Giustizia: Rita Bernardini; sul carcere governo schizofrenico di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 agosto 2015 Intervista a Rita Bernardini, segretaria di Radicali italiani. "Orlando e Costa su fronti opposti". "Abbiamo finalmente un ministro di Giustizia che ha ammesso clamorosamente che le carceri sono criminogene, in altre parole che lo Stato, violando le sue stesse norme, obbliga a un percorso verso le recidive e non di riabilitazione. Ma allora, cosa si aspetta a far sì che davvero, e non solo negli orientamenti accademici, il carcere sia l’extrema ratio? Il governo invece agisce in modo schizofrenico e rincorre i populismi giustizialisti senza riflettere sulle conseguenze". Rita Bernardini, segretaria dei Radicali italiani, ha appena concluso una visita ispettiva nel carcere milanese di Opera, come delegata ministeriale per gli Stati generali del carcere che si concluderanno nel prossimo autunno con proposte organiche di riforma del sistema penitenziario italiano. Le condizioni delle carceri sono migliorate rispetto al 2013 quando la Corte di Strasburgo condannò l’Italia. A fine luglio, nei 49.655 posti dei 198 istituti sono recluse 52.144 persone. Continuano a morire, però, forse più di prima: i dati aggiornati all’11 agosto di Ristretti orizzonti parlano di 71 morti, di cui 27 suicidi. La sua impressione? "Dati alla mano posso assicurare che il sovraffollamento è ancora un problema in almeno una sessantina di istituti, con tassi che vanno dal 130 al 200%. A Reggio Calabria, per esempio, nel carcere di Arghillà inaugurato solo un paio di anni fa, c’è un reparto completamente chiuso per mancanza di personale e di conseguenza i detenuti sono ammassati negli altri reparti. Ma sa qual è l’unica cosa che ha svuotato davvero le carceri? La sentenza della Corte costituzionale sulla Fini-Giovanardi (la legge proibizionista sulle droghe, ndr). Persistono invece tutti gli altri problemi: da quello sanitario, con la mancanza di cure soprattutto per i detenuti affetti da patologie molto gravi, alla mancanza di lavoro, per non parlare del diritto violato all’affettività e alla prossimità territoriale. Sono tutte cose che come Radicali italiani abbiamo denunciato in un’altra memoria inviata al comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, organismo che deve verificare l’attuazione della sentenza Torreggiani. Non è un caso, dunque, che sia aumentato l’indice dei suicidi, anche rispetto alla popolazione libera. La mia impressione poi è che i casi psichiatrici di una certa gravità sono aumentati perché la magistratura non può più inviare negli Opg - formalmente, ma non realmente, chiusi - tanto che alcuni carceri si sono attrezzati con repartini ad hoc. A Poggioreale il direttore Antonio Fullone denuncia la presenza di almeno 40 casi psichiatrici gravi. Questo dimostra che l’operazione di chiusura degli Opg rischia il fallimento totale, se non si forniscono risorse alle strutture territoriali che dovrebbero seguire i malati prima che si trasformino in casi drammatici". Infatti nell’ultimo mese tre persone sono morte durante un trattamento sanitario obbligatorio… "Sicuramente è aumentato l’esito tragico di questi Tso: senza risorse per i Dipartimenti di salute mentale, manca il personale sanitario che esegue i trattamenti. Nel caso di Torino, per esempio, c’era solo un medico psichiatra. Che peraltro a quanto sembra prendeva ordini dagli agenti, mentre dovrebbe essere il contrario". Marco Pannella ha interrotto lo sciopero della fame e della sete, iniziato per denunciare la persistente illegalità dello Stato italiano nelle carceri, dopo la telefonata del presidente Mattarella. Le sembra che l’attuale capo dello Stato abbia la stessa sensibilità del suo predecessore, Napolitano, rispetto alla condizione dei detenuti? "Lo vedremo. Le parole pronunciate dal presidente sono state molto importanti perché ha detto di condividere la battaglia per i diritti civili e umani e per la legalità che conduce Marco. Ora però bisogna intervenire: non a caso nell’ottobre 2013 Napolitano aveva parlato di obbligo della legalità da parte dello Stato. Siamo in un momento di sbando generale. Per fare un esempio, dopo aver speso in dieci anni 110 milioni per mettere in funzione una decina di braccialetti elettronici, ora tutti i duemila dispositivi prodotti dalla Telecom sono impegnati. E dall’inizio dell’anno siamo ancora in attesa del bando per produrne altri. Perciò i magistrati sono costretti a tenere in carcere chi potrebbe andare ai domiciliari, altro che pene alternative. Ma allora, che senso ha fare gli stati generali del carcere, cercare soluzioni al sovraffollamento, se poi lo Stato italiano non rispetta nemmeno le leggi che ci sono già? O se il sottosegretario Enrico Costa presenta in commissione Giustizia, alla Camera, emendamenti al ddl delega di riforma del codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario per aumentare le pene per i reati che lui chiama di allarme sociale? C’è chi nel governo preferisce seguire i Salvini e i Grillo, la pancia piuttosto che la testa". Giustizia: Marco Pannella di nuovo in digiuno per i diritti umani in carcere di Francesca Trapani 2duerighe.com, 13 agosto 2015 Lo scorso 9 agosto, il leader dei radicali italiani Marco Pannella ha dato inizio al proprio sciopero della fame e della sete. Pannella, alla veneranda età di 85 anni, ha scelto di operare questa protesta non violenta per sensibilizzare la politica, in primis, e l’opinione pubblica sulla questione relativa al sovraffollamento delle carceri. Secondo Pannella, i detenuti delle carceri italiane versano in condizioni disumane, negando e violando i diritti fondamentali dell’uomo. Per queste ragioni il leader dei radicali ha deciso di smettere di nutrirsi; ha voluto lanciare un segnale forte per una questione che secondo lui merita la massima attenzione.Il miglioramento delle condizioni dei detenuti è una battaglia che Pannella affronta già da anni. Nel 2013 aveva chiesto di porre fine alla questione del sovraffollamento, sollecitando e chiedendo al presidente Napolitano che si attuasse l’amnistia per alcuni. La situazione in cui versano le nostre carceri è nota e condannata anche a livello europeo: più provvedimenti sono stati presi dall’Europa in merito a tale questione, per evitare di costringere degli esseri umani in pochi metri quadri; di contro però, lo Stato Italiano non ha saputo trovare un concreto provvedimento sulla questione, nonostante le numerose sollecitazioni europee e non. Sono 53.982 i detenuti censiti al 21 febbraio 2015 nelle carceri italiane, circa 8mila in meno rispetto al 2013, a fronte però di 49.943 posti letto regolamentari disponibili. Il tasso di affollamento, dunque, sarebbe del 108%, ovvero 108 detenuti ogni 100 posto letto. Questo è quanto emerge dal rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, presentato dall’associazione Antigone. Dato che non tiene conto di eventuali e temporanee chiusure di alcuni reparti per questioni di lavori o manutenzioni. In questi casi i detenuti andrebbero condotti in altre stanze già occupate e il tasso di affollamento raggiungerebbe qui il 118%. Come emerge chiaramente da questi numeri, la condizione dei detenuti in Italia viola alcuni dei diritti fondamentali dell’uomo, perché li costringe a sopravvivere in un contesto in cui manca la libertà fisica e insieme la dignità stessa dell’individuo. Insomma, la scelta di Pannella deriva proprio dalla mancanza di consapevolezza nella politica e nella società di quanto possa essere terribile e frustrante psicologicamente per un individuo versare in simili condizioni, completamente dimenticato dalla propria società. Non sappiamo quando e quali gesti basteranno a Pannella per sospendere la sua protesta; egli però si è detto disponibile a dare il proprio contributo per risollevare le sorti dei detenuti ed ha offerto il proprio aiuto al Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio. Proprio nella giornata di ieri, è arrivata al leader dei radicali una chiamata dal Presidente Mattarella che intendeva accertarsi delle sue condizioni di salute. Il Presidente della Repubblica ha espressamente chiesto a Pannella di interrompere lo sciopero e ha tenuto a ribadire che con questa sua protesta potrebbe mettere a repentaglio la sua vita. Accanto alle preoccupazioni, sono arrivati anche i complimenti e l’ammirazione da parte del Presidente per le battaglie svolte sui diritti e sulla legalità. Nonostante la richiesta del Presidente della Repubblica, il radicale Pannella sembra essere intenzionato a proseguire con la protesta e, ad accrescere di argomenti lo sciopero, concorrono nuove notizie, come l’ennesimo suicidio in carcere avvenuto nella casa circondariale di Castrogno di Teramo. Giustizia: Berlusconi chiede di "trattare" sulla riforma in cambio del sostegno al Governo di Tommaso Labate Corriere della Sera, 13 agosto 2015 "Nel Pd hanno capito che mancano i voti al Senato per le riforme. Fate sapere a Renzi che sono disposto a tornare al tavolo con lui. Ma a una condizione. Deve discutere con noi sulla riforma della giustizia". Né Senato, né Italicum o tasse. Berlusconi vuole una cosa sola per tornare a dialogare con Renzi: il governo deve imbastire con i forzisti un "tavolo" sulla giustizia. E si riaffaccia l’ipotesi rimpasto per rafforzare la maggioranza. "Sono giorni che mi dite che il Pd vuole tornare a dialogare con noi. L’hanno capito pure loro che non hanno i voti al Senato per le riforme, eh? Bene, ho la risposta che dovete dargli. Fate pure sapere a Renzi che sono disposto a tornare al tavolo con lui. Ma a una condizione. Deve discutere con noi sulla riforma della giustizia". Non il Senato elettivo o semi elettivo, non gli interventi sull’Italicum e nemmeno una collaborazione sul taglio delle tasse. Nulla di tutto questo. Per sedersi al tavolo con Matteo Renzi, e "in un contesto che non potrà mai essere simile alle cose che abbiamo dovuto ingoiare col patto del Nazareno", Silvio Berlusconi vuole una cosa sola. La giustizia. O, per essere più precisi, che il governo imbastisca insieme ai forzisti un "tavolo" sulla riforma della giustizia. Il messaggio parte da Palazzo Grazioli e arriva a destinazione, cioè a Palazzo Chigi, la settimana scorsa. È mercoledì 5 agosto, ora di pranzo. Fedele Confalonieri ha appena finito di parlare al telefono con Renzi. Una telefonata importante, visto che da quello scambio di battute viene fuori l’accordo per l’elezione di Monica Maggioni ai vertici della Rai. Berlusconi, che per la trattativa sui vertici di Viale Mazzini ha lasciato campo libero ai suoi ambasciatori, ascolta le parole del suo capo-azienda, che è anche l’amico di una vita. "Visto che con Renzi si può ancora discutere?", è l’argomentazione del presidente di Mediaset. Neanche un’ora dopo, l’ex premier prepara il rilancio. "Fate sapere a Renzi che sono pronto a discutere con lui e ad aiutarlo sulle riforme. Ma prima lui deve "aprire" a un dialogo con noi sulla giustizia". Condizione imprescindibile. O la giustizia o niente. Prendere o lasciare. Neanche un giorno dopo, e siamo a giovedì scorso, sul tavolo di Berlusconi si materializza una serie di vecchie proposte di Forza Italia in materia di giustizia. I faldoni si assottigliano fino a diventare una specie di programma in quattro punti. Primo, una stretta sulle intercettazioni telefoniche, sugli ambiti del loro utilizzo nelle indagini e sulla possibilità che vengano pubblicate. Secondo, una revisione del ricorso alla carcerazione preventiva, che secondo i desiderata berlusconiani dovrebbe essere limitata a una serie di reati particolarmente gravi. Terzo, la separazione delle carriere dei magistrati, altro antico cavallo di battaglia dell’ex premier, con l’istituzione di due diversi Consigli superiori della magistratura (uno per chi indaga, l’altro per chi giudica). Quarto, un cambio radicale sui meccanismi di formazione dei collegi giudicanti. La base di dialogo sulla giustizia, preparata da Forza Italia, viene inviata a un ristrettissimo gruppo di persone. E, tra gli azzurri, viene anche indicato un mediatore. È Paolo Romani, capogruppo in Senato, i cui modi (e anche toni) sono da sempre apprezzati anche dal fronte Pd. Non ha solo innate doti da "moderato", Romani. Ha anche altre due "caratteristiche". La