Giustizia: morire per uno "sballo", lo scaricabarile e la responsabilità di Chiara Saraceno La Repubblica, 10 agosto 2015 Non si può pensare di proteggere i propri figli dai rischi vietando le gite scolastiche o chiudendo le discoteche o impedendo loro di uscire in compagnia o di usare lo smartphone. Si può, si deve, educarli alla responsabilità. L’adolescenza e la prima giovinezza sono età difficili e rischiose da sempre. L’esigenza di prendere le distanze dai genitori, il desiderio di mettersi alla prova, le pressioni del gruppo dei pari creano tensioni e pongono sfide. Sfide tanto necessarie per diventare adulti, quanto talvolta rischiose e sproporzionate, tanto più quando non se ne ha pienamente il controllo. Questo fenomeno antico si è per così dire acuito e dilatato con l’ampliarsi della fase della giovinezza ed allo stesso tempo dei luoghi, dei consumi e delle esperienze riservate più o meno esplicitamente a chi si trova in quella fascia di età, al di fuori della sfera di controllo di genitori, insegnanti, educatori. Non c’è genitore responsabile che non ne sia consapevole e, nonostante tutta l’attenzione e la cura che può aver dedicato nell’educare un figlio o una figlia, non attraversi con preoccupazione questa fase, sperando di aver fornito strumenti sufficienti, ma sapendo di non essere onnipotente e onnisciente, diviso tra il desiderio di proteggere e quello di dar fiducia e lasciare andare. Perché non si può pensare di proteggere i propri figli dai rischi vietando le gite scolastiche o chiudendo le discoteche o impedendo loro di uscire in compagnia o di usare lo smartphone. Si può, si deve, educarli alla responsabilità verso sé e verso gli altri, a riconoscere comportamenti rischiosi o stupidi, sperando che basti. Con il suo tweet francamente un po’ infame il sindaco di Gallipoli ha dimostrato non solo una mancanza grave di sensibilità umana (di cui si è reso conto tardivamente e solo dopo l’eco suscitata dalle sue parole), ma di ignorare la complessità con cui si confrontano i genitori degli adolescenti e giovani oggi. È una complessità che non può essere affrontata in modo semplicistico, con una ricetta facile facile, trovando il colpevole di turno - che sia la gita scolastica, la discoteca o il genitore che non sa educare. Certo, ci sono genitori che non sanno essere sufficientemente autorevoli e non forniscono strumenti di navigazione nella vita adeguati, che non sanno porre limiti. Ci sono insegnanti che durante le gite scolastiche non sanno tenere la situazione sotto controllo. E ci sono discoteche che sembrano luoghi extraterritoriali dal punto di vista della legalità. Ci sono responsabilità specifiche ma anche diffuse. Ciascuno deve farsi carico della propria parte tentando di costruire contesti meno rischiosi. Al contrario, quel sindaco, scaricando sui genitori ogni responsabilità della morte del figlio in discoteca si deresponsabilizza rispetto al dovere, in quanto sindaco, di fare in modo che i luoghi di divertimento non siano spazi extraterritoriali, ove non c’è controllo, perché così attirano più clienti e turisti. Se è semplicistico chiedere la chiusura delle discoteche per evitare che dei ragazzi ci muoiano per droga (lo spaccio e il consumo notoriamente avvengono anche altrove), non lo è chiedere e imporre controlli. La vita dei nostri ragazzi è troppo preziosa e vederla spezzata per una bravata, uno scherzo, una sfida, per la voglia di provare qualche cosa di nuovo, troppo doloroso e inaccettabile per essere trattata in modo superficiale e come scusa per soluzioni di facciata. Giustizia: "riduzione del danno", la strategia di Firenze e Torino di Elena Tebano Corriere della Sera, 10 agosto 2015 "Vanno aiutati e informati Non sanno che cosa prendono". I servizi di riduzione del danno sulle droghe sono ancora pochi in Italia: tra i Comuni che li hanno sperimentati più a lungo c’è Venezia. Regioni come Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Lazio hanno 10-20 presidi mobili. Accanto ai controlli anti-spaccio e al lavoro di prevenzione sul territorio, c’è un’altra strategia adottata in alcune regioni italiane per prevenire tragedie come quelle che a Riccione e Gallipoli hanno portato alla morte di due ragazzi. Si chiama "riduzione del danno": non potendo eliminare del tutto l’uso di stupefacenti, si cerca di limitarne il più possibile i danni alla salute. "Con l’ecstasy il problema è il colpo di calore, bisogna bere molta acqua, fare pause mentre si balla, cercare di non accaldarsi troppo. Con la ketamina - un anestetico veterinario che dà dissociazione - è che ti fa sentire leggero ma nel frattempo ti immobilizza. Quindi devi evitare bagni in mare, perché rischi di affogare, e stare lontano dai luoghi da cui si può cadere. Le feniletilammine invece spesso vengono vendute come ecstasy, ma sembra che non producano effetti perché hanno tempi di attivazione più lunghi. Così è facile assumerne troppe e il sovradosaggio può causare paralisi". Stefano Bertoletti, psicologo della Cooperativa Cat di Firenze, elenca come ha fatto innumerevoli volte nelle discoteche e nei rave party toscani gli effetti delle più diffuse droghe sintetiche che popolano le notti italiane. E le conseguenze in cui incorre chi, nonostante tutto, decide di consumarle. "A Firenze offriamo assistenza nei luoghi di consumo, feste e discoteche, e poi abbiamo uno spazio in una delle zone della movida nel centro storico, attivo dall’una di notte durante il fine settimana. In entrambi i casi diamo informazioni sugli effetti delle sostanze e poi uno spazio di "chill out", cioè di depressurizzazione, con divanetti, acqua e operatori addestrati al primo soccorso che possono allertare il personale medico in caso di bisogno. Le persone possono aspettare di smaltire gli effetti di alcol e droga in un ambiente controllato e sicuro" dice Bertoletti. Non significa aiutare le persone a drogarsi: "Tutt’altro: questo approccio permette un primo contatto con i consumatori per iniziare a ragionare sugli aspetti più critici dei loro comportamenti. Se ti poni con atteggiamenti moralistici non ti ascoltano neppure". Spesso si associa il consumo più pericoloso di droga ai rave party illegali, ma rischiano molto anche i consumatori occasionali, soprattutto ragazzi molto giovani che vanno nelle discoteche "normali". Con le cosiddette sostanze sintetiche basta una volta per subire conseguenze molto pesanti. "Sono fatte in strutture clandestini che certo non misurano