Giustizia: Dap "netto miglioramento delle condizioni detentive nelle carceri italiane" Agi, 11 agosto 2015 Lo rende noto il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia che ha da tempo avviato il monitoraggio per la verifica periodica degli interventi messi in atto per il miglioramento delle condizioni detentive, in linea con le prescrizioni dettate dalla sentenza Torreggiani. Al 5 agosto, le visite pomeridiane si svolgono in 160 istituti; quelle domenicali in poco più di 80 istituti, dato comunque importante, nonostante la carenza di personale; un centinaio sono le aree verdi, destinate ad aumentare, considerati i progetti presentati alla Cassa delle Ammende per la realizzazione o la ristrutturazione degli spazi già esistenti; infine, poco più di 60 sono le ludoteche presenti e 154 il dato complessivo degli "spazi bambini". Per quanto riguarda le specifiche strutture dedicate alle mamme detenute con figli, si registra l’apertura dell’Icam di Torino, destinato anche all’utenza della regione Liguria, che va ad affiancarsi agli Icam di Milano, di Venezia (struttura che copre anche il territorio regionale dell’Emilia Romagna in considerazione della scarsa presenza di detenute in questa area geografica) e di Senorbì (Sardegna). Sono stati inoltre avviati i progetti per la realizzazione degli Icam di Barcellona Pozzo di Gotto e di Rebibbia Femminile, posti all’esterno degli istituti. Quelli promossi dal Dap sono "Progetti che riqualificano gli spazi della pena e migliorano la qualità della vita delle persone detenute, con un’attenzione particolare alla dimensione affettiva e relazionale, cui sono rivolti gli interventi per attivare e/o implementare i colloqui pomeridiani e domenicali con i congiunti, la cura del rapporto tra detenuti e figli, la creazione di ulteriori spazi accoglienti dedicati ai minori in attesa di incontrare il genitore". In esecuzione del protocollo di intesa sottoscritto in data 21 marzo 2014 tra il ministro della Giustizia, il Garante per l’infanzia e l’Associazione Onlus "Bambinisenzasbarre", l’amministrazione ha svolto "una continua opera di sensibilizzazione evidenziando l’alta finalità di tale documento, che ha il merito di volgere l’attenzione ai bambini che vivono l’impatto con la dimensione del carcere in quanto figli di genitori detenuti. Di qui l’importanza di attivare/implementare negli istituti penitenziari le ludoteche dove si svolgono i colloqui e gli spazi bambini, ambienti dotati di murales, giochi, decorazioni, allestiti nelle sale di attesa e nelle sale colloqui allorquando gli incontri non possono avvenire in ambienti appositamente dedicati, prevedendo, inoltre, i colloqui anche in fasce pomeridiane e nelle giornate festive per non ostacolare la frequenza scolastica, mentre lo svolgimento dei colloqui nelle cosiddette ‘aree verdì, appositamente attrezzate, offre la possibilità al nucleo familiare di consumare insieme i pasti. 15.000 volontari: ecco tutti i numeri Sono circa 15.000 i volontari presenti nelle carceri italiane e circa la metà dei detenuti partecipa alle attività organizzate da organismi, associazioni e singoli volontari. A renderlo noto è il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che ha pubblicato alcuni dati relativi alla presenza del volontariato negli istituti penitenziari riferiti al primo semestre 2015. "L’opera dei volontari svolta sia in forma individuale che come appartenenti ad associazioni e organizzazioni - spiega il Dap - assicura un insostituibile supporto alle persone detenute, cui viene offerto non solo sostegno morale e materiale, ma attività stabili e strutturate di carattere trattamentale". Il rilevamento è stato eseguito dalla direzione generale dei detenuti e del trattamento nei 198 istituti penitenziari, con la collaborazione delle direzioni e dei provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria. Di seguito, i dati rilevati. Le attività culturali censite sono 353 a cui partecipano circa 10.700 detenuti. In tale tipologia di iniziative sono compresi: laboratori di scrittura, gruppi di lettura, redazione di giornali interni, laboratori linguistici, biblioteche e attività correlate, seminari letterari e incontri tematici. Quelle in materia di arti visive, cinema e teatro sono 244 e sono seguite da 4.450 detenuti. Le attività a carattere sportivo (calcio, rugby, pallavolo, basket ma anche corsi di yoga e altre discipline orientali) sono 110, nelle quali sono coinvolti circa 2.300 detenuti. Le circa 60 attività di animazione, giochi da tavolo, tornei e spettacoli di vario genere coinvolgono 3.800 detenuti. Al tema della genitorialità sono dedicati 67 progetti che vanno dalle attività di animazione per i bambini, svolte nelle ludoteche in occasione dei colloqui, e gruppi di riflessione. Si stanno diffondendo le iniziative in materia di pet therapy e di sensibilizzazione alla cura e al rispetto per gli animali. Si rilevano 15 iniziative che coinvolgono 215 detenuti. Sono stati realizzati 137 laboratori formativi (cucito, grafica, informatica, legatoria, falegnameria, cucina e creazione di manufatti artigianali) frequentati da 1200 detenuti. I detenuti possono fruire della consulenza legale, amministrativa e previdenziale fornita da 48 sportelli attivi gestiti da patronati. Sono 250 le iniziative di sostegno morale e materiale alla persona realizzate attraverso gruppi di ascolto e orientamento, fornitura di indumenti e sussidi economici agli indigenti. Sappe: Dap pensi alla sicurezza degli agenti "Ogni giorno le turbolenti carceri italiane vedono le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria fronteggiare pericoli e tensioni e per i poliziotti penitenziari le condizioni di lavoro restano pericolose e stressanti. Ma il Dap queste cose non le dice: l’unica preoccupazione è evidentemente quella di migliorare la vita in cella ai detenuti". Lo afferma in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe), commentando i dati del monitoraggio disposto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per la verifica periodica degli interventi messi in atto per il miglioramento delle condizioni detentive. Il segretario del Sappe ricorda, infatti, che "dal 1 gennaio al 30 giugno 2015 nelle 198 carceri italiane si sono contati 19 suicidi di detenuti, 2 di poliziotti penitenziari, 34 decessi per cause naturali in cella, 465 tentati suicidi sventati in tempo dai poliziotti penitenziari e 3.163 atti di autolesionismo da parte dei detenuti". Secondo Capece "i dati sono gravi e sconcertanti e sono utili a comprendere organicamente la situazione delle prigioni del nostro Paese: ometterli è un’operazione mistificatoria". "Ancora più gravi" sono i numeri delle violenze contro i poliziotti penitenziari: "Parliamo di 2.095 colluttazioni e 449 ferimenti", precisa. Campania, Puglia e Lombardia le regioni d’Italia nelle cui carceri sono contati maggiori ferimenti e colluttazioni (55, 54 e 53), mentre è "nelle carceri della Toscana che si sono contati più atti di autolesionismo, 501, nel primo semestre del 2015", conclude Capece. Pannella in sciopero fame per le carceri Questa sera, alle 19.15, il leader radicale Marco Pannella, in sciopero totale della fame e della sete dalla mezzanotte del 9 agosto, interverrà in collegamento al TG dell’emittente abruzzese Teleponte. Il Presidente del Partito Radicale intende fornire informazioni e rivolgere un appello a tutto l’Abruzzo: allo stesso scopo, domani mattina incontrerà la stampa in luogo e orario che sarà comunicato con preavviso. L’iniziativa nonviolenta "per il rispetto e il diritto della legalità, per la giustizia, i processi e i problemi legati al mondo carcerario" si pone l’obiettivo di "sostenere e aiutare le difficili funzioni dei massimi organi istituzionali". Pannella ha ricordato il messaggio che l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rivolse alle Camere nell’ottobre 2014, aggiungendo che "i Radicali vogliono aiutare l’attuale Presidente Mattarella e il premier Renzi perché annuncino quello che intendono fare per ottemperare agli obiettivi sempre più attuali di quel messaggio. L’associazione Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi sostiene con forza l’iniziativa nonviolenta del leader radicale, e il Segretario Vincenzo Di Nanna sarà presente domani all’incontro con la stampa", informa una nota. Giustizia: l’autorizzazione a procedere, fra immunità e separazione dei poteri camerepenali.it, 11 agosto 2015 L’unico modo di trovare un equilibrio perduto, a prescindere dalla soluzione tecnica che si intenderà adottare a garanzia del Parlamento, é quello di tornare alle radici strutturali del problema, pretendere il rispetto dei principi che informano il nostro ordinamento. Nei giorni scorsi il Ministro Orlando ha posto il tema dell’opportunità di una riforma dell’istituto dell’autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari. L’intervento del Ministro ha certamente il pregio di aver coraggiosamente posto sul tavolo una questione non più eludibile, sulla quale l’Ucpi ha più volte richiamato l’attenzione. Anche se la soluzione proposta di chiamare in causa la Corte Costituzionale può suscitare (ed ha suscitato) qualche perplessità di ordine tecnico e politico, la necessità di avviare una riflessione incondizionata su questo punto nevralgico dei rapporti fra politica e giustizia appare del tutto condivisibile. Proprio al fine di garantire l’autonomia e l’indipendenza dei parlamentari, già nel 1689, il Bill of Wrights prevedeva che le opinioni, le discussioni e le procedure poste in atto all’interno del Parlamento non potessero essere giudicate in alcuna corte al di fuori di esso. Anche la previsione originaria declinata dalla nostra Carta Costituzionale, così come pensata dai padri costituenti, stabiliva che nessun membro del Parlamento potesse essere perseguito per le opinioni espresse nell’esercizio del suo mandato, o sottoposto a procedimento penale senza autorizzazione, né che potesse essere sottoposto a perquisizione o tratto in arresto, neppure in esecuzione di una sentenza passata in giudicato. Non si poteva, dunque, in alcun modo processare un parlamentare, né arrestarlo, seppure già condannato in via definitiva, se non previa autorizzazione del ramo del Parlamento al quale lo stesso apparteneva. Si trattava a ben vedere di un precisa linea disegnata a tutela della separazione dei poteri e del Parlamento (e non certo del singolo suo componente sottoposto a processo) che, in uno stato democratico, resta il cuore pulsante del sistema, cuore che per funzionare correttamente, deve anche essere preservato da ogni ingerenza esterna anche di natura giudiziaria. Un regime analogo di immunità è infatti tutt’ora previsto in altri paesi europei, tra cui la Germania, la Francia, la Spagna e il Belgio. In particolare in Germania i parlamentari della camera alta godono dell’immunità per le attività che pongono in essere nell’esercizio delle loro funzioni e non possono essere privati in alcun modo della libertà personale senza l’autorizzazione del Bundestag, che si deve pronunciare in merito ad ogni procedimento penale che riguardi un suo componente. Con la legge costituzionale numero 3 del 1993, l’articolo 68 della Costituzione è stato modificato e la sua portata fortemente limitata. È superfluo ricordare quale fosse il clima che regnava in quegli anni: si era nel pieno e tumultuoso incedere del fenomeno di Tangentopoli e di mani pulite, che investendo l’intero sistema dei partiti della prima repubblica, comportò la perdita di soggettività dell’intera classe politica, travolta e delegittimata dagli scandali giudiziari. In virtù di quella affrettata riforma i parlamentari possono oggi essere liberamente sottoposti a processo penale ed anche tratti in arresto in esecuzione di una sentenza di condanna definitiva, senza che alcuna autorizzazione debba essere domandata o concessa. La necessità dell’autorizzazione sorge solo laddove il membro del Parlamento debba essere oggetto di perquisizione, intercettazione, o limitazione della libertà personale in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare. Non più, quindi, limiti al processo e all’efficacia delle sentenze passate in giudicato ma, semplicemente alla compressione della libertà personale fin tanto che l’accertamento dell’eventuale responsabilità penale è in corso. Dobbiamo chiederci, come giustamente sollecita l’intervento del Ministro, se l’attuale assetto rappresenti in effetti il corretto punto di equilibrio o se, a distanza di vent’anni da un momento drammatico della vita del paese, nel quale la politica ed il Parlamento sono stati azzerati dalle inchieste di tangentopoli, si debba rivalutare l’opportunità di una modifica che di quel tempo e della totale assenza di fiducia nei rappresentanti del popolo, è figlia. Certo è che diverse sono state le interferenze tra politica e attività giudiziaria a dar luogo a distorsioni difficilmente comprensibili. Ci sono stati, infatti, casi di parlamentari per i quali l’autorizzazione all’arresto è stata concessa ed altri per i