prima è che, insieme a Gianni Letta e a Fedele Confalonieri, il presidente dei senatori azzurri è da sempre un sostenitore dell’ala morbida nei confronti del governo. La seconda, ed è un dettaglio di poco conto, è che Romani sta trascorrendo le sue vacanze a Forte dei Marmi, in Versilia. E quindi ha la possibilità di incontrare Renzi e il gotha del renzismo (leggasi, Luca Lotti e Maria Elena Boschi) senza macinare troppi chilometri e senza dare nell’occhio. La trattativa Renzi-Berlusconi sulla giustizia è davvero possibile? Tra gli elementi di difficoltà, oltre quelli "politici" (che però sono tutti in capo al Pd), c’è anche la resistenza dell’ala dura di Forza Italia (da Giovanni Toti a Daniela Santanché, passando per Debora Bergamini), che si oppone a qualsiasi dialogo col governo. Se qualcosa succede, mormorano tra i berlusconiani, "succede ad agosto". Berlusconi aspetta dalla Sardegna un segnale dal governo. Ed è convinto, come mai lo era stato prima, che Renzi - senza il soccorso forzista - non arriverà al 2018. Per questo ha messo in gioco una posta alta. Molto alta. Giustizia: censimento del civile, cause arretrate verso quota 4 milioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2015 Ministero della giustizia, censimento aggiornato sulla giustizia civile. L’asticella è stata messa a una misura elevata. Ma ci sono tutti i presupposti per superarla. È fiducioso il ministro della Giustizia Andrea Orlando che, a ridosso di ferragosto, rafforza la campagna per ridurre il debito pubblico della giustizia italiana, lo stock di cause arretrate che con la sua consistenza rischia di compromettere anche la necessità di svolgere i giudizi in tempi ragionevoli e comunque a prova di legge Pinto. Orlando, nella conferenza stampa che ieri ha fatto il punto sul censimento generale della giustizia civile, ha annunciato che entro la fine dell’anno le cause da smaltire si attesteranno a quota 4 milioni. Un altra netta diminuzione dopo che già gli ultimi dati disponibili sull’anno giudiziario, quello chiuso a giugno 2014, hanno fatto registrare una diminuzione, da circa 5 milioni e 200mila controversie pendenti a 4 milioni e 900mila. "I dati a nostra disposizione ci dicono che siamo sulla buona strada - ha sottolineato Orlando. E i 4 milioni di cause pendenti rappresentano un numero che il sistema può "digerire" certamente in tempi più utili". Obiettivo realistico? Orlando precisa che il contributo verrà principalmente "da una serie di misure messe in cantiere" da un Governo che ha deciso di affrontare di petto il problema dell’arretrato civile soprattutto alla luce dei 455 milioni di euro che lo Stato deve ai cittadini a titolo di indennizzo in base alla legge Pinto. Importante in questo senso, e il ministro ci ha tenuto a metterlo in evidenza, il pacchetto di misure varate con l’ultimo decreto legge sulla giustizia civile, dal rafforzamento del processo civile telematico agli incentivi fiscali per la buona riuscita di negoziazioni e arbitrati, passando per l’affiancamento del giudice da parte di un tirocinante e soprattutto dall’innesto, il più elevato da parecchi anni a questa parte, di personale amministrativo: entro fine anno saranno 3.200 i nuovi addetti. Al ministero della Giustizia, lo precisa la relazione presentata ieri del responsabile del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria Mario Barbuto, si punta anche a una riclassificazione dei dati. Dove la confusione è anche terminologica tra "pendenza" e "arretrato": tecnicamente, infatti, fa notare la relazione, non è corretto calcolare nel secondo anche le tutele, le curatele e le amministrazioni di sostegno. Ognuna di queste pratiche pur impiegando quotidianamente un giudice non può essere conteggiata nell’arretrato e neppure può considerarsi "pendenza rilevante" per misurare il grado di efficienza di un ufficio perché il suo esaurimento non dipende dalla volontà del giudice titolare. Infatti la chiusura di tali pratiche può aversi solo con l’eventuale decesso dell’interessato oppure (caso molto raro) con la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione. Il dato complessivo allora, depurato, dall’influenza delle tutele, porta a fare considerare l’arretrato correttamente inteso come fisso a quota 4.555.613 affari giacenti. Una cifra inferiore di poco più di 700mila procedimenti rispetto al 31 dicembre 2013. Con un pizzico di enfasi allora, la relazione di Barbuto avverte che è tramontata l’era compresa tra il 2007 e il 2013 in cui la voce "arretrato" veniva divulgata con cifre oscillanti ma sempre al di sopra dei 5 milioni. Un’operazione di riclassificazione che troverà una fase 2 sui provvedimenti di volontaria giurisdizione, il cui peso è ancora da valutare, anche se, complessivamente, nel 2013 i casi sono stati in tutto 825.374. Tuttavia, la vera carta su cui scommette il ministero è il progetto Strasburgo 2 (dall’esperienza positiva del tribunale di Torino guidato da Barbuto). "Questo Piano - ha spiegato Orlando, mette a disposizione di tutti gli uffici giudiziari gli strumenti necessari per abbattere l’arretrato, partendo da un criterio base, quello relativo allo smaltimento delle cause più "antiche". Il ministero non può imporre direttive - ha precisato Orlando - ma può diramare circolari proponendo questo programma come consiglio". Tanto più dopo che dal Csm è arrivato un sostanziale via libera. Giustizia: firmato il decreto sulla specializzazione degli avvocati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2015 Regolamento del ministero della Giustizia sulla specializzazione forense. Sono 18 le aree di specializzazione previste per gli avvocati. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha firmato ieri il regolamento con il quale viene disciplinato il conseguimento e la conservazione del titolo di specialista, dando così esecuzione (a questo punto manca solo la pubblicazione in "Gazzetta" del testo) a una delle principali novità introdotte della riforma dell’ordinamento forense. Il regolamento, 16 articoli in tutto, prevede che il titolo può essere conseguito in non più di due settori. Tra questi, il diritto penale, quello amministrativo, internazionale, fallimentare, commerciale, bancario, tributario. L’avvocato interessato al conseguimento del titolo deve presentare domanda all’Ordine di appartenenza. La richiesta può essere avanzata dal legale che negli ultimi 5 anni ha frequentato con esito positivo i corsi di specializzazione, non ha riportato nei 3 anni precedenti una sanzione disciplinare definitiva, non ha subito nei 2 anni precedenti la revoca del titolo. I percorsi formativi sono predisposti in ambito universitario, con programmi definiti da una commissione istituita al ministero della Giustizia; tocca al Consiglio nazionale forense la firma di convenzioni con le università finalizzate alla formazione specialistica. Convenzioni che possono essere stipulate anche con le associazioni specialistiche maggiormente rappresentative (è il caso, ovvio, dell’Unione delle camere penali). I corsi dovranno avere durata almeno biennale una didattica non inferiore a 200 ore; previsto anche un obbligo di frequenza per almeno l’80% della durata. Il titolo può poi essere utilizzato anche dall’avvocato che ha un’anzianità di iscrizione all’Albo di almeno 8 anni e che ha esercitato negli ultimi 5 anni "in modo assiduo, prevalente e continuativo, attività di avvocato in uno dei settori di specializzazione". Criterio forse un po’ generico, ma che il regolamento si premura di circostanziare, puntualizzando che nei 5 anni precedenti il legale deve avere ricevuto almeno 15 incarichi professionali annui rilevanti in quella materia. La disciplina della fase transitoria prevede il conferimento del titolo, ma dopo il superamento di una prova orale e di una scritta, anche a favore di chi ha ottenuto nel periodo 2011-2015 un attestato di frequenza di un corso almeno biennale di alta formazione specialistica. Nullità dei provvedimenti assunti "de plano" fuori dei casi consentiti dalla legge Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2015 Giudice dell’esecuzione - Provvedimento assunto "de plano" fuori dei casi consentiti dalla legge - Nullità assoluta - Sussistenza - Conseguenze nel giudizio di legittimità - Annullamento senza rinvio. Il provvedimento che il giudice dell’esecuzione assume "de plano", senza fissazione dell’udienza in camera di consiglio, fuori dei casi espressamente stabiliti dalla legge, è affetto da nullità di ordine generale e a carattere assoluto, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, che, se accertata in sede di legittimità, comporta l’annullamento senza rinvio della decisione impugnata. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 7 ottobre 2014 n. 41754. Giudice dell’esecuzione - Provvedimento assunto "de plano" fuori dei casi consentiti dalla legge - Nullità assoluta - Sussistenza - Conseguenze nel giudizio di legittimità - Annullamento senza rinvio. Il provvedimento che il giudice dell’esecuzione assume "de plano", senza fissazione dell’udienza in camera di consiglio, fuori dei casi espressamente stabiliti dalla legge, è affetto da nullità di ordine generale e carattere assoluto, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, che, se accertata in sede di legittimità, comporta l’annullamento senza rinvio del provvedimento medesimo. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 28 febbraio 2014 n. 9818. Giudice dell’esecuzione - Provvedimento assunto "de plano" -Omessa fissazione udienza camerale - Nullità assoluta - Configurabilità. Il provvedimento che il giudice dell’esecuzione assume "de plano", senza fissazione dell’udienza in camera di consiglio, fuori dei casi espressamente stabiliti dalla legge, è affetto da nullità d’ordine generale e di carattere assoluto, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 10 luglio 2013 n. 29505. Giudice dell’esecuzione - Provvedimento assunto "de plano" - Omessa fissazione dell’udienza camerale - Nullità assoluta - Configurabilità - Rimedi. Deve essere annullato senza rinvio, con trasmissione degli atti per una nuova deliberazione nelle forme previste, il provvedimento che il giudice dell’esecuzione assume "de plano", ovvero senza fissazione dell’udienza in camera di consiglio, fuori dei casi espressamente stabiliti dalla legge, perché affetto da nullità d’ordine generale e di carattere assoluto, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, dato che essa comporta l’omessa citazione dell’imputato e l’assenza del difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 18 dicembre 2008 n. 46786. Giudice dell’esecuzione - Istanza di fungibilità della pena - Adozione di provvedimento "de plano" - Nullità assoluta. L’adozione, da parte del giudice dell’esecuzione, di provvedimento "de plano" su un’istanza di fungibilità della pena, integra una nullità di ordine generale ed assoluta, rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ai sensi degli articoli 178 e 179 cod. proc. pen., dato che essa comporta l’omessa citazione dell’imputato e l’assenza del suo difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 16 dicembre 1997 n. 6168. Tributario: la violazione del contraddittorio si rileva d’ufficio di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2015 Commissione tributaria provinciale di La Spezia - Sentenza 441/2 del 24 aprile 2015. La violazione del contraddittorio e la conseguente nullità dell’atto può essere rilevata anche dal giudice d’ufficio: le irregolarità commesse dall’amministrazione ledono il principio della certezza del diritto incidendo così sulla proprietà e interessi privati. Ad affermarlo è la commissione tributaria provinciale di La Spezia con la sentenza numero 441/2/2015 depositata il 24 aprile 2015. A un contribuente veniva notificato un avviso di accertamento sintetico per il 2006 fondato sulle risultanze dell’applicazione del vecchio redditometro. Il provvedimento veniva impugnato dinanzi alla commissione tributaria competente chiedendone la nullità, sostanzialmente, per infondatezza della pretesa. Il collegio adito, dopo aver verificato l’atto ha preliminarmente rilevato l’assenza di un verbale conclusivo dell’attività istruttoria. Il giudice, sui presupposti dell’articolo 12 dello Statuto del contribuente, ha rilevato che le previsioni