i componenti come in un laboratorio medico - avverte Riccardo Gatti, direttore del Dipartimento dipendenze delle Asl di Milano. Ci può finire dentro di tutto". "La cosa più pericolosa è che i ragazzi spesso non sanno cosa consumano" conferma il torinese Lorenzo Camoletto, operatore del coordinamento Itardd (Rete italiana riduzione del danno). La maggior parte delle sostanze vengono vendute sotto forma di polvere bianca. Se uno spacciatore ha del Mefedrone (uno stimolante conosciuto anche come "4mmc" o "meow-meow") e tutti gli chiedono l’ecstasy, non ha nessuna difficoltà a dire che quella polvere è proprio ecstasy. Ma i rischi sono molto diversi. "In Spagna, Svizzera e in Nord Europa si fa il "drug checking": nelle discoteche ci sono presidi mobili che permettono di analizzare quello che si prende". Il consumatore può far testare le pasticche e sapere quale principio attivo contengono. "Da un punto di vista legale è una zona grigia. Noi dell’Itardd abbiamo chiesto di autorizzarlo a livello formale, stiamo aspettando una risposta", aggiunge Camoletto. "Ma l’aspetto più complicato è convincere i ragazzi a fidarsi di noi: sono abituati a un sistema di assistenza che li criminalizza. I 17enni non vengono a dire a un adulto "io mi drogo" e quindi non chiedono aiuto". I servizi di riduzione del danno sulle droghe sono ancora pochi in Italia: tra i Comuni che li hanno sperimentati più a lungo c’è Venezia. Regioni come Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Lazio hanno 10-20 presidi mobili. "Così in una città come Torino si riesce a presidiare un locale a settimana - calcola Camoletto. Ne servirebbe uno per ogni zona del divertimento". Giustizia: imprese e legalità, il Sud va sottratto alle mire delle mafie di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2015 Ogni anno, in piena estate, la Svimez diffonde i dati aggiornati sull’economia del Mezzogiorno. Lo ha fatto anche il 30 luglio, indicando per il Sud Italia un tasso di crescita che è metà di quello della Grecia. Da decenni lo storico istituto segnala con le sue cifre l’allargarsi del divario Nord-Sud. Ogni anno la "pratica Svimez" viene chiusa con qualche commento a caldo, gli allarmi di prammatica e i "faremo" di circostanza. Quest’anno non è andata così, ma per un unico motivo: lo scrittore Roberto Saviano ha rilanciato sulla stampa i dati Svimez, ci ha aggiunto le sue riflessioni e le ricette a suo avviso più utili ma, soprattutto, con una garbata lettera aperta a Renzi ha chiesto se e chi farà qualcosa per questa parte del Paese in cui "il lavoro è come nel 1977, le nascite come nel 1860. L’aumento esponenziale dell’emigrazione coinvolge soprattutto i giovani più brillanti". E attenzione, ha aggiunto, "perché è in questo contesto che si ripropongono nostalgie borboniche" dovute all’incapacità del governo e alla non linearità della sua azione". Quanto alle mafie, Saviano ricorre a un "tristissimo paradosso. Dal Sud, caro primo ministro, stanno scappando perfino le mafie: che qui non "investono" ma depredano solo. Portando al Nord e soprattutto all’estero il loro sporco giro d’affari". Saviano è un intellettuale, giovane, meridionale, non è un pezzo di minoranza Pd da tenere a bada o un esponente dell’opposizione da rintuzzare. Ma la reazione del Governo alla sua lettera è stata sbrigativa e tranchant. Renzi ha sbertucciato "i soliti piagnistei" e, in un’intervista non smentita della ministra allo Sviluppo economico, Federica Guidi, si legge: "Non voglio giudicare le parole di Saviano. Il problema non è parlare delle mafie. Stiamo preparando per il Sud una sorta di Piano Marshall da 80 miliardi che partirà dalle infrastrutture". Però subito dopo (non subito prima) la pubblicazione della lettera aperta, si è tenuta una direzione del Pd dedicata al Sud; i ministri si sono messi a studiare il piano Marshall, la stessa Guidi ha annunciato gli Stati generali sul tema; i Governatori delle Regioni interessate (tutti Pd) hanno promesso sfracelli. Irritazioni governative a parte, sarebbe un bene che il Governo non si limitasse a elencare le risorse che intende impiegare per il Sud, ma spiegasse come pensa di sottrarre le medesime alle mafie, alla burocrazia corrotta, alle amministrazioni locali imbelli e agli imprenditori allergici al rispetto delle regole. Magari in questo piano Marshall si intende puntare sulle imprese dotate di rating di legalità? Sarebbe un ottimo passo avanti (se così sarà), anche perché ottenere il "bollino" dalla Calabria o dalla Sicilia non è uno scherzo. Forse verrà rafforzata la possibilità di controllo preventivo sulla realizzazione delle grandi infrastrutture? O ci si limiterà a inaugurare l’ennesima, fasulla emergenza-Mezzogiorno, che bruci ogni passaggio di verifica di legalità? Quando si parla di Sud (e di Italia), è bene rammentarlo, bisogna sempre parlare degli appetiti delle mafie e sempre prevedere come farci i conti anziché lasciarsi sorprendere, anni dopo, dalle manette. Gli appetiti esistono, proprio come quelli della mala politica e sono comprovati gli intrecci tra gli uni e gli altri. Si tratta di tenerne conto non per dire "non si fa nulla", ma - al contrario - per fare le cose meglio in qualità, tempi e costi preventivati. A meno di non voler con pignoleria ripetere ogni singolo errore commesso nei decenni passati. E non è offensivo sentirsi ricordare questi "dettagli": l’inchiesta "Mafia Capitale" compirà un anno a dicembre e molti partiti stanno ancora (solo) tentando di voltare pagina; le primarie e le alleanze elettorali - di nuovo, specie al Sud - sono ferite fresche. E per una Carmela Lanzetta e una Rita Borsellino che rifiutano ruoli in ambienti poco limpidi, ci sono decine di eletti da voti ambigui che collocano centinaia di incompetenti nei posti chiave per drenare fondi pubblici e perdere quelli europei. Questa è la realtà, c’è poco da irritarsi. Anzi, andrebbe ringraziato chi fa le domande giuste, ancorché scomode, proprio perché le critiche producano - finalmente - le risposte efficaci. Come finora non è avvenuto. Giustizia: Marco Pannella in sciopero della fame e della sete sui problemi delle carceri Adnkronos, 10 agosto 2015 Sui problemi della giustizia e delle carceri "sono mobilitato perchè ho fiducia e attendo di poter essere davvero d’aiuto a Mattarella". Lo ha affermato ai microfoni di Radio radicale Marco Pannella, annunciando, che "da ieri sera non bevo, oltre ad aver smesso di nutrirmi". Vicenda Bonino - Marco