Giustizia: cambiate il carcere, così com’è oggi non serve a nessuno di Massimo Lensi (Comitato nazionale di Radicali Italiani) Il Garantista, 12 agosto 2015 La violazione dei più elementari diritti della persona induce nel detenuto una reazione contraria a quella rieducativa e all’esterno crea l’immagine distorta della discarica sociale, servono scelte serie. Progettare un carcere non è semplice. E un processo di identificazione con chi ne vive lo spazio: detenuti, polizia penitenziaria e operatori del volontariato. E ripropone - ogni volta che ci si interroga sul ruolo del carcere come luogo della detenzione coatta - la questione organizzativa nell’esecuzione della pena. Una questione che rimanda, a sua volta, a molteplici teorie dello spazio e della pena, ispirate a una dimensione dinamica o statica della detenzione, ma che, intrecciandosi tra loro, non risolvono la domanda di fondo. Perché il punto di partenza di una qualsiasi riflessione dovrebbe essere: il carcere è ancora necessario? La salute innanzitutto: secondo un’indagine dell’Agenzia regionale toscana di sanità, il 71,8% dei detenuti è affetto da almeno una patologia. La più diffusa è il disturbo mentale. Il tentato suicidio dei detenuti è superiore di ben trecento volte a quanto osservato nella popolazione generale. E poi: celle arroventate d’estate, gelide d’inverno, razionamento delle riserve di acqua, bolle di umidità, sovraffollamento, precarie condizioni igieniche, letti fatiscenti, vitto scadente e sopravvitto a prezzi da Costa Smeralda, lontananza dalle famiglie, dagli affetti e dal territorio. Questa, senza alcuna esagerazione, è la descrizione, che potrebbe valere oggi per uno qualsiasi degli istituti di pena in Italia, da Sollicciano a Regina Coeli, e significa solo una cosa: fallimento. E assenza del diritto. Il carcere italiano è, a tutti gli effetti dei precetti costituzionali della rieducazione del reo, un luogo dove il diritto è stato cancellato. Il luogo della pena riesce a tirare avanti solo grazie a un miracolo di coesione sociale: tra detenuti, tra questi e le associazioni del volontariato e, a volte, anche tra detenuti e polizia penitenziaria. Un’organizzazione dannatamente sporadica che stravolge i precetti della rieducazione possibile, ma che aiuta a sopravvivere. La sopravvivenza è, nei fatti, l’obiettivo e la recidiva il suo complemento. Come può, infatti, un detenuto mettere a frutto il periodo di rieducazione dopo aver patito pene materiali superiori a ciò che la legge prevede e che trovano esecuzione nella violazione dei diritti fondamentali e della dignità della persona? Impossibile. Il carcere non rieduca, ma è un ottimo allenatore al crimine. Chi sbaglia paga, ma è anche necessario che capisca di aver sbagliato. All’interno degli istituti di pena italiani si opera inconsapevolmente una drastica cancellazione della consapevolezza del disvalore dell’azione commessa, creando di conseguenza una sorta di deresponsabilizzazione sociale collettiva con pretese rieducative. I programmi di formazione al lavoro e di reinserimento pilotato, così come è strutturata la pena oggi in Italia, sono destinati naturalmente a fallire. Con una così delicata naturalezza, quasi impercettibile, che paradossalmente privilegia la creazione di un sentimento nella società che condanna senza attenuanti il reo, invece di ricercarne il suo utile reinserimento. Il carcere come discarica sociale. La disumanizzazione del carcere è, però, solo un capitolo della più drammatica disumanizzazione della società e delle sue istituzioni. Sostiene l’ex magistrato Gherardo Colombo: "Il carcere, quindi, non solo non rispetta la dignità di chi lo subisce, ma non rispetta dignità e diritti di terzi estranei alla trasgressione". Rispondendo alla domanda iniziale di questa riflessione, possiamo quindi dire che no, il carcere oggi non serve a nessuno. Non serve alla società, né al reo, né alla credibilità del modello sanzionatorio. Sta a chi opera dentro e fuori dagli istituti di pena trovare una soluzione. Una soluzione politica, concreta e urgente, alternativa alla detenzione coatta come modello retributivo della pena, perché il modello rieducativo si è perso nelle disperate battiture delle grate di un qualsiasi carcere italiano. Giustizia: in carcere l’estate immobile, anche fare volontariato diventa difficile Redattore Sociale, 12 agosto 2015 Sono 15 mila, secondo il Dap, i volontari che ogni giorno svolgono centinaia di attività che coinvolgono quasi la metà dei detenuti. De Robert: non andiamo in ferie, ma la carenza del personale ci impedisce di operare. Ferrari: siamo diventati succubi dell’istituzione. Anche in estate - soprattutto in estate - il volontariato in carcere non si ferma. Quando le attività si interrompono, il personale penitenziario si riduce per le ferie rendendo difficile la gestione quotidiana e il caldo arroventa le celle, l’impegno dei volontari diventa indispensabile. Sono 15 mila i volontari che, secondo i dati del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), varcano ogni giorno le carceri italiane per garantire attività che raggiungono quasi la metà delle persone detenute. La maggior parte sono attività culturali: ne sono censite 353, cui partecipano circa 10.700 detenuti. Si tratta di laboratori di vario genere, redazioni di giornali, incontri, seminari. Arti visive, cinema e teatro (244 attività) coinvolgono 4.450 detenuti. I volontari garantiscono anche attività sportive (110), che raggiungono circa 2.300 ristretti. Le circa 60 attività di animazione, giochi da tavolo, tornei e spettacoli di vario genere coinvolgono 3.800 persone. 137 i laboratori formativi (cucito, grafica, informatica, legatoria, falegnameria, cucina e creazione di manufatti artigianali) frequentati da 1.200 detenuti. L’impegno del volontariato si concentra anche sul sostegno alla genitorialità con 67 progetti che comprendono animazione per i bambini e gruppi di riflessione. Sempre più frequente anche la pet therapy: le 15 iniziative attive coinvolgono 215 detenuti. Infine, 250 le iniziative di sostegno morale e materiale con gruppi di ascolto e orientamento e sostegno economico. I detenuti possono inoltre fruire della consulenza legale, amministrativa e previdenziale fornita da 48 sportelli. "I numeri sono positivi, anche se non distinguono tra volontari occasionali e volontari stabili e questo rischia di far nascere equivoci - sottolinea Luisa Prodi, presidente del Seac, equiparando chi in carcere ci entra una volta con chi invece lo fa in modo abituale". "I periodo estivo è molto duro - commenta Daniela De Robert dell’associazione romana Vic-Volontari In Carcere - In carcere c’è ancora meno: meno attività, meno possibilità di svago, meno relazioni. È anche per questo che l’estate è cronicamente il momento in cui si registra un picco di suicidi, perché tutto è lento, tutto è fermo e anche la sofferenza è maggiore". Il volontariato tendenzialmente non va in ferie, ma si deve comunque scontrare con l’impossibilità di svolgere attività per la carenza del personale di sorveglianza: "Continuiamo con i centri di ascolto, la nostra presenza è garantita - continua De Robert - E intensifichiamo il nostro ruolo di ‘pontè tra il detenuto e l’esterno, soprattutto con la famiglia e il magistrato di sorveglianza". "Il principale problema in questo periodo è che non in tutte le carceri è garantita ai volontari la stessa possibilità di accesso dei mesi invernali. Così d’estate la giornata è molto più lunga senza attività" aggiunge Prodi. Per Livio Ferrari, volontario del Centro francescano d’ascolto di Rovigo, la sospensione estiva rende la vita in carcere ancora più difficile: "Si finisce a guardare per 22 ore il soffitto e la tensione può aumentare innescando possibili conflitti". Per Ferrari la maggiore presenza di volontari è un fattore positivo, "ma al contempo dobbiamo ammettere che il volontariato negli ultimi anni ha perso terreno tornando in posizione succube nella sua relazione con le istituzioni – spiega. Questo perché non ha saputo rappresentarsi, preferendo il lavoro sul campo e rinunciando a contrattar il proprio ruolo. Ogni vittoria, ogni riconoscimento non valgono in eterno: il nostro ruolo deve sempre essere rinegoziato e negli ultimi anni così non è stato". Anche De Robert riconosce che tutto il terzo settore "dovrebbe avere un ruolo istituzionale riconosciuto e una posizione paritaria, cosa che al momento non accade", ma allo stesso tempo sottolinea che gli Stati generali della pena vedono la presenza attiva del volontariato e che il contributo è talmente riconosciuto da essere quasi dato per scontato. Giustizia: Pannella in sciopero della fame e della sete per le carceri, Mattarella lo chiama di Teodoro Fulgione Ansa, 12 agosto 2015 Continua lo sciopero della fame e della sete che Marco Pannella ha iniziato domenica "per il rispetto e il diritto della legalità, per la giustizia, i processi e i problemi legati al mondo carcerario". Il leader radicale ha ricevuto una telefonata dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha voluto personalmente informarsi delle condizioni di salute del leader radicale. Il capo dello Stato ha invitato il leader radicale (85 anni compiuti a maggio) a desistere dallo sciopero, che può mettere in pericolo le sue condizioni di salute. Durante la telefonata, il presidente della Repubblica ha espresso "attenzione e apprezzamento" per le battaglie civili a sostegno del diritto e della legalità portate avanti da Pannella. Il leader radicale, infatti, è in sciopero totale di fame e sete per "sostenere e aiutare le difficili funzioni dei massimi organi istituzionali". "Sono mobilitato perché ho fiducia e attendo di poter essere davvero d’aiuto a Mattarella", ha detto lo stesso Pannella, nel suo primo giorno di sciopero della fame, chiamando in causa proprio il presidente della Repubblica. Pannella chiede atti di clemenza per il sovraffollamento delle carceri italiane. L’iniziativa dell’ottantacinquenne esponente radicale ripercorre quelle da lui già compiute in passato. Lo scorso anno, ad aprile, Pannella ricevette la telefonata di papa Francesco proprio mentre scioperava per invocare indulto e amnistia. Lo scorso ottobre l’allora presidente della Repubblica in carica Giorgio Napolitano rivolse alle Camere sull’emergenza carceri. Messaggio che lo stesso Pannella ha ricordato domenica. Pannella: voglio dare forza a Mattarella e a Renzi "Siamo qui per dimostrare che diamo fiducia al nostro Stato. Cioè noi, io, in condizioni di non violenza, vogliamo trasmettere nel presidente Mattarella, nel potere, anche a Renzi, davvero, seriamente, la forza necessaria per difendere la propria legalità, il proprio diritto". Lo ha detto il leader radicale Marco Pannella, dallo scorso 9 agosto in sciopero totale della fame e della sete, nel corso di una conferenza stampa a Teramo. Presente, tra gli altri, l’avvocato Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi. Pannella ha quindi ribadito che l’iniziativa non violenta "è per il rispetto e il diritto della legalità, per la giustizia, i processi e i problemi legati al mondo carcerario". E proprio nella casa circondariale "Castrogno" di Teramo la scorsa notte un detenuto si è impiccato in cella. È un 41enne pescarese accusato di aver ucciso a coltellate nello scorso mese di maggio un pasticciere di Pescara. Commentando l’episodio il presidente del partito Radicale è stato duro: "è stato assassinato dal regime italiano, come tanti altri". Secondo Pannella "occorre uscire fuori da una situazione dalla quale oggi credo che gli storici, se continua così, diranno che anche l’Italia è l’erede di quelli dell’Olocausto che si sperava essere scomparsi dalla storia". Pannella ha quindi nuovamente ricordato il messaggio che l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rivolse alle Camere nell’ottobre 2014 aggiungendo che "i radicali vogliono aiutare l’attuale capo dello Stato e il premier Renzi affinché annuncino quello che intendono fare per ottemperare agli obiettivi sempre più attuali di quel messaggio". Giustizia: il procuratore Spataro "inaccettabili le priorità nell’azione penale" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2015 Intervista ad Armando Spataro, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino. Dopo 26 anni, la Procura della repubblica di Torino volta pagina con la tradizione di stabilire "criteri di priorità" nell’esercizio dell’azione penale. Se, sulla base delle "priorità", dal 2009 al 2014 è stata chiesta l’archiviazione per prescrizione di 43.162 procedimenti contro "noti" su 163.161 iscritti cioè il 26,45% del totale), gran parte dei quali "messi nell’armadio" a quello scopo, l’attuale Procuratore Armando Spataro - il 23 giugno scorso, esattamente un anno dopo il suo insediamento - ha "messo nell’armadio" quella tradizione, ritenendo "inaccettabile" che con una circolare amministrativa "si possa decidere quali processi fare e quali no", poiché "una scala di priorità già esiste nel sistema legislativo e quindi non c’è bisogno di "ulteriori" codificazioni". "Farlo - sostiene Spataro in dissenso con qualche