in esso contenute non sembrano riferibili solo all’ipotesi di verifica "esterna" ed anzi, a ben vedere, dovrebbero esprimere la volontà del legislatore di tutelare chi non ha modo di interloquire con i verificatori. E infatti, quando la verifica è svolta presso la sede, il contribuente ha possibilità di contraddire "costantemente" con i verificatori, mentre quando l’attività è svolta nell’ufficio, il soggetto controllato, in assenza di un verbale, scopre delle risultanze istruttorie solo con l’emissione dell’avviso di accertamento. La difesa quindi, se fosse questa l’interpretazione, sarebbe possibile solo attraverso la via giudiziale. Secondo il Collegio, quindi, indipendentemente dalle modalità di espletamento della verifica cui è sottoposto, il contribuente è sempre interessato a conoscere il contenuto delle contestazioni attraverso l’emissione del verbale conclusivo. Il rispetto del contraddittorio costituisce, peraltro, un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogni qualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo. Principi condivisi dalla Suprema corte. La violazione e quindi la nullità dell’atto è stata così rilevata d’ufficio dal giudice spezzino sul presupposto che l’Amministrazione, per dovere costituzionale, deve agire nei termini, poiché in caso contrario lede il principio di certezza del diritto. Il giudice tributario non è un funzionario e pertanto deve trattare le parti con uguaglianza, vale a dire che come è possibile rilevare d’ufficio l’eventuale decadenza per il contribuente, al pari va trattato l’ufficio. La decisione appare molto importante poiché nell’attuale ordinamento tributario non esiste un obbligo normativo e generalizzato del diritto al contraddittorio e pertanto per tutti i casi di accertamento a tavolino (indagini bancarie, medie di settore e così via) gli uffici non convocano il contribuente, il quale scopre della pretesa solo con l’emissione dell’atto. Non può nascondersi, però, che alla luce dei principi di trasparenza, lealtà, collaborazione e buona fede che dovrebbero caratterizzare i rapporti fisco-contribuente, mal si comprendono le difficoltà a riconoscere le attuali garanzie previste per le verifiche fiscali. Si determina, infatti, un’ingiustificata disparità in base alla metodologia di controllo adottata e addirittura al luogo di svolgimento del controllo stesso. Lettere: il male senza pentimento e la rivoluzione sperata di Ferdinando Camon Avvenire, 13 agosto 2015 Sembrava una pena aggiuntiva, e dunque minore, e invece adesso diventa questa la pena più grave inflitta alla cosiddetta ‘coppia dell’acidò: la perdita della potestà genitoriale. Nella coppia la figura dominante era lei, la 24enne che organizzava la punizione dei suoi ex compagni, scagliandogli in faccia flaconi di acido, per sfigurarli. Otto mesi fa, subito dopo l’arresto, durante l’interrogatorio, la donna dichiarò di essere al primo mese di gravidanza. Quindi aveva pensato, programmato ed eseguito il reato nella consapevolezza che avrebbe avuto delle conseguenze sulla sua maternità: tenere quel bambino con sé, vivere da madre insieme con lui, parlargli, baciarlo. Fare tutto ciò che fa una madre. Adesso è arrivato il momento in cui il bambino dovrebbe nascere. È questione di giorni. Il tribunale ha stabilito che la donna deve restare in carcere, andrà in un carcere adeguato, dove sono altre detenute-madri. Ci starà tre anni. A meno che il Tribunale dei Minori non decida diversamente, pensando di tutelare meglio il piccolo. Ma quali sono le alternative tra cui si può scegliere? Farlo nascere in carcere e lasciarlo crescere per i primi anni con la madre? Sottrarlo alla madre e affidarlo ai nonni? O sottrarlo anche ai nonni e disporne l’adozione? Vediamole. Farlo crescere con la madre sembra una disposizione crudele perché il suo senso immediato è questo: un bambino, un neonato, in carcere, dov’è finita la madre. Un bambino che sconta la pena insieme con la madre, nascendo e restando nella sua cella. La gente così intende, ma così non è. La condannata, al momento di diventar madre, va in una sede predisposta ad accogliere e curare anche i neonati. Sedi così ce ne sono, e dentro vi stanno madri con colpe anche più gravi, perfino l’omicidio. Ma questo non eviterebbe del tutto al bambino di rendersi conto, prima o poi, della realtà: la madre è cattiva, molto cattiva, ha commesso una colpa grave, vive dentro una prigione mentre l’umanità vive fuori. Se la convivenza madre-figlio dura un triennio, un bambino, che appena nato non capisce niente, farebbe in tempo a intuire qualcosa. C’è chi pensa che questa non sia una soluzione buona, né per la madre né per il figlio. E allora, affidare il piccolo ai nonni? Resterebbe il legame con quella madre, la sua influenza, la sua autorità, e non si parlerebbe che di lei e di quel che ha fatto, forse anche trovando delle scusanti, che invece la Giustizia non vede. E noi dobbiamo calare nel bambino il punto di vista della Giustizia, non dei suoi nemici. Dobbiamo allevare un figlio della società, non di un clan. Terza ipotesi: preparare la strada all’adozione. Con l’adozione il piccolo crescerebbe senza l’influenza diretta o indiretta di una madre che sta fuori della legge, e verrebbe su come gli altri bambini. Ho scritto "che sta fuori della legge" e ci torno sopra perché il problema è tutto qui. Togliere un figlio a una madre è un gesto terribile, non togli la vita alla madre, le togli molto di più: la speranza di vivere oltre la vita, reincarnata nel figlio. Non sono un giurista ma un uomo della strada, e cerco di ragionare non da esperto del diritto ma da uomo della strada. Questa donna non si è pentita e non si pente. È questo il problema. È un problema che ostacola il cammino alla pietà, che tuttavia ogni uomo dovrebbe sempre provare verso chi fa del male. Se questa donna avesse coscienza di aver sbagliato e fosse pentita, allora "sarebbe con noi", non "contro di noi", e dandole il suo bambino non lo perderemmo. Invece sostiene che c’è una logica e una giustizia in quel che ha fatto, rivendica la coerenza dello sfregiare i volti dei compagni precedenti col "liberarsi delle esperienze negative", e dunque sente l’aggressione con l’acido come un miglioramento di se stessa. Sfigurare i compagni passati è un modo per cancellare il passato. Questa donna, che fra qualche giorno avrà un figlio, ha fatto del male applicando un sistema per cui il male è un bene. Allora, per noi, far vivere il bambino con lei vuol dire calarlo in quel sistema. Questo non è il bene del bambino. Sarebbe suo interesse crescere con un padre e una madre che, se han commesso qualche sbaglio (tutti abbiamo commesso degli sbagli), gliene dispiace e cercano di non ripeterlo. Allevare un figlio vuol dire allevare un continuatore. Qui sarebbe meglio non continuare, ma ricominciare da un altro inizio. Ma: e se il nuovo inizio fosse la maternità? Se la ragazza violenta e non-pentita, vivendo col figlio, imparasse la dolcezza, la non-violenza e il pentimento? Sarebbe una rivoluzione. E cos’altro è la maternità? Lettere: caso Contrada, la Cassazione si arrampica sugli specchi contro Strasburgo di Claudio Cerasa Il Foglio, 13 agosto 2015 Ritorna d’attualità la sentenza della corte di Strasburgo che nell’aprile scorso ha riconosciuto a Bruno Contrada un risarcimento perché l’applicazione al suo caso del reato di concorso esterno in associazione mafiosa nasceva da un mutamento del diritto di natura giurisprudenziale "sfavorevole e imprevedibile per l’imputato all’epoca dei fatti addebitatigli". Il carattere giurisprudenziale del reato nasce dal fatto che non esiste una legge specifica che indica la condotta di concorso esterno in associazione mafiosa come reato specifico, ma solo l’estensione a un reato associativo di una fattispecie anch’essa associativa, per decisione dei tribunali e non in forza della legge. Ora la Corte di Cassazione cerca di annullare l’effetto dirompente di questa sentenza di Strasburgo, sostenendo che il carattere giurisdizionale del reato (ammesso dalla parte italiana nella discussione di quel procedi- mento) sarebbe invece normativo. Però, siccome la norma non esiste, si arrampica sui muri sostenendo che questo "scaturisce dalla combinazione della norma incriminatrice e la disposizione generale in tema di concorso eventuale". Insomma sostiene che siccome la stessa Corte ha applicato, in varie sentenze e quindi in via giurisprudenziale, il concorso esterno a un reato associativo, questo costituirebbe una norma. Ma le norme, cioè le leggi, le fa il Parlamento, piaccia o non piaccia ai giudici di Cassazione, non i tribunali, anche se di livello elevatissimo. Strasburgo, meno sensibile alle pressioni mediatiche e al clima giustizialistico, ha messo a nudo la fragilità di un castello giuridico dalle fondamenta inesistenti, sarebbe bene che ora anche in Italia si accettasse l’evidenza di un assurdo giuridico che nasce da un’invasione indebita del campo legislativo da parte della magistratura. Umbria: Sappe; troppi episodi critici nelle celle, peggiorata la situazione delle carceri Quotidiano dell’Umbria, 13 agosto 2015 I detenuti complessivamente presenti nelle carceri regionali dell’Umbria erano, il 30 luglio scorso, 1.332. Meno di quelli che c’erano un anno fa quando, nello stesso giorno del 2014, erano 1.534. A non calare, però, sono gli eventi e gli episodi critici nelle celle, secondo la denuncia del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria le condizioni di vita dei detenuti, in linea con le prescrizioni dettate dalla sentenza Torreggiani, sono migliorate in Italia. Non si dice, però, che le tensioni del sistema penitenziario italiano continuano a scaricarsi sulle donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, quotidianamente impegnati a contrastare le tensioni e le violenze che avvengono nelle nostre carceri vedono spesso i nostri Agenti, Sovrintendenti, Ispettori picchiati e feriti dalle violenze ingiustificate di una consistente fetta di detenuti che evidentemente si sentono intoccabili", sottolinea Donato Capece, segretario generale del Sappe. "I dati sono gravi e sconcertanti e sono utili a comprenderli organicamente la situazione delle prigioni del nostro Paese: ometterli è operazione mistificatoria", prosegue il leader del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria con il Segretario regionale Sappe dell’Umbria Fabrizio Bonino. "Dal 1 gennaio al 30 giugno 2015 nelle 4 carceri dell’Umbria si sono infatti contati il suicidio di un detenuto, 1 decesso per cause naturali in cella e 53 atti di autolesionismo posti in essere da detenuti. Ancora più gravi i numeri delle violenze contro i nostri poliziotti penitenziari: parliamo di 34 colluttazioni e 12 ferimenti, senza citare il grave episodio nel carcere di Spoleto qualche settimana fa con due poliziotti aggrediti. Ogni giorno, insomma, le turbolenti carceri umbre ed italiane vedono le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria fronteggiare pericoli e tensioni e per i poliziotti penitenziari in servizio le condizioni di lavoro restano pericolose e stressanti". "Ma il Dap queste cose non le dice", denunciano infine Capece e Lorenzo: "l’unica preoccupazione, per i solerti dirigenti ministeriali, è evidentemente quella di migliorare la vita in cella ai detenuti. I poliziotti possono continuare a prendere sberle e pugni, a salvare la vita ai detenuti che tentato il suicidio nel silenzio e nell’indifferenza dell’Amministrazione penitenziaria…..". Terni e Perugia le due carceri umbre con il più alto numero di atti di autolesionismo (quando un detenuto si lesiona il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo): rispettivamente 21 e 20 casi. Pordenone: detenuto morto nel carcere. Il parroco "sembra un altro caso Cucchi" Il Manifesto, 13 agosto 2015 L’autopsia sul corpo del ventinovenne di Portogruaro, Stefano Borriello, non è bastata per accertare le cause del decesso avvenuto nel carcere di Pordenone venerdì sera. Secondo il report, affidato ai quotidiani locali, delle tre ore di esame autoptico eseguito dall’incaricato dalla procura alla presenza del perito di parte della famiglia della vittima, i segni sul corpo del giovane non sarebbero ecchimosi procurate da eventuali colpi violenti. Ma il cuore era sano, sarebbe escluso l’infarto