Pannella lancia un ramoscello d’ulivo a Emma Bonino, dopo il duro scontro delle settimane scorse; lo fa durante una conferenza stampa negli studi di Radio radicale: "Il partito -dice- lo concepiamo come un ordine monacale, con la regola a che ora si mangia, si beve, si prega insieme. Ho cercato di ricordarlo ad Emma come cosa che può aiutare lei e anche me a vivere le difficoltà del presente". "Per me c’è stato semplicemente e c’è questo riflesso, ma anche interesse a sperare da Emma quello che io ritengo di potere aiutarla a compiere, cioè di socializzare le cose che viviamo con le regole, monacali: guarda Emma, per me è prezioso il fatto che praticamente tutte le ore, di notte e di giorno, le vivo con noi, anche materialmente, perchè mi alimenta, mi anima. E quindi anche tu tienilo presente, dobbiamo fare il possibile perchè anche tu possa usufruire, gioire anche di quello che mi applico a vivere per me, per te e per tutti quanti". "Emma, io continuo a muovermi in questo modo, ti devo dire - conclude Pannella - per me è prezioso questo modo di campare il partito, e quindi quello che insisto che probabilmente è necessario aiutarti a condividere momenti così come questi piuttosto che, come accade, dedicarlo, sempre a fin di bene, a un altro tipo di occupazione del tempo". Giustizia: morti in carcere; per il caso Lonzi nuova archiviazione. La madre "non mollo" di David Evangelisti Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2015 Il 29enne morì nel 2003 in carcere a Livorno: la causa, secondo le indagini archiviate del 2004 e del 2010, fu "un infarto". Ma per la madre Maria Ciuffi è stato un pestaggio a ucciderlo. Ora niente rinvio a giudizio per il medico legale che effettuò l’autopsia. Disposti però nuovi approfondimenti per i due dottori del carcere. Ancora un’archiviazione nella storia del caso Lonzi, il 29enne morto l’11 luglio 2003 all’interno della casa circondariale "Le Sughere" di Livorno. Secondo le inchieste archiviate del 2004 e il 2010, il giovane sarebbe deceduto a seguito di un infarto, ma per la madre è stato "picchiato a sangue dalle guardie carcerarie". Nel maggio 2013 Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, presentò un esposto ai carabinieri di Pisa per chiedere di far luce sulle operazioni di soccorso e sull’esame autoptico: nel mirino il medico legale Alessandro Bassi Luciani che effettuò l’autopsia e i due dottori del carcere Gaspare Orlando e Enrico Martellini, da lei accusati di "fatali imperizie e innumerevoli omissioni". Secondo Ciuffi l’operato di Bassi Luciani - si legge negli atti - avrebbe "reso estremamente difficile o impedito la ricerca della verità da parte delle autorità inquirenti". Il gip del tribunale di Livorno Beatrice Dani, spiega Ciuffi a ilfattoquotidiano.it, ha però deciso di accogliere la richiesta del pm Antonio Di Bugno di archiviare la posizione del medico legale. Disposte invece ulteriori indagini per far luce sulle operazioni di soccorso: "Saranno sentite altre persone: si vuol capire ad esempio se fosse presente o meno un defibrillatore". La 63enne non è disposta a fare alcun passo indietro: "Un’altra delusione, ma non mollo. Sono 12 anni che lotto, ho diritto a un processo per far davvero luce su quanto avvenne quella maledetta notte in carcere". La donna tira nuovamente in ballo le foto choc del cadavere del figlio, che lo scorso novembre espose pure davanti alla Camera: "Come si può dire che Marcello sia morto per cause naturali? Otto costole rotte, due buchi in testa, il polso sinistro, lo sterno e la mandibola fratturata: a ridurlo così furono le guardie. Venne pestato". La decisione del gip è arrivata dopo che nel marzo 2014 vennero respinte le richieste d’archiviazione avanzate dal pm e dopo aver disposto nuove indagini. La madre di Lonzi non si dà pace e punta ancora il dito contro Bassi Luciani: "Al termine dell’autopsia scrisse che le costole rotte erano due, ma a seguito della riesumazione del cadavere nel 2006 ne individuammo ben otto. E poi non fece alcun accenno al polso rotto. Non ha detto ciò che in realtà vide: ha scritto il falso". Sulle operazioni di soccorso il gip chiede ulteriori approfondimenti: "Mio figlio doveva esser portato subito in ospedale invece lo hanno lasciato per troppo tempo a terra agonizzante: quando è arrivata l’ambulanza era già morto". Lonzi, allora 29enne con problemi di tossicodipendenza, era entrato in carcere il 1 marzo 2003 per scontare 9 mesi di reclusione per tentato furto: "Venni avvertita della sua morte solo 12 ore più tardi. Quando arrivai in ospedale - prosegue la madre - gli stavano già facendo l’autopsia. Lo rividi solo il giorno successivo nella bara: mi accorsi subito che aveva due buchi in testa e varie escoriazioni". Da quel momento iniziò la battaglia nelle aule giudiziarie. Nel 2004 il gup Rinaldo Merani accoglie la richiesta d’archiviazione nel procedimento aperto a carico di ignoti. Nel 2006 la madre ottiene la riesumazione della salma e l’inchiesta viene riaperta: nel mirino finiscono il compagno di cella Gabriele Ghelardini (l’accusa è omicidio preterintenzionale) e i due agenti penitenziari Alfonso Scuotto e Nicola Giudice (omicidio colposo). Per Ciuffi però arriva un’altra doccia fredda: nel 2010 viene nuovamente disposta l’archiviazione. Le parole del gip Merani sono chiare: "Non ci sono responsabilità di pestaggio del detenuto Lonzi - scrive - né da parte della polizia penitenziaria, né di terzi. Lonzi è morto per un forte infarto". I consulenti tecnici del pm - si legge negli atti - evidenziarono anzi in Lonzi "problematiche di tipo cardiaco". Le fratture costali sarebbero invece "compatibili con le manovre rianimatorie effettuate prima della morte". Nel 2011 la Cassazione nega la riapertura del processo e nel 2012 la Corte di Strasburgo dichiara irricevibile il ricorso. La lotta della madre però va avanti. Ciuffi nei prossimi mesi potrebbe decidere di presentare nuovi esposti. Intanto sulla sua bacheca Facebook posta una delle foto del cadavere del figlio con evidenti ferite alla testa: "Più la guardo, più mi mette forza". Giustizia: figlio in arrivo per la "coppia dell’acido", le tre opzioni e il dilemma del giudice di Elisabetta Andreis e Gianni Santucci Corriere della Sera, 10 agosto 2015 Il Tribunale è chiamato a decidere se crescerà in carcere con la madre, affidato ai nonni oppure adottato. Era mezzogiorno, 29 dicembre 2014, aula del Tribunale; Martina Levato, arrestata poco prima, nella notte, di