quali è stata negata senza che all’apparenza vi fossero ragioni chiare ed obbiettive e l’adozione di criteri trasparenti che dessero conto del perché il parlamento avesse deciso di procedere nell’uno o nell’altro senso. Sembra opportuno, quindi, valutare se non sia il caso che il Parlamento ristabilisca le garanzie e le regole da porre a presidio della sua autonomia e nel contempo che siano dettati con chiarezza i presupposti e le regole in ragione dei quali deve operare l’immunità. Quanto all’ipotesi di attribuire alla Corte Costituzionale il potere di decidere se autorizzare o meno la limitazione della libertà personale di un parlamentare la stessa è stata già, da più parti, giudicata come eccentrica rispetto al nostro sistema costituzionale. Si tratterebbe di una illogica rinuncia alle proprie funzioni da parte del Parlamento e comporterebbe una irrazionale alterazione dell’assetto costituzionale, oltre a portare con sé il concreto rischio di trascinare la Consulta in un ambito di confronto politico che non le è e non deve esserle proprio. Vale pena però di domandarsi anche del perché la questione del rapporto tra Parlamento e Autorità Giudiziaria si ponga in termini così delicati quando l’istituto dell’immunità, a seguito della ricordata modifica, è stato fortemente ridimensionato, per non dire anemizzato. La risposta va, evidentemente, ricercata nel rapporto tra indagini e processo. Come abbiamo sempre affermato è nel distorto canone processuale che va individuata la radice del problema. E ci ha fatto piacere vedere autorevolmente ripreso questo pensiero dalle pagine de "Il Messaggero", dove Cesare Mirabelli, Presidente Emerito della Corte Costituzionale, sottolinea proprio come, ormai da tempo, si sia fatta strada nel nostro Paese un’idea secondo la quale il momento centrale del procedimento penale non è il processo, nel quale attraverso il contraddittorio tra le parti si tende all’accertamento della fondatezza della pretesa punitiva dello Stato, bensì le indagini. Il momento di ricerca dei mezzi di prova nella signoria del Pubblico Ministero, vorrebbe essere, secondo determinate derive culturali autoritarie, il luogo di accertamento della verità, rispetto al quale il processo si pone come un accessorio del tutto eventuale e con funzioni prevalentemente esornative. Ed i segni di tale progressivo sbilanciamento sono evidenti non solo nella realtà del fenomeno mediatico-giudiziario, ma anche in alcuni importanti interventi sul processo penale del DDL all’esame dello stesso Parlamento. Si comprende bene, in questa prospettiva di valorizzazione di un’indagine illimitata e incontrollata a scapito del controllo dibattimentale, anche la reazione unanime proveniente da ANM e dai più noti esponenti delle Procure rispetto alla proposta, attualmente in discussione alla Camera, di introdurre un termine di tre mesi entro il quale, una volta concluse le indagini preliminari, il Pubblico Ministero debba decidere se esercitare l’azione penale o richiedere l’archiviazione. Ogni limitazione al tempo concesso al Pubblico Ministero, anche una volta decorso integralmente il termine di durata delle indagini, viene inteso e prospettato come un’indebita interferenza e un limite all’accertamento della verità con la V maiuscola. Alla sfiducia nella funzione del processo si accompagna poi, in modo sempre più diffuso, una sfiducia nell’efficacia del nostro sistema sanzionatorio. In quest’ottica alimentata da spinte securitarie, si inserisce in modo del tutto coerente ed altrettanto illegale un uso delle misure cautelari in funzione di anticipazione di pena. Il tema vero, dunque, disvelato da queste tensioni agostane è quello costituito dalla necessità di ricondurre complessivamente il sistema penale ad un punto di equilibrio nel quale le indagini si svolgono nel tempo più breve possibile ed il processo, collocato nel luogo di centralità che gli è proprio, assolve effettivamente alla propria funzione di garanzia dei principi costituzionali che assistono il cittadino sottoposto alla pretesa punitiva dello Stato. Il destino degli uomini, e tra essi anche e soprattutto quello dei parlamentari, non può per regola restare affidato alle indagini infinite, che attraverso la cassa di risonanza mediatica condannano senza condanna e senza appello, né la libertà di chi sia assistito dalla presunzione di non colpevolezza può essere sacrificata, fuori dei casi assolutamente eccezionali previsti, sull’altare di un malinteso senso di effettività della pena. L’unico modo, dunque, di trovare un equilibrio perduto, a prescindere dalla soluzione tecnica che si intenderà adottare a garanzia del Parlamento, é quello di tornare alle radici strutturali del problema, pretendere il rispetto dei principi che informano il nostro ordinamento che vogliono indagini brevi, un processo garantito e nessuna limitazione della libertà personale prima della sentenza di condanna definitiva se non in casi assolutamente eccezionali. Conquistati questi capisaldi, la tensione tra Parlamento ed Autorità Giudiziaria si disinnescherebbe naturalmente, perché poche sarebbero le autorizzazioni richieste e perché forse, potrebbero essere valutate e concesse con maggiore serenità, sapendo che di lì a breve ci sarebbe il processo a decidere chi debba stare in galera e chi no. Giustizia: una "macchina del fango" che si chiama antimafia di Piero Sansonetti Il Garantista, 11 agosto 2015 Contiguo alla mafia. Una Commissione parlamentare ha solennemente deciso così: il giornale che ho diretto per più di tre anni in Calabria, e che si chiamava "Calabria Ora", era "contiguo alla mafia". Contiguo, dice il dizionario, significa vicino, molto vicino, quasi "appiccicato". Due cose contigue sono così vicine che si toccano. Il numero 1, per esempio - in matematica - è contiguo al numero 2. Se il mio giornale era "appiccicato" alla mafia evidentemente anch’io, che lo dirigevo, ero appiccicato alla mafia. E, ragionevolmente, lo erano anche altri giornalisti che lavoravano sotto la mia direzione. Su che basi mi si rivolge questa accusa sconvolgente? Su nessuna base. L’accusa si concretizza applicando il seguente sillogismo: le procure combattono la mafia; "Calabria Ora" (e il suo direttore in particolare) criticava le procure; dunque "Calabria Ora" (e in particolare il suo direttore) era contigua alla mafia. Si capisce, di conseguenza, che "Calabria Ora" e il suo direttore criticavano le Procure per conto della mafia, o per favorire la mafia, o addirittura su mandato della mafia. Naturalmente ho chiesto al mio avvocato di procedere contro i calunniatori. In particolare contro l’edizione on line del "Fatto Quotidiano" che ha dato grande risalto a queste calunnie condendole con proprie considerazioni. Mi sarà più difficile procedere contro la commissione antimafia perché è un organismo parlamentare e tutti i suoi componenti sono coperti dall’immunità parlamentare completa (il famoso articolo 68 della Costituzione prevede che le opinioni espresse nel corso dell’attività parlamentare siano insindacabili e impunibili: un parlamentare può dire quel che vuole anche di un privato cittadino, può dire che è un assassino, mentendo - più o meno quel che ha fatto con me - senza che questo cittadino possa denunciare per calunnia). Decideranno i giudici se ho ragione o torto e cioè se è possibile o no criticare le procure anche senza necessariamente essere affiliati alla ‘ndrangheta o giù di lì. Io però vorrei raccontarvi ben bene quali sono le tre ragioni per le quali il mio giornale è stato giudicato contiguo alla mafia, sulla base di informazioni, molto approssimative - alcune del tutto errate, ma questo è un dettaglio persino di scarsa importanza - fornite all’antimafia dai suoi consulenti che, quasi tutti, sono o giornalisti o magistrati che hanno sempre dichiarato la loro ostilità verso "Calabria Ora" (e ora la dichiarano verso il "Garantista"). La prima si chiama questione Cacciola. La seconda si chiama questione Pesce. La terza si chiama affare-Musolino. Poi ci sono moltissime altre questioni che davvero riguardano il problema del rapporto tra giornali e lotta alla mafia, delle quali la commissione non ha voluto nemmeno occuparsi (per esempio la guerra furiosa tra magistrati all’interno della Procura di Reggio, o intorno alla procura, che forse è ancora in corso e della quale la commissione antimafia si è infischiata, probabilmente anche perché è all’oscuro di tutto). Capitolo Cacciola. Il motivo dello scontro tra "Calabria Ora" e la procura, al quale accenna, se ho capito bene, uno dei magistrati interrogati dalla Commissione, è il seguente: alla signora Cacciola (testimone antimafia che poi ritrattò e poi tornò ad accusare), dopo la ritrattazione fu levata la "protezione" che le era stata garantita dallo Stato. Successivamente fu trovata morta perché aveva bevuto acido muriatico (forse suicida, forse assassinata, forse costretta al suicidio). Noi siamo stati l’unico giornale che ha chiesto con insistenza perché le fu tolta la protezione. Nessuno ci ha risposto, e la Commissione antimafia che, trovatasi di fronte a questo problema avrebbe fatto bene ad indagare sul tema, visto che la procura non aveva indagato, se ne è fregata. Non indagare su un suicidio sospetto o, meglio, su un possibile omicidio di ‘ndrangheta non è una bella cosa, no? E se un giornale denuncia, fa una azione anti-ndrangheta, credo. Poi ci si accusa per avere dato conto della famosa cassetta inviata dalla Cacciola ai giornali nella quale ritrattava le sue accuse alla propria famiglia. Mi auguro che il sindacato dei giornalisti, come ha fatto altre volte, intervenga per spiegare che se si entra in possesso di una cassetta con grande interesse per l’informazione, come è successo in questo caso, i giornali sono obbligati a informare e a pubblicare. Anche se la pubblicazione danneggia o comunque non piace a una procura. Caso Pesce. Analogo, ma per fortuna meno tragico. La signora Pesce si pente e accusa la sua famiglia. Poi scrive una lettera nella quale accusa invece la procura di averla costretta a pentirsi, mentre era in prigione, portandola in un carcere nel quale gli era impossibile vedere i suoi figli. Noi entriamo in possesso di questa lettera e del verbale di interrogatorio nel quale la signora dice: "Riavvicinatemi ai bambini e dirò tutto quello che volete". Pubblichiamo l’una e l’altro (e pubblichiamo anche la risposta della pm che replica correttamente: "Lei non deve dirci quel che vogliamo, deve dirci la verità"). Successivamente la signora ritratta la ritrattazione e torna a collaborare. Ma questo non vuol dire che la lettera fosse falsa o che fosse falso il verbale (tipo caso-Crocetta). La lettera e il verbale erano autentici. Di cosa ci si accusa? Di avere ricevuto lettera e verbale dall’avvocato della signora (che è uno dei più famosi penalisti italiani). Non ho capito che male c’è: ricevere materiale da un magistrato è consentito, riceverlo da un avvocato no? Cioè, l’avvocato è considerato più o meno un complice? Roba da Cile di Pinochet... (Comunque nella ricostruzione dell’antimafia c’è anche una imprecisione, dovuta alla scarsa attendibilità degli informatori della Commissione. Io, personalmente, non ho mai incontrato l’avvocato né ho mai avuto contatti con lui. Non che ci sarebbe stato niente di male se l’avessi fatto: preciso questo dettaglio solo per dire che gli informatori sono un po’ approssimativi e poco informati). Capitolo Musolino. Lucio Musolino, quando io sono arrivato a "Calabria Ora" nell’estate del 2010, è un giornalista del quotidiano. Si occupa di giudiziaria a Reggio Calabria. È un bravo giornalista di giudiziaria, credo, nel senso che possiede molte informazioni che vengono dalla procura, anche se all’epoca dei fatti - mi pare di aver capito - non ha rapporti idilliaci con la procura di Reggio, cioè non è molto simpatico al procuratore. Anche perché Musolino conduce una campagna battente contro il governatore Scopelliti, accusandolo delle peggiori malefatte, ma soprattutto (cosa che scrive spessissimo) di aver partecipato non ricordo più bene se a un battesimo o a un pranzo dove c’era un mafioso. Musolino non ha buoni rapporti con il resto della redazione di Reggio. Anzi, pessimi. Nella prima proposta di riorganizzazione del giornale, nella quale si prevedono vari spostamenti (resi necessari dal fatto che prima che io arrivassi si erano dimessi dieci redattori del giornale) propongo a Musolino di trasferirsi da Reggio, sia per via dei cattivi rapporti che aveva con la redazione di Reggio, sia perché avevamo deciso di rafforzare le redazioni di Catanzaro e Lamezia (cosa che poi non facemmo). Lui mi risponde con durezza, dicendomi che non intendeva lasciare Reggio e accusandomi di dire le stesse cose che dice la ‘ndrangheta. Mi incazzai come un ape, naturalmente, e gli chiusi il telefono in faccia, ma siccome sono una persona pacifica e che non ama i conflitti, e siccome ero appena arrivato in Calabria e non ero in grado di capire tutto, decisi immediatamente di rinunciare al trasferimento, e