miocardico. E dunque, malgrado i trascorsi da tossicodipendente, il giovane non presentava problemi di salute tali da giustificare una morte tanto repentina. Secondo quanto riportato dal Messaggero Veneto, "il "fuoco di Sant’Antonio" era minimo, e quindi nemmeno questa infezione è stata letale". In ogni caso, qualcosa di più diranno tra 60 giorni gli esami tossicologici e di laboratorio sui campioni di organi e di liquidi prelevati per l’analisi. "Sembra un altro caso Cucchi", si è sfogato don Andrea Ruzzene, il parroco di Portogruaro che conosceva molto bene Borriello, un giovane sofferente dalla morte del padre, con una vita difficile e in carcere da due mesi con l’accusa di rapina. "In due mesi il Sert che lo seguiva non è mai andato a visitarlo, sembra non avesse alcun disturbo - spiega ancora don Ruzzene - Forse il problema è più ampio: nelle celle non c’è l’aria condizionata, magari se qualcuno fosse intervenuto un po’ prima non sarebbe successo…". Il giorno prima che morisse, giovedì scorso, il parroco era andato a trovare Stefano in carcere: "Erano le 9.30 - racconta don Andrea a il Gazzettino di Venezia - Mi hanno detto che non poteva venire perché aveva la schiena bloccata. Volevo andare in cella, entrare come ministro del culto, ma non è stato possibile". Alle 20 circa, ricostruisce una nota dell’Asl 5, il detenuto avrebbe accusato un malore. I due infermieri intervenuti, chiamati dagli agenti di sorveglianza, hanno tentato la rianimazione cardiopolmonare fino al sopraggiungere dell’ambulanza. "Ma purtroppo, le condizioni sono ulteriormente peggiorate" e giunto in pronto soccorso, alle 21,15, Borrello "è deceduto per arresto cardiaco". Torino: i funerali Andrea Soldi e i dubbi sull’urgenza del Tso di Roberto Ravarino Il Manifesto, 13 agosto 2015 Ieri le esequie dell’uomo di 45 anni morto durante un trattamento obbligatorio. Spuntano le testimonianze secondo cui Soldi sarebbe stato disponibile a farsi ricoverare in una struttura indicata dallo psichiatra intervenuto. Un foglio colorato, appeso alla panchina dove si sedeva ogni giorno. "Ciao Andrea, grazie per il tuo affetto, ti ricorderemo sempre". E poi, fiori e biglietti, su quei tre assi verdi in piazzetta Umbria, non distante dal centro di Torino, su cui passava i pomeriggi Andrea Soldi. Lì è stato preso contro la sua volontà, per un trattamento sanitario obbligatorio, richiesto da uno psichiatra. Tre agenti della polizia municipale, in borghese, lo hanno afferrato con i guanti neri stringendogli il collo, ammanettandolo a pancia in giù. Ieri, si sono svolti i funerali: "Nel nostro cuore c’è tantissimo dolore, ma non rancore", ha detto, durante l’omelia, don Primo Soldi, zio dell’uomo di 45 anni morto mercoledì scorso. La sorella Maria Cristina Soldi non può dimenticare quella collana di lividi attorno al collo di Andrea, le cicatrici sul volto e i segni bianchi ai polsi. Ora, chiede giustizia. "Quel Tso non era necessario, avevano aspettato sette mesi, potevano aspettare ancora un giorno", racconta. Andrea aveva già ricevuto cinque Tso ma con altre modalità. "Era un buono, generoso, mai violento o autolesionista, solo un po’ ingenuo. La prima crisi di schizofrenia acuta è arrivata all’improvviso, era in caserma per il servizio di leva. Fino al 1991 non aveva mai dato segni di malattia". I primi risultati dell’autopsia ordinata dal pm Raffaele Guariniello hanno sancito che il collo dell’uomo è stato stretto troppo a lungo e che sull’ambulanza, durante il viaggio in ospedale, non è stato fatto nessun intervento di rianimazione, perché il paziente ammanettato dietro alla schiena. Sono indagati per omicidio colposo Enri Botturi, Stefano Delmonaco - il responsabile della presa - e Manuel Vair, gli agenti della pattuglia "Pegaso 6?, e lo psichiatra che ha richiesto il Tso, Pier Carlo Della Porta. La procura di Torino sta valutando anche il reato di omissione di soccorso. "Perché una violenza simile per farlo salire sulla barella? Un approccio insensato. Perché già esanime e con una crisi respiratoria in corso è stato caricato a pancia in giù ed ammanettato?", si chiede ora l’avvocato Giovanni Soldi, cugino della vittima e legale della famiglia. Secondo la dinamica emersa, l’effetto scatenante è stato dato da una stretta forte, eccessiva, fatta con il braccio da uno dei vigili. 15 secondi, troppi. Non uno strangolamento ma "choc da compressione latero laterale", come riferito dal medico legale, Valter Declame, che su incarico del pm Guariniello ha effettuato l’autopsia. La compressione del collo non basta, però, a spiegarne la morte; sommata all’assenza di manovre di rianimazione, avrebbe provocato il decesso. Perché nessuna delle otto persone presenti sulla scena ha cercato di rianimarlo? Andrea aveva il volto cianotico. Perché nessuno gli ha tolto le manette prima di caricarlo sull’ambulanza, dove non è salito nessun sanitario? "Se sia stata la stretta al collo o le manette fatali lo diranno meglio i prossimi dati dell’autopsia a cui ho assistito con un nostro medico", spiega l’avvocato Soldi, che nota come sia stata applicato un approccio "da polizia giudiziaria". Andrea non aveva commesso nessun reato. È purtroppo ormai diventato consuetudine l’ammanettamento dietro alla schiena, una pratica figlia dell’americanizzazione delle nostre forze dell’ordine iniziata oltre vent’anni fa. Il comandante della polizia municipale, Alberto Gregnanini sostiene che "a Torino le procedure sono conformi alle leggi". La prassi permetterebbe quanto è accaduto in piazzetta Umbria, dove un medico ha dato il semaforo verde al Tso senza attendere l’apposita ordinanza del sindaco. In ogni caso "c’è l’impegno comune - continua - a migliorare e a garantire la massima tutela e la protezione dei pazienti". Al vaglio dell’inchiesta coordinata da Guariniello, spuntano anche le testimonianze che rilevano una disponibilità di Andrea a farsi ricoverare in una struttura indicata da Roberto Messaglia, lo psichiatra che era arrivato ai giardinetti per controfirmare l’intervento richiesto da Della Porta e che aveva parlato con l’uomo, salvo poi andarsene prima che la situazione si aggravasse. Era dunque così urgente il Tso? Favignana (Tp): Uil-Pa; agente cerca di fermare rissa ma scivola e batte la testa, è grave corrierequotidiano.it, 13 agosto 2015 Si tratta di un assistente capo della Polizia penitenziaria trasferito urgentemente nell’ospedale di Trapani. Interviene all’interno del supercarcere di Favignana per evitare una rissa tra detenuti ma scivola e batte violentemente la testa sul pavimento perdendo i senso: si tratta di un assistente capo della Polizia penitenziaria per il quale è stato necessario il trasferimento con eliambulanza all’ospedale di Trapani. A denunciare l’accaduto è Gioacchino Veneziano, segretario regionale in Sicilia della Uil-Pa Penitenziari. Veneziano riferisce che il poliziotto era intervenuto dopo aver notato un assembramento di detenuti ai cortili passeggi e che si era subito lanciato per evitare il peggio. Nell’esprimere piena solidarietà al collega ferito auspicando una completa e pronta guarigione, l’esponente sindacale della Uila Penitenziari dice "è sintomatico che le favole del Guardasigilli Orlando e del Capo del Dap Consolo oramai sono giunte ai titoli di coda, considerato oramai le quotidiane notizie tragiche nei confronti dei nostri colleghi". Roma: progetto "Vale La Pena", dietro le sbarre ma produttori di buone birre di Cinzia Gubbini La Repubblica, 13 agosto 2015 È il progetto "Vale La Pena" finanziato dal Ministero dell’Istruzione e dal Ministero della Giustizia che hanno deciso di scommettere sulla proposta un po’ visionaria di Paolo Strano, presidente dell’Associazione Semi di Libertà, e degli altri tre soci fondatori, Silvia Guelfi, Claudio Rosati ed Adriana Boccanera. Stare lontano dal carcere, ricominciare una nuova vita camminando sui binari giusti. E tutto questo producendo birra artigianale. Forse qualcuno può pensare che sia inopportuno iniziare delle persone con crimini alle spalle, a volte anche dipendenze da droga e alcol, alla produzione di birra. Ma l’esperienza dell’associazione "Semi di Libertà" sta ribaltando tutti gli stereotipi. Da più di un anno in commercio c’è la birra "Vale La Pena" e a produrla sono alcuni dei migliori birrai italiani insieme a 9 detenuti di Rebibbia ammessi al lavoro esterno al carcere. Un progetto visionario. Il progetto è stato finanziato dal Ministero dell’Istruzione e dal Ministero della Giustizia che hanno deciso di scommettere sulla proposta un po’ visionaria di Paolo Strano, presidente dell’Associazione, e degli altri tre soci fondatori, Silvia Guelfi, Claudio Rosati ed Adriana Boccanera. Strano e gli altri non sapevano nulla di carcere fino al 2011. Lavorano come fisioterapisti per la Asl Rma e da quando sono entrati per la prima volta in un penitenziario, Regina Coeli, sono passati solo quattro anni: "Fino ad alcuni anni fa la cura dei detenuti era in capo all’Amministrazione penitenziaria, poi la competenza è passata al ministero della Salute. Per la prima volta ci è stato chiesto di entrare nelle carceri. Per me è stato un shock: non pensavo che le condizioni di vita fossero così dure. Ancora oggi il sovraffollamento è un problema, ma nel 2011in Italia c’erano 66 mila detenuti per 45 mila posti. A Regina Coeli l’emergenza era palese. Tensione, livori, problemi. Una bomba pronta ad esplodere". L’idea. Strano, benché specializzato in tutt’altro campo, decide che non vuole stare con le mani in mano. Vuole provare a mettere in piedi un progetto che dia una opportunità lavorativa a chi esce dal carcere. In Italia la recidiva tra chi sconta l’intera pena dietro le sbarre ha un tasso molto alto: 68%, ma cala al 19% per chi sconta misure alternative (dati del 2007) e addirittura 2% per chi viene inserito in un progetto di inserimento lavorativo. La soluzione, insomma, tutto sommato è semplice: offrire opportunità. Strano si mette a studiare. Cerca un prodotto appetibile sul mercato ma anche appassionante per chi dovrà produrlo. E scatta la lampadina: la birra artigianale. Trovare un finanziatore non è stato facile. "Mi è sembrata la cosa ideale, perché la birra è un prodotto divertente, che interessa anche i giovani, avvicina ad ambienti sociali. Ma è anche un prodotto con una forte cultura: quando entri nel mondo della birra impari a rispettarla, a capire la sua vera valenza che non è quella dello ‘sballò ma del gusto di un prodotto che dal campo al boccale è un teorema di qualità e competenza". L’intuizione è buona, perché in questo momento la birra artigianale va forte. Basti pensare che se nel 2011 i birrifici artigianali in Italia erano 300, oggi sono 900. Nasce il business plan, trovare un finanziatore non è facile ma ecco la notizia che il Ministero dell’Istruzione e quello della Giustizia hanno firmato un accordo per la formazione dei detenuti. È l’occasione giusta. Il birrificio in una scuola. Il Miur decide di appoggiare l’idea di "Semi di Libertà": i fondi li dà a all’Istituto Agrario Sereni di Roma che abbraccia con entusiasmo il progetto e mette in piedi il birrificio, l’associazione può utilizzarlo in comodato d’uso. Il Ministero della Giustizia, attraverso il Provveditorato Regionale e la Cassa delle Ammende ne finanziano la start-up. Così detenuti e studenti iniziano a lavorare insieme. Qualche problema con i genitori? "All’inizio sì - ammette Paolo Strano - ma poi hanno capito che il progetto è solido, perché oltre alla parte produttiva e didattica ce n’è anche una sociale: con gli studenti parliamo di percorsi di legalità, di consumo consapevole di alcol. E poi, il contatto con i detenuti è utile, sapere cosa significa effettivamente stare in carcere può essere importante per ragazzi di quella età". Birre di qualità. Da allora, cioè dal settembre 2014, 9 detenuti hanno fatto un corso teorico e pratico per imparare a fare la birra. Ad aiutarli sono venuti i più grandi birrai italiani: da Valter Lowerier di Loverbeer, Ioan Bratuleanu di Birradamare, Luigi "Schigi" D’Amelio di Extraomnes e molti altri. Le birre oggi sono 12. I nomi sono molto ironici: vanno da "Leg(g)Ale" a "Er Fine Pena" per arrivare a "A Piede Libero". Per sapere come contribuire al progetto, ci si collega con il sito "Vale la pena". Milano: all’Ipm Beccaria, dove i corsi