fronte al giudice e al pubblico ministero Marcello Musso disse: "Sono in stato di gravidanza al primo mese". Sapeva di aspettare un figlio, e lo sapeva anche il suo amante/complice Alexander Boettcher, quando scagliò due contenitori di acido contro il suo ex compagno di liceo, Pietro Barbini, e gli sfregiò il volto. Il fatto che la ragazza, 24 anni, fosse cosciente di essere incinta prima dell’agguato, sarà oggi (8 mesi dopo) un elemento che peserà nella decisione del Tribunale per i minorenni: come tutelare il bambino che nascerà tra qualche giorno? Le possibilità, al momento, sono tre: lasciare il piccolo alla madre e farlo crescere con lei, per i primi anni, in una struttura adeguata; affidarlo ai nonni; o avviare il percorso per una futura adozione da parte di una famiglia del tutto estranea. In realtà, il tema chiave è uno solo: se dovesse rimanere nell’ambito familiare, nonni compresi, quel bambino si troverebbe a crescere con entrambi i genitori in carcere (Boettcher e Levato sono stati condannati in primo grado a 14 anni per l’aggressione a Barbini e dovranno affrontare il giudizio per altri agguati) e in futuro verrebbe a sapere di essere il figlio della "coppia dell’acido". Che effetti avrebbe tutto questo sulla sua psiche, sulla sua formazione, sulla sua vita sociale? E dunque, in ultima analisi, sarebbe più giusto allontanarlo dalla sua famiglia "naturale" per assicurargli un’esistenza al riparo definitivo dalle conseguenze (fosse anche la sola conoscenza) della deriva criminale dei genitori? "L’interesse del bambino viene prima di tutto", spiega Simonetta Bonfiglio, psicoanalista. "La profonda dissociazione, con i crudeli comportamenti dei genitori dettati da disprezzo e violenza verso le loro vittime, e la lunga condanna, non lasciano alcuno spazio perché si sviluppino forme di vicinanza del bambino ai genitori naturali". L’unica ipotesi praticabile, seguendo questo ragionamento, è tagliare ogni legame: "La società - conclude Bonfiglio - attraverso i suoi organi istituzionali si deve fare carico della tutela del bambino e dargli una possibilità di vita senza così pesanti ipoteche". Prima che arrivi la decisione del Tribunale per i minori, il pm Musso e la direttrice del carcere di San Vittore, Gloria Manzelli, ognuno per la propria parte, si stanno occupando della sistemazione di Martina all’uscita dall’ospedale col figlio. Potrebbe andare in un carcere attrezzato, lontano da Milano, o all’Icam, una struttura esterna a San Vittore che ospita madri detenute (anche per reati come l’omicidio) con i loro figli. Tutto questo, in attesa della pronuncia del Tribunale: che, per decidere, potrà basarsi su alcuni punti fermi già stabiliti dall’autorità giudiziaria. Oltre ai 14 anni, come pena accessoria, a Martina e Alexander è stata applicata "l’interdizione legale", con la decadenza della "responsabilità genitoriale". La sentenza però è di primo grado, dunque per questo aspetto non ancora esecutiva. Nel negare alla ragazza gli arresti domiciliari per il parto, i giudici hanno poi spiegato che Martina "non ha mostrato segni di ravvedimento", e che anzi la gravidanza ha rappresentato un fattore determinante dei reati. È stata la Levato stessa a spiegarlo ai periti: "Quando ho pensato di essere madre, dovevo liberarmi da esperienze corporee negative, che non avevo condiviso, ero contaminata, adesso il mio corpo si è liberato". Con l’acido, la coppia voleva cancellare, annientare fisicamente i volti dei ragazzi con cui Martina aveva avuto rapporti. In un secondo rigetto dei domiciliari, il giudice dice che la pericolosità della coppia è legata allo stile di vita, fatto di relazioni sessuali estreme e aperte ad altri, che potrebbero diventare occasione di future "purificazioni" (aggressioni). Questa coppia, questa donna, può allevare un figlio? Secondo lo psicoterapeuta Fulvio Scaparro, "il bambino ha il bisogno immediato di un ambiente che lo accudisca. Se i nonni dessero garanzie, fossero solidali tra loro, sarebbe una possibilità. Ma sembrano separati e divisi, e allora l’unica strada pare essere l’affido a estranei, primo passo per la futura adottabilità". Giustizia: rallenta la corsa dei processi, arretrato sotto quota 3 milioni di Cristiano Dell’Oste, Michela Finizio e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2015 A Locri c’è il record delle cause di lavoro e previdenza in rapporto alla popolazione, più di 30 ogni mille abitanti. A Cagliari quello delle separazioni e dei divorzi giudiziali. A Vallo della Lucania, invece, va il primato per durata dei processi, in media lunghi oltre quattro anni e mezzo. I dati del ministero della Giustizia - elaborati dal Sole 24 Ore del lunedì - ricostruiscono la mappa delle liti in Italia. Dopo anni di difficoltà emerge qualche miglioria nel funzionamento della macchina della giustizia civile, nonostante la durata media delle liti abbia ormai toccato i 796 giorni. Secondo le proiezioni a fine anno - basate sul monitoraggio ministeriale del primo semestre - il 2014 ha registrato un saldo positivo notevole: in pratica, i tribunali civili di primo grado hanno pronunciato 330mila sentenze in più rispetto alle liti che sono state iniziate da cittadini e imprese. Il risultato dipende dal calo delle nuove cause (-4,2% rispetto al 2013) e dall’aumento delle decisioni dei giudici (+3,9%). Come dire: meno liti e più pronunce. "Non esiste una diagnosi certa sulle cause della diminuzione delle iscrizioni - commenta Fabio Bartolomeo, direttore generale delle statistiche del ministero della Giustizia-. Oltre al probabile impatto della crisi sugli scambi e quindi anche sul contenzioso, nel 2014 sono stati introdotti strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, come arbitrato, negoziazione assistita e mediazione, che certamente hanno alleggerito i tribunali". Quello dell’anno scorso, di fatto, è il miglior risultato dal 2008 e porta l’arretrato tendenziale dei tribunali civili al 31 dicembre sotto la soglia dei tre milioni di cause. Un numero di fascicoli ancora imponente, certo, ma che procedendo di questo passo potrebbe essere azzerato in nove anni. Che sono molti, ma rappresentano un passo di smaltimento tre volte più veloce se confrontato con le proiezioni del 2012 e del 2013. Il problema è che la distribuzione dell’arretrato non è uniforme, così come il suo tasso di riduzione. Ad avere il maggior numero di fascicoli pendenti sono Roma (115mila) e Napoli (100mila), ai quali si aggiungono