passato è stata superata quota 400) e non appena il loro numero diminuisce, da altri penitenziari del Lazio arrivano nuovi ospiti. Come è accaduto proprio ieri pomeriggio, quando nel carcere reatino sono stati trasferiti una ventina di detenuti provenienti da quello romano di Rebibbia, in cronico sovraffollamento. È la "conta" che viene tenuta sotto stretto controllo con lo scopo di equilibrare la presenza di reclusi tra le varie strutture. Trapani: carcere di San Giuliano, chiuso un altro reparto per lavori di Luigi Todaro Giornale di Sicilia, 14 agosto 2015 Chiuso, per inagibilità, il reparto "sex offender" delle carceri di San Giuliano, dove sono reclusi i detenuti che hanno commesso reati a sfondo sessuale. "La detenzione - dichiara Gioacchino Veneziano, segretario regionale della Uil-Penitenziari - non deve essere umana solo per i detenuti, ma anche i luoghi di lavoro devono avere la stessa connotazione. Per questo apprendiamo, con soddisfazione, che il Ministero della giustizia ha deciso la chiusura della sezione dove sono rinchiusi oltre 50 detenuti". "La visita del nostro sindacato - aggiunge - effettuata lo scorso mese di aprile ha dettagliatamente relazionato i vertici del Ministero della Giustizia a cui sono state inviate 40 foto che certificavano l’indegna situazione strutturale dei posti di lavoro e dei luoghi di detenzione. Da qui, pertanto, la corsa alle verifiche della verità. Palermo: carcere Ucciardone senza soldi, agenti costretti a lavorare con le divise invernali di Marco Vaccarella Giornale di Sicilia, 14 agosto 2015 "Con il caldo di agosto la situazione ambientale è diventata insostenibile". La direttrice: "Da Roma arrivano finanziamenti insufficienti". Ore e ore in servizio con le divise invernali nelle postazioni di sentinella in vetro blindato sul muro di cinta del carcere che, sotto il sole, raggiungono temperature infuocate. Turni massacranti anche nelle garitte interne, da dove si sorvegliano i detenuti. Spazi angusti, senza aria condizionata né ventilatori, dove "soffriamo terribilmente il caldo - denunciano gli agenti dell’ Ucciardone - costretti a indossare la divisa pesante perché l’abbigliamento estivo, nonostante i ripetuti solleciti alla direzione, non è mai arrivato. Non ce la facciamo più. Lavorare in queste condizioni è un inferno". Si riaccende la protesta della polizia penitenziaria fra le mura borboniche di via Enrico Albanese. Dopo le manifestazioni sindacali organizzate nei mesi scorsi, alle quali hanno partecipato anche alcuni deputati del Movimento Cinque stelle, l’associazione peri Diritti e le tutele del personale di sicurezza torna ad alzare la voce, con un documento inviato ai vertici del carcere, in testa la direttrice Rita Barbera, oltre che ai dirigenti regionali e nazionali dell’amministrazione penitenziaria. "Vogliamo più attenzione per le difficili condizioni che dobbiamo sopportare - dice Antonino Piazza, presidente del sodalizio. Siamo servitori dello Stato e con abnegazione e sacrifici portiamo avanti i compiti istituzionali nelle patrie galere. Non meritiamo questo trattamento". È un appello, quello degli agenti, quasi un grido di dolore: "Malgrado le segnalazioni alla direzione, le varie proposte di collaborazione, non abbiamo ricevuto risposte soddisfacenti. Vuol dire che il miglioramento generale dei penitenziari, tanto auspicato dai vertici del ministero della Giustizia, nel nostro caso non vuole essere né applicato, né discusso", conclude il rappresentante. Roma: l’Assessore Francesca Danese visita Rebibbia "a Natale porteremo bambini fuori" Adnkronos, 14 agosto 2015 "Finalmente porteremo i bambini fuori da Rebibbia, a Natale faremo una festa". Così Francesca Danese, assessore alle Politiche sociali e abitative di Roma Capitale al termine della visita di stamani alla Casa Circondariale femminile di Rebibbia, il più grande penitenziario del genere in Italia. L’assessore ha voluto incontrare le mamme detenute con bambini, alle quali ha consegnato dei giocattoli a nome del sindaco e dell’amministrazione. Nell’occasione, Danese ha visitato gli spazi del carcere dedicati a lavanderia, sartoria e serra dove verranno sviluppati piani di formazione e lavoro. "È intenzione di questa Amministrazione - ha ricordato Danese - portare al massimo l’impegno per le misure alternative alla detenzione, ad esempio utilizzando tutte le opportunità della legge 309 del 90 per le persone tossicodipendenti, così come quelle offerte dal cosiddetto decreto svuota carceri. Siamo anche in attesa della discussione in Parlamento