suo collega - significa dare la stura alla politica per dire che le Procure esercitano discrezionalmente l’azione penale. A quel punto, se l’obbligatorietà non c’è più, interverranno direttive politiche sull’esercizio dell’azione penale e molti diranno, peraltro sbagliando, che ciò avviene in tutte le parti del mondo. Io non voglio fornire alibi politici a chi vuol dettare le regole d’azione ai Pm. Intendo rispettare i principi costituzionali e, semmai, indicare al governo quali sono i vizi da correggere, quelli che, purtroppo, non consentono il pieno rispetto dell’obbligatorietà dell’azione penale". Procuratore, non vorrà dire che i suoi predecessori - Maddalena e C aselli, per citare solo i più recenti - non volessero rispettare i principi costituzionali? "No di certo. Pur apprezzando le ragioni che a suo tempo hanno determinato in questo ufficio la selezione e la formalizzazione dei criteri di priorità, credo che oggi quel sistema vada modificato. Nell’anno trascorso dal mio insediamento, come tutti i nuovi dirigenti ho voluto conoscere a fondo il sistema organizzativo della Procura e a questo scopo, oltre a riunioni con magistrati, personale amministrativo, polizia giudiziaria, avvocati penalisti, mi sono stati d’aiuto anche la relazione e i dati dell’ispezione ordinaria del ministero, che copre gli ultimi 5 anni. Come ho scritto nei "Criteri di organizzazione dell’ufficio" - pubblicatisi sito della Procura di Torino, l’ispettore ministeriale ha messo in evidenza, sia pure in un quadro di valutazioni generali positive, l’elevato numero di procedimenti prescritti nel quinquennio 2009-2014: più di un quarto del totale dei procedimenti iscritti, un dato che non ha confronti con altre Procure medio-grandi. L’ispezione parla di "anomalia" ma prende atto del cambiamento avviato con il nuovo "piano organizzativo" che stavo per varare". Se però un procedimento è destinato a prescrizione certa, perché coltivarlo? Tanto più se gli uffici sono congestionati e, di fatto, si finisce sempre per "scegliere". "A parte che in molti casi i reati "postergati" si sarebbero prescritti dopo 6-7 anni e non dopo 1 o 2 (il che avrebbe forse giustificato la non trattazione), non è accettabile che una circolare stabilisca quali procedimenti "postergare" perché di "minore priorità". Non ho mai condiviso queste scelte". Mi scusi, ma scegliere le priorità non rientra nei poteri del Procuratore capo? "L’indubbia accentuazione del ruolo del Procuratore capo, dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006, non ne ha determinato una superiorità gerarchica assoluta. Il Procuratore, certamente titolare dei poteri di organizzazione dell’ufficio, deve assicurare il corretto, puntuale e uniforme esercizio dell’azione penale e non può impartire disposizioni talida incrinare l’obbligatorietà dell’azione penale. Semmai è tenuto, in mancanza di previsioni legislative, ad adeguare l’organizzazione dell’ufficio, comprese eventuali scelte di priorità, ai criteri elaborati dai dirigenti del Tribunale e delle Corti d’appello, come il Csm ha detto nel luglio del 2014. È quanto mi riservo di fare dopo un adeguato confronto con il presidente del Tribunale". Secondo lei, le Procure sono davvero in grado di smaltire tutti i procedimenti che arrivano? E anche i Tribunali? "Certo che no. Ma attenzione: la prescrizione è prevista dal Codice penale, quindi non credo sia corretto considerarla una grave patologia, se interviene. Una scelta delle priorità è già nel sistema: è ovvio che nessun Pm tratterà prima una rapina di un omicidio. o un furto prima di una rapina; ed è ovvio che tratterà prima i procedimenti con detenuti o quelli in cui c’è una parte offesa effettivamente interessata. Molti fascicoli postergati riguarda v a no furti, ma non tutti sono sullo stesso piano: se rubano il portafoglio a un professionista, forse questi non sporgerà neanche denuncia se non per bloccare le carte di credito o i documenti; ma se lo rubano a un pensionato come tanti, io non posso dirgli: "Non me ne occupo"; semmai: "Purtroppo non ce l’ho fatta". Dobbiamo difendere l’obbligatorietà con le unghie e con i denti, sia pure in presenza di difficoltà innegabili". Concretamente: difenderla come? "Ripeto: desumendo i criteri di priorità dal sistema. Peraltro, nel frattempo stanno intervenendo importanti scelte deflative: e il legislatore che dice, ad esempio, che per fatti di particolare tenuità il Pm può chiedere l’archiviazione; c’è stata una parziale depenalizzazione e dovrebbe seguirne un’altra; non è più possibile il processo in contumacia. Anche il ddl sulla prescrizione, se approvato, potrebbe aiutare: se la prescrizione si sospenderà dopo la condanna di primo grado, ciò consentirà di rivedere le prospettive della prescrizione". Come l’hanno presa in Tribunale? Ci sarà un surplus di lavoro e molti processi potrebbero prescriversi lì... "La citata risoluzione del 2014 del Csm dice che spetta agli organi giudicanti operare scelte di priorità e che comunque non possono considerare il rischio prescrizione un criterio per rinviare i processi. Perciò da settembre dell’anno scorso ho chiesto a tutti i vertici dell’ufficio di incontrarci e di discutere perché è il Tribunale clic deve dirmi quanti procedimenti riesce a definire con rito monocratico. Così si è mosso anche il collega Pignatone a Roma. In un’intervista il presidente del Tribunale di Torino Massimo Terzi ha detto che intende allungare gli orari delle udienze fino alle 16 o alle 17, come avviene a Milano, Roma, Genova. Vedremo". E i suoi sostituti come hanno reagito? Anche per loro si preannuncia un sovraccarico di lavoro. "In un anno avrò fatto almeno 4-5 assemblee. Certo, all’inizio c’è stata sorpresa, perché cambiavo un indirizzo consolidato, ma posso dire che alla fine c’è stata un’amplissima convergenza. Indubbiamente i vuoti del personale amministrativo pesano, perché sono notevoli. Ma spero che la mia decisione spinga il governo a correggere i numerosi vizi che ostacolano il rispetto dell’obbligatorietà dell’azione penale, a cominciare da quei drammatici vuoti di personale. Considero le priorità, invece, uno strumento ormai superato". Giustizia: autorizzazione a procedere, se la surroga tocca alla Consulta di Giovanni Verde Il Mattino, 12 agosto 2015 Correva l’anno 2001. Ero vicepresidente del Csm. Ebbi a rilasciare un’intervista. Partivo dall’osservazione che quasi dieci anni prima erano stati modificati prima l’articolo 79 Costituzione (elevando il quorum per approvare le leggi di amnistia o di indulto) e poi l’articolo 68 sull’immunità dei parlamentari. Riflettevo che quelle modificazioni erano state approvate in un momento convulso delle nostre istituzioni, che aveva scatenato un giustizialismo senza freni. Mi chiedevo se, ritornata la normalità nella nostra vita democratica, non fosse il caso di ripensare a quegli interventi e chiedersi se con essi il Parlamento non avesse rinunciato ad una prerogativa importante (quella di emanare provvedimenti di grazia), vincolandosi a quorum impossibili da raggiungere, e avesse soppresso una garanzia che apparteneva e appartiene alla tradizione del costituzionalismo moderno. Ed in relazione all’articolo 68 mi spingevo a dire che il problema non era nella sua originaria formulazione, ma nel cattivo uso che di esso era stato fatto. Di conseguenza il ripristino della formula avrebbe comportato anche la necessità di trovare meccanismi applicativi che eliminassero i vizi pregressi. Mal me ne incolse. Si vide in quelle mie dichiarazioni il segno di una mia collusione con il Presidente del Consiglio dell’epoca. Lo stesso Presidente Napolitano, non ancora assurto alla carica, dichiarò su di un giornale di non essere d’accordo. Il Pds mi considerò inaffidabile e dichiarò il suo ostracismo ad un’eventuale mia nomina a giudice costituzionale. Nel corso degli anni le cose sono cambiate. Lo stesso Presidente Napolitano ebbe a dirmi in privato che il problema andava rimeditato. Oggi leggo che parlamentari (vedi ad esempio la Finocchiaro), che allora avevano sospettato chissà quali occulte trame, sostengono la necessità di ritornare al testo originario dell’articolo 68 con correttivi per ciò che ne riguarda l’applicazione. Non mi sorprendo: sull’orologio della storia la sinistra è sempre stata in ritardo. Resto in attesa del momento in cui, in relazione all’articolo 79, si riconoscerà che è preferibile ricorrere a provvedimenti di clemenza, i cui requisiti di meritevolezza sono fissati dal legislatore e soprattutto sono eguali per tutti, piuttosto che assistere allo stillicidio attuale di decine e decine di prescrizioni ogni anno, che colpiscono alla cieca e spesso soltanto coloro che non sono in grado di sostenere le spese per un’adeguata difesa. Prendo atto che oggi si fa strada l’idea di un ritorno alla formulazione originaria dell’articolo 68. Si deve, però, evitare che se ne faccia l’uso scandaloso che per il passato ne decretò la fine. Non è un problema di poco conto. L’articolo 68 originario aveva una sua logica. I Costituenti, che credevano nel principio della separazione dei poteri, non potevano immaginare che l’autorizzazione a procedere contro i membri del Parlamento potesse essere affidata ad altri che non fosse il Parlamento stesso. Ma i sogni si scontrano con la dura realtà. I rappresentanti del popolo da noi eletti avevano fatto un pessimo uso delle prerogative che erano state loro riconosciute. E come sempre accade (in questo come in tanti altri casi), quando l’esperienza dimostra che un’istituzione dello Stato non è capace di gestirsi correttamente, se si vuole conservare l’istituto, diventa necessario pensare di affidarne il funzionamento ad un soggetto terzo. E quale potrebbe essere il soggetto terzo al quale affidare in surrogazione il potere che "naturaliter" spetterebbe al Parlamento? È evidente che in questo modo l’istituto è assoggettato a una mutazione genetica; da meccanismo di autogestione diventa un meccanismo etero-gestito con caratteristiche para-giurisdizionali. Una soluzione inevitabile che costituisce un ulteriore tassello del processo evolutivo volto ad infrangere il mito della separazione dei poteri. La soluzione che meno di tutte lo allontana dalla natura originaria è quella di affidarlo alla Corte costituzionale: perché i giudici della Corte non sono nominati a vita; perché sono o dovrebbero essere scelti tra i più illustri rappresentanti della società civile, perché alla loro scelta partecipa per un terzo lo stesso Parlamento e per un altro terzo il Presidente della Repubblica, così che la componente che proviene dalle magistrature è minoritaria. Oggi questa soluzione trova sempre maggiori estimatori. Se fosse accolta, indubbiamente si avrebbero ripercussioni sulla stessa natura della Corte, la quale sarebbe non solo gravata di un nuovo impegno, ma subirebbe un profondo cambiamento della sua stessa natura. Dopo la scriteriata riforma del Titolo V della Costituzione (scriteriata soprattutto perché quando si fissano le competenze dei vari organismi bisogna essere di precisione assoluta e soprattutto bisogna evitare competenze promiscue), la Corte costituzionale è oberata da un’infinità di ricorsi, che si risolvono nella sostanza in altrettanti regolamenti di competenza tra Stato e Regioni o tra le Regioni tra di loro. Di conseguenza, se dovesse continuare ad operare come oggi (così che ogni decisione deve essere assunta collegialmente da tutti i suoi componenti), la nuova funzione potrebbe costituire un impegno non agevolmente eludibile. Ma non è solo un problema di opportunità. Più passa il tempo e più sono contrario ad accumulare in uno stesso organismo competenze disparate e che presuppongono cultura e sensibilità diverse. Il solo intuito ci fa comprendere che il compito di stabilire se una legge ordinaria è conforme alla Costituzione è attività ben diversa da quella con cui si risolvono conflitti di attribuzione o si giudicano le accuse promosse contro il Presidente della Repubblica. Ancora diversa sarebbe la funzione di valutare se esistono i presupposti per concedere l’autorizzazione a procedere. Fantastico. Che cosa me lo impedisce soprattutto se posso godere della benevolenza del lettore? Immagino una Corte costituzionale composta di due Sezioni: la prima, di sei membri, competente a decidere della legittimità costituzionale delle leggi (con ricorsi in via di decrescita); la seconda, di nove membri, competente a decidere sui conflitti di attribuzione e sulle autorizzazioni a procedere. Mentre le due sezioni riunite dovrebbero essere competenti a decidere sulle accuse mosse al Capo dello Stato. Ovviamente la composizione delle due sezioni dovrebbe rispettare la attuali proporzioni: Parlamento, magistrature e Capo dello Stato dovrebbero eleggere i componenti delle due sezioni in ragione di un terzo ciascuno. E non dovrebbe essere consentito il passaggio interno dall’una all’altra sezione. Con l’auspicio che, al momento della nomina, non si proceda con il manuale Cencelli e si ricerchino le persone che diano maggiori garanzie di affidabilità, ciascuna in relazione ai compiti per i quali è