comunicai questa decisione sia all’editore, che fu contrariato, sia al comitato di redazione. Quando presentai il piano di riorganizzazione, il trasferimento di Musolino non c’era. Non c’è mai stato il suo trasferimento. Qualche giorno dopo Musolino dichiarò all’Ansa che sarebbe stato trasferito, per motivi politici, provocando una polemica politica accesa, e poi andò in Tv a dichiararsi perseguitato dal giornale. L’editore andò su tutte le furie e licenziò Musolino perché aveva danneggiato con le sue dichiarazioni l’immagine e gli interessi dell’azienda. Io mi rifiutai di firmare il licenziamento. E siccome il contratto dei giornalisti prevede che i licenziamenti li faccia il direttore, quel licenziamento fu annullato dal tribunale. Io però non lasciai sotto silenzio le accuse di Musolino e lo querelai. Un paio d’anni fa, attraverso un amico comune, Musolino mi chiese, gentilmente, di ritirare la querela (e insistette molto perché io la ritirassi dicendomi che gli procurava un sacco di guai), cosa che io - che ormai non avevo più niente contro di lui - feci di buon grado. Andammo insieme dai carabinieri di Reggio, lui, io e l’amico comune, e procedemmo al ritiro. (Quando Musolino era ancora al giornale, un giorno andai a intervistare Scopelliti, e lo feci di fronte a molti testimoni. Nel corso dell’intervista Scopelliti attaccò Musolino dicendo che scriveva balle. Io mi infuriai, gli dissi che Musolino era un ottimo giornalista e che il presidente della Regione non doveva attaccare i giornalisti. Lui accettò il rimprovero. E il giorno dopo riferii dello scontro sul giornale). Posso finire qui, il racconto, ma voglio aggiungere una cosa, visto che si è insinuato che il motivo del mio scontro con Musolino era una mia amicizia con Scopelliti. Vi racconto come si è conclusa la mia esperienza a "Calabria Ora". Sono stato licenziato perché mi ero rifiutato di esautorare un redattore di Reggio Calabria che non piaceva a Scopelliti. Vi dico anche il nome del redattore: Consolato Minniti, capo della redazione di Reggio. Scopelliti allora chiese al mio editore di mandare via me visto che io non rimuovevo Minniti, e lui lo fece (anche se portò come motivo ufficiale del mio licenziamento il mio rifiuto a licenziare una quarantina di giornalisti per ridurre il deficit del giornale). Non mi stupii né mi indignai. Ho sempre saputo del peso che hanno i politici nei giornali, e anche in passato mi era capitato di essere allontanato da un incarico di direzione, in altri giornali, su richiesta di leader politici. E infatti, nonostante l’ingiustizia subita ho mantenuto buoni rapporti umani sia con Scopelliti (che ho difeso quando è stato cacciato dai giudici dalla presidenza della Regione) sia con il mio editore. Ora mi chiedo se nel parlamento italiano debba esistere una commissione che non ha mai disturbato la mafia, non ha mai neppure in modo impercettibile contribuito alla lotta alla mafia, è composta in gran parte da parlamentari che ignorano il fenomeno mafioso e non se ne sono mai occupati, e che ha il solo scopo di gettare fango dove i famosi professionisti dell’antimafia (amatissimi, per altro, dalla mafia) chiedono che sia gettato. Per il riconoscimento della condanna estera non serve l’intervento della Giustizia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2015 Corte di cassazione, Sezione Sesta, sentenza 27 luglio 2015 n. 32980. Più snella l’esecuzione in Italia di una condanna emessa da un Paese Ue. Non è necessario l’intervento del ministero della Giustizia, visto che la procedura può essere gestita dalle autorità giudiziarie. Lo puntualizza la Corte di cassazione con la sentenza n. 32980 della sesta sezione penale depositata il 27 luglio. La Cassazione ha così ribaltato il giudizio della Corte d’appello di Campobasso con la quale era stata dichiarata l’inammissibilità della richiesta del procuratore generale con la quale si sollecitava il riconoscimento della sentenza irrevocabile di condanna emessa dalla Corte d’appello di Bruxelles nei confronti di un cittadino italiano. Il riconoscimento aveva come obiettivo quello di fare scontare la pena in Italia. La Corte d’appello aveva respinto la domanda del Pg, sostenendo che la sentenza straniera deve essere trasmessa alla Corte d’appello competente dal ministero della Giustizia; procedura che, invece, nel caso esaminato non era stata seguita. Per la Cassazione tuttavia la procedura da seguire può essere anche un’altra e viene chiamato in causa il decreto legislativo n. 161 del 2010. Provvedimento che ha un suo antecedente nella disciplina del mandato d’arresto europeo, ricorda la Cassazione, in cui è previsto un rapporto diretto tra le autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione. Il nuovo sistema "attribuisce al ministero della Giustizia un ruolo di mera trasmissione e ricezione delle sentenze e del certificato". Lo stesso decreto permette la "corrispondenza diretta" tra le magistrature interessate al riconoscimento della sentenza, corrispondenza che deve avvenire entro i limiti indicati nel decreto e cioè per agevolare e accelerare lo svolgimento delle procedure di trasferimento. Del resto, ed era uno degli argomenti messi in luce nel ricorso della Procura, la nuova disciplina prevede l’obbligatorietà dell’attivazione della procedura di riconoscimento e, infatti, al ministero della Giustizia non è riconosciuto uno spazio di discrezionalità un volta che è stata ricevuta la sentenza di condanna dall’autorità giudiziaria di uno Stato Ue. Alla Giustizia spetta solo il compito di inoltrare il più rapidamente possibile la sentenza alla Corte d’appello competente che, a sua volta, dovrà invece verificare le condizioni per il riconoscimento. Onere di trasmissione che viene meno poi quando, come si era verificato nel caso approdato in Cassazione, la sentenza da riconoscere arriva direttamente alla Corte d’appello dall’autorità giudiziaria dello Stato membro per "corrispondenza diretta". La circostanza poi che la comunicazione sia arrivata al procuratore generale e non direttamente alla Corte d’appello, non rappresenta un inconveniente tale da compromettere la regolarità della procedura, tenuto conto oltretutto che lo stesso Pm è organo di esecuzione anche delle pronunce straniere. Arresto possibile per incidente stradale anche dopo più di 24 ore di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2015 Corte di cassazione, Quarta sezione penale, sentenza 10 agosto 2015 n. 34712. Può essere arrestato l’automobilista che, dopo avere provocato la morte di un motociclista, viene fermato a più di 24 ore dai fatti. Si tratta infatti di un’ipotesi di flagranza differita o prolungata. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza della Quarta sezione penale n. 34712 depositata ieri. È stato così accolto il ricorso presentato dalla procura, dopo che il Gip aveva ritenuto illegittimo l’arresto, sottolineando come fosse stato effettuato al di fuori dei casi di flagranza, a circa 34 ore dal verificarsi dell’incidente stradale. La Corte precisa che l’inseguimento del sospetto, da utilizzare per definire il concetto di quasi flagranza, "deve essere inteso in senso più ampio di quello strettamente etimologico di attività di chi corre dietro, tallona e incalza, a vista, la persona inseguita". Nel concetto finisce, invece, anche l’attività di ricerca, seguita immediatamente, anche se non immediatamente conclusa, a patto che sia proseguita senza interruzioni sulle indicazioni delle vittime, dei correi o comune di persone al corrente dei fatti. Nel caso affrontato, è emerso, sulla base di quanto esposto dalla pubblica accusa, che gli agenti intervennero subito dopo la commissione del fatto e da quel momento non è poi risultata alcuna interruzione delle ricerche del responsabile del sinistro stradale. La polizia, intervenuta sul luogo dello scontro, infatti, aveva già individuato l’auto che, per i danni riportati, doveva essere ritenuta coinvolta nel sinistro. Interrogando poi la banca dati interforze, gli stessi agenti di polizia avevano proceduto a verificare che l’auto era normalmente nella disponibilità della persona indagata che, anche se assente dal luogo dell’incidente, veniva immediatamente ricercata. Del resto, lo stesso Codice della strada, all’articolo 189, che prevede l’esclusone dall’arresto per chi si sia messo a disposizione della polizia giudiziaria entro le 24 ore successive al fatto, autorizza un’interpretazione per cui la polizia giudiziaria ha a disposizione un periodo "considerevolmente" lungo per procedere all’arresto, accogliendo in questo modo un concetto di quasi flagranza dilatato nel tempo. Sicurezza lavoro: committente responsabile per la morte del lavoratore autonomo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 10 agosto 2015 n.34701 Il committente che si affida ad un lavoratore autonomo per una ristrutturazione risponde per la sua morte se non verifica l’esistenza di protezioni. La condanna per omicidio colposo scatta anche se l’operaio faceva parte di una squadra inviata dall’azienda fornitrice di materiali edili. La Corte di cassazione, con la sentenza 34701 depositata ieri, ricorda che in tema di sicurezza lavoro non si può giocare allo scarica barile. Era quanto, su più fronti, aveva tentato di fare il ricorrente amminsitratore unico di una società in nome collettivo, condannato per la morte di un muratore caduto dal tetto del capannone che aveva ceduto sotto il peso della malta che doveva servire ad evitare le infiltrazioni di umidità. Un tragico incidente nel quale il ricorrente riteneva di non aver alcuna responsabilità per una serie di ragioni. Il muratore morto era un lavoratore autonomo che faceva parte di un piccolo gruppo di "padroncini", ed era stato inviato dalla ditta che aveva fornito il materiale di rinforzo, ragione per cui lui non poteva essere considerato il committente. Inoltre l’amministratore aveva dichiarato di non avere mai interferito con lo svolgimento dei lavori né autorizzato un comportamento tanto imprudente come quello di salire su un tetto fragile. Ma per la Suprema corte nessuna delle giustificazioni è valida. Per i giudici della quarta sezione penale il fatto che prendere contatto con i lavoratori autonomi e ad incaricarli era stata la ditta fornitrice non faceva venire meno il ruolo di committente svolto dall’amministratore unico della Snc. Va, infatti, considerato committente e come tale investito della posizione di garanzia, chi concepisce, progetta e finanzia un’opera. Ferma restando dunque la corresponsabilità dell’impresa che aveva inviato i lavoratori indicandoli come idonei perché proprietari dei mezzi necessari a svolgere l’attività, la "colpa" del ricorrente sta nell’aver consentito agli operai di iniziare il restauro senza prima verificare l’adozione delle misure di sicurezza. L’amministratore non aveva considerato le gravi lesioni sulla copertura del tetto del capannone già per sua natura non calpestabile. Un onere che doveva adempiere in prima persona non avendo provveduto a designare un responsabile dei lavori. Per l’imputato non era possibile neppure ipotizzare l’esonero che scatta per il committente nel caso in cui per percepire il rischio e approntare le relative precauzioni è necessaria una specifica competenza tecnica. Non passa neppure la tesi del comportamento abnorme da parte dell’operaio. L’essere salito sul tetto era un gesto, per quanto imprudente, decisamente collegato alla mansione svolta e che non poteva essere considerato imprevedibile. La Cassazione considera ininfluente anche la circostanza dell’assenza del ricorrente dal luogo dell’incidente il giorno in cui questo era avvenuto. E, per finire, i giudici bollano come sterile retorica il tentativo di essere liberati dalla responsabilità nel caso, come quello esaminato, in cui siano gli stessi lavoratori che dovrebbero essere garantiti ad affermare di non aver bisogno di garanzie o a non pretenderle. Opposizione della persona offesa alla richiesta di archiviazione ex articolo 410 del Cpp Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2015 Chiusura delle indagini preliminari- Archiviazione - Richiesta del pubblico ministero - Opposizione della persona offesa - Presentazione dell’atto - Utilizzo del servizio postale - Ammissibilità - Ragioni. L’opposizione alla richiesta di archiviazione può essere proposta anche a mezzo del servizio postale, non essendo richiesta in proposito alcuna formalità dall’articolo 408, comma terzo, cod. proc. pen. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 21 maggio 2015 n. 21338. Chiusura delle indagini preliminari- Archiviazione - Richiesta del pubblico ministero - Opposizione della persona offesa - Sindacato di ammissibilità dell’opposizione della persona offesa - Criteri di valutazione. È legittima la declaratoria di inammissibilità dell’opposizione della persona offesa alla richiesta di archiviazione qualora le investigazioni prospettate dall’opponente non siano in grado di apportare elementi ulteriori rispetto a quelli già acquisiti. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 24 aprile 2015 n. 17181. Chiusura delle indagini preliminari- - Archiviazione - Opposizione della persona offesa - Declaratoria di inammissibilità - Condizioni. Qualora sia stata proposta opposizione alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari, ai sensi dell’articolo 410 del Cod. proc. pen., può disporre l’archiviazione con provvedimento de plano esclusivamente in presenza di due condizioni, delle quali deve dare atto con adeguata motivazione, e cioè l’inammissibilità dell’opposizione, per l’omessa indicazione dell’oggetto dell’investigazione suppletiva, e l’infondatezza della notizia di reato. Al di fuori di tali ipotesi, in presenza di opposizione della persona offesa, non può che ricorrersi al procedimento camerale, senza il quale il provvedimento di archiviazione deve considerarsi emesso con violazione della garanzia del contraddittorio e perciò è impugnabile con il ricorso per cassazione. A tal fine, per l’apprezzamento sull’ammissibilità dell’opposizione, il giudice deve tenere conto della pertinenza (cioè l’inerenza rispetto alla notizia di reato) e della rilevanza degli elementi di indagine proposti (cioè l’incidenza concreta sulle risultanze dell’attività compiuta nel corso delle indagini preliminari) senza però poter effettuare valutazioni anticipate di merito ovvero prognosi di fondatezza o meno di tali elementi di indagine (sezioni Unite, 14 febbraio 1996, Testa). • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 3 marzo 2015 n. 9305. Chiusura delle indagini preliminari- Archiviazione - Richiesta del pubblico ministero - Opposizione della persona offesa - Natura di impugnazione - Spedizione atto a mezzo posta - Possibilità - Esclusione. L’opposizione alla richiesta di archiviazione non ha natura di impugnazione e, pertanto, ad essa non è applicabile l’articolo 583 cod. proc. pen. che consente la spedizione a mezzo posta. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 2 luglio 2013 n. 28477. Chiusura delle indagini preliminari- Archiviazione - Richiesta del pubblico ministero - Opposizione della persona offesa - Impugnazione - Esclusione - Natura. L’opposizione all’archiviazione non rientra nel "genus" impugnazioni, siccome diretta non contro un provvedimento giurisdizionale, ma contro una richiesta di un organo non giurisdizionale, e dunque costituisce esercizio del contraddittorio. Ne consegue che, trovando applicazione l’articolo 101 cod. proc. pen. (secondo cui la persona offesa dal reato per l’esercizio dei diritti e delle facoltà ad essa attribuiti può nominare un difensore nelle forme previste all’articolo 96, secondo comma), deve ritenersi che l’uso del termine "può" rende manifesta la facoltatività della nomina del difensore, di talché diritti e facoltà possono esercitarsi anche personalmente, senza l’assistenza e senza la rappresentanza di un difensore. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 14 gennaio 2004 n. 661. Chiusura delle indagini preliminari- Archiviazione - Richiesta del pubblico ministero - Opposizione della persona offesa - Opposizione proposta dal difensore della persona offesa - Ammissibilità - Sussistenza. L’opposizione avverso la richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero può essere proposta dal difensore della persona offesa, in quanto, mediante le semplici forme indicate al primo comma dell’articolo 101 cod. proc. pen. (cioè la dichiarazione resa all’autorità procedente, ovvero consegnata alla stessa dal difensore o trasmessa con raccomandata), egli è nominato per l’esercizio dei diritti e delle facoltà attribuiti alla stessa persona offesa. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 14 ottobre 2003 n. 38945. Lettere: eppure fuori è estate di Emanuela Cimmino Ristretti Orizzonti, 11 agosto 2015 È un’estate molto calda, caldissima questa del 2015, un’estate da levare il fiato, da rendere più lento qualsiasi movimento ed azione si voglia fare, sudore, mancanza di sali minerali, spossatezza, i segnali fisiologici, eppure in carcere non ci si ferma. Camicia, giacca, pantalone lungo, copri spalle, capelli sciolti, scarpe chiuse, sandali comodi, gli abiti di chi lavora in carcere, ventaglio in una mano la penna nell’altra, la penna per scrivere, per segnalare, per firmare, si cammina perfino nel corridoio da un ufficio all’altro con la penna; con la stessa penna Alì, Giuliano, Victor, fanno richiesta di trasferimento, non sanno elaborarla, chiedono aiuto all’educatrice, e con la stessa penna Antonio, chiede e scrive di poter fare visita alla zia ammalata. Fa caldo, molto caldo, in sezione, Santino si rende conto che la psicologa è stanca, ha il volto bianco, le offre un gelato, d’estate in sezione passa il carrellino del gelato, quasi a ricordare l’omino con il cappello sulla spiaggia che annuncia il suo arrivo con il suono del campanellino, Santino non urla, non fa polemiche, non pretende, fa il suo colloquio, è calmo, corretto, saluta l’operatrice e le augura buone vacanze. Gennaro entra, sposta la sedia strisciandola a terra, si siede, non saluta, vuole sapere dei "suoi giorni", quelli inviati meno di un mese fa, non condivide che debba aspettare, urla, vuole essere trasferito, vuole la cella singola, l’agente lo riporta alla calma, Gennaro si alza, esce dalla stanza, non saluta. Ore 13:30, sono tre ore che l’educatrice fa colloqui, ha una lista di nomi, i nomi di coloro che hanno chiesto di essere chiamati, chiedono di essere ascoltati anche Samir, Atef, Ciro e Bruno. Fa caldo, caldissimo, ma il lavoro in carcere non si ferma, in una mano la penna nell’altra un fazzoletto per asciugare la fronte. Non passa molto aria da quella finestra aperta a metà in alto. L’agente sale sulla sedia prova ad aprirla di più, è bloccata. Roberto, il più giovane degli ospiti, racconta delle sue estati, di quando con il pedalò assieme al cugino si spingeva fino alle grotte, di quando sotto l’ombrellone la zia, la nonna e la mamma, distribuivano la frittata di spaghetti seguita dalla macedonia, Mohammed invece racconta che vendeva vestiti assieme allo zio al mercato del suo villaggio, vestiti belli, colorati; Jibran si presenta a colloquio con un vestito lungo, verde, è di seta, è l’abito della preghiera, fa caldo, molto caldo, ma a lui non importa che l’abito è lungo, la preghiera lo rasserena. Francesco si aspettava per il suo compleanno che le figlie si presentassero a colloquio, il caldo, il lungo tragitto le ha bloccate, non si vedono da tre mesi, Francesco è triste ma comprensivo, ha una penna in mano, sta scrivendo una lettera, vuole far sapere alla famiglia che non è adirato. È la volta di Luigi e Domenico, non i ristretti, ma gli agenti di sezione, è bello scambiare due parole, chiedersi come ci si senta, cosa si ha in programma di fare per le proprie vacanze, farsi coraggio ed essere solidali. È tardi, la mensa, lo spaccio, hanno chiuso, qualche segnale di debolezza si fa sentire, menomale che in ufficio c’è l’aria condizionata. Ma la pausa dura poco, squilla il telefono, arriva una mail, una relazione da inviare, un fascicolo da studiare, ore 16:00 fa caldo, molto caldo.. Il computer spento, il climatizzatore spento, i fascicoli riposti nelle cassettine, la porta chiusa, il badge passato, la penna, la penna non è in borsa, è in una mano, viene messa in una tasca della borsa prima di accendere il motore; prima marcia, piede sulla frizione, la giornata lavorativa si è conclusa. L’estate in carcere è il periodo come del resto quello natalizio, fatto di emozioni, sensazioni, ricordi, si fa più fatica a causa del caldo, della stanchezza, ma non ci si ferma, la mente pensa, il cuore batte, le orecchie ascoltano, le braccia accolgono, gli occhi osservano, si salgono le scale che portano in sezione, "Buongiorno, Alì, Giuliano, Victor, Antonio; Buongiorno Santino, Gennaro, Samir, Atef, Ciro e Bruno; Buongiorno Roberto, Mohammed, Jibran, Francesco"; Buongiorno ad Andrea, Valentino, gli agenti di sezione", fa caldo, caldissimo, più di ieri, un’altra giornata è iniziata e nulla si ferma. "Il cambiamento". Sulla riapertura della Comunità Pubblica di Nisida di Silvia Ricciardi e Vincenzo Morgera (Associazione Jonathan) Ristretti Orizzonti, 11 agosto 2015 La cronaca di questa calda estate è piena di fatti drammatici legati alla criminalità organizzata che hanno visto protagonisti minori e giovani adulti. La gravità di quanto sta accadendo non riguarda più la cronaca ma la politica, non quella di partiti farciti di interessi di parte e di ideologia, ma quella che nasce dal basso, quella partecipativa il cui unico interesse è il riconoscimento e l’affermazione del bene comune. Con la prossima riapertura della comunità pubblica di Nisida siamo ad una svolta, siamo di fronte ad un passaggio cruciale e non possiamo sprecare questa grande occasione di cambiamento che si presenta nel tutelare e mettere a sistema un bene comune e farlo diventare un laboratorio di sperimentazione e innovazione di modelli di intervento a favore dei minori dell’area penale. In questo l’Istituto Penale di Nisida per la sua storia e per il suo forte valore simbolico è uno straordinario esempio di buone pratiche. Il cambiamento dovrebbe essere l’aspirazione dei rappresentanti delle istituzioni e di quanti come le comunità del privato sociale si occupano di minori dell’area penale. Il cambiamento riferito sia ai comportamenti dei ragazzi in carico alla giustizia minorile, sia in riferimento alle opportunità offerte dalla società civile ai ragazzi stessi per favorirne la socializzazione e l’inclusione. E se parliamo di cambiamento, allora la riapertura della comunità pubblica di Nisida rappresenta una grande opportunità che assolutamente non deve essere delusa. Deve essere chiaro che per la comunità pubblica di Nisida e per i suoi ospiti non ci sarà mai un cambiamento strutturale e culturale se anacronisticamente si continuerà a confondere gli interessi degli operatori per il loro posto di lavoro e interessi dei minori ad avere un servizio di qualità certificato e garantito. Solo questa distinzione può generare quel reale cambiamento nelle strategie di presa in carico dei minori e di programmazione delle attività di prevenzione e disciplinamento. La tipologia del minore o giovane adulto dei servizi della Giustizia Minorile non è quella "dello studente modello e del futuro giornalista" ucciso in una faida di camorra, ma un giovane ragazzo complesso, strutturato, e determinato a qualsiasi cosa pur di soddisfare i suoi impulsi e le sue ambizioni. La gestione di questi ragazzi per gli operatori sociali è estremamente difficile senza lo schermo protettivo di un ruolo chiaro e riconosciuto: "carabiniere, poliziotto, magistrato, assistente sociale". La presa in carico e la gestione di questa tipologia di ragazzi richiede competenza, passione, esperienza, coerenza, serietà; tutti elementi indispensabili per la creazione di una relazione autorevole e libera da compromessi e interessi di sorta. E non è assolutamente una cosa facile, anzi diciamo quasi impossibile se non si stabilisce con il committente in questo caso la Giustizia Minorile quel rapporto e quella collaborazione basata sulla reciproca fiducia propedeutica ad accorciare le distanze e ridurre le diffidenze. Questi timori si costruiscono su diverse motivazioni: la prima è senza ombra di dubbio il fatto che la Giustizia Minorile ha spesso difficoltà nel riconoscere al privato sociale la complementarietà del proprio ruolo e del proprio lavoro nell’ambito del sistema di rete che gira intorno ai minori dell’area penale. Questa difficoltà a riconoscere questo ruolo nasce anche dal fatto che sono molti gli operatori non all’altezza del loro compito che, una volta preso "il posto" per il resto della loro vita lavorativa, continuano a demotivare i propri utenti per poi lamentarsi della precarietà, della mancanza di risorse, e quello che è ancora più grave è accusare i propri utenti di non essere interessati alle loro offerte educative. Questo non essere preparati al compito assegnato o a seguire con passione il proprio lavoro è il germe del fallimento. È tutta qui la sfida, avere il coraggio di individuare ed estirpare la mala pianta . Se invece nel bando di gara per l’affidamento di alcuni servizi della comunità di Nisida si utilizzerà la stessa procedura di tutela dello status quo degli operatori della passata gestione, ogni ipotesi di cambiamento sarà frustrata e con essa la speranza dei minori di vedere riconosciuti i propri diritti come valore indipendente dagli interessi degli operatori. Un’ulteriore conseguenza di questa scelta di conservazione, la più grave, sarebbe quella di veder sfumare, per l’ennesima volta, l’auspicata nascita nella comunità di Nisida, di un laboratorio di esperienze innovative e di modelli interpretativi e operativi sulle cause e sulle possibili modalità di approccio al fenomeno. Teramo: detenuto di 41 anni si impicca in cella, era in carcere dallo scorso maggio Agi, 11 agosto 2015 Ha annodato un lenzuolo nell’inferriata della cella e si è suicidato. L’episodio