del nuovo Rapporto sulle dipendenze per avere migliori indicazioni dal Presidente del Consiglio". L’assessore, che ringrazia gli educatori, la direttrice della struttura, le associazioni e tutti gli operatori penitenziari, ha ricevuto lo scorso 28 luglio la delega ai Rapporti con il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale in un territorio, quello del Comune di Roma, che conta tremila persone detenute e altre centocinquanta nel circuito minorile, per le quali è via di elaborazione anche un progetto complessivo per il coinvolgimento nell’imminente Giubileo. Ancona: il Garante; Barcaglione resta carcere modello, un’evasione non cambia quadro Ansa, 14 agosto 2015 Dopo l’evasione del detenuto tunisino Rachid Kataib dal "carcere a vigilanza attenuata" di Barcaglione ad Ancona, il Garante dei detenuti delle Marche Italo Tanoni ha ribadito che, "nonostante palesi contrarietà, grazie all’intervento del mio ufficio, la struttura penitenziaria è stata potenziata e fatta funzionare dopo dieci anni di inattività quasi completa". Il Garante inoltre sottolinea che "Barcaglione, nel panorama degli istituti penitenziari marchigiani, rappresenta un carcere modello perché, ospitando detenuti a fine pena, consente loro, con l’apporto degli educatori, della polizia penitenziaria e del volontariato, di reinserirsi nella società attraverso graduali percorsi lavorativi in campo agricolo e artigianale che certo non sono presenti negli altri istituti penitenziari delle Marche, specie dopo la chiusura di Macerata Feltria". "Non a caso - sostiene Tanoni - l’esperienza di Barcaglione viene portata ad esempio su scala nazionale dallo stesso Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Tra l’altro di recente, in accordo con il direttore dell’istituto e l’attuale assessore regionale all’Istruzione Loretta Bravi, è stata ripresa l’ipotesi di costituire a Barcaglione, con fondi Fse, un polo di formazione professionale permanente per facilitare l’inclusione sociale dei ristretti ospitati nella struttura penitenziaria. Il fatto che tra gli oltre 130 detenuti si sia registrato un episodio di evasione, non dà diritto di fare di tutta l’erba un fascio". Padova: approda all’Expo anche il gelato del carcere, tra prodotti padovani in esposizione Il Mattino di Padova, 14 agosto 2015 L’agricoltura padovana torna ad Expo Milano con la sua carica di innovazione ed entusiasmo lunedì prossimo, 17 agosto, nel giorno di apertura della settimana dedicata all’agricoltura veneta che animerà l’Esposizione Universale. A inaugurare il ricco calendario di eventi saranno proprio gli agricoltori di Coldiretti Campagna Amica Padova insieme a numerosi amici con i quali condividono la passione per le eccellenze del territorio e per un’alimentazione sana e responsabile. Tra le tante proposte che animeranno la giornata padovana ad Expo, nel tratto iniziale del Cardo e nel padiglione di Coldiretti "No Farmers no party" spiccano le degustazioni gratuite del "gelato del carcere", realizzato dai detenuti del Due Palazzi nel laboratorio "dietro le sbarre" della Cooperativa Giotto. Dopo i dolci, fra i quali ll famoso panettone, ora i detenuti pasticceri si cimentano anche nella preparazione del gelato con la frutta a"km 0" fornita dagli agricoltori della Co.Fru.Ca, la cooperativa orfofrutticola di Castelbaldo. Mele e pere fresche diventeranno gli ingredienti dei gusti del gelato artigianale di Giotto da La presenza ad Expo sarà anche l’occasione per rilanciare il "panettone tutto l’anno", una proposta che sta raccogliendo ampi consensi. Con la cooperativa Giotto e i viticoltori padovani di Campagna Amica hanno messo a punto il panettone al Fior d’Arancio, primo vino padovano ad ottenere la Docg, che lunedì sarà presentato nel roof garden del padiglione di Coldiretti. Si tratta di uno dei tanti eventi della giornata padovana di Coldiretti ad Expo che aprirà con la colazione contadina sul Cardo, seguita da un lunch servito dallo chef mobile, con in più la possibilità di organizzare un take away grazie alla novità assoluta dell’agribag. A pranzo e cena, nel roof garden del padiglione Coldiretti saranno protagonisti i prodotti del territorio, a partire dalla frutta fresca, dalla verdura condita con l’olio extravergine Veneto Euganei Berici Dop "Evo del Borgo", dal prosciutto di Montagnana Euganeo Berico Dop, fino ai formaggi prodotti col latte dell’Alta Padovana, aimeloni e alle zucche dell’azienda Bressan di Santa Margherita d’Adige e ai vini delle Doc Merlara e Colli Euganei. Immigrazione: la prima volta della Cei