stato nominata. Anche se le recenti esperienze (penso alle ultime nomine) non aprono la porta alla speranza. Giustizia: la Cassazione e il caso Contrada, autogol dell’Italia alla Corte di Strasburgo di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 12 agosto 2015 La carsica polemica sul concorso esterno in associazione mafiosa diventa anche caso giudiziario-diplomatico, ora che la Cassazione scrive che è stata paradossalmente colpa di un errore dell’Italia la clamorosa condanna subita il 14 aprile scorso a Strasburgo per il caso Contrada ad opera della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu): l’errore di aver sottoscritto e concordato "tra le parti" una "premessa" nella quale proprio la rappresentanza italiana a Strasburgo dava per assodata "l’origine giurisprudenziale" (anziché normativa) del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, preambolo da quel momento in poi vincolante per i successivi ragionamenti della Cedu, dove le parti devono sempre dare dimostrazione di tutto, anche delle leggi nazionali in discussione. Preambolo che invece ora la Cassazione - nel processo di ‘ndrangheta "Infinito" nel quale alcuni boss invocavano l’incostituzionalità della propria condanna sulla scia appunto della decisione di Strasburgo su Contrada - rimarca essere "un’affermazione giuridicamente inesatta", un autogol davanti alla Cedu. Strasburgo in aprile ha riconosciuto un risarcimento di danni morali all’ex capo della Squadra Mobile di Palermo e numero tre del Sisde arrestato nel 1992, ritenendo che l’Italia abbia violato il principio di irretroattività della legge penale quando condannò Bruno Contrada nel 2006 in base a un mutamento del diritto di matrice giurisprudenziale sfavorevole e imprevedibile per l’imputato all’epoca dei fatti addebitatigli: il poliziotto sarebbe stato imputato di concorso esterno in associazione mafiosa in relazione a condotte commesse tra il 1978 e il 1988, cioè molti anni prima che nel 1994 le Sezioni Unite della Cassazione, risolvendo alcuni contrasti, con la sentenza Demitry ne precisassero definitivamente la configurabilità giuridica. Al punto 66 della sentenza della Cedu sul ricorso di Contrada rubricato nel 2013, infatti, ora la Cassazione constata che c’è scritto che "la Corte rimarca che tra le parti" (cioè tra Contrada difeso dall’avvocato Enrico Tagle, e l’Italia rappresentata dall’agente del governo italiano presso la Cedu, professoressa Ersilia Spatafora, e dalla coagente magistrato Paola Accardo, figure inquadrate nel ministero degli Esteri) "non è oggetto di contestazione il fatto che il concorso esterno in associazioni di tipo mafioso costituisca un reato di origine giurisprudenziale", anziché da una precisa norma incriminatrice scritta nella legge e quindi prevedibile dai cittadini. Peccato che non sia così, scrive ora il relatore Sergio Beltrani della sentenza della II sezione della Cassazione (presidente Antonio Esposito) nel processo di ‘ndrangheta "Infinito", istruito nel 2010 dai pm milanesi Boccassini-Dolci-Storari e costato la condanna a 12 anni dell’allora direttore dell’Asl di Pavia, Carlo Chiriaco: quel preambolo, acconsentito dall’Italia a Strasburgo, è "invece una affermazione giuridicamente inesatta". Al contrario, lungi dall’essere una creazione giurisprudenziale che violerebbe il principio di legalità, la punibilità del concorso esterno in associazione mafiosa ha sempre avuto "matrice esclusivamente e inequivocabilmente normativa" perché "scaturisce dalla combinazione tra la norma incriminatrice" (l’articolo 416 bis del codice penale sulle associazioni mafiose) "e la disposizione generale in tema di concorso eventuale nei vari reati" (l’articolo no del codice). Come "d’altro canto recentemente ribadito dalla Corte costituzionale nella sentenza 48 del 25 febbraio 2015". Giustizia: Mafia Capitale; il pm chiede il giudizio immediato per Carminati e Buzzi di Cristiana Mangani Il Messaggero, 12 agosto 2015 La richiesta del pm per i 44 protagonisti del "mondo di mezzo" arrestati a giugno La seconda fase dell’indagine ha messo in luce il business legato all’immigrazione. La procura della Capitale torna a chiedere il giudizio immediato per i protagonisti dell’inchiesta "Mondo di mezzo". È il secondo atto dopo la chiusura della prima parte dell’indagine che aveva portato in carcere, a dicembre scorso, 34 persone. I pm hanno depositato ieri mattina la loro richiesta al gip Flavia Costantini, sollecitando il rito alternativo per tutti coloro che il 4 giugno scorso sono stati raggiunti dalle ordinanze di custodia cautelare. Ancora una volta al centro del provvedimento ci sono l’ex terrorista nero Massimo Carminati e il suo braccio destro Salvatore Buzzi. Tanto vicini negli affari, i due ex soci, quanto lontani nella strategia difensiva: il Cecato, chiuso in un carcere di massima sicurezza, non ha mai voluto parlare con i pm e si è avvalso anche della facoltà di non rispondere durante l’interrogatorio di garanzia del gip. Buzzi ha aspettato diversi mesi, poi è stato convinto dal suo legale, l’avvocato Alessandro Diddi, a cercare una collaborazione con la giustizia. Le sue dichiarazioni, però, messe a verbale nei mesi di giugno e luglio, non sembrano aver convinto i magistrati, tanto che lo hanno evidenziato anche negli ultimi due interrogatori. La seconda tornata di arresti riguarda in totale 44 persone, tra loro esponenti della politica locale tra cui l’ex capogruppo di Fi al consiglio regionale, Luca Gramazio, e l’ex presidente del Consiglio comunale di Roma, Mirko Coratti. Toccherà ora al gup decidere in merito alla richiesta del rito che consente di saltare l’udienza preliminare e di portare il processo direttamente in aula. Nel frattempo, Carminati e Buzzi dovranno presentarsi il prossimo 5 novembre davanti ai giudici della X sezione penale per rispondere della prima parte delle accuse. E non è escluso che in quella data sfileranno nell’aula bunker di Rebibbia, dove avrà luogo il processo, anche i soggetti raggiunti da questa nuova richiesta di immediato, da Luca Odevaine a Franco Panzironi. Con il nuovo atto dell’indagine Mafia Capitale ha messo in luce, in particolare, il business che ruota intorno agli immigrati, tutto ciò che riguarda la gestione dell’accoglienza. Un piatto ricco di appalti e denaro che ha fatto dire a Salvatore Buzzi: "Con gli immigrati si fanno molti più soldi che con la droga". I pm Paolo Ielo, Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini ipotizzano anche in questo secondo capitolo i reati di associazione di tipo mafioso, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori e altro. Gli accertamenti, così come scrive nell’ordinanza di arresto il gip Costantini, evidenziano come Buzzi sia "riferimento di una rete di cooperative sociali che si sono assicurate, nel tempo, mediante pratiche corruttive e rapporti collusivi, numerosi appalti e finanziamenti della Regione Lazio, del Comune di Roma e delle aziende municipalizzate". Un sistema illecito sintetizzato da lui stesso in una intercettazione in cui afferma che "la mucca deve mangiare per essere munta". Nel frattempo, il ras delle coop ha chiesto di patteggiare una condanna a tre anni e sei mesi di reclusione e 900 euro di multa. Ma la procura ha deciso di esprimere parere negativo, evidenziando così quanto ritenga non sufficiente il contributo che l’indagato sta cercando di fornire con le sue dichiarazioni. A questo punto, è facile immaginare che i legali degli indagati daranno battaglia in aula per cercare di smontare l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso, reato che prevede una pena decisamente più pesante della corruzione. Tutto questo mentre una parte dei difensori ha tentato anche la strada della Cassazione sperando di riuscire a far annullare dagli ermellini gli arresti in carcere per tre dei quattro "eccellenti" dell’inchiesta: Buzzi, Odevaine e Panzironi insieme con gli altri 16 indagati che si era opposti alle diverse misure cautelari poste a loro carico. La difesa di Carminati, invece, ha preferito non fare ricorso e attendere il verdetto del "Palazzaccio" sugli altri coindagati, evitando così che si formasse un giudicato cautelare a suo carico. La tenuità del fatto non cancella la condanna definitiva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2015 Tribunale di Milano, Ufficio Gip, provvedimento n. 838/2015. Non c’è stata abolitio criminis. E la condanna già passata in giudicato non può essere cancellata dal casellario. La nuova causa di esclusone dalla punibilità per tenuità del fatto non può essere applicata retroattivamente, agendo come colpo di spugna sulle condanne diventate definitive. Con une delle primissime pronunce sul punto il Gip di Milano, in veste di giudice dell’esecuzione, ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da un condannato per esercizio abusivo della professione con sentenza diventata irrevocabile alla fine del 2012. Con il ricorso veniva chiesta la revoca della condanna sulla base di quanto previsto dall’articolo 673 del Codice di procedura che impone al giudice dell’esecuzione la revoca della condanna nel caso di abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice. A queste conclusioni, nella lettura dell’interessato, condurrebbe il decreto legislativo n. 28 del 2015 che ha appunto introdotto nel Codice penale una nuova causa di non punibilità per i fatti di più lieve entità. Una lettura contestata però dal Gip milanese, secondo il quale il nuovo articolo 131 bis del Codice penale non dà luogo a una cancellazione di norma penale ma "solo" a una misura sostanziale più favorevole al colpevole. Che però incontra il limite del giudicato. La nuova causa di non punibilità, mette in evidenza la pronuncia del Gip, datata 28 maggio 2015, lascia intatto il fatto reato nei suoi elementi costitutivi di tipicità, antigiuridicità e colpevolezza. Pertanto, anche se sono presenti i presupposti per l’applicazione della nuova esimente (modalità della condotta ed esiguità del danno che conducono a un’offesa di particolare tenuità in presenza di una condotta criminale sì ma non abituale) il fatto, osserva il Gip, è pur sempre qualificato come reato. Semplicemente a un giudizio di merito sulla consistenza del danno provocato al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice al pericolo cui lo stesso è stato esposto ed alla modalità concreta della condotta, si accerta che l’imputato può essere qualificato come non punibile "sebbene non residuino dubbi in ordine al fatto reato commesso, alla sua sussistenza, all’assenza di cause di giustificazione e alla colpevolezza dell’imputato". In questo senso depone, avvisa ancora la pronuncia, un’altra norma del decreto 28/15, quella che puntualizza come nei processi civili e amministrativi è attribuita efficacia di giudicato alla sentenza dibattimentale di proscioglimento per particolare tenuità del fatto anche per quanto riguarda l’accertamento dell’illiceità penale. La Corte di cassazione, ricorda il Gip, non si è ancora espressa sul punto; tuttavia, alla luce di una serie di precedenti, che vengono ricordati puntigliosamente, è stata la stessa Cassazione, in una relazione a cura dell’Ufficio del massimario, a mettere in evidenza come la causa sopravvenuta di non punibilità per tenuità del fatto non giustifica un ricorso indirizzato a ottenere la revoca della sentenza. In altre parole, conclude sul punto il Gip di Milano, "la giurisprudenza non risulta avere mai affermato esplicitamente che una disposizione recante, come nel caso di specie, una causa sostanziale di non punibilità opera una, sia pure parziale, "abolitio criminis". A conclusioni analoghe approda poi anche la dottrina, termina il provvedimento, che ha ricondotto la tenuità del fatto nell’area della successione di una legge più favorevole al colpevole, e non in quella della soppressione del reato, in maniera tale che il limite, ormai perfezionato, del giudicato rende inammissibile il ricorso. Attentato per finalità terroristiche anche se colpisce un singolo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2015 Corte di cassazione - Sentenza 34782 dell’11 agosto 2015. L’attentato per finalità terroristiche può colpire anche una sola persona. E poi: eversione e terrorismo continuano a costituire fattispecie di reato autonome e distinte. Queste le indicazioni della sentenza n. 34782 della Sesta sezione penale della Cassazione depositata ieri. La pronuncia ha confermato le condanne, pur rideterminandone l’entità, emesse nei confronti degli autori, il 7 maggio 2012, del ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo nucleare, Roberto Adinolfi. Nucleo giuridico della sentenza è la lettura dell’articolo 280 del Codice penale che sanziona l’attentato per finalità terroristiche o di eversione. La norma è chiara: infatti il legislatore, più volte, nel testo della disposizione utilizza con consapevolezza il termine "persona" al singolare. La scelta è quella di proteggere la vita e l’incolumità del singolo, quando queste rischiano di venire compromesse per il perseguimento di uno dei due scopi (terrorismo o eversione). L’indagine sulle