di nuoto riportano i giovani detenuti "a galla" di Elena Gaiardoni Il Giornale, 13 agosto 2015 L’istruttore Iannetta: "Il contatto con l’acqua è importante e allenta le tensioni tra di loro". Estate: l’acqua è svago, aperto tuffo di gioia in mari e laghi. Per pochi esseri nascosti è fonte di salvezza in una vasca e una parentesi di libertà. Sangue e morte per i giovani detenuti del Beccaria furono liquidi compagni di strada, che non se ne vanno una volta tra le mura del carcere, anzi si rivoltano contro questi "bambini" che, se nel mondo conficcarono la libertà in una spinta delittuosa contro altri, in carcere cadono vittime dell’impulso autolesionistico, il suicidio, perché carnefice e vittima sono facce della stessa medaglia. Una piscina tra le mura, una piscina per tenere al guinzaglio il mostro di una vita di guerra. Da una quindicina d’anni il Beccaria tenta di allentare le tensioni della reclusione grazie ai corsi di nuoto, sfiatatoio di compressioni psicologiche. Una palestra, un campo da calcio e rugby ma soprattutto la vasca di venti metri per cinque sono spazi in cui i detenuti godono di un tenue riflesso di pace. La serpe della violenza, e in modo particolare dell’auto-violenza, denunciata anche dal cappellano don Gino Rigoldi, non molla mai la presa. "Alcuni di loro non hanno mai avuto un contatto con l’acqua e non conoscono il significato della parola "nuotare" - spiega Antonio Iannetta, direttore della Uisp (Unione italiana sport per tutti) - Facciamo corsi a sette o otto giovani per volta. È un lavoro di forte impegno per i nostri volontari ma porta a buoni risultati". All’interno del penitenziario opera una squadra di istruttori Uisp, intenta a far passare un messaggio: esiste un’interrelazione umana chiamata gioco, un passatempo in cui le persone si divertono e esprimono se stesse pur sottoponendosi a regole. Nel gioco la legge è una norma da rispettare per amare se stessi e il vicino, traendo benefici fisici e psichici dalla relazione. "È una scoperta fondamentali per questi adolescenti" sottolinea Iannetta. Inquietanti i tentativi di suicidio, di cui uno pochi giorni fa, che ha fatto tornare alla memoria altri casi: un diciasettenne si è dato fuoco in cella, un altro ha tentato di impiccarsi, un altro si è tagliato i polpastrelli in mensa. Lo sport è una medicina per la presa di coscienza di contatti che non siano basati sull’aggressione. "Capitolo davvero complesso, ma indispensabile, è quello dell’arbitraggio: perché in una gara esiste l’arbitro, un uomo al di sopra delle parti che stabilisce il confine tra la giustizia e l’errore? Per gli allievi l’arbitro è una scoperta ardua e un concetto difficile da concepire". Fenomeni d’ansia patologica fino allo sperdimento della razionalità si verificano nella fase di prima assistenza, ovvero nel passaggio tra la vita esterna e il carcere. "Nelle stanze che accolgono i ragazzi abbiamo messo tavoli da ping pong, un buon metodo che impedisce il deflagrare di scene inquietanti. L’attività fisica mette in moto sistemi di autodifesa - conclude Iannetta. Stiamo sperimentandola anche nelle carceri per gli adulti. In quello di Bollate teniamo corsi di tennis". Sassari: nel carcere di Bancali un giorno di "festha manna" La Nuova Sardegna, 13 agosto 2015 Balli, musica e tantissima emozione nel carcere cittadino con il candeliere dei detenuti dedicato a San Sebastiano. Lo hanno fatto ballare al suono del tamburo, hanno fatto l’inchino di reverenza al simulacro della Madonna sulle note dell’Ave Maria e danzato sotto l’attenta guida di chi, in questi giorni di grande concitazione, ha insegnato loro passi e movimenti. Il Candeliere di "San Sebastiano", ieri mattina, ha danzato ancora una volta dentro le mura del nuovo carcere di Bancali, sotto gli occhi attenti di un pubblico speciale che ha colto, in quei preziosi minuti, tutte le emozioni della vera Faradda. E per gli otto portatori è stata una grande soddisfazione e una gioia enorme portare quel peso, quasi fosse, anche per loro, l’occasione di sciogliere un voto. "Vogliamo farvi sentire quanto siamo vicini a voi - ha detto il sindaco Nicola Sanna intervenuto all’immancabile appuntamento del Candeliere dei detenuti - al vostro percorso di recupero e di riscatto. Questa è una iniziativa bellissima che richiama l’abbraccio della città che, adesso, è lontana soltanto per la distanza". A fare gli onori di casa è stata la direttrice del carcere Patrizia Incollu che ha ringraziato quanti si sono adoperati per la riuscita dalla manifestazione tra le mura dell’istituto di pena. Il presidente dell’Intergremio Salvatore Spada ha quindi dato la disponibilità dell’associazione che rappresenta per insegnare ai detenuti come costruire un nuovo candeliere. "Ricordiamoci che i candelieri scendono per sciogliere un voto alla Vergine Assunta - ha detto l’arcivescovo di Sassari padre Paolo Atzei - e allora il mio per voi può essere un piccolo augurio, quello di portare il candeliere a Santa Maria dopo ferragosto. Dite alla Madonna che anche voi volete sciogliere il voto e lei vi assisterà per farvi mantenere la promessa". Intanto oggi il Candeliere di San Sebastiano sarà portato in piazza del Comune, dove potrà ballare in occasione della consegna dei premi dei Candelieri d’oro, d’argento, di bronzo e d’oro speciale. Don Gaetano Galia, quindi, ha ringraziato anche gli stessi ragazzi e lodato il loro impegno, oltre quello dei volontari dei gremi dei Sarti e dei Muratori. Prima dei saluti, il primo cittadino ha voluto donare un libro alla biblioteca del carcere: "Enrico Costa, lo scrittore e la sua città", scritto da Manlio Brigaglia e Simonetta Castia. Ad animare l’incontro, presentato da Ugo Niedda, ci ha pensato il cantante Giuseppe Manca con le sue canzoni in sassarese, Li Candareri e Faccia di trudda. All’incontro erano presenti gli assessori della giunta comunale, alcuni, il prefetto Pietro Giardina, il questore Pasquale Errico e numerose autorità militari e civili. Immigrazione: i Vescovi all’attacco "Governo assente", poi la frenata di Giuseppe Alberto Falci La Repubblica, 13 agosto 2015 Giallo su un’intervista del segretario Cei Galantino a Famiglia Cristiana: "Frasi riportate in modo esagerato". Il prelato contro Salvini, che replica: "Ha stufato". "È il governo che è del tutto assente sul tema dell’immigrazione". L’affermazione secca e senza sconti a Matteo Renzi e al suo esecutivo arriva da monsignor Nunzio Galantino in una intervista rilasciata a Famiglia Cristiana. In serata, però, una nota di redazione del settimanale frena sull’uscita del segretario della Cei: "Precisiamo - si legge - dopo aver parlato con lo stesso monsignor Galantino, che le dichiarazioni a lui attribuite sono state riportate in modo esagerato nei toni all’interno di un colloquio confidenziale con il nostro giornalista". Un mezzo passo indietro che, però, non disinnesca il giallo di giornata. Restano sul tavolo del premier le parole di Galantino che accusa il governo attuale e i precedenti inquilini di Palazzo Chigi di scrivere "leggi che in buona sostanza respingono gli immigrati e non prevedono integrazioni positiva". Come "la Turco-Napolitano e adesso la legge Bossi-Fini". Il ragionamento di Galantino si spinge oltre: "Se i migranti riuscissero ad ottenere uno straccio di permesso di soggiorno la gente non direbbe che mangiano a spese degli italiani". Critiche durissime che scuotono Palazzo Chigi. Matteo Renzi, sempre attento agli umori dell’opinione pubblica su un tema così sensibile, preferisce non entrare nella polemica quotidiana. Il premier è concentrato sui dossier che accompagneranno l’attività di governo al rientro dalle ferie(lavoro, ricerca, Expo e legge di stabilità). Anche i ministri competenti tacciono. Tocca allora al vice segretario del Pd Debora Serracchiani difendere il fortino renziano dal duro attacco della Cei: "A tutti quelli che dispensano soluzioni, a chi dà giudizi ingenerosi, a chi la fa facile, rispondiamo che questo governo sta affrontando con razionalità una soluzione difficile e lo sta facendo molto meglio che in altre parti". Serracchiani sposta il focus in uno scenario più ampio. E avverte: "Nessuno può pensare che l’Italia risolva l’emergenza dell’intero continente da sola". Sulla scia della numero due del Nazareno, la posizione di Emanuele Fiano, deputato Pd in corsa per le amministrative di Milano: "Non esistono democrazie senza critiche: ben venga chi vuole sferzare il governo perché faccia di più. Ma penso che sull’immigrazione stiamo facendo molto". Perciò, scandisce Fiano, "che monsignor Galantino dica che si può fare di più lo accetto, che affermi che l’azione del governo è totalmente insufficiente non lo accetto". Le critiche del segretario della Cei non investono soltanto l’operato del team di Matteo Renzi. Al centro dell’intervista anche i "piazzisti di fanfaronate da osteria". Ovvero, Matteo Salvini, Luca Zaia e Beppe Grillo. I quali, afferma Galantino, "hanno criticato pesantemente il papa, ma hanno visto che può essere controproducente per il loro consenso, perché papa Francesco è molto popolare". Non perde tempo il leader Carroccio, Matteo Salvini, che dal profilo fb passa al contrattacco: "Per i 4 milioni di disoccupati e i 9 milioni di poveri, niente alberghi? Ma l’Italia è ancora una Repubblica o dipende dal Vaticano? Chiedo a voi amici cattolici ma questo Galantino ha rotto le scatole?". Volano gli stracci. La reazione alimenta lo scontro tra maggioranza e opposizione. Francesco Boccia, deputato dem, risponde per le rime al segretario di via Bellerio: "I cattolici, caro Matteo Salvini, stanno con Galantino, aiutano migranti e bisognosi mentre tu sei in ferie; si sono rotti solo del tuo populismo". Mentre dal quartier generale di Fi interviene l’ex ministro Maria Stella Gelmini: "Il Governo ha solo riempito dei pullman spedendoli nelle diverse regioni italiane, senza preavviso". Immigrazione: a Rignano tra gli schiavi nel ghetto dei migranti di Matteo Fraschini Koffi Avvenire, 13 agosto 2015 Diario di un’inchiesta, tra domande e sospetti. Un sopralluogo preliminare era doveroso. È avvenuto grazie a un ex residente del ghetto che mi ha rapidamente fatto conoscere la zona. Ho cercato di farmi notare il meno possibile. Nei giorni seguenti mi sono fatto crescere la barba, ho comprato un cappellino, e riempito lo zainetto di tutto il necessario: lenzuola, sapone, spazzolino e dentifricio. Ho utilizzato un’unica combinazione di vestiti (che lavavo quotidianamente) affinché si creasse di Koffi una sola immagine. L’entrata nel ghetto ho preferito farla di notte, quando c’è più confusione e si vedono meno i visi delle persone. Mi sono fatto lasciare dal taxi a un chilometro di distanza e ho camminato fino alle prime baracche. Ho chiesto di Mary, una camerunese nota per essere gentile con i nuovi arrivati. Lei voleva farmi dormire in una delle sue stanze, ma ha preferito portarmi "dai tuoi fratelli togolesi". "Altrimenti si lamentano che i camerunesi aiutano i togolesi", continuava a dirmi. Così sono passato a Komlà, togolese, sposato con Rose, la ragazza nigeriana. Insieme a un altro togolese, Komlà mi ha portato in un luogo appartato e ha cominciato a farmi alcune domande sulla mia etnia, parlandomi anche in dialetto. Il Togo, dove sono nato e ho vissuto per gli ultimi due anni e mezzo, ha una popolazione generalmente molto riservata e sospettosa. Pur rispondendogli che avevo passato la maggior parte della mia vita in Francia, Komlà mi ha creduto. Ho trascorso la prima notte in una piccola stanza del suo bordello piena di topi ma con un buon materasso. Il giorno dopo Komlà, che non aveva posto, mi ha presentato a Charles, un ghanese, con cui parlava Ewe, lo stesso dialetto della regione. Charles mi ha fatto pagare 30 euro per un materasso in una delle sue baracche. Tra gli schiavi nel ghetto dei migranti Il dito indice di Aboubacar non ha più un pezzo della sua falangetta. Il sangue continua a scorrere lungo la mano del giovane nigeriano mentre si dimena e impreca contro la proprietaria del bar. Ci vogliono tre persone per tentare di calmarlo. Anche Rose, che gestisce la baracca e l’adiacente bordello, viene dalla Nigeria. È una donna sui trent’anni dalla pelle scurissima e uno sguardo che ho visto raramente tramutarsi in un sorriso. Come molte altre sue colleghe