è avvenuto la scorsa notte, intorno alle due, nel carcere "Castrogno" di Teramo dove si trovava recluso Giovanni Grieco, 41 anni, pescarese, detenuto dallo corso 6 maggio perché ritenuto l’omicida di Giandomenico Orlando, il pasticcere 67enne ucciso a coltellate davanti al suo negozio di Pescara, in via Puccini. L’intervento degli agenti penitenziari è risultato vano. Da quanto si è appreso l’uomo avrebbe lasciato una lettera per la madre con la quale viveva nello stabile che ospita la stessa pasticceria. Le liti con l’artigiano erano diventate sempre più frequenti poiché Grieco si lamentava spesso dei rumori provenienti dall’attività commerciale che sia per lui che per la madre sarebbero diventati insopportabili. Il 41enne, che aveva agito sotto gli occhi del figlio del pasticcere che non poté fare nulla, era stato rintracciato e arrestato circa otto ore dopo a Pineto (Teramo). Ad occuparsi del caso è il sostituto procuratore della Repubblica di Teramo Bruno Auriemma che quasi certamente disporrà l’autopsia. Dall’inizio dell’anno quello di Grieco è il secondo suicidio che si registra nel carcere teramano. Pordenone: malore mortale in cella a 29 anni, oggi con l’autopsia il giorno della verità Messaggero Veneto, 11 agosto 2015 È il giorno della verità nel caso Stefano Borriello, il ventinovenne di Portogruaro deceduto nella serata di venerdì scorso in ospedale dopo un arresto cardiaco in carcere, dove era detenuto. A eseguire l’esame, stamane, sarà l’anatomopatologo Renzo Fiorentino. Subito dopo il giuramento, cominceranno le operazioni peritali, alle quali parteciperà anche il dottor Vincenzo De Leo, l’esperto della famiglia che ha incaricato l’avvocato Daniela Lizzi di Latisana di seguire il caso. L’autopsia odierna intende verificare l’eventuale presenza, sul corpo di Borriello, di ecchimosi nella parte superiore del tronco. La famiglia, infatti, ha chiesto al proprio legale che venga eseguito ogni passo necessario a far sì che venga scoperta la verità sulla morte del ventinovenne veneto. Il direttore del carcere Alberto Quagliotto, in attesa a sua volta dell’esito degli accertamenti odierni, ha formulato le proprie condoglianze alla madre del detenuto, dichiarando che non gli risultavano situazioni di particolare disagio vissute dal giovane durante il suo periodo detentivo. Stefano Borriello era in custodia cautelare per rapina aggravata ai danni di un pensionato, che era andato ad acquistare farmaci e stava tornando a casa. Negli ultimi tempi il giovane aveva dichiarato agli amici di voler riscattare non solo i suoi debiti con la società, ma anche una vita difficile, segnata dalla perdita gravissima del padre. Il giovane, nato a Portogruaro all’ospedale di via Piemonte e cresciuto nel rione di San Nicolò, viveva in via Vespucci. Stefano, all’epoca 15enne, stava frequentando l’istituto di ragioneria Luzzatto. Dalla morte del genitore, all’esito di un male inesorabile, la sua vita cambiò per sempre. Per dimenticare quei dispiaceri il giovane fece ricorso alla droga. Il suo viaggio nel mondo degli stupefacenti e il conseguente bisogno di denaro lo ha portato a compiere furti e rapine. La madre è una delle direttrici dei McDonald’s presenti nel Portogruarese. Ieri diversi ragazzi portogruaresi, in particolare coetanei, hanno dimenticato i problemi che Borriello ha dovuto affrontare. Nessun giudizio, tanta pietà. Una compagna di classe ha voluto ricordarlo con un dolce pensiero: "Ste, chi ti ha conosciuto negli ultimi anni, o ha sentito parlare di te, ti ha tanto giudicato senza conoscerti realmente.. hai lasciato senza parole le persone con cui hai invece condiviso momenti di vita, fin da bambini, e che ti hanno voluto bene, sempre e comunque. Resta solo da sperare che tu ora abbia trovato la tranquillità e serenità.. ciao Ste!". Milano: "coppia dell’acido", dopo il parto Martina Levato e il figlio trasferiti all’Icam Corriere della Sera, 11 agosto 2015 Il giudice: la ragazza in una struttura a "detenzione attenuata". Dopo il parto, dimessa dall’ospedale, non rientrerà in carcere. Sarà trasferita in una struttura che ospita madri detenute (anche per omicidio) con i loro bambini. Martina Levato entrerà con il figlio in un centro a "detenzione attenuata", dove non ci sono sbarre alle finestre, le agenti non indossano la divisa e i piccoli frequentano gli asili del quartiere. È una soluzione transitoria, per la ragazza condannata con il suo amante Alexander Boettcher a 14 anni di carcere in primo grado per aver sfregiato con l’acido un suo ex compagno di liceo. Un passaggio temporaneo, in attesa che il Tribunale per i minorenni di Milano decida quale sia la migliore soluzione per il bambino: se lasciarlo con la madre (o con i suoi familiari), o se darlo in affido per una futura adozione. Martina Levato rivelò di essere incinta del suo complice poche ore dopo l’arresto; ai periti ha spiegato di aver sentito il bisogno di "purificarsi" dopo la decisione di diventare madre; per "purificazione" intendeva lo sfregio degli uomini con cui aveva avuto passate relazioni: e dunque per sua stessa ammissione la gravidanza ha uno stretto legame con la deriva criminale dei due amanti. In attesa della decisione del Tribunale per i minori, la magistratura ha però dovuto farsi carico del futuro immediato della madre e del bambino. Il pm Marcello Musso si è più volte confrontato con la direttrice del penitenziario di San Vittore, Gloria Manzelli, a partire dalle "esigenze gravissime ed eccezionali" che secondo due giudici impongono di tenere Martina in carcere anche se è incinta. Le possibilità erano due: o spostarla nel penitenziario di Como, dove esiste un nido nella sezione femminile, o trasferirla all’Icam, la struttura milanese che può ospitare le madri detenute con i figli fino a 3 anni. Il pubblico ministero (nonostante anche lunedì sia stato molto duro nel chiedere di negare alla ragazza gli arresti domiciliari) ha cercato un punto di equilibrio e di attenzione umana, dando parere favorevole alla "detenzione attenuata". Nell’ordinanza trasmessa lunedì pomeriggio al carcere, il presidente aggiunto dei gip, Claudio Castelli, nel condividere "integralmente" il parere del pm, fissa però un confine: il trasferimento di Martina all’Icam è limitato "fino a quando avrà con sé il figlio", altrimenti dovrà "immediatamente" essere riportata in carcere ("qualora venisse meno la finalità di assistere il neonato, dovrà rientrare nella casa circondariale ove è detenuta"). Il quadro a questo punto si fa più lineare: se il Tribunale per i minorenni deciderà di allontanare il bambino, la ragazza rientrerà a San Vittore; se i giudici lasceranno il figlio con la madre, Martina e il figlio potranno rimanere nella struttura protetta. Santa Maria C.V. (Ce); interrogazione al ministro su mancanza di braccialetti elettronici casertanews.it, 11 agosto 2015 "Abbiamo chiesto al ministro di intervenire per garantire ai detenuti che hanno ottenuto gli arresti domiciliari l’esecuzione della misura attraverso l’utilizzo dei braccialetti elettronici. Le liste di attesa, a Santa Maria Capua Vetere come nel resto del Paese, costringono molti detenuti a restare in carcere pur avendo ottenuto i domiciliari e questa ci sembra una pericolosa violazione dei diritti costituzionalmente garantiti". Come anticipato la scorsa settimana, la deputata Pd Camilla Sgambato ha depositato un’interrogazione parlamentare che porta la firma anche dei colleghi campani Anna Maria Carloni, Massimiliano Manfredi e Michela Rostan. "I braccialetti elettronici messi a disposizione dalla Telecom, dopo la sottoscrizione della convenzione con il Ministero della giustizia, sono duemila in tutta Italia e, a quanto sembra, il rinnovo di tale convenzione non sarebbe, allo stato, possibile a causa della mancanza della necessaria copertura finanziaria", sottolinea l’interrogazione ricordando che a causa dell’insufficienza dei dispositivi elettronici disponibili, "si registra la concreta disapplicazione della misura in quanto, in numerosissimi casi, le misure disposte dal giudice e non ancora messe in esecuzione, potranno essere applicate in concreto solo dopo il recupero, per fine misura, di un dispositivo già in uso" e che quindi questa "anomala situazione genera liste d’attesa non previste né regolamentate dalla legge, con conseguenti ed inevitabili disparità di trattamento". Per quanto riguarda in particolare il foro di Santa Maria Capua Vetere, "l’avvocatura sammaritana - sottolinea la deputata - ha già riscontrato che la richiesta di braccialetti elettronici per i detenuti agli arresti domiciliari ha ormai ampiamente superato la utilizzabilità dei 2000 dispositivi elettronici concretamente disponibili". "Confidiamo che il ministro - commenta in ultimo l’on Camilla Sgambato - possa trovare una soluzione veloce ed efficace perché venga assicurata questa misura che è certamente anche segno di civiltà e di buon funzionamento del sistema giudiziario, anche in un’ottica di alleggerimento dei penitenziari". Firenze: "muffe, caldo e malcontento degli agenti", la Fp-Cgil visita carcere di Sollicciano gonews.it, 11 agosto 2015 "I poliziotti di Sollicciano ancora oggi sono costretti a lavorare in luoghi angusti, con decine e decine di neon divelti, senza un minimo di refrigerio con queste temperature, con infiltrazioni che hanno reso i muri impregnati di muffe e scrostamenti, tutte cose che rendono i luoghi sicuramente malsani e a nostro parere al limite, se non oltre, della legittima idoneità": lo scrive Santi Bartuccio (Fp Cgil Toscana) in una lettera indirizzata al Provveditore Amministrazione Penitenziaria della Regione Toscana, al Prefetto di Firenze, al Presidente della Regione Toscana, al Sindaco del Comune di Firenze, al Direttore Generale ASL 10 Firenze, al Garante per i Diritti dei detenuti, al Direttore di N.C.P. Sollicciano, al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Roma). La lettera è stata inviata oggi dopo che mercoledì 5 agosto una delegazione di Fp Cgil Toscana (formata dallo stesso Bartuccio, da Donato Nolè, Coordinatore Regionale Polizia Penitenziaria, e da Paolo Sparapano, coordinatore Provinciale Polizia Penitenziaria) ha effettuato una visita al carcere Nuovo Complesso Penitenziario Firenze Sollicciano. La delegazione, riscontrando la massima disponibilità nella Direzione del Carcere, ha potuto effettuare e verificare le condizioni in cui versa la struttura Fiorentina, le condizioni in cui il personale è costretto a lavorare, nonché le condizioni di detenzione dei ristretti. Pur apprezzando lo sforzo messo in atto dall’Amministrazione (in primis la Direzione del Carcere) per migliorare le condizioni igieniche della struttura, che nell’ultimo anno ha sicuramente attenuato il problema igienico collegato alla presenza dei piccioni e ha provveduto ad imbiancare interi padiglioni, la situazione rimane problematica. Descrive Bartuccio nella lettera: "La cinta muraria, causa cedimento parziale, risulta parzialmente chiusa in un settore e la restante parte presenta garitte antiquate, molte disusate con porte divelte, parapetto con parti metalliche arrugginite, camminamento senza illuminazione e pericoloso per la presenza di lamiere. Le garitte - in queste condizioni - sarebbero da chiudere, eppure sono regolarmente presidiate da parte della polizia penitenziaria fiorentina che garantisce, con queste temperature, quasi in modo stoico, il servizio armato per almeno due ore. Polizia Penitenziaria che troviamo assai demotivata se non anche angosciata. Molti lavoratori ci hanno avvicinato per comunicarci il loro disagio. Disagio rappresentato in modi assai diversi, chi attraverso metafore che al momento potevano apparire anche divertenti e simpatiche, chi con vere e proprie richieste di aiuto, chi con desolanti silenzi, ma tutti a nostro parere necessari di ascolto e immediato intervento". Prosegue la missiva: "Il generale malcontento che regna nella più importante realtà penitenziaria toscana non può più rimanere chiuso fra le mura del Carcere di Sollicciano; le donne e gli uomini che lavorano a Sollicciano meritano altro. Non possono lavorare in luoghi angusti con la netta sensazione di sentirsi abbandonati dalle Istituzioni. Non possono lavorare con la concreta percezione del rischio di essere oggetto di rappresaglie da parte di una popolazione detenuta divenuta, non solo, ma anche per il contesto, sempre più aggressiva e intollerante. Lo dicevamo allora, e lo ribadiamo oggi, che aprire le celle, su indicazione della ormai famosa legge Torreggiani, senza riempire gli spazi di forme e contenuti, non avrebbe risolto il problema delle carceri; anzi in molti casi, le statistiche lo dimostrano, gli eventi critici sono aumentati, in modo particolare le aggressioni sul personale di polizia penitenziaria". Queste le proposte di Bartuccio, contenute nella lettera, per migliorare le condizioni di lavoro e detenzione a Sollicciano: "Riteniamo che per migliorare le condizioni detentive, in primis bisognerebbe migliorare le condizioni lavorative del personale, cosa