nozioni di terrorismo ed eversione dell’ordinamento costituzionale va allora compiuta per verificare i presupposti della loro esistenza. Solo in caso di giudizio positivo si determina il passaggio dal reato comune (lesione personale, omicidio doloso o preterintenzionale) al reato speciale previsto e punito dall’articolo 280 del Codice penale. In questa prospettiva, allora, sarebbe insostenibile credere che, pur riconoscendo la sufficienza di conseguenze per una sola persona, tuttavia le nozioni di terrorismo ed eversione richiederebbero comunque l’attacco di "beni importanti", di "gravi conseguenze" per l’intero Stato o per la collettività. non essendo mai possibile ritenere le sorti di una singola persona di peso tale da incidere sul destino dell’intera nazione. In realtà, avverte la Cassazione, basta ricordare quando venne reintrodotta la norma (era il 1979) per comprendere come, in questo modo, il legislatore puntasse a mettere al riparo da azioni terroristiche o eversive le vite dei singoli cittadini "ciascuno considerato e protetto in sè e nella propria individualità, incolumità e vita del singolo, che (...)sono beni giuridici per sè stessi primari ed essenziali per lo Stato-istituzione". E allora, è irrilevante il punto se l’autore del reato ha colpito una persona concreta perché selezionata in precedenza come obiettivo simbolico o genericamente per la funzione svolta oppure come semplice cittadino. L’articolo 280 infatti non scivola pecca per indeterminatezza: la disposizione si caratterizza piuttosto per un "doppio finalismo", quello dell’autore che intende colpire una persona, come detto anche una sola, e la volontà di farlo per finalità di terrorismo o eversione. Certo, avverte la Cassazione, l’indagine su queste due finalità deve essere stringente e il reato deve essere escluso tutte le volte l’intenzione dell’autore della condotta risulta "palesemente inconsistente o velleitaria". A fare da guida quanto alle finalità di terrorismo è l’articolo 270 sexies del Codice penale, che elenca una serie di elementi chiave, anche con riferimento a norme di diritto internazionale, come lo scopo di intimidire la popolazione oppure quello di costringere i poteri pubblici ad assumere o omettere un determinato atto. Mentre il significato di eversione dell’ordine democratico non può essere circoscritto a quello di azione politica violenta, ma avere come obiettivo il sovvertimento dell’ordine costituzionale. Lo stalking non contrasta con la Costituzione per eccesso di indeterminatezza di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 6 luglio 2015 n. 28703. La Cassazione, richiamando la sentenza n. 172 del 2014 con cui già la Corte costituzionale aveva escluso profili di incostituzionalità, ribadisce che la fattispecie incriminatrice degli atti persecutori (articolo 612 bis del Cp) non contrasta con l’articolo 25 della Costituzione per eccesso di indeterminatezza. Lo fa con la sentenza n. 28703 del 6 luglio 2015. A supporto la Corte ha provveduto ad analizzare gli elementi costitutivi del reato e, rispetto ad essi, lo sforzo probatorio richiesto al giudice di merito per dare concretezza all’ipotesi accusatoria. Minacce e molestie - Così, sotto il profilo della condotta materiale, si evidenzia la fattispecie di cui all’articolo 612 bis del Cp si configura come specificazione delle condotte di minaccia o di molestia già contemplate dal codice penale, agli articoli 612 e 660 del Cp, onde l’applicazione giurisprudenziale su tali reati non solo agevola l’interpretazione della disposizione di che trattasi, ma offre soprattutto la riprova che la descrizione legislativa corrisponde a comportamenti effettivamente riscontrabili e riscontrati nella realtà. Vale allora osservare, in proposito, che, per la nozione di "minaccia", può senz’altro richiamarsi l’interpretazione consolidata formatasi sul reato di cui all’articolo 612 del Cp, onde per tale deve intendersi la rappresentazione di un "male ingiusto dipendente dalla volontà dell’agente". Mentre, quanto alla nozione di "molestia", il richiamo all’articolo 660 del Cp è in tutta probabilità limitativo, dovendo piuttosto farsi richiamo alle più ampie indicazioni ricavabili dai lavori preparatori sì da fare rientrare nell’ambito di operatività del reato ogni "comportamento assillante e invasivo della vita altrui realizzato mediante la reiterazione insistente di condotte intrusive, quali telefonate, appostamenti, pedinamenti, fino, nei casi più gravi, alla realizzazione di condotte integranti di per sé reato (aggressioni fisiche, danneggiamenti)". Ne deriva che la nozione di "molestia" rilevante quale atto persecutorio è più estesa di quella presa in considerazione nella fattispecie contravvenzionale, la cui formulazione letterale non è in grado di cogliere il proprium del delitto, laddove qualificante e rilevante la realizzazione dell’"evento" rappresentato dal condizionamento materiale e/o psicologico della vittima. Basti pensare il reato contravvenzionale di molestia deve escludersi (mentre non è dubbia la configurabilità dello stalking) sia per la corrispondenza epistolare in forma cartacea, inviata, recapitata e depositata nella cassetta (o casella) della posta sistemata presso l’abitazione del destinatario, sia nel caso dell’invio di un messaggio di posta elettronica, giacché entrambe le ipotesi non comportano un’ "immediata interazione" tra il mittente e il destinatario, né alcuna intrusione diretta del primo nella sfera di attività del secondo: e ciò a differenza della telefonata (e del messaggio "sms"). Proprio in ragione del rilievo qualificante dell’"evento" dannoso ai fini della configurabilità degli atti persecutori, nella nozione di "molestia" rilevante ex articolo 612 bis del Cp devono quindi farsi rientrare tutte le condotte "assillanti ed invasive" della vita altrui idonee a determinare l’evento caratterizzante il reato. La "reiterazione" della condotta - Resta inteso, ovviamente, che, per assumere rilievo a titolo di stalking, le condotte di minaccia e/o di molestia devono essere però "reiterate", trattandosi di un reato tipicamente abituale (Sezione I, 8 febbraio 2011, Confl. comp. in proc. C.). A tal proposito, secondo la giurisprudenza, per la configurazione del requisito della "reiterazione" delle condotte di minaccia o molestia rilevanti per integrare il proprium dell’elemento oggettivo dello stalking, bastano anche "due soli" episodi di molestia o di minaccia (cfr. Sezione V, 27 novembre 2012, F.). Ciò si spiega con il rilievo che il termine "reiterare" denota la ripetizione della condotta, ma a tal fine non è necessario che si tratti di una ripetizione insistita e plurima, bastando anche la ripetizione della condotta "una seconda volta". Quindi, anche due sole condotte sono sufficienti a concretare quella reiterazione cui la norma subordina la configurazione della materialità del fatto (in termini, cfr. anche Sezione V, 21 gennaio 2010, O.; nonché, Sezione V, 2 marzo 2010, Proc. Rep. Trib. Chieti in proc. V.). Del resto, lo stalking è un reato "di evento", nel senso che per l’integrazione della fattispecie incriminatrice ciò che importa è che la condotta incriminata - reiterata, ma anche per sole due volte - abbia determinato la realizzazione di uno dei tre eventi alternativi richiesti ai fini della consumazione. L’evento del reato - Lo stalking costituisce, appunto, un reato "di evento", giacché la condotta materiale (reiterati episodi di minacce o molestie) deve avere determinato, in forma alternativa, la realizzazione di uno tra tre tipi di evento: cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero, in alternativa, ingenerare nella vittima un fondato timore per la propria incolumità ovvero, sempre in alternativa, costringere la vittima stessa ad alterare le proprie abitudini di vita. È proprio la realizzazione di uno o più di questi eventi che ne fissa il momento consumativo. L’alternatività degli eventi, del resto, consente di ravvisare il reato anche quando non si realizzino contestualmente tutti gli eventi dannosi: per intenderci, quando la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità il reato è configurabile senza che sia necessario l’essersi verificato anche un mutamento delle abitudini di vita della persona offesa (Sezione V, 14 novembre 2012, O.). A tal proposito, la Corte sottolinea che il relativo apprezzamento compete al giudice, il quale deve anche dimostrare il "nesso causale" tra la condotta posta in essere dall’agente e i turbamenti derivati alla vita privata della vittima. In particolare, quanto al "perdurante e grave stato di ansia e di paura" e al "fondato timore per l’incolumità", trattandosi di eventi che riguardano la sfera emotiva e psicologica, essi devono essere accertati attraverso un’accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente, nonché dalle condizioni soggettive della vittima, purché note all’agente, e come tali necessariamente rientranti nell’oggetto del dolo. Mentre l’aggettivazione in termini di "grave e perdurante" stato di ansia o di paura e di "fondato" timore per l’incolumità, vale a circoscrivere ulteriormente l’area dell’incriminazione, in modo che siano da ritenere irrilevanti ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata sia in ordine alla loro incidenza sul soggetto passivo, nonché timori immaginari o del tutto fantasiosi della vittima. Quanto al riferimento alle "abitudini di vita", osserva la Corte, la formulazione della norma opera un verificabile rinvio al complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito familiare, sociale e lavorativo, e che la vittima è costretta a mutare a seguito dell’intrusione rappresentata dall’attività persecutoria, mutamento di cui l’agente deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato, trattandosi di reato, appunto, punibile solo a titolo di dolo. Lo stato di ansia e di paura - Va soggiunto, quanto alla dimostrazione dell’evento "stato di ansia e di paura", che, secondo la giurisprudenza prevalente, è a tal fine sufficiente che gli atti abbiano avuto un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, non essendo richiesto l’accertamento di uno "stato patologico", considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 612 bis del Cp non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (articolo 582 del Cp), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica. Ne deriva, dal punto di vista probatorio, la non necessità del riscontro attraverso una certificazione sanitaria, in ipotesi attestante una "patologia" determinata dal comportamento persecutorio (ad esempio, un certificato medico attestante di una sindrome ansioso depressiva). La prova, infatti, può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante (Sezione V, 28 febbraio 2014, D’E.). L’alterazione delle abitudini di vita - Mentre, quanto all’evento sostanziatosi nella "alterazione delle abitudini di vita", per tale si deve ogni mutamento significativo e protratto per un apprezzabile lasso di tempo dell’ordinaria gestione della vita quotidiana (quali, l’utilizzazione di percorsi diversi rispetto a quelli usuali per i propri spostamenti; la modificazione degli orari per lo svolgimento di certe attività o la cessazione di attività abitualmente svolte; il distacco degli apparecchi telefonici negli orari notturni, e simili), indotto nella vittima dalla condotta persecutoria altrui e finalizzato ad evitare l’ingerenza nella propria vita privata del molestatore (cfr. Sezione V, 27 novembre 2012, F.). Il timore per l’incolumità - Il terzo evento alternativo è rappresentato dal "fondato timore per l’incolumità" propria o delle persone vicine (la norma, stavolta, presenta una formulazione letterale imprecisa, quando riferisce il timore all’incolumità propria o di un prossimo congiunto "o di persona legata al medesimo", quasi prefigurando che la relazione debba intercorrere tra il terzo e il prossimo congiunto della vittima e non con la vittima stessa). Si tratta di un evento già a ben vedere ricompreso nel "grave e perdurante stato di ansia e di paura". Anche in questo caso, in sede di accertamento giudiziario, è necessario prescindere dalla (particolare) suscettibilità soggettiva della vittima, sì da pervenire a un apprezzamento oggettivo del "timore", come imposto dall’utilizzo dell’aggettivo "fondato", che impone al giudice una valutazione appunto "oggettiva" del timore e dell’idoneità dello stesso a recare turbamento alla vittima, secondo un apprezzamento "medio", che trascende dall’opinione della vittima. La vicenda processuale - Da queste premesse, la Cassazione ha rigettato il ricorso avverso la sentenza di condanna, avendo verificata l’esattezza delle conclusioni raggiunte dal giudice di merito. Il fatto nella sua materialità non era neppure controverso: all’imputato erano addebitati quotidiani appostamenti, osservazioni, pedinamenti in un arco temporale "amplissimo". Dimostrato in modo adeguato era anche l’evento, qui sostanziatosi nell’avere determinato nella vittima uno stato di ansia e di timore per l’incolumità propria e del figlio, oltre che nell’avere indotto la vittima stessa a modificare in modo sensibile le proprie abitudini di vita, cambiando tempi e modi di uscita dalla propria abitazione per non incontrare l’imputato. Udienza preliminare, revoca della sentenza di non luogo a procedere Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2015 Udienza preliminare - Revoca sentenza di non luogo a procedere - Poteri e criteri di valutazione del giudice - Indicazione. Ai fini della revoca della sentenza di non luogo a procedere, il giudice deve verificare se le fonti di prova sopraggiunte giustifichino la riapertura delle indagini, compiendo una valutazione diversa ed in nulla assimilabile rispetto a quella propria dei giudizi di impugnazione. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 19 novembre 2014 n. 47755. Udienza preliminare - Revoca sentenza di non luogo a procedere Ricorribilità in Cassazione dell’ordinanza del giudice che dispone la revoca - Esclusione. L’ordinanza che dispone la revoca della sentenza di non luogo a procedere non è autonomamente ricorribile per cassazione. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 31 luglio 2008 n. 32348. Udienza preliminare - Revoca sentenza di non luogo a procedere - Nuove fonti di prova - Poteri e criteri di valutazione del giudice - Limiti. Ai fini della revoca della sentenza di non luogo a procedere, le nuove prove poste a sostegno della richiesta devono essere oggetto, nel merito, di una valutazione d’idoneità a determinare, nel caso concreto, il rinvio a giudizio, non a fondare o meno un giudizio di colpevolezza. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 15 maggio 2008 n. 19481. Udienza preliminare - Revoca sentenza di non luogo a procedere Disciplina - Garanzia del contraddittorio - Inosservanza - Mezzi di impugnazione consentiti all’imputato - Ricorso per cassazione - Ammissibilità. Il procedimento per la revoca della sentenza di non luogo a procedere deve svolgersi non "de plano", ma nel rispetto del contraddittorio, nelle forme previste dall’articolo 127 cod. proc. pen., con la conseguenza che il provvedimento di revoca adottato non osservando le forme procedimentali prescritte è ricorribile per cassazione da parte dell’imputato, a norma dell’articolo 127, comma settimo, richiamato dall’articolo 435, comma terzo. Corte di cassazione, Sez. I, sentenza 2 agosto 2005 n. 29175. Udienza preliminare - Revoca sentenza di non luogo a procedere - Nuove fonti di prova - Poteri e criteri di valutazione del giudice. Ai fini della revoca della sentenza di non luogo a procedere, le nuove prove poste a sostegno della richiesta devono essere oggetto, nel merito, d’una valutazione di idoneità, la quale può concludersi positivamente quando il giudice ritenga che, se fossero state conosciute nel momento conclusivo della udienza preliminare, in luogo della sentenza sarebbe stato deliberato il rinvio a giudizio dell’interessato. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 23 luglio 2003 n. 30869. Udienza preliminare - Revoca sentenza di non luogo a procedere -- Nuova fonte di prova - Nozione. Ai fini della revoca della sentenza di non luogo a procedere, non può considerarsi nuova fonte di prova quella della cui esistenza, pur mancando gli atti relativi nel fascicolo del procedimento definito con la sentenza, il giudice risulti essere stato informato al momento della decisione. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 23 luglio 2003 n. 30869. Campania: Sappe; situazione allarmante nelle carceri di Napoli Poggioreale e di Salerno Roma, 12 agosto 2015 "Per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria le condizioni di vita dei detenuti, in linea con le prescrizioni dettate dalla sentenza Torreggiani sono migliorate in Italia. Non si dice, però, che le tensioni del sistema penitenziario italiano continuano a scaricarsi sulle donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, quotidianamente impegnati a contrastare le tensioni e le violenze clie avvengono nelle nostre carceri vedono spesso i nostri Agenti. Sovrintendenti. Ispettori picchiati e feriti dalle violenze ingiustificate di una consistente fetta di detenuti che evidentemente si sentono intoccabili". Così Donalo Capece, segretario generale del Sappe. I detenuti complessivamente presenti nelle carceri regionali della Campania - si legge nella nota - erano, il 30 luglio scorso, 6.926. In calo rispetto a un anno fa quando, nello stesso giorno del 2014, erano 7.257. A non calare, però, sono gli eventi e gli episodi critici nelle celle, secondo la denuncia del Sappe. "I dati - prosegue il leader del primo sindacato della Polizia Penitenziaria con il segretario regionale Sappe della Campania Emilio Fattarello - sono gravi e sconcertanti e sono utili a comprenderli organicamente la situazione delle prigioni del nostro Paese: ometterli è operazione mistificatoria. Dal 1 gennaio al 30 giugno 2015 nelle 17 carceri della Campania si sono infatti contati il suicidio di 2 detenuti, 40 decessi per cause naturali in cella, 10 tentali suicidi sventali in tempo dai poliziotti penitenziari e 309 atti di autolesionismo posti in essere da detenuti. Ancora più gravi i numeri delle violenze contro i nostri poliziotti penitenziari: parliamo di 325 colluttazioni e 55 ferimenti. Ogni giorno, insomma, le turbolenti carceri campane ed italiane vedono le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria fronteggiare pericoli e tensioni e per i poliziotti penitenziari in servizio le condizioni di lavoro restano pericolose e stressanti". A giudizio del Sappe "il Dap queste cose non le dice, l’unica preoccupazione, per i solerti dirigenti ministeriali, è evidentemente quella di migliorare la vita in cella ai detenuti. I poliziotti possono continuare a prendere sberle e pugni, a salvare la vita ai detenuti che tentato il suicidio nel silenzio e nell’indifferenza dell’Amministrazione penitenziaria". Napoli Poggioreale e Salerno le due carceri campane con il più alto numero di atti di autolesionismo (quando un detenuto si lesiona il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo), rispettivamente 96 e 70 casi". Liguria: Sappe; carceri migliorate? più detenuti del 2014 e più morti e autolesionismi Ansa, 12 agosto 2015 I detenuti complessivamente presenti nelle carceri regionali della Liguria erano, il 30 luglio scorso, 1.404. Più di quelli che c’erano un anno fa quando, nello stesso giorno del 2014, erano 1.381. E questo nonostante l’approvazione di più leggi impropriamente definite svuota carceri. A non calare, però, sono gli eventi e gli episodi critici nelle celle, secondo la denuncia del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria le condizioni di vita dei detenuti, in linea con le prescrizioni dettate dalla sentenza Torreggiani, sono migliorate in Italia. Non si dice, però, che le tensioni del sistema penitenziario italiano continuano a scaricarsi sulle donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, quotidianamente impegnati a contrastare le tensioni e le violenze che avvengono nelle nostre carceri vedono spesso i nostri Agenti, Sovrintendenti, Ispettori picchiati e feriti dalle violenze ingiustificate di una consistente fetta di detenuti che evidentemente si sentono intoccabili", sottolinea Donato Capece, segretario generale del Sappe. "I dati sono gravi e sconcertanti e sono utili a comprenderli organicamente la situazione delle prigioni del nostro Paese: ometterli è operazione mistificatoria", prosegue il leader del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria con il Segretario regionale Sappe della Liguria Michele Lorenzo. "Dal 1 gennaio al 30 giugno 2015 nelle 7 carceri della Liguria si sono infatti contati il suicidio di un detenuto, 18 decessi per cause naturali in cella e 240 atti di autolesionismo posti in essere da detenuti. Ancora più gravi i numeri delle violenze contro i nostri poliziotti penitenziari: parliamo di 36 colluttazioni e 11 ferimenti. Ogni giorno, insomma, le turbolenti carceri liguri ed italiane vedono le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria fronteggiare pericoli e tensioni e per i poliziotti penitenziari in servizio le condizioni di lavoro restano pericolose e stressanti". "Ma il Dap queste cose non le dice", denunciano infine Capece e Lorenzo: "l’unica preoccupazione, per i solerti dirigenti ministeriali, è evidentemente quella di migliorare la vita in cella ai detenuti. I poliziotti possono continuare a prendere sberle e pugni, a salvare la vita ai detenuti che tentato il suicidio nel silenzio e nell’indifferenza dell’Amministrazione penitenziaria". Sanremo, La Spezia e Genova Marassi le tre carceri liguri con il più alto numero di atti di autolesionismo (quando un detenuto si lesiona il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo): rispettivamente 69, 62 e 47 casi, mentre Imperia è letteralmente priva di attenzione istituzionale. Sardegna: Sdr; l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Cagliari a rischio collasso Ristretti Orizzonti, 12 agosto 2015 "Situazione paradossale per l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Cagliari, competente per le attività di cinque Istituti tra cui Cagliari-Uta e Oristano-Massama per un numero complessivo di 988 detenuti. Nonostante 4.430 casi aperti dall’1 gennaio al 31 luglio scorso, rischia di andare in tilt". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", esprimendo "viva preoccupazione per le contraddittorie azioni del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che da tempo limitano l’operatività dell’Uepe comprimendone la funzione deflattiva determinante per azzerare la recidiva. Ciò nonostante la riconosciuta efficienza del servizio che, a livello nazionale, per la messa alla prova figura al secondo posto dopo Milano". "La situazione - sottolinea - è ormai divenuta insostenibile anche in considerazione della nuova normativa sulla probation. Nei primi sette mesi di quest’anno infatti sono state promosse 789 indagini per la messa alla prova e ne sono state attivate 377. Iniziative che si sommano, tra le altre, agli affidamenti in prova (709), alle indagini dalla libertà (1038), alla reclusione domiciliare (489) e alle osservazioni in Istituto (741). Insomma l’attività dell’Ufficio, che annualmente registra oltre 10mila accessi di pubblico, è indispensabile non solo per il reintegro sociale delle persone private della libertà ma per la prevenzione degli atti illegali e per ridurre drasticamente il numero dei ristretti. Indebolire l’Uepe significa agire a discapito dell’intera comunità". "Il Dap tuttavia - evidenzia la presidente di SDR - sembra indifferente alla qualità dei servizi offerti dall’Uepe di Cagliari manifestando soprattutto nell’ultimo periodo una immotivata negligenza. In attesa dei decreti attuativi che renderanno pienamente esecutivo il provvedimento di riordino del Ministero della Giustizia con l’accorpamento in un’unica Direzione per gli Uepe e la Giustizia Minorile, l’Ufficio di Cagliari-Oristano appare depotenziato. Al personale insufficiente (32 operatori effettivi, 5 in distacco su 44 previsti in organico), alla non attuata autonomia contabile con una dipendenza umiliante dalla Casa Circondariale di Cagliari perfino per l’acquisto della carta igienica, al mancato rinnovo del contratto di locazione che impedisce la manutenzione ordinaria, si è aggiunto a giugno - e non è stato ancora risolto - il guasto di due termo condizionatori, costringendo gli operatori in condizioni di lavoro particolarmente difficili". "La situazione diventa assurda in considerazione della insufficienza perfino degli stampati per mantenere in ordine i fascicoli. Il Dipartimento, che finora ha destinato all’Uepe solo il 3% delle risorse del Ministero, dovrebbe finalmente attuare le politiche deflattive, promuovere la prevenzione e il reinserimento sociale dei detenuti. Le norme sulla messa alla prova richiedono significativi interventi negli Uffici preposti altrimenti anche le migliori disposizioni resteranno lettera morta. La realtà cagliaritana - conclude Caligaris - è emblematica di una difficoltà a cambiare rotta. Privilegiare il recupero di chi ha sbagliato offre maggiori garanzie di sicurezza piuttosto che limitarsi ad allontanarlo dalla società chiudendolo in una cella". Teramo: 41enne si uccide in carcere, ha scritto tre lettere prima di impiccarsi di Diana Pompetti Il Centro, 12 agosto 2015 L’uomo che il 6 maggio ha tagliato la gola a Giandomenico Orlando per i rumori del laboratorio si è impiccato con il lenzuolo annodato all’inferriata della cella verso le 2 di notte. Prima di uccidersi ha scritto tre lettere: alla madre, alla fidanzata e all’avvocato. Nessun riferimento né scuse alla famiglia del pasticciere. In carcere stava male e il suo avvocato aveva chiesto al giudice di verificarne la compatibilità. L’incidente probatorio era stato fissato al 4 settembre. Troppo tardi. Si è impiccato con un lenzuolo all’inferriata della finestra della cella del carcere di Castrogno, a Teramo: Giovanni Raffaele Grieco, 41 anni, ex buttafuori pescarese era detenuto dal 6 maggio con l’accusa dell’omicidio di Giandomenico Orlando, il pasticciere