alcuni grandi tribunali del Sud - Foggia, Bari e Catania - e il palazzo di giustizia di Milano: tutti intorno alle 50mila cause di arretrato. I grandi tribunali, però, sono anche quelli che tagliano di più le pendenze in valore assoluto. È il caso di Foggia, che ha il più pesante arretrato in materia previdenziale, ma dove nel 2014 il numero di procedimenti definiti ha nettamente superato quello delle nuove iscrizioni per oltre 28mila pendenze in meno. Situazione analoga a Bari, al secondo posto per smaltimento dell’arretrato, ma quarta nella top ten delle pendenze. "Soprattutto la sezione lavoro - dice il presidente dell’Ordine degli avvocati, Giovanni Stefanì - ha sofferto e soffre forti carenze di organico e il personale di cancelleria è quasi assente". Per far fronte alle difficoltà nascono forme di collaborazione fra magistratura e avvocati. "Stiamo sostenendo - continua Stefanì - alcuni contratti per collaboratori che svolgano attività di cancelleria e segreteria e garantiamo la copertura assicurativa dei lavoratori in mobilità assegnati agli uffici giudiziari". Si tratta dei dipendenti dell’ex Agile ed ex Ois, il cui utilizzo è previsto da una delibera regionale di maggio 2015. Ma le situazioni critiche emergono soprattutto se si osserva quanto pesa l’arretrato rispetto alla popolazione servita. Si scopre così che Patti (Messina), Foggia e Locri (Reggio Calabria) hanno più di 100 cause pendenti ogni mille abitanti: una ogni dieci persone, bambini inclusi. Poche meno a Salerno e Lamezia Terme. A Santa Maria Capua Vetere ha influito anche il riassetto della geografia giudiziaria. "Nel settembre 2013 - spiega l’avvocato Pierluigi Basile, consigliere dell’Ordine - è stato istituito il tribunale di Napoli Nord, in cui è confluito l’agro aversano, area popolosa e delicata dal punto di vista giudiziario. Molto personale ha deciso di spostarsi e qui la situazione si è aggravata: le nuove iscrizioni sono diminuite, ma i vecchi procedimenti sono rimasti". Gli uffici in cui la durata tendenziale dei processi è inferiore sono, nella maggior parte dei casi, i piccoli tribunali del Nord, che beneficiano anche di un ridotto tasso di litigiosità. Tra i migliori non mancano, però, alcune strutture più grandi, come Torino, guidata dal 2001 al 2009 da quel Mario Barbuto che ora è a capo del dipartimento Organizzazione giudiziaria del ministero. O come Ferrara, ai primi posti per "velocità" del procedimento (346 giorni, contro una media di 796). "È un dato legato al calo generale del contenzioso - afferma Piero Giubelli, presidente dell’Ordine degli avvocati di Ferrara - dovuto alla crisi dell’economia locale: i costi di accesso al procedimento sono un disincentivo, così come il rischio di insolvenza della controparte". Gli orientamenti sull’utilizzazione di intercettazioni in diverso procedimento Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2015 Prove - Mezzi di ricerca - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Utilizzazione - in altri procedimenti - Diverso procedimento - Nozione. La nozione di diverso procedimento va ancorata ad un criterio di valutazione sostanzialistico, che prescinde da elementi formali, quale il numero di iscrizione del procedimento nel registro delle notizie di reato, considerandosi decisiva, ai fini dell’individuazione dell’identità dei procedimenti, l’esistenza di una connessione tra il contenuto dell’originaria notizia di reato, per la quale sono state disposte le intercettazioni ed i reati per i quali si procede sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 30 luglio 2015 n. 33598. Prove - Mezzi di ricerca - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Utilizzazione - in altri procedimenti - Diverso procedimento - Nozione. In tema di intercettazione di conversazioni, ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall’articolo 270, comma primo, cod. proc. pen., la nozione sostanziale di "diverso procedimento" va desunta dal dato dell’alterità o non uguaglianza del procedimento instaurato non nell’ambito del medesimo filone investigativo, ma in relazione ad una notizia di reato, che deriva da un fatto storicamente diverso da quello oggetto di indagine nell’ambito di altro, differente, anche se connesso, procedimento. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 13 maggio 2015 n. 19730. Prove - Mezzi di ricerca - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Utilizzazione in altri procedimenti - Nozione di diverso procedimento. In tema di intercettazione di conversazioni, ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall’articolo 270, comma primo, cod. proc. pen., nel concetto di "diverso procedimento" non rientrano le indagini strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato alla cui definizione il mezzo di ricerca della prova viene predisposto, né tale nozione equivale a quella di "diverso reato", sicché la diversità del procedimento deve essere intesa in senso sostanziale, non collegabile al dato puramente formale del numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 18 dicembre 2014 n. 52503. Prove - Mezzi di ricerca - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Utilizzazione in altri procedimenti - Diverso procedimento - Nozione. In tema di intercettazioni di conversazioni, ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall’articolo 270, comma primo, cod. proc. pen., il concetto di "diverso procedimento" va collegato al dato della alterità o non uguaglianza del procedimento, in quanto instaurato in relazione ad una notizia di reato che deriva da un fatto storicamente diverso da quello oggetto di indagine nell’ambito di altro, differente, anche se connesso, procedimento. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 28 dicembre 2012 n. 49930. Prove - Mezzi di ricerca - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Utilizzazione in altri procedimenti - Diverso procedimento - Nozione. In tema di intercettazioni di conversazioni, la nozione di identico procedimento, che esclude l’operatività del divieto di utilizzazione previsto dall’articolo 270 cod. proc. pen., prescinde da elementi formali come il numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato ed impone una valutazione sostanziale, con la conseguenza che il procedimento è considerato identico quando tra il contenuto dell’originaria notizia di reato, alla base dell’autorizzazione, e quello dei reati per cui si procede vi sia una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 27 novembre 2012 n. 46244. Oltraggio a pubblico ufficiale se la frase è decisamente offensiva e non solo critica di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 18 giugno 2015 n. 25903. Il reato di oltraggio a pubblico ufficiale può ritenersi integrato quando siano rivolte al destinatario, in sua presenza e in presenza di più persone, in un luogo pubblico ovvero aperto al pubblico, delle parole o frasi volgari e offensive, sebbene di uso corrente nel linguaggio usato nella società moderna, che assumano una valenza obiettivamente denigratoria di colui il quale esercita la pubblica funzione e non costituiscano espressioni di mera critica, anche accesa, o di villania, e che siano correlate alla funzione pubblica del soggetto passivo. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 25903/2015. Si legge nella decisione che la frase detta deve incidere sul consenso che la pubblica amministrazione deve avere nella società (da queste premesse, la Corte ha escluso il reato, annullando la sentenza di condanna, relativamente alla condotta dell’imputato, il quale, all’atto dell’arrivo di alcuni Carabinieri davanti ad un bar e in presenza di diversi soggetti, aveva profferito l’espressione "ecco, sono arrivati gli sbirri": la Corte ha ritenuto come, dal contesto della vicenda, emergesse che l’ espressione, pur irriverente, si atteggiasse solo a protesta contro l’astratta funzione della polizia e non fosse diretta a ledere i singoli pubblici ufficiali in ragione degli atti che stavano svolgendo). Cosa prevede il codice penale - Affermazione convincente e in linea con la fattispecie incriminatrice dell’articolo 341-bis del Cp, laddove si punisce, a titolo di oltraggio, chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, "offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni". La formulazione della norma, con il disposto collegamento tra l’onore e il prestigio, significa che l’offesa deve pur sempre attingere il proprium della funzione pubblica. Quindi, nonostante l’uso della disgiuntiva ("a causa o nell’esercizio delle sue funzioni"), perché vi possa essere oltraggio non basterebbe una qualsivoglia offesa pronunciata nei confronti del pubblico ufficiale "nell’esercizio delle funzioni" se e in quanto non si tratti di offesa concretamente idonea ad incidere sul prestigio della pubblica funzione. In altri termini, non basterebbe per ravvisare il reato la commissione del fatto nell’atto in cui il pubblico ufficiale esercita la funzione ove l’offesa attinga solo la personalità individuale dell’operante: non basterebbe, cioè, un semplice rapporto di contestualità o di contemporaneità tra l’atto e l’esercizio della funzione, perché sarebbe insussistente l’oltraggio quando il fatto fosse determinato da motivi estranei alle mansioni del soggetto passivo. Si noti che è situazione allora diversa da quanto previsto dall’articolo 61, numero 10, del Cp : infatti, nonostante l’apparente identità della formula letterale, nell’oltraggio vi è il necessario collegamento con la funzione pubblica, che manca nell’aggravante comune, la quale è quindi senz’altro applicabile (si pensi all’ipotesi dell’ingiuria) anche per fatti solo contemporanei all’esercizio della funzione. Occorre la presenza del pubblico ufficiale - Di rilievo poi l’affermazione secondo cui l’offesa deve avvenire anche "in presenza" del pubblico ufficiale: tale requisito, infatti, si deve desumere come necessario implicitamente - mentre l’ipotesi previgente di oltraggio lo richiedeva esplicitamente - dalla previsione che la condotta oltraggiosa, come anticipato, deve avvenire "mentre" il pubblico ufficiale che riceve l’offesa "compie un atto di ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni", in quanto tale contemporaneità resterebbe priva di significato ove l’offesa non fosse immediatamente percepita dal pubblico ufficiale intento a svolgere l’attività d’ufficio. Illegittimi gli avvisi emessi senza l’invito a giustificare i redditi di Francesco Falcone Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2015 L’ufficio che procede alla determinazione sintetica del reddito del contribuente ha l’obbligo di invitarlo per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento. La mancanza di questo invito preventivo basta da sola a rendere nulla la verifica per violazione dell’obbligo generalizzato al contraddittorio endoprocedimentale, senza la necessità che il contribuente fornisca in giudizio le giustificazioni relative al maggior reddito contestato. A dirlo è stata la Ctr Lombardia, sezione distaccata di Brescia (presidente e relatore Montanari) con la sentenza 3417/67/2015 depositata il 20 luglio 2015. Un contribuente ha impugnato un avviso di accertamento sintetico, emesso ai fini Irpef, con il quale l’agenzia delle Entrate gli ha contestato una serie di indici di capacità contributiva (quali fabbricati, autovettura e incrementi patrimoniali) incongrui con il reddito imponibile dichiarato. Il ricorrente, in prima battuta, ha eccepito la violazione del contraddittorio per non essere stato convocato dall’ufficio a fornire giustificazioni, cioè dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento, così come previsto dall’articolo 38, comma 7, del Dpr 600/73. In seconda battuta il contribuente si è difeso anche nel merito facendo rilevare, nello specifico, che i fabbricati erano stati locati, mentre l’autovettura era stata acquistata con provvista fornitagli dal coniuge. Infine, il ricorrente ha fatto rilevare che gli incrementi patrimoniali erano riconducibili al disinvestimento di titoli depositati su una relazione bancaria di cui era cointestatario. La Ctp di Bergamo ha accolto il ricorso ritenendo dimostrata, da parte del contribuente, la coerenza di questi indici di capacità contributiva con il reddito dichiarato. Contro questa decisione ha proposto appello l’agenzia delle Entrate ritenendo, invece, errata la valutazione delle prove effettuata dal giudice di primo grado. La Ctr ha rigettato l’appello e ha dato ragione al contribuente, confermando la sentenza impugnata, ma con diversa motivazione. Infatti, per i giudici di secondo grado, il citato articolo 38 obbliga l’ufficio che procede alla determinazione del reddito complessivo a invitare il contribuente a comparire di persona o per mezzo dei rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento. Questa norma, per la Ctr, è espressione di quell’obbligo generalizzato del