che ancora oggi appare una chimera, e ci domandiamo: come può un personale stanco, demotivato, afflitto, incompreso, rispondere alle richieste sempre più esigenti di una popolazione detenuta, in molti casi formata in modo rilevante da soggetti disagiati, tossicodipendenti, stranieri, sicuramente poco disposti e disponibili al rispetto delle regole? Mentre un discorso a parte meritano gli alloggi collettivi del personale. Personale che in gran parte proviene dal sud, pertanto costretto a dimorare in Caserma, dove però le camere sono tutt’altro che accoglienti e confortevoli. È evidente che il degrado in cui versa Sollicciano non può e non deve essere imputato a chi oggi governa la struttura, ma certamente a costoro chiediamo una maggiore attenzione per il Personale, che se data verrebbe sicuramente riconosciuta e, riteniamo, trasformata certamente in migliore vivibilità per tutti, detenuti compresi. Certo è che la Direzione di Sollicciano per effettuare il cambio di passo che il Carcere Fiorentino merita necessita sicuramente della maggiore attenzione e partecipazione delle Istituzioni locali, quali la Regione, il Comune, l’A.S.L., oltre che dell’Amministrazione Penitenziaria Regionale e, soprattutto, Nazionale, per fare in modo che abbia le giuste risorse economiche ed umane per risolvere le criticità segnalate. Riteniamo che ognuno debba e possa fare la sua parte, chiediamo che tutti i soggetti Istituzionali cui la presente è inviata si attivino, per gli ambiti di competenza, e contribuiscano alla rinascita del carcere fiorentino". Orvieto (Pg): firma alla convenzione per l’impiego di detenuti in lavori di pubblica utilità orvietosi.it, 11 agosto 2015 Il sindaco, Giuseppe Germani, il Direttore del Carcere di Orvieto, Dott. Luca Sardella e il Direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Spoleto, D.ssa Silvia Marchetti sottoscriveranno - giovedì 20 agosto prossimo alle ore 10 presso la Casa di Reclusione di Orvieto - la convenzione per promozione e la realizzazione di un progetto sperimentale finalizzato all’impiego di detenuti in lavori di pubblica utilità, con particolare riferimento alla manutenzione, al restauro, pulizia e decoro urbano dei siti di interesse pubblico, recentemente approvata dalla Giunta. Ciò in ragione del protocollo d’intesa sottoscritto nel giugno 2012 tra l’A.N.C.I. e il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Finanziaria (D.A.P.) finalizzato a promuovere un programma per lo svolgimento di diverse tipologie di attività lavorative extramurarie da parte di soggetti in stato di detenzione in favore delle comunità locali e alla luce del successivo protocollo d’intesa, firmato nel maggio 2014 da A.N.C.I. Umbria, Regione Umbria, Tribunale di Sorveglianza di Perugia e il Ministero di Giustizia, che si impegna a favorire l’avviamento di percorsi individuali, di durata determinata, di formazione/lavoro a titolo volontario e gratuito, relativi a progetti di pubblica utilità. Il progetto sperimentale realizzato con la collaborazione tra gli enti e le amministrazioni operanti nel territorio, è utile a realizzare percorsi di reinserimento sociale dei condannati e a ridurre i conflitti sociali; inoltre, consente loro l’acquisizione di conoscenze e competenze professionali ritenute necessarie nella fase post-detentiva, oltre che usufruire da parte della collettività, delle risorse di una popolazione detentiva ancora attiva e produttiva. Lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità da parte dei soggetti interessati al provvedimento è gratuito e non costituisce in alcun modo rapporto di lavoro con l’Amministrazione Comunale, il cui unico onere sarà quello relativo alle spese per l’assicurazione degli stessi contro gli infortuni e le malattie professionali, nonché riguardo alla responsabilità civile verso terzi anche mediante polizze collettive. La convenzione, diverrà operativa entro i prossimi sei mesi, durante i quali la direzione del Carcere di Orvieto dopo un attento lavoro di osservazione dei comportamenti psico-sociali dei detenuti, individuerà alcuni soggetti che hanno dimostrato una condotta confacente a tale esperienza. Dopo la sottoscrizione formale della convenzione, alle ore 11 presso il Teatro della Casa di Reclusione si terrà il concerto dell’artista Sandro Joyeux ospite della IX edizione di Umbria Folk Festival 2015. Il musicista francese giramondo che è un’enciclopedia musicale e culturale che non s’incontra comunemente. Ha percorso più di mezzo milione di chilometri con la chitarra sulle spalle per raccogliere tradizioni, dialetti e suoni del Sud del mondo. Canta in Francese, Inglese, Italiano, Arabo, e in svariati dialetti come il Bambarà, il Wolof, il Dioulà. È reduce da più di duecento concerti in giro tra l’Italia e l’estero negli ultimi due anni. Il nuovo video animato del singolo "Elmando", uscito il 1° maggio ed in concorso nei più prestigiosi festival di animazione nel mondo, gode del patrocinio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). A margine dell’iniziativa sarà servito un rinfresco realizzato dai detenuti che partecipano ai laboratori di cucina programmati all’interno delle attività di reinserimento del Carcere di Orvieto. Gli interventi rivolti alle persone sottoposte ad esecuzione penale, come è noto, sono attuativi in un sistema di azioni di politica sociale finalizzato a rendere concrete e fruibili le prescrizioni dell’art. 27 della Costituzione, secondo cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" e quindi attraverso interventi di aiuto e sostegno a reinserirsi positivamente nella società; principi peraltro ribaditi dalle regole minime dell’ONU (1955) e del Consiglio d’Europa (1973) e, da ultimo, dalle regole penitenziarie europee e dalle modifiche legislative del nostro ordinamento. Le prerogative sociali, economiche e amministrative del territorio comunale possono incidere in maniera determinante sulla qualità delle garanzie del contratto sociale e sulla conseguente qualità dei servizi resi al cittadino, sia esso libero che sottoposto a vincoli penali, nella fase in cui intende determinare e quindi concordare adeguati orientamenti per la migliore pianificazione degli interventi. Ciò può essere facilitato se le azioni delle istituzioni e dei servizi tendono a ricomporre l’inevitabile frammentazione delle funzioni, delle competenze e delle responsabilità attraverso politiche unitarie e coordinate, che pongano in essere strategie globali di promozione degli stessi, attraverso interventi e servizi specifici e differenziati. La realizzazione di tale imperativo costituzionale come interpretato dalla norma europea e nazionale ha consentito di attivare accordi e convenzioni tra i Comuni, le Case di Reclusione e gli Uffici per l’esecuzione penale esterna, per la realizzazione di progetti sperimentali finalizzati all’impiego di detenuti in attività di pubblica utilità; precisando che il mandato dell’Amministrazione Penitenziaria è finalizzato al reinserimento sociale dei condannati ed ha come fondamentale obiettivo l’occupazione in attività durante l’espiazione della pena, anche al fine di garantire ai soggetti ristretti l’acquisizione di competenze e conoscenze professionali utilmente spendibili nella fase post-detentiva. Inoltre, l’assolvimento di tale mandato presuppone la collaborazione di tutte le componenti pubbliche del territorio, in particolare gli Enti locali e i Comuni secondo le "linee guida in materia di inclusione sociale a favore delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria" approvate il 9 marzo 2008 dalla Commissione nazionale consultiva e di coordinamento per i rapporti tra il Ministero della Giustizia, le Regioni, gli Enti locali ed il volontariato, finalizzate alla creazione e/o implementazione di una rete integrata di interventi delle istituzioni territoriali per realizzare percorsi di reinserimento sociale. L’Amministrazione Comunale di Orvieto ha ritenuto di prioritario interesse tutelare e migliorare la sicurezza della comunità locale attraverso concreti interventi in favore della sicurezza urbana dei cittadini. Attraverso la convenzione, il Comune di Orvieto, la Casa di Reclusione di Orvieto e l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Spoleto, si propongono interventi volti alla ricerca di nuove future opportunità occupazionali a favore della popolazione detenuta o lo svolgimento di attività che favoriscano sia una maggiore dignità nell’esecuzione della pena detentiva che l’acquisizione di competenze ed abilità sociali e professionali utili al reperimento di opportunità lavorative. Ancona: detenuto tunisino evade dal carcere di Barcaglione, era addetto a lavoro agricolo Ansa, 11 agosto 2015 Un detenuto tunisino di 36 anni, Rachid Kataib, è evaso dal carcere di Barcaglione ad Ancona, approfittando del turno di lavoro agricolo nei campi della struttura detentiva, che ospita detenuti in custodia attenuata. Condannato in via definitiva per spaccio di droga, Kataib sarebbe tornato libero fra un paio di anni. L’evasione risale a venerdì scorso, ma se ne è avuta notizia solo oggi. L’uomo si è dileguato dal carcere nell’area adibita a uliveto e apiario, forse aiutato da qualcuno all’esterno. La procura di Ancona coordina le indagini sull’evasione, e anche il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha aperto un’inchiesta interna. Del tunisino per ora non ci sono tracce. Caltanissetta: Uil-Pa; detenuto ustiona due agenti gettandogli addosso acqua bollente Agi, 11 agosto 2015 Un detenuto del circuito ad alta sicurezza del carcere di Caltanissetta ha gettato acqua bollente contro due sottufficiali della polizia penitenziaria. Lo riferisce Gioacchino Veneziano, segretario regionale della Uil Penitenziari della Sicilia, che esprime solidarietà alle due vittime. L’episodio è accaduto nella notte di domenica. Il recluso ha atteso che i due assistenti capo si avvicinassero alla cella per effettuare l’operazione della conta e li ha spruzzati con l’acqua calda, mentre rivolgeva al loro indirizzo offese e minacce. I due dopo avere messo in sicurezza la situazione sono stati condotti al pronto soccorso e giudicati guaribili in sette giorni. Milano: "Ape Shakespeare", lo show dei detenuti in scena al Castello Sforzesco Sabrina Cottone Il Giornale, 11 agosto 2015 Il furgoncino si chiama "Ape Shakespeare" e quando si apre, il teatro diventa cibo e acque aromatizzate simili a pozioni magiche. Una metafora di ciò che nutre e rivoluziona la vita. Capita al Cortile delle Armi del Castello Sforzesco, nello spettacolo in scena mercoledì sera. Attrici e attori sono detenute ed ex detenuti di San Vittore, ma anche i loro pedagoghi, per usare una parola antica. Un mix speciale, "che mette insieme dentro e fuori, per essere ponte" spiega la regista, Donatella Massimilla, nota per i suoi lavori che uniscono l’arte all’inclusione sociale, alla capacità di recuperare ciò che sembra perduto. Lo spettacolo, "San Vittore globe theatre atto secondo open air", è un misto di commedia dell’arte, teatro di strada e circo, con improvvisazioni legate alla creatività degli attori e costumi eleganti, firmati da Susan Marshall. Punto di partenza, base, canovaccio liberamente reinterpretato è il "Teatrino delle Meraviglie" di Cervantes, l’opera in cui il papà di don Chisciotte mette sotto accusa, con l’arma dell’ironia, le discriminazioni contro gli ebrei nella Spagna del Seicento. In questo testo scritto esattamente quattro secoli fa, nel 1615, due teatranti portano la propria opera in un paesino di campagna e avvertono i potenti del luogo, dal sindaco in giù, che i portenti dello spettacolo saranno visibili solo a chi non ha sangue giudeo nelle vene. Da qui finto stupore ed entusiasmo pieno di conformismo, con gli spettatori che fingono di vedere ciò che non c’è piuttosto che rischiare di essere considerati ebrei. "Se non sei ex detenuto, se non sei extracomunitario, se non sei gay, vedrai portenti. Questa è la libera interpretazione attualizzata che ne abbiamo fatto noi. In questo modo il pubblico è coinvolto sia con il testo antico che con il testo moderno" spiega la regista Donatella Massimilla, anima del Cetec, vent’anni di vita e grande esperienza nelle carceri di tutta Europa. E se le meraviglie di Cervantes erano un teatro dell’assurdo ante litteram, qui le forzature espressive sono una forma di teatro ribelle, che apre a un’interazione con il pubblico. Gente chiamata a dire la sua, anche su forme di discriminazione quotidiana, meno politicamente vistose, di quelle portate sul palco. Con questo spirito si sono svolte le prove aperte, lunedì e ieri al Castello. "Le attrici di San Vittore arriveranno con la scorta e ce n’è anche una che è stata trasferita nel carcere di Bollate. Nonostante ciò, le è stato concesso di recitare: un grande segno di fiducia" spiega la Massimilla. Ma l’attrazione, promette, sarà lo spettacolo. "Scoppiettante, allegro, folle, circense, ispirato alla Commedia dell’Arte che ho studiato a Venezia e al tanto teatro di strada di cui mi sono nutrita. Poesia, follìa e