contro il governo e Salvini attacca i vescovi di Giuseppe Alberto Falci La Repubblica, 14 agosto 2015 L’esodo dei migranti scatena la guerra tra la Chiesa e la Lega Nord. L’immigrazione è al centro del dibattito. Ma il governo si sottrae. Non si registrano, infatti, dichiarazioni dei ministri competenti. Dalle colonne di Famiglia Cristiana il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, punta il dito contro l’esecutivo: "È del tutto assente sul tema dell’immigrazione, abbiamo scritto leggi che respingono gli immigrati e non prevedono un’integrazione positiva". Il vescovo, poi, attacca duramente Matteo Salvini, Luca Zaia e Beppe Grillo: "Hanno criticato pesantemente il papa, ma hanno visto che può essere controproducente per il loro consenso perché Papa Francesco è molto popolare". Il segretario del Caroccio replica: "L’immigrazione senza limiti e senza regole, è solo caos. Per i 4 milioni di italiani disoccupati e i 9 milioni di poveri, niente alberghi? ma l’Italia è ancora una repubblica, o dipende dal vaticano?". La questione scatena anche le opposizioni di sinistra. Arturo Scotto, capogruppo di Sel a Montecitorio, afferma: "Nelle parole di monsignor Galantino c’è una doppia verità: un governo inconsistente e una destra in salsa leghista e grillina che specula sulle paure. Fanfaroni e irresponsabili". Intanto continua a far discutere la riforma costituzionale che approderà a settembre a Palazzo Madama per la terza lettura. I dissidenti del Pd hanno ormai scelto la strategia dello scontro e non intendono accettare la mediazione del governo sull’elezione semidiretta dei senatori. Dall’entourage renziano Roberto Colannino ribadisce la linea dell’esecutivo: "Chi ha davvero a cuore il percorso delle riforme non pensa a come mettere in campo diktat o veti, ma si pone in una condizione di confronto e di dialogo nella consapevolezza che l’impianto del ddl Boschi non può essere azzerato". Mentre da Forza Italia risponde il Mattinale, bollettino giornaliero curato dallo staff del capogruppo Renato Brunetta: "Noi non chiediamo niente, è Renzi che deve fare la prima mossa. Sì-sì o no-no". Come finirà? Droghe: dai Radicali una raccolta firme per legalizzare la marijuana a fini terapeutici La Repubblica, 14 agosto 2015 Semi di cannabis piantati simbolicamente nei vasi. I radicali lanciano una raccolta firme per legalizzare la marijuana a fini terapeutici. Per presentare la proposta di legge al Pirellone dovranno essere raccolte in sei mesi almeno 5mila sottoscrizioni. A promuoverla, oltre ai radicali, ci sono l’associazione Enzo Tortora e l’associazione Luca Coscioni. "In Lombardia manca una legislazione regionale specifica - di legge nel documento - che è già diventata strumento sempre più diffuso in altre regioni italiane". Tra le modifiche proposte, la possibilità per la giunta regionale di stipulare convenzioni con centri e istituti autorizzati, nel rispetto della normativa statale, alla produzione o alla preparazione di medicinali a base di cannabis, ma anche di "avviare azioni sperimentali o specifici progetti pilota con lo stabilimento chimico militare di Firenze o con altri soggetti autorizzati a produrre medicinali cannabinoidi". Rita Bernardini, segretario dei radicali Italiani, ha definito "demenziale" l’ordine del giorno sul tema votato pochi giorni fa in Regione: "Si dice che la cannabis possa essere assunti solo in una struttura sanitaria - ha spiegato durante il lancio della raccolta firme - ma se sono malato di Sia, una volta che ho la prescrizione e il dosaggio, perchè mai devo andare in ospedale? Se devo assumerla tre volte vado tre volte in ospedale o devo essere ricoverato?". Stati Uniti: lo Stato del Connecticut dichiara la pena di morte "anticostituzionale" di Giovanni D’Agata corrierepl.it, 14 agosto 2015 Giovedì, la Corte Suprema dello stato del Connecticut negli Stati Uniti, ha abolito la pena di morte, dichiarandola incostituzionale anche per prigionieri condannati. Nell’aprile del 2012, questo Stato, aveva votato per abolire la pena di morte, ma la misura non era retroattiva e 11 detenuti sono rimasti ancora nel braccio della morte, secondo il centro informativo sulla pena di morte (Dpic). La Corte Suprema dello stato è stato investita da uno di questi detenuti, Eduardo Santiago, condannato a morte nel 2005 per un omicidio commesso cinque anni prima. Il suo avvocato aveva sostenuto che la sua esecuzione, dopo la decisione del 2012, avrebbe costituito una punizione crudele e insolita proibita dall’ottavo emendamento della Costituzione