non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Né dal marito, con cui spesso si scambiano qualche sberla, né tanto meno dai clienti. Questa sera, infatti, Rose ha morsicato il dito di Aboubacar per costringerlo a pagare il conto dei suoi amici: 5 euro. Dopo due settimane nel "ghetto" di Rignano, una baraccopoli che da 15 anni sta crescendo esponenzialmente nella provincia di Foggia, certi atteggiamenti non mi sorprendono più. Ci vogliono infatti circa due ore di duro lavoro per raccogliere 600 kg di pomodori e guadagnarsi quei preziosissimi 5 euro. Sia Rose che Aboubacar lo sanno. Ed è qui che centinaia di braccianti, soprattutto dell’Africa centrale e occidentale, si riversano appena inizia la stagione della raccolta. Entrare nel ghetto fingendosi uno di loro è stato abbastanza facile. A tutti ripetevo la stessa storia sfruttando le mie origini africane: "Mi chiamo Koffi, vengo dal Togo, parlo solo francese e inglese, non ho documenti, e cerco lavoro". Pochi, almeno all’inizio, facevano domande. Ma rimanere dentro al ghetto è stato via via sempre più problematico. "Riuscire a lavorare quest’anno è difficile, Wallahi (lo giuro, ndr) - afferma Abdullah, 28 anni, originario della Guinea Conakry ma residente in Italia da cinque anni (il nome, come quello degli altri personaggi incontrati, è volutamente alterato, ndr). Siamo sempre di più a venire qui per lavoro e non c’è stata ancora una goccia di pioggia". La pioggia, infatti, costringe il "padrone" a sfruttare di più la manodopera dei braccianti evitando di usare le macchine. Ma la stagione è una delle più calde che ci siano state. E in due settimane la raccolta ha già ucciso quattro braccianti: due africani, un rumeno e un’italiana. "Oggi non sono riuscito a lavorare - ammette Salif, venticinquenne maliano dal corpo robusto -. La giornata di ieri mi ha reso le gambe tanto dure da non riuscire a muoverle". Questo tipo di lavoro non è per tutti, infatti. Non importa quanto uno sia forte o debole, alto o basso, magro o grasso. Solo l’abitudine a lavorare in campagna ti salva. C’è chi raccoglie una sola volta e chi non supera una settimana. Chi riesce a lavorare durante l’intera stagione è qualcuno che fin da piccolo, sotto il sole africano, viveva in campagna e seguiva l’esempio dei genitori e dei nonni. Il migliore dei braccianti sembra essere un ghanese soprannominato "38 cassoni", poiché in un solo giorno riesce a riempire 38 casse di pomodori. Un record per la maggior parte dei braccianti che riesce a riempirne al massimo una decina. "Tu vuoi lavorare in campagna?", mi domanda Charles, un caposquadra ghanese, mentre mi guarda incredulo dall’alto in basso. "No, tu non ce la fai, ti darò un lavoro più leggero, magari vicino alla macchina". Mi sento un po’ offeso. Charles vive in Italia da otto anni ed è in diretto contatto con il proprietario italiano di alcuni campi situati intorno a Lucera. Nella cittadina ha una casa in cui alloggia una ventina di braccianti che vengono al ghetto solo il sabato sera per poi tornare a Lucera la domenica mattina presto. Pur non avendo rifiutato i miei 30 euro, il costo di un materasso al ghetto per l’intera stagione, Charles si rifiuta di credere che io sia un buon investimento. Non lo biasimo. La pressione è altissima, sia da parte dei braccianti che dell’azienda. "Sto aspettando un camion da Napoli - mi assicura - e quando arriva dobbiamo riempirlo in una sola giornata. Quindi, dormi qua al ghetto e sii paziente". Le mattine mi alzo alle 4 del mattino per vedere i furgoni strapieni di questi schiavi dell’era moderna che partono per le campagne. Il capo-squadra africano, a volte accompagnato da un italiano, chiama le persone una ad una. Una pila illumina l’elenco di braccianti scritto su un foglio e il sacchetto che contiene i documenti di ognuno. "Koffi, non ti preoccupare se non hai il documento - afferma Charles - ti do quello di uno dei miei lavoratori, chi vuoi che se ne accorga". Ogni mattina verso le 8 chiamo Sidibé. Nonostante i suoi vent’anni, questo giovane maliano è riuscito a sopravvivere alla traversata del Sahara, all’inizio della guerra in Libia, e agli ultimi quattro anni in Italia. Ha il permesso di soggiorno, ma non la patente o i documenti dell’auto che utilizza come taxi: 10 euro per ogni corsa dal ghetto a Foggia. Suo cugino Malik, poco più grande di lui, è completamente in regola, sebbene abbia pagato 550 euro per la patente comprata in una scuola guida di Salerno. Si è fatto mandare i soldi dalla sua famiglia in Mali. Malik guida ogni giorno dalle 6 del mattino fino al tramonto. "Sono venuto al ghetto per la prima volta l’anno scorso - mi racconta mentre ci dirigiamo verso Foggia - ma ho passato ogni notte nell’auto perché mi dà fastidio dormire con altra gente. Quest’anno invece ho una stanza che condivido con la mia ragazza". Dopo avermi lasciato nei pressi della stazione, mi imbuco nelle viuzze della città, cambiando ogni volta tragitto e controllando di non essere seguito. I ragazzi del ghetto che non riescono a lavorare in campagna lavorano a Foggia. Alcuni lavano i vetri, altri chiedono semplicemente l’elemosina come fanno molti romeni, bulgari e italiani. Io passo alcune ore in un appartamento a scrivere un diario e a recuperare le ore di sonno perse al ghetto, dove nella stanza di due metri per sei, fatta di cartoni, qualche telo e assi di legno, dormiamo spesso in sei. Nel pomeriggio richiamo Sidibé che, dopo aver raccolto altri clienti, mi riporta al ghetto. L’ennesima rissa è scoppiata davanti al bar di un italiano. Alcuni ragazzi della Costa d’Avorio vengono allontanati. I litigi sono solitamente legati alla prostituzione o alla droga. Questa mattina decido di svegliarmi alle 3,30. Centinaia di braccianti, muniti di taniche per l’acqua e un panino, stanno già aspettando di essere chiamati. Per le prossime 4 ore, uno ad uno, i furgoni si allontaneranno in una nuvola di polvere. Per loro comincia una giornata di lavoro da schiavi sotto il sole. Immigrazione: costruire nuovi Cie è inutile se mancano i trattati sui rimpatri di Andrea T. Torre (Centro Studi Medu Migrazioni nel Mediterraneo) Secolo XIX, 13 agosto 2015 Recentemente è stata manifestata dalla Regione Liguria l’intenzione di creare un Cie (Centro di Identificazione ed Espulsione) anche sul territorio ligure. La proposta è messa in relazione alla necessità di procedere ad un rimpatrio efficace delle persone che arrivano sul territorio come richiedenti asilo e non sono poi riconosciuti come tali ottenendo un diniego. Come sempre, purtroppo, queste tematiche vengono lanciate nel dibattito politico privilegiando "l’incandescenza" della materia piuttosto che la reale efficacia delle soluzioni. Credo che, invece, vada fatto uno sforzo di analisi ad uso dei decisori pubblici e dei cittadini. Ora lasciando da parte la questione assai controversa sullo "status" dei Cie e sul loro fondamento giuridico (obiezioni che condivido), vorrei, qui, evidenziare il tema della loro reale "efficacia". Se analizziamo i dati delle persone trattenute nei Cie nel 2013 elaborati da l’organizzazione "Medici per i Diritti Umani" su dati della polizia, possiamo osservare come siano state trattenute persone provenienti soprattutto da paesi con cui sono stati stipulati trattati bilaterali di riammissione. Attualmente l’Italia ha firmato trattati bilaterali per la riammissione con Tunisia, Egitto, Marocco e Nigeria. Ci sono poi accordi stipulati a livello Ue con la Moldavia, l’Ucraina, l’Albania. Soltanto con gli immigrati di queste nazionalità realisticamente si possono pensare di rendere effettive le riammissioni. Appare evidente, dai dati della tabella, come l’inserimento nei Cie avvenga con un criterio "selettivo", vengono cioè inserite persone che "ragionevolmente" possano provenire da paesi con i quali si possa poi dar seguito alle procedure di rimpatrio. Allo stesso tempo questi dati evidenziano che, nonostante tali accordi, la pratica effettiva del rimpatrio ha una efficacia limitata arrivando al 45,7% delle persone trattenute. Il secondo elemento rivelato dagli stessi dati è che queste procedure non riguardano le principali nazionalità dei richiedenti asilo, visto che dei 57.019 immigrati sbarcati sulle nostre coste da gennaio al giugno 2015, si contano appena 681 marocchini, 410 tunisini, 247 egiziani e che tale dinamica non riguarda, ovviamente, albanesi e rumeni. Come sappiamo le principali nazionalità tra i richiedenti asilo comprendono paesi come Mali, Pakistan, Gambia, Bangladesh, Senegal, Costa d’Avorio e solo la Nigeria (dove peraltro i rimpatri sono comunque complessi) rientra tra i paesi con cui si sono stipulati accordi. Resta quindi da concludere che lo strumento dei Cie ha dimostrato in questi anni una scarsa efficacia (certificata anche dalla progressiva diminuzione delle persone inserite passate dalle 10.539 nel 2008 alle 6.016 del 2013) e comunque appare ancora più inefficace come strumento di deterrenza per il rimpatrio dei richiedenti asilo che non vengono riconosciuti come tali e a cui viene dato un diniego. Un problema così complesso richiede uno sforzo di governance piuttosto che una facile ma illusoria scorciatoia. Immigrazione: l’Ungheria ha alzato il suo muro "mai più un profugo nei nostri confini" di Matteo Pucciarelli La Repubblica, 13 agosto 2015 Il filo d’acciaio annunciato a giugno da Orban per respingere i migranti in arrivo dai Balcani è quasi pronto in tempi record. Duecento chilometri costruiti dall’esercito e dai disoccupati. Ci vogliono 45 secondi esatti, cronometro alla mano. Il pilone di acciaio lungo sei metri entra con la forza due metri sottoterra; il macchinario che lo spinge giù - è un prodotto di alta tecnologia meccanica italiana, gli ingegneri ungheresi ne sono entusiasti - picchia come un martello a ritmi regolari, e fa lo stesso rumore di quando si chiude una bara. Sarà un caso, ma un po’ di Europa muore davvero qui, nella costruzione di questo muro alto quattro metri, rinforzato con il filo spinato, al confine tra Serbia e Ungheria. A mo’ di protezione contro l’invasione di un potente esercito straniero: migliaia di migranti pachistani, afghani e siriani esausti che attraversano i Balcani spesso a piedi. Dopo l’annuncio del giugno scorso, il governo di Budapest guidato dal populista di destra Viktor Orbán ha messo il turbo alla costruzione del muro lungo 175 chilometri. Che infatti verrà ultimato il 31 agosto, dopo appena un mese e mezzo di lavori. Per fare subito, la progettazione e la messa in opera è stata affidata all’esercito, e insieme ai militari ci sono migliaia di disoccupati che in cambio di un reddito minimo sono tenuti a rispondere alla chiamata dello Stato. Per arrivare al cantiere di Mórahalom, paese di cinquemila abitanti al confine dell’Ungheria meridionale, bisogna passare in mezzo ai campi di granturco e fare qualche chilometro di strada sterrata. C’è un accampamento di soldati e polizia, con gli operai che vanno e vengono portati coi camioncini in mimetica. Nei giorni scorsi i tecnici avevano fatto tre prove di muro: piloni di legno, veri e propri tronchi d’albero, con recinzione metallica; piloni e reticolato in acciaio; oppure un groviglio di di filo spinato, un rotolone sopra l’altro. "Alla fine - racconta Vedess, poliziotto, nome e numero identificativo sull’uniforme - si è scelta una via di mezzo tra le ultime due ipotesi. Piloni in acciaio, recinzione e un’aggiunta di filo spinato a terra. Così neanche se arrivano con la fiamma ossidrica ce la fanno…". Dal 1° settembre lungo tutto il muro ci saranno i soldati a presidiare. Armati. Avranno anche la licenza di sparare? "Questo ancora non lo sappiamo, aspettiamo disposizioni", risponde. A poche centinaia di metri c’è la tenuta di Flórián, mais a perdita d’occhio. Indica un viottolo in mezzo alle piante, c’è qualche pannocchia mangiucchiata, bottigliette di plastica vuote, una ciabatta abbandonata: "Passano tutti di qui, ci sono volte che ne trovo qualcuno in fin di vita, agonizzante, quando arrivo al mattino. Ormai ho un rapporto regolare con ambulanze e polizia". Molti altri, dice ancora, "sanno già tutto, sono muniti di tablet e hanno dei contatti: chiamano subito le autorità, vengono soccorsi e identificati, poi tentano di proseguire verso Germania, Austria e Svezia". La spiegazione del