voglia d’incontro" dice lei, anticipando contenitore e contenuto. In scena anche le lingue sono variopinte: italiano, spagnolo, polacco, inglese, come gli idiomi di chi abita (e abitava) San Vittore. Trattamento Sanitario Obbligatorio: Manconi "ormai sembra un mandato di cattura" di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 11 agosto 2015 La denuncia è di Luigi Manconi: "La morte di Andrea Soldi dimostra che il Tso, il trattamento sanitario obbligatorio, da ricovero a tutela di chi rifiuta cure necessarie, si sta trasformando in una sorta di mandato di cattura. Con l’alto rischio che venga eseguito con metodica da fermo di polizia "classico" che tradizionalmente si chiude in maniera tragica". Ma è davvero così? Nel 2015 sono già almeno tre i morti, accusa Manconi. "Uno a giugno nel salernitano ha avuto un arresto cardiaco dopo alcuni giorni da un Tso piuttosto sbrigativo. L’altro, la settimana scorsa, nella bassa padovana impressionante: con i carabinieri, mandati a prelevare il paziente, che davanti alla reazione hanno esploso colpi di pistola, uno dei quali lo ha ucciso. La legge prevede il Tso a tutela del paziente. Ma serve un personale formato o finisce come a Torino". I numeri dell’utilizzo di queste procedure sanitarie forzose, previste per pazienti con gravi disturbi psichici o malattie infettive (che prevedono la richiesta dello psichiatra e della Asl, l’autorizzazione del sindaco e la convalida del giudice) sono incompleti, e a volte contraddittori. Secondo l’ultima analisi comparata fornita dall’Istat nel 2013, sono stati 9.021 i malati sottoposti a Tso, dei quali circa un terzo per schizofrenia, la malattia di cui soffriva Andrea Soldi. Al Nord erano stati 3.352, al Centro 1.638, nel Sud 2.162. Da evidenziare un dato fra tutti: dei 1.869 casi di Tso delle isole solo in Sicilia se ne erano registrati 1.585. Un record: nessuna altra regione superava i mille casi e ben un trattamento obbligatorio su sei era stato in Sicilia. Molto più numerosi non solo delle piccole regioni come la Valle d’Aosta, ultima in classifica con 35, ma anche del Piemonte (553). Una tendenza registrata anche nel 2011. Dei 9.372 casi, più di uno su tre era stato al Nord (in Piemonte 667). Ma in Sicilia se ne erano contati ben 1.509. "È un numero alto, ma temo che possano essere anche di più", chiarisce Emilio Sacchetti, presidente della Società italiana di psichiatria. Ma non concorda con l’analisi allarmata di Manconi. "La tendenza della psichiatria moderna è a usarli come ultima ratio. È vero che soprattutto al Sud, ci sono sacche di resistenza delle vecchie pratiche". Tuttavia, spiega il professore, che è anche direttore del dipartimento psichiatria degli Spedali Civili di Brescia, "quando è necessario, il Tso si deve fare. Se non ci sono abusi credo sia meglio di una sedazione troppo pesante con farmaci. Per giunta a gennaio dovrebbero arrivare anche in Italia tecniche nuove che sedano in tutta sicurezza". Uno spray calmante, capace in tre minuti, di placare l’escandescenza. "La morte di Andrea Soldi non è dipesa dal Tso, ma dalle modalità", concorda Enrico Smeraldi, che dirige il dipartimento di psichiatria del San Raffaele di Milano. "Il Tso non è più un provvedimento di polizia contro chi è pericoloso per sé e per gli altri. Ci sono procedure da seguire. E si applica solo per il periodo necessario. Nel nostro reparto su circa duemila ricoveri l’anno, mediamente i Tso sono 2-3. Un evento raro. Anche perché ormai ci sono farmaci, cosiddetti Depot, che si prendono una volta al mese. In questi casi il rifiuto della cura è meno frequente che nelle terapie giornaliere. Certo bisogna saperli usare". "Sacche retrive a parte, chi tende ad usare il Tso soggiace a richieste di parenti", spiega Smeraldi. Ma, assicura, "manette e lacci sono cose che la psichiatria ha abbandonato (mentre ne fanno largo uso i reparti che assistono gli anziani). Anche perché il contenimento con la forza genera nel paziente la reazione scomposta". Allora che fare? "Non bisogna arrivare a quel punto. Agire con cure psicologiche o farmacologiche prima". Migranti: scontro Cei-Lega. "Piazzisti da quattro soldi". "La Chiesa ci guadagna" di Paolo Rodari La Repubblica, 11 agosto 2015 "Piazzisti da quattro soldi che pur di raccattare voti, dicono cose straordinariamente insulse". Così il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, intervistato dalla Radio Vaticana, qualifica i leader politici che in questi giorni hanno affermato la necessità di più efficaci restrizioni all’ingresso in Italia di nuovi immigrati e profughi. Pur senza citare Matteo Salvini e la Lega, Galantino implicitamente reagisce a quanto nei giorni scorsi sia il blog del leader del M5S sia il segretario della Lega avevano detto in merito agli sbarchi. Alle parole di Francesco che domenica all’Angelus aveva detto che respingere i profughi che lasciano la propria terra via mare in cerca di una vita dignitosa è un atto criminoso, Salvini aveva risposto che "respingere i clandestini" è "un dovere". Mentre per il blog di Grillo ci vorrebbe meno accoglienza e più respingimenti. Ma ancora ieri Salvini ha voluto dire la sua. Sentite le parole di Galantino, ha reagito: "La mia polemica non è contro la Chiesa ma contro chi straparla o ci guadagna". E ancora: "Ricordo monsignor Maggiolini, altro che Galantino: valeva dieci monsignor Galantino. Diceva, anni fa, che era in corso una invasione. Ma ora c’è qualcuno che fa politica a nome della Chiesa". Per Galantino, invece, i politici dovrebbero "distinguere il percepire dal reale". La Chiesa, del resto, conosce bene l’emergenza immigrati. I suoi dati parlano di un fenomeno importante ma del tutto gestibile. Così anche per il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, che in un’omelia pronunciata nella cattedrale di Genova - città di cui è arcivescovo - ha sottolineato fra le altre cose "l’indifferenza pratica di fronte a esodi di disperati costretti da miseria, guerra, persecuzione a cercare fortuna altrove". Francesco segue a distanza la polemica. E come suo stile reagisce coi fatti. Ieri ha donato pasta, latte e biscotti al centro d’accoglienza per migranti Baobab sulla Tiburtina a Roma. Il regalo è stato portato in due visite, la prima nel fine settimana e la seconda ieri pomeriggio. Anche l’Unione Europea si muove. L’Italia, infatti, riceverà oltre 558 milioni di euro dalla Ue per fronteggiare l’emergenza migranti. Lo ha comunicato la Commissione, che ha approvato 23 programmi pluriennali per un totale di 2,4 miliardi a sostegno dei Paesi membri maggiormente interessati dagli sbarchi. I fondi assegnati all’Italia rientrano in due distinti programmi: Asylum Migration and Integration Fund (Amif) e Internal Security Fund. Dal mondo della politica, intanto, si sprecano le proposte inedite: "Sarebbe utile, se non indispensabile, una sorta di controllo fisso sulla spiaggia, una sorta di "check point" dove l’ambulante debba mostrare il titolo di soggiorno e le autorizzazioni per lavorare come tale", ha detto Giorgio Silli, responsabile nazionale immigrazione di Forza Italia. In una nota Silli ha spiegato che "a norma deve corrispondere sanzione. Quando si è in uno Stato di diritto degno di questo nome, il rispetto delle norme deve essere verificato costantemente". Prostituzione: Hollywood contro Amnesty... anche le dive sbagliano di Angela Azzaro Il Garantista, 11 agosto 2015 Alla decisione di Amnesty International di presentare e votare un documento in cui si chiede la depenalizzazione della prostituzione, hanno risposto un gruppo di attrici dicendo: no. Non si fa. Si tratta di una contesa storica all’interno del movimento delle donne e dei diritti umani. Da una parte una minoranza che si schiera a favore delle lavoratrici del sesso, chiedendo che vengano loro riconosciuti pari diritti; dall’altra c’è chi non considera la prostituzione come un lavoro che va garantito ma come una violenza in sé che va combattuta. È per questa ragione che il documento di Amnesty ha assunto un ruolo fondamentale all’interno del dibattito mondiale. Cosa dice questo documento che verrà votato nei prossimi giorni a Dublino, nell’ambito dell’incontro dell’associazione che si svolge ogni due anni per stabilire le linee programmatiche? Dice una cosa molto chiara e netta: la discriminazione contro le prostitute e quindi la violenza non si combattono tenendole nell’ombra, ma aiutandole a uscire dall’illegalità là dove sono più facilmente sfruttate e sottoposte ad angherie. La motivazione di Amnesty è importante anche perché non si fonda su assunti ideologici ma sulla verifica della realtà. Non è quindi in gioco una contesa filosofica sui diritti delle donne, ma un concreto tentativo di dare una mano in termini di diritti a chi oggi non ne ha e per questo paga un prezzo altissimo. Dall’altra c’è quasi tutto il movimento femminista, con alcune eccezioni. In Italia per esempio abbiamo la combattiva blogger Eretica, tra le prime a segnalare nel nostro Paese il documento di Amnesty, collaboratrice anche del nostro giornale e del Fatto quotidiano, sostenitrice del punto di vista delle sex worker. Ma le femministe che si battono per la soppressione della prostituzione (da qui la definizione di "abolizioniste") sono di più e questa volta si trovano in compagnia di alleate di grosso calibro: appunto le dive di Hollywood. Le attrici Meryl Streep, Carey Mulligan Kate Winslet, Anne Hathaway, Angela Bassett, Lena Dunham, Emily Blunt, Emma Thompson, Debra Winger, l’attore Kevin Kline, il regista Jonathan Demme, e le femministe Gloria Steinem ed Eve Ensler hanno firmato una lettera aperta della Coalition Against Trafficking in Women (Coalizione contro la tratta delle donne) in cui si chiede di non votare il documento dell’associazione internazionale. Lo scontro è frontale e oggi diventa dirimente. La discussione sui diritti delle prostitute interessa sempre più Paesi e, nonostante le battaglie delle sex worker, la loro voce si fa sentire sempre più flebilmente, silenziata dal rumore di fondo dei proibizionisti. Ma oggi c’è un nuovo documento, c’è Amnesty che dice una cosa fondamentale e che non attiene al giudizio morale. Il problema non è la visione di un singolo o di un gruppo organizzato sul lavoro sessuale. La posta è un’altra. E riguarda i diritti di chi lavora in questo settore. Amnesty dice - in qualche modo - che discriminarle, negando loro i diritti, ci rende complici di violenza. Come, la paladina dei diritti delle donne Meryl Streep, si schiera contro altre donne? Di fatto è così, anche se sicuramente pensa di farlo a fin di bene. Ora tutta l’attenzione si sposta su Dublino, dove speriamo che la lettera delle dive non faccia cambiare idea e si approvi quello che sarebbe un documento storico. Caso maro, tra Italia e India muro contro muro di Danilo Taino Corriere della Sera, 11 agosto 2015 La relazione gatto-topo, che nel caso dei due marò ha funzionato per tre anni e mezzo, è ufficialmente terminata ieri ad Amburgo, in un’udienza davanti al Tribunale internazionale per la legge del mare (Itlos). Ora, il rapporto non è più a due, tra l’India, nella parte del felino, e l’Italia, nella parte della preda: è una questione discussa di fronte alla comunità internazionale. L’udienza è stata un momento alto: l’inizio di un confronto giudiziario che continuerà a lungo tra Delhi e Roma ma che ha già mostrato i caratteri di un contenzioso rilevante non solo per Salvatore Girone e Massimiliano Latorre ma anche per le regole che sottostanno all’attività anti pirateria sui mari e per la rilevanza dell’Italia nella comunità globale di fronte a un caso di notevole rilievo. Quella in corso - ieri e oggi - davanti ai 22 giudici del-l’Itlos, tutti presenti, è un’udienza che deve stabilire misure provvisorie nei confronti dei due militari italiani prima che la Corte arbitrale internazionale dell’Aja si esprima sull’arbitrato intentato da Roma lo scorso 26 giugno. In quell’occasione, l’Italia ha sollevato la questione della giurisdizione, ha cioè chiesto che un collegio di arbitri decida se Girone e Latorre debbano essere processati in India 0 in Italia (o altrove) per l’accusa di avere ucciso, mentre erano in missione antipirateria sulla nave di bandiera italiana Enrica Lexte, due pescatori Indiani il 15 febbraio 2012. Dal momento che l’arbitrato prenderà tempo, Roma chiede al Tribunale di Amburgo di imporre all’India due misure provvisorie, valide fino al termine dell’arbitrato: che non prenda alcuna misura contro Girone e Latorre e termini di esercitare ogni giurisdizione sul caso; e che dia la piena libertà ai due marò, concedendo a Girone, oggi a Delhi, di tornare in Italia e a Latorre, in convalescenza a casa, dì rimanervi. L’udienza è tra due Paesi amici che però hanno un forte contenzioso aperto e che, su iniziativa italiana, ora lo devono risolvere sulla base della legge, dal momento che le trattative diplomatiche sono fallite. Risultato: ieri, il confronto è stato netto, anche duro. Con i team legali delle due parti - composti da alcuni degli avvocati internazionali più prestigiosi - in campo con un ventaglio di argomentazioni giuridiche di prima grandezza. 