contraddittorio endoprocedimentale, che la pubblica amministrazione è obbligata ad attivare ogni qualvolta si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto lesivo e che rende nullo l’atto conseguente al procedimento, in cui non sia stato attivato un tale contraddittorio. Proprio questi principi, per i giudici di secondo grado, sono stati espressi nella sentenza 19667/2014 dalle Sezioni unite della Cassazione che, facendo proprie le conclusioni della giurisprudenza della Corte di giustizia europea, hanno ritenuto che l’omessa attivazione del contraddittorio endoprocedimentale comporta la nullità dell’iscrizione ipotecaria per violazione del diritto alla partecipazione al procedimento. Tale diritto è garantito anche dagli articoli 41, 47, e 48 della Carta dei diritti fondamentali della Unione europea. Abruzzo: Rita Bernardini ineleggibile come Garante dei Detenuti? Faremo ricorso dalla Lista Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi radicali.it, 10 agosto 2015 L’esperta deputata e storica militante radicale Rita Bernardini, che più di chiunque altro in Italia porta quotidianamente all’attenzione della politica e dell’opinione pubblica le condizioni in cui versano le carceri italiane, è stata dichiarata ineleggibile come Garante dei Detenuti abruzzesi. La segretaria di Radicali Italiani ha subito infatti il respingimento della candidatura per via dei suoi precedenti penali dovuti alle azioni di disobbedienza civile per la legalizzazione della cannabis. Le battaglie per i diritti umani e civili diventano così un impedimento per combatterne altre a fianco di chi vive ogni giorno in condizioni disumane. La speranza dei detenuti abruzzesi di vedere la parlamentare (XVI legislatura) soprannominata "Santa Rita delle Carceri" incaricata di vigilare affinché i loro diritti umani fondamentali siano rispettati è stata inghiottita dall’applicazione di una legge proibizionista, che punisce le battaglie antiproibizioniste. Per la legge vigente Rita Bernardini può essere eletta garante nazionale ma non regionale, così come può candidarsi al Parlamento nazionale ed europeo, ma non al consiglio regionale e comunale. Insomma, quando Rita Bernardini disobbedisce coltivando pubblicamente piantine di marijuana sul suo terrazzo nessuno applica la legge per timore che il suo arresto apra un dibattito sulla legalizzazione; ma se la stessa Bernardini si candida a Garante dei Detenuti, immediatamente la legge viene applicata per depennare la sua candidatura. Uno spaccato dell’Italia in cui viviamo, secondo l’avvocato Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi, che ha già annunciato ricorso dichiarando a Radio Radicale: "Riteniamo di dover impugnare questo provvedimento sollevando questioni di legittimità su una legge assurda, che diventa ancor più tale se si considera che l’esclusione non ci sarebbe stata per altro tipo di reati e che le condanne sono state riportate per disobbedienza civile. Abruzzo: Garante per i detenuti, la Uil-Pa Penitenziari ne auspica l’elezione abruzzo24ore.tv, 10 agosto 2015 Tra i punti all’Odg del prossimo Consesso Regionale vi è l’elezione del Garante per i diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. Tale appuntamento- afferma Mauro Nardella, Segretario Regionale Uil penitenziari Abruzzo F.F.- arrivato con molto ritardo rispetto alle restanti regioni italiane e programmato grazie anche e soprattutto all’inesorabile opera di persuasione portata avanti con il suo Satyagraha da Ariberto Grifoni, storico rappresentante dei radicali italiani, potrebbe vedere in martedì il suo tanto auspicato culmine. La Uil Penitenziari con una lettera inviata al presidente del Consiglio regionale Giuseppe Di Pangrazio e ai relativi consiglieri, ha esortato i rappresentanti della Regione dei parchi a far si che l’appuntamento di martedì prossimo non venga sprecato e che porti alla designazione di questa figura essenziale per il mantenimento degli equilibri all’interno delle carceri abruzzesi. Dispiace - commenta Nardella - non poter contare sulla preziosa esperienza dell’attuale segretario dei radicali italiani Rita Bernardini e con la quale la Uil Penitenziari Abruzzo si è sempre positivamente confrontata nelle sue numerose visite effettuate nei nostri penitenziari. Tuttavia non da meno è la posizione assunta da Ariberto Grifoni anch’egli sempre molto vicino alle vicissitudini di tutti coloro che nel carcere devono vivere e che di carcere vivono e la cui possibile elezione non potrà che rappresentarne una sicura quanto elegante continuità. Garantire i diritti ai detenuti anche attraverso l’avvento di questa importante figura - chiosa Nardella - significherà avere meno problemi all’interno delle istituzioni carcerarie, ovvero meno eventi critici e con essi notevoli miglioramenti per il personale deputato alla loro custodia e al loro reinserimento. A Settembre il direttivo regionale si riunirà nuovamente per stilare un documento che sarà presentato il7 ottobre p.v. Nel direttivo nazionale che si terrà nei giorni 6-7 e 8 di ottobre presso la scuola di formazione in quel di Verbania. Nel direttivo Nazionale la Uil Penitenziari Abruzzo, unica ad essere stata invitata alla conferenza internazionale sui diritti umani e sulla conoscenza e che si terrà lunedì 27 luglio presso il palazzo del Senato a Roma ed alla quale parteciperanno numerosi ministri provenienti da tutto il mondo, relazionerà su quanto emergerà in quell’occasione. A tal proposito un particolare ringraziamento - chiosa Nardella - va ad Ariberto Grifoni del partito radicale e candidato a ricoprire il posto quale garante dei detenuti in Abruzzo. Questo invito rappresenta, evidentemente, il giusto premio per chi come i componenti della Uil Penitenziari hanno saputo divulgare circa il vissuto all’interno dei penitenziari abruzzesi Pordenone: morto in carcere a 29 anni, la Procura ha aperto inchiesta e disposto autopsia di Piero Tallandini La Nuova Venezia, 10 agosto 2015 Una madre che chiede chiarezza, decisa a non rassegnarsi alla morte di un figlio che, a 29 anni, non aveva mai manifestato problematiche di natura cardiaca. É caccia alla verità sulle cause del decesso del portogruarese Stefano Borriello. Si trovava in custodia cautelare nel carcere di Pordenone e ha cessato di vivere venerdì sera nell’ospedale del capoluogo. Borriello era stato appena trasportato in ambulanza nel nosocomio. L’intervento in carcere del personale del 118 era stato chiesto verso le 20. Il 