perché, dopo lo sdegno iniziale, mezza Europa assista in silenzio all’innalzamento del muro, sarebbe proprio questa, ragionano qui: sanno tutti che a queste migliaia di disperati - 43mila nel 2014 - di restare in Ungheria interessa meno di niente. Le mete predilette sono altre. Orbán fa il cattivo e chiude le frontiere con la forza, ma a conti fatti conviene a molti, commenta un funzionario di polizia. L’esibizione muscolare del governo sul tema immigrazione nei giorni scorsi ha fatto scoppiare un altro scandalo ancora, ma stavolta c’è stato un (parziale) dietrofront. Da Pécs, città di 160mila abitanti con antichissimo borgo medievale, ogni 24 ore partono due Intercity diretti a Budapest. Prima classe, seconda classe e "classe migranti". L’ultimo vagone infatti è riservato ai rifugiati diretti a un centro di accoglienza e il primo giorno la compagnia di stato Magyar Államvasutak li aveva fatti viaggiare coi lucchetti alle porte ed un cartello: "Queste porte non possono essere aperte". Le associazioni umanitarie hanno protestato, i lucchetti sono stati tolti, ma resta la collocazione in fondo al convoglio, con i migranti spesso ammassati e che la notte prima del viaggio dormono per terra tra i sedili. Alla stazione di Pécs c’è un monumento che ricorda lo sterminio degli ebrei. "Li ha uccisi l’odio, li protegge il ricordo", recita la stele. Garzó Gábor è un medico di Migration Aid, c’è un mini campo di soccorso proprio accanto alla statua dove lui presta aiuto: "È una specie di deportazione - dice - perché vieni ficcato su un treno, separato dagli altri, e non sai nemmeno dove sei diretto". I volontari mostrano le foto del piede di un bambino di quattro anni arrivato il giorno prima: non sembra neanche più un piede. Colpa delle punture degli insetti delle paludi serbe, spiega un altro dottore: "Lo abbiamo salvato, e facciamo tutto da soli. La sanità pubblica non li accetta". In compenso, si fa per dire, più volte li hanno minacciati gli estremisti di destra dello Jobbik. "La loro proposta è semplice: la chiamano perfino "soluzione finale", proprio così. Di provocazione in provocazione, ci arriveremo", chiosa Gábor. Il viaggio verso Budapest dura tre ore, con prima partenza alle 05.14. Alle 23 del giorno prima i ferrovieri avevano aperto l’ultimo vagone, così gli esuli hanno trovato un posto dove prendere sonno. La maggior parte non sono neanche maggiorenni. Il treno si muove e loro dormono ancora. Gli altri passeggeri neanche li considerano. I migranti si svegliano un’oretta prima dell’arrivo nella capitale. Uno di loro apre il finestrino, canta una canzone del suo paese e sembra quasi felice, nonostante i mille nonostante di tutta questa storia. Stati Uniti: violenze sui detenuti dopo l’evasione dal Clinton Correctional Facility ilpost.it, 13 agosto 2015 Un’inchiesta del New York Times racconta delle persone picchiate e maltrattate dagli agenti che cercavano informazioni su due detenuti evasi. Nella notte fra il 5 e il 6 giugno due uomini sono evasi dal Clinton Correctional Facility, una prigione di massima sicurezza nello stato di New York. I due evasi, entrambi condannati per omicidio, sono stati poi trovati poche settimane dopo: uno di loro è stato catturato, l’altro ucciso durante un inseguimento. Un’indagine di due giornalisti del New York Times, Michael Schwirtz e Michael Winerip, ha raccontato però cosa è successo all’interno della prigione nelle settimane tra la fuga e la cattura degli evasi: violenze e violazioni dei diritti degli altri detenuti, che secondo molte testimonianze sono stati più volte picchiati da investigatori e agenti di polizia alla ricerca di indizi per ritrovare i fuggitivi. I giornalisti del New York Times hanno parlato con Patrick Alexander, un detenuto che occupava la cella adiacente a quelle dei due evasi al Clinton Correctional Facility. Alexander ha raccontato che gli agenti si accorsero dell’evasione alla conta dei detenuti del mattino del 6 giungo, quando non ottennero risposta dalle celle di Richard Matt e David Sweat: i due erano riusciti a scavare un buco nella parete della loro cella, tagliare alcuni tubi di acciaio e poi raggiungere l’esterno della prigione sfruttando una serie di tunnel che li avevano condotti fino a fuori dalla prigione. Il giorno stesso dell’evasione, ha raccontato Alexander, le guardie del carcere lo interrogarono due volte. Poi arrivò in visita anche il governatore dello stato di New York, che gli rivolse qualche domanda con tono "da duro". La sera verso le 8, infine, tre agenti che Alexander non aveva mai visto prima e che non indossavano targhette identificative entrarono nella sua cella, lo ammanettarono e lo portarono in un ripostiglio di servizio del carcere. Poi, racconta il New York Times: "un agente con una giacca con le iniziali C.I.U. - Crisis Intervention Unit - si sedette davanti ad Alexander e gli disse: "Conosci la differenza tra questo interrogatorio e quelli di prima". Questa volta, minacciò l’agente, nella stanza ci sono solo persone in uniforme. "L’agente saltò su e mi prese per la gola tirandomi su dalla sedia" racconta Alexander. "Poi cominciò a prendermi a pugni in faccia. Gli altri due agenti a quel punto si alzarono e cominciarono a colpirmi delle costole e nello stomaco". Con ogni pugno, dice Alexander, gli agenti gli urlavano una domanda". I tre agenti che interrogarono Alexander nello sgabuzzino volevano sapere se avesse informazioni sull’evasione e sui piani per la fuga, e accusavano Alexander di aver ricevuto soldi per stare zitto. Durante l’interrogatorio gli agenti arrivarono a mettere un sacchetto di plastica sulla testa di Alexander per non farlo respirare e lo minacciarono di sottoporlo al waterboarding, una pratica di tortura particolarmente violenta. Dopo l’interrogatorio, durato circa 20 mintuti, Alexander fu riportato sanguinante alla sua cella e per due giorni gli furono negate cure mediche. Oltre ad Alexander, altri 60 detenuti del Clinton Correctional Facility hanno denunciato di aver subito violenze di vario tipo nei giorni successivi all’evasione, sempre da agenti che volevano informazioni sulla fuga. Alcuni hanno raccontato di essere stati picchiati, altri di essere stati minacciati, altri ancora di essere stati trasferiti in altre prigioni perdendo i diritti acquisiti in anni di buona condotta. Qualcuno ha denunciato di aver perso tutti i suoi averi accumulati in anni di detenzione: foto di famiglia, lettere, libri e vestiti. Come scrive il New York Times "per giorni dopo l’evasione, gli agenti penitenziari portarono avanti quella che sembra essere stata una campagna di vendetta contro decine di detenuti, in particolare contro quelli dell’honor block". L’honor block è il settore del carcere dove stavano i detenuti che avevano ottenuto qualche libertà in più degli altri per buona condotta: per esempio il diritto di lavorare o tenere alcuni oggetti in cella. I giornalisti del New York Times hanno raccolto interviste e lettere di lamentela di decine di detenuti, che rivelano l’estensione delle violenze degli agenti e il fatto che in molte occasioni siano stati usati metodi di interrogatorio brutali in violazione dei regolamenti carcerari. Victor Aponte, che lavorava nella sartoria della prigione dove anche Matt aveva un lavoro, ha raccontato che un agente conosciuto come "Capitan America" per il suo tatuaggio di una bandiera americana, gli legò un sacchetto di plastica intorno al collo durante un interrogatorio, stringendo la presa fino a farlo svenire. Reggie Edwards, un detenuto che lavorava come supervisore alla sartoria, ha raccontato che alcuni agenti lo misero in una cella di isolamento per tre settimane gettando via la maggior parte degli oggetti che possedeva in carcere, compreso il suo anello di matrimonio. [..] Paul Davila, un altro detenuto nello stesso reparto degli evasi, ha scritto nella sua lettera di lamentela che dopo essere stato picchiato durante un interrogatorio gli fu fatta firmare a forza una dichiarazione che diceva che non aveva subito violenze. In generale, nelle due settimane successive all’evasione, gli altri detenuti dell’honor block furono spostati e sparpagliati. Molti furono mandati in isolamento in altre prigioni e molti hanno raccontato di aver subito violenze dagli agenti anche durante i trasferimenti da un carcere ad un altro. Un detenuto incontrato dai giornalisti del New York Times due mesi dopo l’evasione gli ha mostrato le ferite sui suoi polsi provocate dalle manette che gli erano state strette troppo di proposito. In molti hanno raccontato di aver perso ingiustamente privilegi guadagnati con anni di buona condotta, come il diritto a lavorare o una posizione di lavoro carceraria particolarmente buona. Come ricorda il New York Times, finora solo dipendenti del carcere e guardie sono state accusate formalmente di aver aiutato la fuga di Matt e Sweat: nove sono state sospese dal servizio, l’intera direzione del carcere è stata sostituita, una persona si è dichiarata colpevole di aver introdotto nel carcere alcuni arnesi e strumenti usati per la fuga. Al momento non ci sono prove che nessun detenuto abbia saputo della fuga o abbia aiutato i due evasi. Dopo la pubblicazione dell’articolo del New York Times, il dipartimento del governo che si occupa delle carceri ha diffuso un comunicato in cui spiega che le lamentele ricevute da parte dei detenuti sono oggetto di un’indagine e che sono state rese note anche all’ispettore generale dello stato. "Qualsiasi caso di condotta impropria o abuso contro i detenuti sarà punito con tutto il peso della legge", dice il comunicato. Dice inoltre il New York Times che diversi detenuti coinvolti nelle violenze sono stati interrogati anche da membri dell’unità di investigazioni speciali del dipartimento delle carceri. Stati Uniti: detenuto vuole la condanna a morte, ma i legali chiedono lo stop all’esecuzione Ansa, 13 agosto 2015 Vuole morire per mano del boia. Ma i suoi legali vogliono salvarlo, e tentano il ricorso alla Corte Suprema per sospendere la pena capitale. Daniel Dee Lopez è stato condannato a morte per aver colpito e ucciso un agente della polizia, Stuart Alexander, a bordo della sua auto. I suoi legali ritengono che la "sua grave malattia mentale" sia responsabile del desiderio di usare il sistema legale per "suicidarsi": "Un comportamento irrazionale e tendenze suicide" sono infatti - sostengono i legali - tratti caratteristici della sua personalità. "Ho accettato il mio destino. Sono pronto ad andare avanti", afferma Lopez in una lettera invitata al giudice federale chiedendogli di far procedere l’esecuzione. Venezuela: l’Operazione Olp e la trappola della sicurezza di Geraldina Colotti Il Manifesto, 13 agosto 2015 Il governo venezuelano ha dichiarato guerra alla criminalità organizzata dando avvio all’Organizzazione per la liberazione e la protezione del popolo- Montalban è un quartiere residenziale di classe media nel municipio Libertador di Caracas. È diviso in tre settori. In quello di Montalban III, più noto come Op51 si ergono le torri della Gran Mision Vivienda Venezuela (Gmvv): un capitolo del gigantesco piano di case popolari messo in atto dal governo socialista. Abitazioni gratuite e accessoriate per chi non ha reddito, con formule contributive ma sempre a basso costo per le altre fasce di popolazione. Finora ne sono state consegnate oltre 700.000. Alle prime luci dell’alba, la gente è per strada. Un migliaio di effettivi, tra militari e poliziotti, accompagnati da 8 magistrati del Ministerio Publico, ha fatto irruzione nelle torri. Alcune donne applaudono. Dall’altro lato del marciapiede c’è chi guarda a braccia conserte. A metà giornata, Gustavo Gonzalez Lopez, ministro degli Interni Giustizia e Pace si rivolge poi ai giornalisti, fornisce il bilancio dell’operazione appena conclusa: 21 appartamenti recuperati, 26 colombiani arrestati, alcuni dei quali ricercati per gravi delitti, sequestro di armi, uniformi, droga, dollari e ingenti quantità di prodotti stoccati, pronti per essere venduti al mercato nero. "Siamo in presenza - dice - di un fenomeno simile a quello delle maras in Salvador, che si sono infiltrate qui con finalità politiche e che praticano il narcotraffico, l’estorsione e il sicariato". La scena si ripete la settimana successiva, a fine luglio, nel centro di Caracas, nelle