11 verdetto del Tribunale di Amburgo sarà importante: se passasse la posizione italiana, l’India perderebbe la posizione di vantaggio data dal detenere (in libertà provvisoria) i due marò; se passasse la posizione indiana e restasse lo status quo, sarebbe l’Italia a presentarsi all’arbitrato in posizione di debolezza. I legati messi in campo da Roma, guidati da Sir Daniel Bethlehem, hanno sostenuto che, sin dall’inizio della vicenda, l’India ha agito con coercizione nei confronti della nave Enrica Lexte e dei marò. Hanno ricordato i tentativi di Roma per trovare una soluzione legale, respinti dagli indiani, e le "strenue" iniziative diplomatiche bloccate da Delhi. "L’Italia ha rivoltato ogni pietra", ha detto Sir Daniel. Che ha anche accusato l’India di essere "economica con la realtà" quando in una memoria scritta ha ricostruito a suo modo i continui rinvii e il fatto che contro Girone e La-torre non siano ancora stati formulati capi di imputazione a tre anni e mezzo dall’incidente. Soprattutto, il team italiano ha sostenuto che le misure di libertà per i due marò sono "urgenti" in quanto il contrario rappresenterebbe un "danno irreparabile" di fronte all’arbitrato che si terrà tra qualche mese, dal momento che l’India sta continuando a esercitare la giurisdizione sul caso e continuerebbe a farlo. Gli avvocati di parte indiana Alain Pellet e Rodman Bundy hanno mirato i loro interventi proprio per negare l’esistenza di questa urgenza, data la situazione non diversa da uno o due anni fa, quando l’Italia non chiedeva né arbitrato né misure provvisorie. Hanno sottolineato che a loro avviso l’improvvisa richiesta di arbitrato sulla giurisdizione è in contraddizione con i comportamenti passati di parte italiana. E hanno sostenuto che il Tribunale di Amburgo non può giudicare il caso in quanto l’Italia non ha portato a termine tutti ì passaggi legali che la legislazione indiana consente. Oggi nuova udienza, il giudizio probabilmente tra due o tre settimane. Medio Oriente: doppia giustizia per coloni e palestinesi di Michele Giorgio Il Manifesto, 11 agosto 2015 Cisgiordania. La mancanza di risultati concreti nelle indagini in corso sull’uccisione di Ali e Saad Dawabsha attribuita a terroristi ebrei conferma che i palestinesi non godono delle tutele che l’occupante garantisce ai suoi coloni. Un territorio, due giustizie, una per i coloni israeliani e un’altra per i palestinesi. È la Cisgiordania. Due date spiegano bene come funziona la doppia giustizia, per gli occupanti israeliani e gli occupati palestinesi. Sera del 12 giugno del 2014. Tre ragazzi ebrei - Gilad Shaer, Naftali Frankel, Eyal Ifrach - scompaiono nella zona tra Betlemme ed Hebron. Le autorità israeliane denunciano un sequestro a scopo politico compiuto da una cellula di Hamas. Nei giorni e nelle settimane seguenti circa 400 palestinesi sono arrestati e un’altra trentina restano uccisi durante i raid e le incursioni dei militari israeliani in città e campi profughi. L’indagine sfocia nell’offensiva israeliana "Margine Protettivo" contro Gaza, con le conseguenze devastanti che conosciamo. Notte tra il 30 e il 31 luglio 2015. Due case palestinesi sono date alle fiamme nel villaggio di Duma, a ovest di Nablus. Nel rogo, attribuito subito dalle stesse autorità israeliane a ultranazionalisti ebrei, muore arso vivo il piccolo Ali Dawabsha, 18 mesi, e una settimana dopo il padre Saad (la madre e il fratello sono ancora in ospedale in condizioni critiche). Undici giorni dopo, esercito e servizi segreti israeliani non sono andati oltre qualche fermo in alcune colonie e un ordine di detenzione amministrativa (senza processo) per sei mesi nei confronti di tre estremisti ebrei già noti per i loro ripetuti attacchi contro moschee, chiese e villaggi palestinesi. Tutto qui. L’altra sera, qualche ora dopo la morte in ospedale di Saad Dawabsha e l’annuncio dell’arresto di nove israeliani nella colonia di Givat HaBladim e nell’avamposto colonico di Adei Ad (vicino a Kfar Duma), l’agenzia di stampa della destra religiosa Arutz 7, aveva riferito dell’imminente liberazione di tutti i fermati per mancanza di prove. Ed è andata proprio così. Tutti i fermati sono stati rilasciati. Alla luce della tanto sbandierata efficienza del servizio di sicurezza interno israeliano (Shin Bet), è davvero difficile credere che gli investigatori non abbiano alcuna pista o elemento utile per arrivare ai colpevoli del rogo di Kfar Duma. Qualche giornale israeliano sostiene che le indagini presto porteranno alla cattura dei responsabili della morte di Saad e Ali Dawabsha. Al momento però poco o nulla è seguito ai proclami sull’uso del "pugno di ferro" con gli estremisti lanciati dal premier Netanyahu e la condanna del terrorismo ebraico fatta dal capo dello stato Rivlin. La doppia giustizia emerge ad ogni occasione. Da parte loro i palestinesi ripetono di avere il diritto di proteggersi e continuano ad organizzare "comitati di difesa" per i villaggi più esposti a possibili raid notturni. Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen, raggiunto da critiche durissime dopo il progrom a Kfar Duma, ha annunciato attraverso il suo rappresentante a Qaliqilya, Mahmoud Waloul, la formazione di una sorta di "guardia nazionale" a protezione dei centri abitati. Ben diversa è la velocità degli investigatori israeliani quando i sospettati sono palestinesi. Ieri, ad esempio, è stato rinviato a giudizio un abitante della Cisgiordania, Osama Asaad, accusato di complicità nell’uccisione di un colono israeliano compiuta a giugno da un altro palestinese, Mohammed Abu Shaheen, arrestato poco dopo l’attacco. In pochi giorni lo Shin Bet è arrivato ai presunti colpevoli. Nel frattempo l’esercito israeliano continua i suoi raid notturni alla caccia di "terroristi arabi" nei villaggi della Cisgiordania e i soldati dimostrano una eccezionale prontezza di riflessi nel fare fuoco immediato alla prima minaccia vera o presunta portata da palestinesi. È accaduto la scorsa settimana quando un palestinese ha investito e ferito, intenzionalmente secondo le autorità, tre soldati (l’uomo è stato ucciso da uno dei tre militari non appena è uscito dall’auto). Ed è accaduto anche domenica sera quando un giovane palestinese è stato abbattuto da numerosi colpi pochi attimi dopo aver ferito un israeliano a una stazione di rifornimento. Sono 23 i palestinesi uccisi tra Gaza e Cisgiordania dall’inizio dell’anno. Intanto i riflettori tornano su Mohammed Allan, un avvocato palestinese in detenzione amministrativa, che da 57 giorni fa lo sciopero della fame. Il prigioniero è stato trasferito ieri in un centro medico specializzato ad Ashkelon dall’ospedale di Beersheva, in seguito al rifiuto dei medici di alimentarlo con la forza come prevede la legge approvata di recente dal parlamento israeliano. Ad Ashkelon, scrivevano ieri i siti israeliani, Allan potrebbe essere posto in regime di nutrizione forzata contro la sua volontà. Critiche si sono levate anche in Israele contro quella che è considerata una forma di tortura. Tunisia: morte di un detenuto in condizioni sospette aumenta voci di torture nelle carceri Nova, 11 agosto 2015 Le autorità tunisine tentano di affrontare l’ondata di accuse di arresti arbitrari avvenuta in queste settimane dopo l’approvazione della legge sullo stato di emergenza in seguito agli attentati terroristi del Museo del Bardo e di Susa. Oggi il portavoce della Direzione generale dei servizi per le carceri, Ridha Zaghdoud, ha fornito dettagli sulla morte sospetta del detenuto Abderraouf Kidris, deceduto in ospedale lo scorso 4 agosto in condizioni che secondo attivisti e media tunisini sarebbero sospette. Secondo Zaghdoud, l’uomo soffriva di problemi psicologici ed era stato affidato ad uno specialista in materia dell’ospedale Errazi, il quale aveva prescritto un trattamento adeguato. In seguito ad alcuni comportamenti anomali mostrati dopo il suo arresto, avvenuto lo scorso 14 luglio, Kridis è stato trasferito d’urgenza all’ospedale Charles Nicolle di Tunisi dove è stato mantenuto nel reparto di terapia intensiva fino alla sua morte. Secondo il portavoce della Direzione generale dei servizi per le carceri, le autorità hanno aperto un’inchiesta sulle cause della morte del detenuto, che durante il periodo in ospedale non ha potuto ricevere visite a causa del procedimento penale a suo carico. Il caso di Kridis è stato sollevato da un comunicato dell’Osservatorio dei diritti umani e delle libertà che lo scorso 8 agosto ha denunciato come sospetta la morte del detenuto che sarebbe finito in ospedale a causa delle torture subite durante il periodo nel carcere di Mornaguia. L’attentato contro un resort turistico a Susa (Sousse) avvenuto lo scorso 26 giugno e costato la vita a 38 persone ha spinto le autorità di tunisine a inasprire le misure di sicurezza attuando manovre considerate da molti un sorta di ritorno al regime del deposto presidente Ben Ali. Lo scorso 4 luglio il presidente tunisino Beji Caid Essebsi ha dichiarato lo stato d’emergenza in seguito all’attentato del 26 giugno sulla spiaggia di Susa (Sousse), costato la vita a 38 turisti, in gran parte cittadini britannici. Lo stato d’emergenza nel piccolo paese nordafricano, disciplinato con un decreto legislativo del 1987, era stato dichiarato l’ultima volta dopo la cosiddetta "rivoluzione dei gelsomini" che provocò la caduta del regime di Zine el Abidine Ben Ali, fra il gennaio del 2011 e il marzo del 2014. Nel quadro delle nuove misure di sicurezza nei giorni scorsi deputati tunisini hanno approvato tutti gli articoli della legge contro il terrorismo e il riciclaggio di denaro. La legge è passata con è 174 sì e 10 astensioni. Nessun deputato ha espresso voto contrario. Il primo ministro Habib Essid ha detto che questa legge contribuirà enormemente a facilitare il lavoro delle unità di sicurezza e dei militari, così come il lavoro della magistratura, ed ha assicurato che appoggerà il parlamento nazionale nella lotta contro il terrorismo. L’attentato contro un resort turistico a Susa (Sousse) avvenuto lo scorso 26 giugno e costato la vita a 38 persone ha spinto le autorità di tunisini a inasprire le misure di sicurezza attuando manovre considerate da molti un sorta di ritorno al regime del deposto presidente Ben Ali. Lo scorso 5 agosto ha suscitato polemiche l’arresto di sette persone dopo la loro liberazione da parte dei giudici. Il caso, considerato un abuso da parte delle forze di polizia, ha costretto il ministro dell’Interno, Mohamed Najem Gharsalli, a riferire sull’accaduto precisando che le persone erano state arrestate solo dopo un mandato di cattura emesso dal tribunale di primo grado di Tunisi. Il ministro ha inoltre rivelato che gli arrestati sarebbero coinvolti in un complotto contro lo stato. Iran: processo a giornalista Washington Post, sentenza possibile entro una settimana Aki, 11 agosto 2015 Potrebbe essere emessa "entro una settimana" la sentenza nei confronti del giornalista del Washington Post, Jason Rezaian, a processo in Iran per spionaggio e altri crimini. Lo ha annunciato la legale del reporter, Leila Ahsan, nel giorno della quarta ed ultima udienza del processo che si sta svolgendo nelle aule di un Tribunale della Rivoluzione a Teheran. "Questa è stata l’ultima udienza e la nostra è stata l’ultima difesa. La sentenza, molto probabilmente, sarà emessa entro una settimana", ha dichiarato Ahsan, citata dall’agenzia di stampa semiufficiale iraniana Fars. Rezaian, 39 anni e doppia cittadinanza iraniana e americana, è stato in carcere per quasi cinque mesi prima di essere formalmente accusato di spionaggio e di altri crimini e per quasi 10 mesi senza un processo. Solo il 6 dicembre 2014 è stato infatti formalmente accusato di "spionaggio, collaborazione con governi ostili, diffusione di informazioni riservate e propaganda contro la Repubblica islamica". Egitto: per troppo caldo morti 3 detenuti nella stazione di polizia di Shubra al Khaima Nova, 11 agosto 2015 Un totale di tre detenuti sono morti in Egitto a causa di alte temperature, nella stazione di polizia di Shubra al Khaima, nella provincia Qalyubia, nel Delta del Nilo: o riferisce il quotidiano "al Masry el Youm", secondo cui decine di prigionieri sono rinchiusi in celle minuscole. Il responsabile della sicurezza, Saed Shalabi, ha annunciato una serie di misure di emergenza per evitare che incidenti del genere di ripetano. A fine maggio, il Consiglio nazionale per i diritti umani egiziano ha ottenuto l’autorizzazione a compiere ispezioni nelle carceri in coordinamento con i magistrati. Il ministro della Giustizia, Ibrahim el Heneidy, ha approvato una legge che consente al Consiglio di monitorare le condizioni dei detenuti, alla luce delle molte denunce di torture e maltrattamenti nelle prigioni. Un rapporto del Consiglio per i diritti umani ha rivelato negli ultimi mesi un deterioramento delle condizioni sanitarie nelle prigioni del paese dovuto a problemi di sovraffollamento.