pescarese di 67 anni ucciso davanti al suo negozio. Due o tre i colpi che Raffaele Grieco ha inferto con forza al collo di Gianni Orlando, morto poco dopo sotto gli occhi del figlio. L’assassino arrestato otto ore dopo a Pineto. Inutili le denunce dopo anni di liti per i rumori provenienti dal laboratorio e le violenze del vicino di casa: la polizia ne aveva chiesto l’arresto, negato dalla procura. Grieco si è ucciso intorno alle 2 e a dare l’allarme sono stati alcuni agenti che lo hanno immediatamente soccorso, ma per l’uomo non c’era più nulla da fare. Prima di uccidersi ha scritto tre lettere: alla madre, alla fidanzata e al suo avvocato. Massimo riserbo sui contenuti personali delle lettere, e comunque non ci sarebbero richieste di perdono e di scuse alla famiglia del pasticciere. Intanto si è saputo che il 4 settembre era stato fissato l’incidente probatorio richiesto dal suo avvocato, Paolo Marino, per accertare la sua capacità di intendere e di volere e la sua compatibilità con la condizione carceraria. Non è escluso che nelle prossime ore il pubblico ministero di turno decida di disporre l’autopsia. Quello di Grieco è il secondo suicidio dall’inizio dell’anno nel carcere teramano. Pordenone: la morte in carcere del ventinovenne Stefano Borriello rimane un mistero di Enri Lisetto Messaggero Veneto, 12 agosto 2015 Non erano ecchimosi i segni sul corpo del ventinovenne di Portogruaro. Escluso il decesso per droga o patologie evidenti. Disposti ulteriori test. Resta un mistero, almeno per il momento, la morte del ventinovenne Stefano Borriello. Ieri pomeriggio, quasi tre ore di esame autoptico, eseguito dall’anatomopatologo Renzo Fiorentino, su incarico della Procura, cui ha assistito il perito di parte della famiglia della vittima, Vincenzo De Leo, non hanno fornito una risposta univoca. Ci vorranno alcuni giorni, ovvero il tempo di analizzare i campioni di organi e liquidi prelevati per l’analisi di laboratorio. L’autopsia, ad ogni modo, ha permesso quantomeno di escludere alcune ipotesi: il corpo del giovane non evidenziava ecchimosi, e pertanto non vi è stata alcuna violenza, il cuore era sano, dunque è stato tendenzialmente escluso un infarto miocardico, il "fuoco di Sant’Antonio" era minimo, e quindi nemmeno questa infezione è stata letale. Casa circondariale e ospedale hanno ricostruito, per la rispettiva parte di competenza, le ultime giornate e ore del giovane detenuto, morto venerdì sera al pronto soccorso del Santa Maria degli Angeli di Pordenone, dove era arrivato in condizioni molto gravi; atti che sono nel fascicolo del pubblico ministero Matteo Campagnaro, che ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo a carico di ignoti. Stefano Borriello era stato visitato dal medico di guardia del carcere. Gli aveva diagnosticato un herpes alla schiena e prescritto la terapia. Venerdì sera il malore. L’intervento del personale medico, la corsa in ambulanza all’ospedale. "Alle 20 circa - rileva una nota dell’Azienda per l’assistenza sanitaria 5 - i due infermieri in servizio in quel momento sono stati prontamente allertati dagli agenti di sorveglianza in merito al malore del detenuto e sono accorsi per prestare soccorso: hanno, come da protocollo, allertato il 118 e attuato la rianimazione cardiopolmonare (compresa l’applicazione del defibrillatore automatico in dotazione) fino al sopraggiungere dell’ambulanza. Borriello è stato trasportato al pronto soccorso dall’ambulanza sopraggiunta rapidamente sul posto, ma purtroppo, nonostante gli sforzi fatti per rianimarlo, le condizioni sono ulteriormente peggiorate ed è deceduto per arresto cardiaco". In sette minuti dalla chiamata, il 118 era nella cella del giovane, in altrettanti, al pronto soccorso. Al proposito, la nota dell’Aas 5 prosegue: "Dal 2014 le funzioni di sanità penitenziaria sono transitate dal ministero della Giustizia alle aziende sanitarie. Pertanto la "Friuli occidentale" si occupa dell’assistenza sanitaria ai detenuti nel carcere locale. Presso la casa circondariale vi è un ambulatorio regolarmente funzionante, grazie a un’équipe di tre medici e quattro infermieri, che si avvicendano in modo da garantire la presenza assistenziale dalle 7.30 alle 21.30 per 365 giorni all’anno". Tecnicamente il decesso è avvenuto per "arresto cardiocircolatorio" alle 21.15, secondo quanto registra la constatazione medica. Ma l’autopsia non ha rivelato "una causa evidente di morte". Il cuore era sano: escluso, pertanto, l’infarto miocardico. L’anatomopatologo ha eseguito prelievi di organi e liquidi, per esaminare lo stato degli organi vitali. In più, entro 60 giorni saranno disponibili anche gli esami tossicologici: "Nessuna tossicità evidente, quasi nulle le tracce sul sangue". Il giovane aveva un passato di dipendenza, che nel periodo di detenzione, poco meno di due mesi, era governata con l’assunzione di un farmaco. Quanto all’herpes, gli erano state somministrate delle specifiche terapie, tanto che l’esame di ieri pomeriggio ha evidenziato "tracce minimali" del "fuoco di Sant’Antonio", che fanno escludere questa come causa di morte. Esclusa totalmente la violenza fisica. L’esame autoptico non ha riscontrato alcuna, anche minima, ecchimosi, assenti tracce ematiche nei tessuti, nessuna frattura ossea. Tale refertazione dipana dubbi che erano stati sollevati nell’immediatezza della morte da un amico di famiglia. Il quale aveva descritto una sorta di livido, una macchia viola, dalla testa al ventre dello sfortunato giovane che abitava a Portogruaro. Di tale livido l’autopsia non ha trovato traccia. A questo punto la causa della morte potrà emergere dagli ulteriori accertamenti peritali, per i quali i tempi sono più lunghi rispetto all’autopsia. Il perito Renzo Fiorentino ha eseguito prelievi su tutti gli organi, tra cui cuore, polmone, fegato, cervello, per accertare o escludere eventuali altre patologie, infezioni, virus, o malformazioni "non palesi in prima battuta", che avrebbero potuto causare il decesso. Tutto ciò ha fatto tirare le somme all’anatomopatologo, che ha consegnato la prima relazione, in attesa di quella definitiva, al pubblico ministero Matteo Campagnaro: l’esame non ha evidenziato cause dirette ed evidenti di morte. Per che cosa sia morto Stefano Borriello, insomma, è un mistero che potrebbe essere sciolto nei prossimi giorni quando anche gli accertamenti di laboratorio conseguenti ai prelievi eseguiti ieri, daranno i loro esiti. Alle condoglianze della struttura carceraria alla famiglia, intanto, si sono aggiunte quelle dell’Azienda per l’assistenza sanitaria: "Si unisce ai numerosi cordogli alla famiglia del ragazzo, in attesa di conoscere gli esiti del riscontro autoptico disposto dalla magistratura, che potrà fornire elementi più chiari sulla causa del decesso". Vercelli: Sappe; due gravi episodi di violenza sono accaduti ieri nel carcere obiettivonews.it, 12 agosto 2015 "Il primo episodio è accaduto verso le ore 8,30, presso il primo piano dove sono ristretti detenuti per reati a sfondo sessuale "sex offender"", spiega il segretario regionale Sappe Vicente Santilli. "Il poliziotto di servizio, durante il normale giro di controllo, ha rischiato di restare ustionato dall’olio bollente lanciato da un detenuto. Solo grazie alla zanzariera, considerato l’olio molto denso, ha attutito la notevole quantità di olio diretta verso l’agente". "Il secondo episodio" prosegue il sindacalista del Sappe "è avvenuto intorno alle ore 10,15, nella palestra dell’istituto, dove erano presenti numerosi detenuti ristretti sempre per reati a sfondo sessuale. È’ scoppiata una rissa tra di loro (algerini- marocchini e due italiani ) e un marocchino ha riportato una frattura alla testa. I poliziotti penitenziari sono immediatamente intervenuti una donna vice sovrintendente del Corpo è stata colpita con calci all’altezza del bacino. Attualmente è presso il nosocomio Sant’ Andrea di Vercelli per le cure del caso". I detenuti complessivamente presenti nelle carceri regionali del Piemonte erano, il 30 luglio scorso, 3.585. Poco meno di quelli che c’erano un anno fa quando, nello stesso giorno del 2014, erano 3.627. "Per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria le condizioni di vita dei detenuti, in linea con le prescrizioni dettate dalla sentenza Torreggiani, sono migliorate in Italia. Non si dice, però, che le tensioni del sistema penitenziario italiano continuano a scaricarsi sulle donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, quotidianamente impegnati a contrastare le tensioni e le violenze che avvengono nelle nostre carceri vedono spesso i nostri Agenti, Sovrintendenti, Ispettori picchiati e feriti dalle violenze ingiustificate di una consistente fetta di detenuti che evidentemente si sentono intoccabili", sottolinea Donato Capece, segretario generale del Sappe. "I dati sono gravi e sconcertanti e sono utili a comprenderli organicamente la situazione delle prigioni del nostro Paese: ometterli è operazione mistificatoria", prosegue il leader del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria. "Dal 1 gennaio al 30 giugno 2015 nelle 13 carceri del Piemonte si sono infatti contati il suicidio di un detenuto, 3 tentativi sventati in tempo dai poliziotti penitenziari, 36 decessi per cause naturali in cella e 184 atti di autolesionismo posti in essere da detenuti. Ancora più gravi i numeri delle violenze contro i nostri poliziotti penitenziari: parliamo di 99 colluttazioni e 24 ferimenti. Ogni giorno, insomma, le turbolenti carceri piemontesi ed italiane vedono le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria fronteggiare pericoli e tensioni e per i poliziotti penitenziari in servizio le condizioni di lavoro restano pericolose e stressanti. E quel che è successo oggi a Vercelli lo dimostra con drammatica evidenza". "Ma il Dap queste cose non le dice", denunciano infine Capece e Santilli: "l’unica preoccupazione, per i solerti dirigenti ministeriali, è evidentemente quella di migliorare la vita in cella ai detenuti. I poliziotti possono continuare a prendere sberle e pugni, a salvare la vita ai detenuti che tentato il suicidio nel silenzio e nell’indifferenza dell’Amministrazione penitenziaria". Droghe: vent’anni di battaglie e divieti, una lotta impari… lo sballo vince sempre di Maria Novella De Luca la Repubblica, 12 agosto 2015 Al Cocoricò di Riccione, chiuso dal questore, l’incontro con dj, attivisti e famiglie: "Quante campagne ma i nostri figli continuano a drogarsi". Lungo le strade del divertimentificio poco o nulla è cambiato. Sui bordi sabbiosi delle spiagge, arene di rave alcolici nemmeno più clandestini, nella quiete delle colline di Riccione, dove il Cocoricò a luci basse sembra un’astronave abbandonata. Si moriva ieri, si muore oggi, la droga è sempre la stessa, ecstasy un po’ più cattiva dicono, e così l’infinito dibattito, quasi una guerra dei 30 anni, sul ballo che diventa sballo, quella "s" maledetta ancora purtroppo archetipo del divertimento, terrore nelle notti insonni dei genitori di figli ragazzini. In mezzo il nulla. I grandi club (come è avvenuto ieri sera al Cocoricò) che provano ad allearsi nelle battaglie antidroga, i sigilli che seguono i lutti, le leggi mai approvate, l’invocazione di misure da stadio nelle discoteche, le chiusure anticipate, l’alcol razionato. Un salto all’indietro, un dejà vu. Con la differenza che negli anni Novanta, agli esordi dello sbarco dai Balcani delle droghe sintetiche nel nostro Paese, in tutta Italia resistevano i Sert (servizi territoriali per le tossicodipendenze) e le comunità di recupero. Approdi già malconci ma pur sempre approdi, oggi spazzati via dai tagli e dall’oblio delle politiche sulle tossicodipendenze. I camper della "riduzione del danno" che analizzavano le pasticche davanti alle discoteche (le famose roulotte del Gruppo Abele, della comunità di Villa Maraini) scomparsi come archeologia dello stato sociale. Era il 1988 quando un folto gruppo di tenaci madri romagnole guidate da Maria Belli, ex assessore comunista alla Pubblica istruzione di Forlì e madre di tre figlie, riuscì a far abbassare i decibel al mitico "Bandiera gialla" di Rimini. Iniziando così una battaglia (poi nella singolare alleanza con il cattolico Giovanardi) per la chiusura delle discoteche alle tre del mattino, legge discussa nel 1993, poi nel 2003, poi definitivamente dimenticata. Fino a ieri. Come le stanze di "decompressione" dove sostare prima di tornare a casa, o i disco- bus che all’uscita dei locali avrebbero dovuto riportare i ragazzi a casa, ma che regolarmente viaggiavano vuoti. Misure sagge, misure sbagliate di cui oggi non resta nulla. Al Cocoricò chiuso per ordine del prefetto l’atmosfera è mesta. "Accendiamo la musica, spegniamo la droga" è il titolo della serata, che vorrebbe anche ricordare Lamberto, 16 anni, morto proprio lì, in pista, per un ecstasy comprata da un amico quasi coetaneo. Un uragano di dolore che travolge due famiglie. L’inizio di una catena di lutti, come quando si diffondono partite di droghe letali: muore Lorenzo, nel Salento, e Ilaria, 16 anni, su una spiaggia di Messina. Prince Maurice, dj