case popolari di Parque Carabobo: 12 persone arrestate, stessa tipologia di reati, merce sequestrata. Irruzioni analoghe proseguono in tutti gli stati del paese. Dal 13 luglio, il governo di Nicolas Maduro ha assunto così il problema dell’insicurezza. Per la campagna si è scelto un nome dalla forte carica simbolica: Olp, che sta per Operazione per la liberazione e la protezione del popolo. L’Olp - ha spiegato Maduro - non vuole essere una semplice operazione repressiva, ma un piano "integrale" ideato e approvato dalla popolazione a sua propria difesa. Ma il tema è spinoso e il paese discute. Fra gli stand della Fiera del libro, lo storico Vladimir Acosta commenta: "Il Comandante Chavez sperava di redimere i delinquenti, ma sulla questione dell’insicurezza ci sono grossi interessi in campo. Il troppo ecumenismo stava diventando una trappola". E racconta il calvario di alcune famiglie, costrette a lasciare la casa popolare per la minaccia delle bande armate che prendono possesso dei quartieri. Bande di ragazzi che seguono le orme dei "pranes" - i giovani criminali che impongono il proprio controllo nelle carceri -, disposti a uccidere e a farsi uccidere per poco o niente pur di imitare quegli eroi negativi, che però vivono nel lusso e hanno potere. L’insicurezza ha comunque matrici diverse e molti committenti. Il paese è al crocevia di grandi interessi, sia per i cartelli del narcotraffico, sia per quelli del contrabbando. Fare il pieno di benzina a un’automobile di grosso calibro, in Venezuela, costa meno di una bottiglia d’acqua. Nelle zone di frontiera con la Colombia, soprattutto nello stato Tachira, si traffica di tutto, in una catena di corruzione resa evidente dall’entità del contrabbando. Alcune cifre aiutano a capire: dallo scorso agosto, quando Maduro ha deciso di intensificare la lotta al contrabbando, nelle sole regioni di frontiera sono state recuperate oltre 18.000 tonnellate di prodotti, principalmente alimenti, ma anche cemento, rame e 800.000 litri di combustibile. L’altroieri sono stati bloccati diversi camion pieni di riso, che scarseggia negli scaffali dei negozi. Prodotti sottratti ai supermercati sussidiati dal governo, e venduti al nero, all’interno del paese e fuori. Nella cittadina colombiana di Cucuta il traffico è sotto gli occhi di tutti. Imprese senza scrupoli o privati ricevono dollari a cambio agevolato dal governo chavista per importazioni fantasma o viaggi inesistenti: i soldi si smerciano a cielo aperto o in appositi uffici di cambio. Dal Tachira sono partite le proteste violente dell’opposizione oltranzista, l’anno scorso. Il governo ha denunciato l’azione destabilizzante di paramilitari colombiani. L’ex sindaco di San Cristobal Daniel Ceballos, uno dei condannati per quei fatti, ha ora ottenuto gli arresti domiciliari, e la misura ha scatenato un putiferio nelle reti sociali. Anche durante tutti gli operativi dell’Olp, la presenza di colombiani con precedenti penali e con esperienza nell’esercito risulta costante. Maduro ha riassunto il lavoro di inchieste giudiziarie e giornalistiche: "Le bande criminali, cooptate dall’estrema destra si stanno militarizzando sul modello colombiano. È un processo che parte da lontano - ha detto - Dopo lo scioglimento delle bande paramilitari, l’ex presidente colombiano Alvaro Uribe ha inviato qui molte cellule "dormienti", pronte all’azione". E l’occasione sembra propizia in questo anno di elezioni che - secondo un rapporto del Pentagono - porterà caos e crisi economica. Una situazione simile - fatte le debite proporzioni storiche - a quella indotta nel Cile di Allende per distruggere la primavera socialista. Intanto, aumentano gli episodi di sicariato che vedono coinvolta la criminalità colombiana: dall’uccisione del giovane deputato Robert Serra, che indagava sulle violenze politiche dell’anno scorso, a quello del noto storico bolivariano Jorge Mier Hoffman, un altro assassinio su commissione. E intanto, la pazienza del popolo venezuelano è messa a dura prova dalle lunghe code per rifornirsi di prodotti a basso costo, che si vendono a prezzi stellari a soli venti metri dalle catene sussidiate dal governo. Ci sono anche code nei ristoranti, dove una cena costa l’equivalente di tre salari minimi: un indice di quanto denaro circoli, comunque, nelle tasche di chi avversa il chavismo ma se ne serve per fare buoni affari. Le grandi imprese di distribuzione perturbano a proprio vantaggio l’economia di un paese ancora troppo dipendente dal petrolio. Bande criminali chiedono soldi per far entrare la gente in coda: altrimenti - racconta un’anziana - "si scostano la giacca, ti mostrano la pistola e ti fanno uscire dalla coda. Ho avuto paura di andare alla polizia". Nonostante i programmi educativi e le università come la Unes, di stampo marxista e freiriano, la polizia è infatti ancora parte del problema e non della soluzione: "O siamo polizia o siamo delinquenti", ha detto senza mezzi termini il ministro Lopez durante un recente incontro all’Accademia militare. Lì si discuteva il Piano nazionale dei diritti umani 2015-2019, presentato al paese prima di essere approvato in parlamento, com’è consuetudine in Venezuela. Sono state invitate anche quelle Ong di opposizione che, come Provera o l’osservatorio Cofavic diffondono dati allarmistici sulle politiche per la sicurezza e accusano il governo di favorire l’impunità: salvo poi denunciare "violazioni dei diritti umani" se questi decide di usare la forza pubblica contro la delinquenza. Ma anche dall’interno del chavismo in molti vedono il rischio di scorciatoie securitarie, che riporterebbero indietro la spinta ideale del socialismo bolivariano. Per un militante del Collettivo Lina Ron, il governo ha "subito il ricatto della destra, ha perseguito i collettivi che contendono il territorio alla criminalità e questa ha ripreso spazio". Tra le voci libertarie più autorevoli, quella di Antonio Gonzalez Plessmann, direttore del Centro studi sui Diritti umani, convivenza e sicurezza cittadina GisXXI. "A partire dal 2013 - spiega - il nostro centro accompagna la costruzione di progetti di autogoverno popolare e convivenza in diversi quartieri che la stampa considera preda della delinquenza. Lì i giovani non hanno fiducia nella polizia, da cui spesso vengono taglieggiati. Coinvolgendo i ragazzi nello sport, nei processi educativi, culturali, politici, offrendo trattamenti terapeutici per chi fa uso problematico delle droghe, siamo riusciti a disinnescare la violenza delle bande giovanili, che hanno deciso una tregua e hanno smesso di ammazzarsi fra loro. La via repressiva può portare più consenso ma costituisce una trappola". All’inizio di luglio, durante alcuni operativi nello stato di Miranda, dove governa l’ex candidato a presidente per la destra Henrique Capriles, la polizia ha usato la mano pesante, ha arrestato un centinaio di persone e abbattuto alcuni pluriomicidi e ci sono state proteste. La linea di prevenzione "integrale" e il Movimento per la pace e la vita di cui fa parte Plessmann restano comunque assi portanti dell’Olp. Nel Petare (stato Miranda), che è di opposizione, abbiamo partecipato a una seduta del Consiglio comunale (chavista) nella biblioteca di quartiere del municipio Sucre: la terza riunione fra rappresentanti delle istituzioni e la cittadinanza che abita nelle concentrazioni urbane di classe media. "Niente può cambiare senza la partecipazione popolare - ci ha detto Giovanni Martinez, coordinatore nazionale del Psuv della Commissione presidenziale per la sicurezza cittadina e la polizia popolare - Alla fine dell’anno scorso, il presidente Maduro ha deciso di sottoporre a revisione tutti i progetti sulla sicurezza e di raccogliere le nuove proposte dei quartieri. Ci stiamo riunendo con rappresentanti della chiesa, dei vigili urbani, degli insegnanti, per mettere a punto un programma di prevenzione integrale: con l’obiettivo di sviluppare l’autogoverno delle comuni, previsto dalla nostra Costituzione, e in cui è contemplata la formazione di milizie popolari e poliziotti comunali. Al registro, abbiamo già 1180 comuni, ma siamo ancora all’inizio". Interviene Ivelia Malaven, responsabile nazionale della sottocommissione per la riforma della polizia: "Quello della delinquenza - dice - è un problema complesso che non si può risolvere con qualche correttivo, richiede tempo persino in un sistema avviato verso il socialismo come il nostro. È uno dei grandi mali del capitalismo, che si riflette anche da noi con l’incitamento al consumismo e l’imposizione di modelli negativi per i nostri giovani, indotti a credere che essere vincenti nella vita significhi possedere oggetti di lusso o di tecnologia avanzata. La sicurezza non è un problema di polizia, riguarda tutti. Occorre assumerlo in pieno, se non vogliamo finire come in Messico". "I diritti al centro delle indagini" Intervista. La Procuratrice generale Luisa Ortega Diaz, a capo del Ministerio Publico. Il piazzale d’ingresso del Ministerio Publico è stato ricostruito da poco. Il 12 febbraio del 2014, la prima manifestazione violenta che ha innescato le proteste dell’opposizione aveva creato una voragine di cemento e fumo. La procuratrice generale Luisa Ortega Diaz, alla testa del ministero da 14 anni, avrebbe dovuto essere il primo bersaglio Le è poi toccato il compito di istruire le indagini sulle 43 morti e gli oltre 800 feriti provocati dalle violenze e dalle guarimbas, barricate di chiodi, cemento e fil di ferro teso da un lato all’altro della strada. Nel suo ufficio alla Candelaria, Ortega mostra il fascicolo su quelle violenze, che ha illustrato a Ginevra. Lei ha un passato garantista, le Ong di cui ha fatto parte durante la IV Repubblica ora accusano il governo di violare i diritti umani. "C’è evidentemente un uso falso e strumentale del tema. Il Venezuela rispetta i diritti umani, magistrati e funzionari di questo Ministero vengono formati al rispetto dei diritti umani. La nostra Costituzione prevede un’ampia gamma di diritti e contempla anche la possibilità di aggiungere altre categorie che necessitano di tutela in base allo sviluppo del vivere civile. Il nostro codice penale è garantista. In Venezuela non si reprime la libertà di manifestare o di pensare, ma solo fatti delittivi comprovati a livello processuale. Abbiamo elevato la professionalità dell’investigazione penale, attribuendo a ogni magistrato un profilo specifico, organizzando concorsi e seminari anche e soprattutto sui diritti umani e con attenzione alle vittime e alle categorie più vulnerabili. Abbiamo un’unità criminalistica all’avanguardia, un laboratorio per la ricerca del Dna che ha consentito di riconsegnare alle famiglie tanti corpi di militanti torturati e fatti scomparire dalle "democrazie" della IV Repubblica. Tuttavia, possono esserci deviazioni e vanno punite. Per le proteste dell’anno scorso sono sotto processo o già condannati anche 30 funzionari". A che punto sono le indagini sulle violenze commesse nella IV Repubblica? "La commissione per la verità ha identificato oltre 4.000 vittime uccise e fatte scomparire nel periodo che va dal 1958 al ‘98: una cifra che non include i sopravvissuti alle torture. Vi sono 198 procedimenti aperti e ognuno riguarda molte persone, come per la rivolta del Caracazo, dove almeno 600 manifestanti vennero sepolti in fosse comuni. Molti corpi sono già stati restituiti alle famiglie grazie al lavoro con le comunità". Quindici anni di governo socialista non hanno risolto il problema della sicurezza. Che tipologie di reati si presentano oggi? "Intanto bisogna leggere i dati nel contesto specifico. Per esempio sono aumentate le denunce, soprattutto da parte delle donne, ma perché ricevono attenzione e sostegno contro le violenze di genere e si fidano. La violenza di genere non rimane più chiusa in famiglia, ma viene assunta dallo stato. Con nessun governo le donne hanno ottenuto così tanti risultati. Si sono però diffusi anche reati importati dall’esterno, tipici della criminalità transnazionale, come i reati finanziari, i sequestri e il sicariato. Per questo abbiamo dovuto adattare le nostre leggi. Ma il nostro principale orientamento è quello della prevenzione dei conflitti che possono portare al dramma: agendo di concerto con le comunità, mediante l’azione integrata delle procure di prossimità".