statunitense. La Corte anche se divisa, ha accolto le sue tesi difensive, affermando che era "non costituzionalmente consentito eseguire la condanna dell’imputato in questo caso e degli altri nella stessa situazione". Hanno anche sottolineato l’arbitrarietà della pena di morte, il rischio di errore e l’ "illusione" che rappresenta in un paese dove "il numero di esecuzioni rispetto al numero di persone che sono state condannate a morte è minimo". Solo una condanna a morte è stata eseguita in Connecticut dal 1976. Dei 50 stati Usa, 31 hanno ancora la pena capitale e 19 la hanno abolita, l’ultimo dei quali il Nebraska nel maggio scorso. Mentre sono state eseguite diciotto condanne a morte quest’anno negli Stati Uniti, di cui metà in Texas. Il no del Connecticut alla pena di morte fa il giro del mondo e conferma il progressivo cambiamento del Paese. Per anni i conservatori sono stati i più accesi difensori della morte di Stato, ma negli ultimi anni il "blocco della forca" ha mostrato incrinature. Uno di loro si era rivolto alla Corte suprema statale sostenendo che la pena di morte è anticostituzionale perché costituisce una pena sproporzionata ed eccessiva e che la norma sull’abolizione doveva essere retroattiva. Si è visto dare ragione e adesso, con gli altri, 10 uscirà dal braccio della morte per finire in una cella normale per scontare l’ergastolo. Egitto: soffocò 37 detenuti con il gas lacrimogeno, poliziotto sconterà 5 anni di carcere Aki, 14 agosto 2015 Un tribunale egiziano ha condannato a cinque anni di carcere un poliziotto condannato per la morte di 37 detenuti islamici per soffocamento a causa di gas lacrimogeni. In prima istanza nel marzo del 2014 il poliziotto era stato condannato a dieci anni di carcere. I 37 detenuti morti erano sostenitori del deposto presidente islamico Mohammed Morsi e hanno perso la vita dopo che il poliziotto ha sparato gas lacrimogeni dentro al camion della polizia sul quale viaggiavano diretto al carcere di Abu Zaabal vicino al Cairo. Sul camion, sul quale potevano viaggiare 24 persone, erano invece stipati in 45. Iraq: morto in carcere fratellastro di Saddam Hussein, fu ministro dell’Interno Ansa, 14 agosto 2015 Watban Ibrahim al Hassan, un fratellastro di Saddam Hussein già ministro dell’Interno durante il suo regime, è morto la scorsa notte in carcere, dove si trovava dopo essere stato condannato a morte per crimini contro l’umanità. Lo ha riferito un dirigente del ministero della Giustizia iracheno. Il responsabile, Wisam al Furaijy, ha precisato che Al Hassan, che aveva 63 anni e da tempo versava in gravi condizioni di salute, è morto per un infarto nella prigione di Nassiriyah, nel Sud dell’Iraq. Nello stesso carcere era stato detenuto fino alla morte, avvenuta nel giugno scorso, Tareq Aziz, ex ministro degli Esteri e vice primo ministro all’epoca di Saddam, il cristiano più alto in grado nel passato regime. "Le condizioni di salute di Watban al Hassan - ha aggiunto Al Furaijy - si erano deteriorate negli ultimi tempi, ed era stato curato in diversi ospedali specializzati". Arrestato dalle forze americane nell’aprile del 2003, durante l’invasione dell’Iraq, Al Hassan era stato poi consegnato alle autorità irachene ed era stato condannato a morte nel 2009 per le esecuzioni di 42 commercianti accusati di avere manipolato i prezzi dei generi alimentari. Sud Africa: Oscar Pistorius lascerà il carcere il 21 agosto, dopo 10 mesi di detenzione Ansa, 14 agosto 2015 Il campione paralimpico, condannato a cinque per omicidio colposo per la morta della fidanzata, lascerà il penitenziario di Pretoria per buona condotta. Sarà ai domiciliari da uno zio e dovrà svolgere lavori socialmente utili. Oscar Pistorius uscirà dal carcere di Pretoria il prossimo 21 agosto, dopo aver scontato solo 10 mesi della condanna a cinque anni per l’omicidio colposo della fidanzata Reeva Steenkamp commesso il 14 febbraio 2013. A darne notizia è il quotidiano inglese "The Independent". L’ex campione paralimpico verrà rilasciato in libertà vigilata per buona condotta anche se al momento non si conoscono le misure di sicurezza che verranno applicate nei suoi confronti fino al processo d’appello previsto per novembre, dove l’accusa insisterà sull’accusa di omicidio volontario che prevede una condanna minima a 15 anni di reclusione. Pistorius potrebbe essere messo ai domiciliari presso l’abitazione dello zio Arnold a Waterkloof, Pretoria, ed essere chiamato a svolgere lavori sociali. Difficile, però, che possa tornare a gareggiare viste le restrizioni sugli spostamenti.