simbolo del club, suona un brano dedicato ai "giovani incoscienti", per adesso è solo musica, seguiranno le parole. "Noi vogliamo essere il tempio del ballo e non dello sballo", di nuovo quella "s" che rovina tutto, ma la frase era identica negli anni Novanta, quando nella stessa riviera del divertimentificio arrivarono i primi morti per ecstasy. E come in ogni guerra ci sono i sopravvissuti e i parenti delle vittime a cui è affidata la memoria. Perché l’accaduto non si ripeta. Tocca a Giorgia Benusiglia parlare, Giorgia che non si stanca mai di raccontare, e spiegare, e aiutare. Nel 1999 aveva 17 anni e una passione per le discoteche: buttò giù una pasticca e si ritrovò in fin di vita con una epatite fulminante. Salvata con un trapianto di fegato ( donato dai genitori di una sua quasi coetanea morta in un incidente stradale) ha deciso di dedicare la sua vita alla prevenzione della droga. Alta, bruna, semplice Giorgia incontra ogni anno migliaia di studenti, genitori, insegnanti. "Per quelle poche ore di sballo ho perso la mia giovinezza e metà della mia vita, sono qui, è vero, ma avendo subito un trapianto sono e resterò per sempre sotto stretto controllo medico, una paziente a vita. Ai ragazzi racconto il mio calvario in ospedale, racconto della mia donatrice Alessandra, che vive dentro di me… Non credo nel proibizionismo, credo nel contatto con i giovani, per questo vado ovunque, mi occupo dei ragazzi, del loro disagio che spesso porta alla droga. Noi dobbiamo fare qualcosa: una serata in discoteca non può concludersi all’obitorio". Le cifre dicono che in Italia oggi si muore ancora per eroina più che per le droghe sintetiche: le vittime nel 2014 sono state 350, cioè una al giorno. Erano oltre mille nel 1999. Ma medici, psichiatri e operatori dei Sert mettono in guardia da una nuova emergenza: "La diffusione a tappeto delle pasticche, sta creando gravi danni psichiatrici tra i giovanissimi. Ma sappiamo da tempo però che questi tipo di pazienti sfuggono alle cure, non si sentono "drogati". E quando arrivano da noi è già troppo tardi". Luci scure, il simbolo del Cocoricò scorre dietro la consolle. Ci sono i Dj Maurice e Ralf, uno dei proprietari del locale-piramide Fabrizio De Meis. Il pubblico è adulto, composto. I giovani non sono molti, ma attenti. "Non siamo qui per chiedere la riapertura del Cocoricò, ma per allearci con i giovani nella lotta alla droga, battaglia che stiamo conducendo da tre anni insieme alla comunità di San Patrignano. Prendere una pasticca di ecstasy è come giocare alla roulette russa, i ragazzi devono saperlo. E aggirare i divieti è troppo facile: noi non diamo alcolici ai minorenni, ma come possiamo impedire loro di ubriacarsi di vodka liscia all’uscita del locale? Tutto è diventato troppo pericoloso: penso seriamente che si dovrebbe impedire l’accesso in discoteca ai minori di diciotto anni". Droghe: Manconi "queste tragedie non fermano la legalizzazione della cannabis" di Errico Novi Il Garantista, 12 agosto 2015 La prima cosa che viene in mente è: addio legalizzazione della cannabis. Adesso vedrai che queste tragedie dei ragazzi morti di ecstasy dentro e al di fuori delle discoteche produrrà una paralisi della proposta di legge sulla marijuana. Di quell’articolato disegno depositato alla Camera e al Senato che indica modi e termini di "regolamentazione, produzione, distribuzione e commercio" dei cosiddetti spinelli. E invece il parlamentare che a Palazzo Madama figura come primo firmatario della proposta, Luigi Manconi, non vede questa possibilità. Anzi. "Potrei dire, e sarebbe fin troppo facile, che queste vicende non hanno nulla a che fare con la marijuana. Ma la cosa non si esaurisce qui, evidentemente". Anche perché, senatore Manconi, la tendenza a una reazione estremizzata, in questi casi, è fatale. Anche da parte delle istituzioni. "Mi pare che sulla scorta di una cronaca così crudele sia impossibile suggerire misure razionali e intelligenti, quindi efficaci, in tema di consumi giovanili di musica. Sul versante delle sostanze stupefacenti resta un dato, quello per cui non si è mai registrata una morte per cannabis, a cui aggiungo altre considerazioni. Quel dato, innanzitutto, non vuol dire che la cannabis non faccia male. L’abuso di cannabis negli adolescenti e minori può produrre danni anche rilevanti. Però il discorso di fondo, quello che non si fa mai, è che la decisione di legalizzare non si fonda sulla nocività delle sostanze. Non è che si legalizzano le meno nocive, e non lo si fa con le più nocive". Qual è invece il principio? "È un principio generale, che affermiamo a partire dalla seguente domanda: gli effetti nocivi delle sostanze sono più agevolmente contenibili, più efficacemente riparabili, in un regime di illegalità o di regolamentazione?". Con le regole, evidentemente. "Evidentemente è così. Certo, noi sulla cannabis abbiamo un dato incontrovertibile, e cioè che è meno nociva del tabacco e dell’alcol. Ma in termini giuridici il discorso è un altro. La legalizzazione di attività che producono danni può essere decisa non in base all’entità di quel danno, ma a seconda di quale sia il regime che consente di ridurre il danno al minimo. Questo approccio non è solo empirico-pragmatico, ma anche morale. A ispirarlo c’è, tra l’altro, l’assunto teologico del male minore. Lo stesso che ha indotto la Chiesa, per esempio, a convivere con la prostituzione, o a scendere a patti col male". Argomenti forti. Ma alcuni, nella maggioranza che dovrà sostenere la vostra proposta di legge, non li vorranno neppure ascoltare. "Rischiano di eludere la domanda più elementare: siete favorevoli a porre fuori legge l’alcol, dal momento che l’alcol fa danni incomparabilmente maggiori, e l’abuso d’alcol è più diffuso tra i giovani della cannabis? In genere questo paralizza l’interlocutore. Tanto è vero, che posto davanti al dilemma, il proibizionista risponde: ma dal momento che alcol e tabacco fanno male essendo legali, che motivo c’è di aggiungerne un’altra, al novero delle sostante legali nocive?". Questa non è proprio di ferro, come argomentazione. "È insidiosa. Va risolta così: nella storia delle sostanze nocive noi abbiamo un solo esempio di riduzione dell’abuso, e riguarda appunto il tabacco. Ma la riduzione dell’abuso di tabacco è avvenuta in regime di legalità, i consumatori si sono ridotti in maniera estremamente significativa". Vero. "E non regge neppure la remora, che si assume in particolare a proposito dei giovani, secondo cui se l’adolescente sa che un certo consumo è penalizzato non vi accede. A parte l’argomentazione del fascino del proibito, che francamente trovo un po’ stanca, se ne può opporre una assai più semplice. In fase di maggiore penalizzazione normativa della cannabis, quella che va dal 2005 al 2012, si hanno due effetti: massima diffusione in Italia del consumo, e anche massima tollerabilità sociale. Tra gli adolescenti, la cannabis gode di una impunità sociale, possiamo dire. E non solo tra gli adolescenti". A cosa si riferisce? "Al fatto che su 10 consumatori di cannabis almeno 2, ma mi tengo stretto, sono adulti: cinquantenni, intendo. I padri non dicono ai figli: evita le canne, che fanno male, ma evita, se no ti ferma la polizia". Sono due giurisdizioni parallele, insomma: quella della Fini-Giovanardi, finché è stata tutta in piedi, e quella della percezione diffusa. "Appunto. E poi, sulla legalizzazione c’è da dire una cosa, forse decisiva. Temo che noi italiani siamo abbastanza inclini all’oblio da esserci dimenticati che cos’era la morte per eroina da strada degli anni Ottanta: si contavano almeno 1.200 vittime l’anno, ragazzi trovati con una siringa nel braccio nei giardini di periferia. La legalizzazione è il mondo opposto a quella vergogna. Ed è il mondo in cui non può avvenire quanto si è scoperto degli spacciatori all’opera nella discoteca del Salento dov’è morto quel ragazzo. Avevano con sé derivati della cannabis, ecstasy e cocaina. Quindi l’acquirente potenziale della cannabis trova, presso quell’esercizio commerciale illegale, un’offerta differenziata e allettante. È il principale meccanismo di proselitismo, di diffusione del mercato, e di effettivo aumento del rischio. Cose che non ci sono con la cannabis legalizzata". Cocoricò, le persone e le "droghe" di Lorenzo Camoletto (Progetto Neutravel, coordinamento Rete Itardd) Il Manifesto, 12 agosto 2015 Uno strumento utile è l’analisi delle sostanze - che si fa in molti paesi europei - per restituire ai consumatori dati corretti sui principi attivi contenuti. Istituzioni, società, mondo adulto in genere, se volessero riappropriarsi del loro giusto ruolo di riferimento e supporto, anziché individuare il male assoluto nelle "droghe", potrebbero partire delle persone - e non dalle sostanze che usano - informandole oggettivamente sugli effetti diretti e collaterali: uno strumento utile è l’analisi delle sostanze - che si fa in molti paesi europei - per restituire ai consumatori dati corretti sui principi attivi contenuti. In una notte di metà luglio un’ipertemia maligna si è portata via Lamberto L. mentre ballava al Cocoricò di Riccione. Aveva assunto Mdma. La morte di un ragazzo di 16 anni è un lutto inaccettabile non solo per i suoi famigliari, per i suoi amici, ma per tutta la società; inevitabile interrogarsi sulla catena degli eventi che l’ha provocato, e magari cercare un colpevole che possa catalizzare il senso di fallimento collettivo. La tentazione delle semplificazioni è fortissima: chiudiamo "il luogo della perdizione", avremo la sensazione di aver reagito, trovato e punito il colpevole e diminuito il nostro senso di impotenza. Ma le cose sono un po’ più complicate: oggi un nativo digitale minorenne è in grado di raggiungere abbastanza facilmente nel dark-net (il web sommerso e irraggiungibile con i motori di ricerca tradizionali) negozi virtuali di sostanze psicotrope; e magari con una carta di credito prepagata farsi spedire con un corriere una qualunque sostanza psicoattiva. La consumerà da solo o con gli amici, a casa o nel parchetto isolato o da qualsiasi altra parte, non necessariamente in discoteca. E dalla chiusura della piattaforma web Silk Road, le procedure ora sono perfino più semplici… Chiudere, reprimere, non solo è inefficace, ma finisce per incrementare i danni: le persone correranno rischi comunque, ma in luoghi più nascosti e pericolosi. Inoltre a livello educativo rappresenta una summa di errori, un po’ come un genitore collettivo che si ponesse in questo modo: cercherò invano di chiuderti gli accessi al mondo, perché questo mondo lo capisco meno di te e quindi non sarei in grado di farti da guida; farò in modo di farti evitare i rischi, …perché tu non supereresti le prove; cercherò risposte semplificatorie perché non mi importa veramente di te, ma solo di diminuire la mia ansia e il mio senso di inadeguatezza e di colpa. Il mondo cambia velocemente portando al contempo opportunità e rischi: per cogliere le prime e ridurre i secondi occorre consapevolezza e senso critico, che sono i fattori di protezione fondamentali. Istituzioni, società, mondo adulto in genere, se volessero riappropriarsi del loro giusto ruolo di riferimento e supporto, anziché individuare il male assoluto nelle "droghe", potrebbero partire delle persone - e non dalle sostanze che usano - informandole oggettivamente sugli effetti diretti e collaterali: uno strumento utile è l’analisi delle sostanze - che si fa in molti paesi europei - per restituire ai consumatori dati corretti sui principi attivi contenuti. Questo aumenterebbe la consapevolezza e ridurrebbe i rischi per chi avesse comunque deciso di consumare. Smettere di demonizzare i luoghi, le discoteche, le piazze, le Le "Zone temporaneamente autonome" dei rave, ma al contrario aumentarne la sicurezza, agendo sugli atteggiamenti e sui comportamenti di organizzatori e frequentatori: uno strumento utile è la costruzione condivisa di standard e protocolli di sicurezza, come l’accesso all’acqua gratuita, la presenza di personale socio-sanitario, la chill-out. Cercare sempre scorciatoie e capri espiatori è una via strumentale al consenso facile per i policy-maker, ma soprattutto è un modo collettivo di non pensare, di stordirsi e in ultima analisi di non affrontare i problemi. Facciamo in modo che tragedie come la morte di Lamberto divengano una possibilità di crescita collettiva e non siano invece l’ennesima occasione perduta. Soluzioni superficiali e di corto respiro creerebbero soltanto le condizioni affinché casi simili si ripetano, aggiungendo tragedia alla tragedia. Sui marò l’India tiene la linea dura Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2015 Un paio di minuti, non di più. Tanto è bastato al delegato di New Dehli per rigettare le richieste italiane davanti al Tribunale internazionale del diritto del mare (Itlos), nella seconda udienza del procedimento sui due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Nella replica conclusiva, ieri, Neeru Chadhaha chiesto ai giudici di Amburgo di respingere "tutte le misure provvisorie" avanzate da Roma. Chadha ha ringraziato "gli amici italiani per la cooperazione nel corso della procedura": una cortesia d’obbligo, che non cancellai toni duri degli interventi di lunedì e delle memorie depositate dalle parti. Chiuso il match tra Italia e India, la proclamazione del vincitore arriverà il 24 agosto, quando il tribunale si pronuncerà sulle richieste italiane in merito alla giurisdizione sull’accusa di duplice omicidio che pende sul capo dei fucilieri e sulle misure cautelari che li riguardano: il rientro in patria di Girone e la permanenza in Italia di Latorre per continuare le cure mediche dopo l’ictus che lo colpì a New Delhi. L’Italia chiede anche che le autorità indiane rinuncino a qualsiasi misura amministrativa o penale nei confronti dei due militari. "Questi due giorni sono stati caratterizzati da un buon lavoro della delegazione del Governo italiano. Ma ora, e come accade ormai da più di tre anni non ci resta che restare uniti e con le dita incrociate affinché si possa avere una giusta sentenza e rivedere finalmente in Italia Salvatore". Sono le parole scritte ieri da Latorre, commentando le udienze. Il militare ha poi ringraziato "per il vostro continuo e incessante supporto e affetto. Grazie a voi che ci volete bene con il cuore. Il sempre vostro Max". Nel corso del proprio intervento, l’ambasciatore italiano Francesco Azzarello ha definito "del tutto inaccettabile" l’accusa sollevata dall’India contro l’Italia, vale a dire di "essere un Paese che non mantiene la parola". Gli impegni presi con New Delhi "sono sempre stati onorati", ha sottolineato l’ambasciatore, precisando che non "possono essere messi in discussione i sentimenti dell’Italia nei confronti delle famiglie dei pescatori uccisi", Valentine Jalestine e Ajeesh Pink. L’Italia "ha dimostrato più volte" di essere "rattristata". È quindi l’India a "sfruttare questa situazione con l’unico scopo di creare un pregiudizio contro l’Italia", davanti all’Itlos. L’ambasciatore ha ricordato che Roma ha versato alle famiglie delle vittime "un risarcimento ex grazia" e che è "spiacevole" che questo sia stato usato da parte indiana "come un’ammissione di responsabilità". Per Sir Daniel Bethlehem, capo del team legale italiano, "l’India gioca a un gioco pericoloso, ha costruito un castello di carta" solo allo scopo di "continuare a esercitare la propria giurisdizione" su Girone e Latorre. L’avvocato ha ribadito che le dichiarazioni di parte indiana dimostrano che New Delhi considera Latorre e Girone come già condannati, mentre "non sono stati nemmeno incriminati" per la morte dei due pescatori uccisi al largo del Kerala il 15 febbraio 2012. "I marò - ha aggiunto - contestano l’accusa di aver sparato ai pescatori. Non è nemmeno accertato che gli spari letali siano partiti dalla Enrica Lexie", la nave commerciale su cui prestavano servizio in missione anti-pirateria. "Quello che è certo - ha sottolineato - è che i Marine hanno sparato colpi di avvertimento in acqua in quello che temevano fosse un attacco pirata", ha aggiunto l’avvocato. Il legale di parte indiana, il francese Alain Pellet, nelle repliche ha motivando il no alle misure urgenti richieste dall’Italia affermando che se Girone venisse autorizzato a rientrare in Italia, molto probabilmente non tornerebbe in India per farsi processare, nemmeno se l’arbitrato internazionale dovesse decidere che la giurisdizione sul caso dei marò è indiana. È la prima volta che la vicenda approda davanti a una corte internazionale: il Governo italiano si è rivolto all’Itlos il 21 luglio, dopo aver chiesto a fine giugno l’apertura della procedura di arbitrato, per la quale i tempi sono più lunghi: la Corte arbitrale si dovrà costituire entro il 26 agosto. Stati Uniti: retate a Ferguson, ma ora fanno paura le "milizie bianche" di Arturo Zampaglione La Repubblica, 12 agosto 2015 Ex soldati pattugliano le strade armati fino ai denti. Il capo della polizia: "Soffiano sul fuoco". Armati fino ai denti, indossando giubbotti anti-proiettili e divise mimetiche, pattugliano dall’alba di ieri le strade dei quartieri neri di Ferguson. E infiammano ancor più le tensioni razziali nella cittadina del Missouri, dove un anno fa un poliziotto bianco uccise il diciottenne afroamericano Michael Brown e dove ancora proseguono gli arresti, le sparatorie, i saccheggi. Si fanno chiamare Oath Keepers ("difensori del giuramento"): sono tutti bianchi, tutti ex soldati o ex poliziotti, e dicono di essere lì solo per proteggere gli innocenti e i giornalisti di Inforwars. com, una testata online di estrema destra. "Ma in realtà sono un gruppo militarista", denuncia il South Poverty Law Center. "La loro presenza è inutile e ha solo un effetto provocatorio", rincara la dose Jon Belmar, il capo della polizia della contea di St. Louis, che teme un confronto diretto, e sanguinario, tra i rambo bianchi e i militanti afro-americani. Non è affatto una paura infondata, quella di Belmar. Da quando domenica pomeriggio le manifestazioni pacifiche per l’anniversario della morte del giovane Brown hanno ceduto il passo alla violenza, a Ferguson la situazione sembra sempre più incontrollabile. Nella zona sono arrivati gruppi molti diversi tra di loro, con obiettivi spesso contrastanti. Lunedì è stato incriminato il diciottenne Tyron Harris, un amico di Michael Brown, che la notte prima aveva sparato con una pistola rubata contro altre bande di afroamericani e contro alcuni poliziotti in borgese: che poi l’hanno inseguito, ferito e arrestato. Sempre lunedì il capo della contea Steve Stanger ha decretato lo stato di emergenza, che è ancora in vigore, ma che non ha impedito nuove proteste e nuovi arresti. A finire in manette non sono stati solo un centinaio di ragazzi che avevano bloccato le strade e sfidato lo stato di emergenza al grido di "Black Lives Matter" ("contano anche le vite dei neri"), ma anche un nutrito gruppo di attivisti ed esponenti religiosi, tra cui il celebre intellettuale Cornel West, professore di filosofia e autore di decine di libri, tra cui Race Matters ("La razza conta"). Insieme agli altri, West ha scavalcato illegalmente le transenne davanti al palazzo di giustizia di St. Louis ed è stato subito arrestato. Il suo obiettivo? Denunciare con un atto di disobbedienza civile l’immobilismo della Casa Bianca di Barack Obama e del ministero della giustizia: che non hanno fatto niente per invertire la rotta e commissariare la polizia di Ferguson, nonostante la consapevolezza di un razzismo dilagante. In questo clima così teso, è inevitabile che la presenza degli Oath Keepers a West Florissant Avenue, nel quartiere afroamericano dove viveva Michal Brown, e fu ucciso nell’agosto 2014, venga interpretata molto male. "È una ignobile provocazione", dice Talal Ahmad, 30 anni, intervistato dal Washington Post. D’altra parte le autorità di Ferguson hanno le mani legate da norme statali che, all’estero, appaiono incomprensibili. Un emendamento del 2014 alla costituzione del Missouri, infatti, sancisce il diritto a girare con le armi in bella vista, purché siano legali e non impugnate in modo minaccioso. Loro, i miliziani, si limitano a tenere la canna dei fucili automatici rivolti al basso. E insistono, anche se nessuno ci crede, che sono lì solo per difendere la Costituzione americana. Stati Uniti: crea tensioni il problema del trasferimento dei detenuti di Guantánamo Ansa, 12 agosto 2015 Il tentativo della Casa Bianca di chiudere Guantánamo crea tensioni all’interno della stessa amministrazione mettendo a rischio la chiusura del supercarcere. Secondo quanto riporta il Washington Post, il nodo da sciogliere è quello di dove trasferire i detenuti, attualmente 116. Fra le ipotesi avanzate dalla Casa Bianca ci sarebbero i carceri americani di Thomson, in Illinois, o la base navale a Charleston in South Carolina, dove sospetti terroristi sono stati detenuti in passato. Il Dipartimento di Giustizia si sarebbe fermamente opposto all’ipotesi di Thomson. E la casa Bianca avrebbe accantonato l’idea, continuando a valutare altri carceri americani. Il Pentagono sta lavorando al piano per la chiusura, che dovrebbe essere presentato al Congresso dopo la pausa estiva. Il possibile trasferimento dei detenuti negli Stati Uniti è un tema che agita anche il Congresso. L’obiettivo della Casa Bianca è presentare un piano che incassi l’appoggio in Senato, dove il senatore John McCain si è detto disponibile ad appoggiare la chiusura del carcere se riceverà una proposta dettagliata dall’amministrazione su come mitigare i rischi. "Il Dipartimento della Difesa sta guidando gli sforzi per identificare siti negli Stati Uniti capaci di ospitare in sicurezza e umanità i detenuti di Guantánamo. Stiamo lavorando" afferma un funzionario americano. Ogni trasferimento di un detenuto deve essere approvato dal segretario alla Difesa. Ashton Carter è il ministro della Difesa e sostiene "il piano dell’amministrazione per la chiusura di Guantánamo e sta lavorando - aggiunge il funzionario - a un piano di lungo termine per un carcere alternativo per i detenuti che non possono essere trasferiti o rilasciati". Turchia: deputato Chp presenta mozione parlamentare su condizioni di vita nelle carceri Nova, 12 agosto 2015 Un deputato del Partito popolare repubblicano turco (Chp) Mahmut Tanal, ha presentato una mozione al parlamento di Ankara sulle condizioni dei detenuti nelle carceri turche e la loro conformità ai diritti umani. Lo riferisce il quotidiano turco "Hurriyet". Scopo della mozione avviare un’inchiesta che faccia luce sulle condizioni di vita nelle carceri truche, specie per quanto riguarda i membri della comunità Lgbti, lesbiche, gay, bisessuali, transgender e interesessuali, e per gli stranieri. La commissione una volta individuate carenze nel rispetto dei diritti umani dovrebbe prendere le adeguate misure per porre fine alle discriminazioni. Secondo gli ultimi dati, 164.461 persone sono incarcerate in Turchia ma una volta terminata la costruzione dei nuovi istituti penitenziari i posti saliranno a 300 mila. Secondo Tanal "nelle carceri turche, le forniture sanitarie ed igieniche sanità incluse quelle essenziali come l’acqua potabile, salvaslip, carta igienica, sapone o detergente sono vendute per denaro", complicando notevolmente le condizioni degli stranieri detenuti nelle carceri turche. Algeria-Iraq: intesa di massima sul problema dei detenuti algerini in carceri irachene Nova, 12 agosto 2015 Il segretario generale del ministero degli Esteri iracheno, Nezar Kheir Allah, si è recato in Algeria, dove ha incontrato l’omologo, Abdelhamid Senouci Bereksi. I due funzionari hanno discusso del problema dei tanti algerini detenuti nelle carceri irachene e sembra che si sia finalmente riusciti a trovare un’intesa sul piano giuridico per garantire una collaborazione diplomatica sulla questione. "L’Iraq non è interessato a lasciare i detenuti algerini in carcere, ma il paese sta attraversando delle condizioni politiche delicate e difficili a causa della sua guerra aperta contro il terrorismo", ha detto Allah, confermando di comprendere però la pressione che sta subendo il governo algerino sulla questione dei detenuti. Presto una delegazione algerina si recherà in Iraq per verificare le condizioni dei connazionali in carcere. Libia: ministro del governo di Tripoli incontra Saadi Gheddafi in carcere di Belkassem Yassine notiziegeopolitiche.net, 12 agosto 2015 Il ministro libico della Giustizia del governo "di Tripoli" Moustafa al-Koulayb si è recato nel carcere della capitale per incontrare i detenuti, fra i quali il figlio di Muammar Gheddafi Saadi, dopo le accuse di maltrattamenti. La visita del ministro è seguita agli appelli di Ong dei diritti dell’Uomo di aprire inchieste dopo la diffusione di immagini in cui si vede Saadi Gheddafi essere sottoposto a torture nel carcere al-Hadba. Koulayb ha costatato che "la situazione non è in realtà quella che la gente racconta", denunciando che quanto accaduto corrisponde a "episodi isolati di maltrattamenti": "noi non diciamo che le condizioni in questo istituto o in altri siano perfette, ma non possiamo fare meglio per il momento, e non possiamo risolvere la situazione in una notte". "Nell’avvenire agiremo con fermezza contro coloro che commettono" tali abusi, ha promesso. L’istituto penitenziario di al-Hadba è controllato da Fajr Libya, una coalizione di milizie islamiste che controllano Tripoli dall’agosto 2014, quando, dopo aver sconfitto i miliziani di Zintan, hanno creato un governo e un parlamento non riconosciuti dalla comunità internazionale, se non da Turchia e Qatar. Pochi giorni fa un altro figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, è stato condannato a morte da un Tribunale di Tripoli, ma al momento è detenuto a Zintan, la cui amministrazione locale (fedele al governo "di Tobruk") ha già fatto sapere di non essere disposta a consegnarlo. Il governo "di Tripoli" è presieduto da Khalifa al-Ghweil e fino ad ora si è di mostrato poco sensibile alle trattative in corso su mediazione dell’inviato delle Nazioni Unite, Bernardino Leon, mentre il governo "di Tobruk", frutto delle elezioni del giugno 2014, è guidato da Abdullah al-Thani.