29enne, venerdì sera, si trovava in cella con altri tre detenuti: sarebbero stati proprio loro i primi a soccorrerlo assieme al personale di sorveglianza del carcere. Cosa era successo? Un improvviso malore, in seguito al quale a Borriello sono stati prestati nel giro di pochi minuti i primi soccorsi. Poi il giovane è stato trasportato d’urgenza al Santa Maria degli Angeli. Poco dopo il suo arrivo all’ospedale, le sue condizioni sono rapidamente peggiorate: è stato colto da un nuovo attacco cardiaco e questa volta il suo cuore non ha retto. Questa è la ricostruzione ufficiosa emersa venerdì sera e attualmente al vaglio della magistratura che sta esaminando gli atti fin qui disponibili. Ieri il sostituto procuratore Matteo Campagnaro, che ha delegato per gli accertamenti la polizia penitenziaria, ha disposto l’autopsia: l’incarico è stato conferito a Renzo Fiorentino e domattina, subito dopo il giuramento, cominceranno le operazioni peritali. Ci sarà anche un consulente di parte. Sì, perché ieri la madre di Stefano si è rivolta all’avvocato Daniela Lizzi, del foro di Udine, che nominerà il dottor Vincenzo De Leo. "Grazie all’autopsia sarà possibile vagliare tutte le possibilità e verificare l’eventuale presenza di ecchimosi sul corpo" ha sottolineato ieri l’avvocato Lizzi, "in questo momento non mi sento di formulare ipotesi. Dico solto che l’autopsia potrà fornire da subito indicazioni chiare. Il pubblico ministero sta raccogliendo quante più informazioni possibile e lo stesso intendiamo fare noi". "Che io sappia, a Stefano non erano stati diagnosticati in passato problemi cardiaci", ha aggiunto l’avvocato, "è vero che la sua storia personale era stata segnata da problemi di tossicodipendenza, ma le sue condizioni di salute erano buone. Io l’ho sentito l’ultima volta il 27 luglio. Naturalmente la detenzione gli pesava, ma non mi era apparso affatto depresso e non mi aveva parlato di problemi particolari circa l’ambiente carcerario. Tantomeno aveva segnalato di essere mai stato maltrattato". Tornando all’autopsia, in base alle risultanze dell’esame necroscopico la magistratura deciderà l’opportunità di eventuali accertamenti anche sulle condizioni della cella. I locali in cui si trovano i detenuti a Pordenone non sono climatizzati. Borriello era in custodia cautelare per rapina aggravata. L’accusa era di essersi reso protagonista di una rapina con aggressione ai danni di un 86enne assieme a un altro portogruarese, il 46enne Adriano Ferrari, anch’egli identificato e portato dietro le sbarre. Pordenone: Franco Corleone "un carcere che fa schifo, in Friuli è maglia nera" di Enri Lisetto Messaggero Veneto, 10 agosto 2015 L’ex sottosegretario alla Giustizia Corleone sul carcere di Pordenone: "Posti 38, presenze 64: uno schifo". E sul malore fatale a Borriello: "Un defibrillatore dovrebbe essere obbligatorio". "Il carcere fa schifo". Non usa giri di parole, l’ex sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone, oggi garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana. "Quello di Pordenone lo conosco bene ed è adatto per altri scopi. Ho visitato il carcere di Udine il 6 agosto, dove ho appreso che la maglia nera delle strutture circondariali del Friuli Venezia Giulia la detiene Pordenone, un istituto sovraffollato". Ha i numeri? "Capienza 38 unità, presenti 64, di cui 24 stranieri. È un luogo inadatto per qualunque condizione accettabile di vita". Da oltre vent’anni si discute del nuovo carcere. "Purtroppo per responsabilità di molti. Vent’anni fa, quando ero sottosegretario, l’amministrazione comunale, leghista se non ricordo male, non trovava un sito adatto. Poi era spuntata l’ipotesi San Vito al Tagliamento, quindi di nuovo Pordenone, oggi si torna a San Vito. Di tempo, intanto, ne è passato molto e il problema è rimasto tale". La situazione si avvia a soluzione, pare. "L’impegno del Provveditore regionale Enrico Sbriglia è di realizzare un luogo diverso, il primo carcere con uno spazio verde, innovativo". Diversi governi hanno messo mano a "svuota-carceri". "Penso alla legislazione sulla droga. Tutti, a parole, dicono che la "correzione" deve avvenire altrove". A parole, appunto. "Occorre decidere se si vuole continuare con una politica sulle droghe fallimentare: dopo otto anni di Fini-Giovanardi siamo tornati alla Jervolino-Vassalli, varata quando al governo c’era Craxi". Negli Usa c’è stata la svolta. "Adesso, per primo Obama dichiara il disastro delle carceri americane e ha commutato la pena a un certo numero di detenuti". E in Italia? "Abbiamo un dipartimento delle politiche antidroga senza direzione politica. La relazione annuale è ferma da fine giugno. Il governo è impegnato a preparare la conferenza nazionale sulle droghe che si terrà tra gennaio e febbraio del prossimo anno. Il ministro Orlando ha messo in piedi gli stati generali sulle carceri con 18 tavoli tematici, ma i nodi sono tanti". Nessun passo avanti? "Il sovraffollamento si è ridotto da 70 a 52 mila detenuti. Il problema è la qualità della vita, quali opportunità alternative si possono fornire a certe persone". Veniamo al caso del detenuto colto da malore in cella e morto al pronto soccorso. "Non so se il sistema sanitario sia adeguato, un defibrillatore dovrebbe essere obbligatorio. Il vero problema è che in carcere muoiono in troppi e troppo giovani. Il carcere è fatto di suicidi e tentati suicidi. E di morti naturali, che sono tante. Questo pone il problema della salute e del servizio sanitario. A Udine, le visite del Sert avvengono una volta alla settimana. Da un anno e otto mesi il servizio sanitario è passato alla Regione: forse è il momento di fare un check. Verificare lo stato di salute dei detenuti sarebbe opportuno e indispensabile". E anche degli ambienti? "Beh, è risaputo che il carcere di Pordenone, inteso come struttura, fa schifo. Quell’edificio andrebbe recuperato per scopi culturali. L’ho visitato, le celle sono invivibili, ricordo bene eccome. Ma in molte carceri l’estate è terribile, c’è un caldo infernale, non ci sono attività. La vita diventa ancora più pesante. A Santa Maria Capua Vetere o San Gimignano, manca addirittura l’acqua. Siamo alle questioni basilari per garantire la vita". È grave... "I detenuti sono persone e i loro corpi sono nelle mani dello Stato, che ha una grande responsabilità. Anche se la morte del giovane di Pordenone non dovesse risultare riconducibile a responsabilità precise, ci sono responsabilità oggettive. L’amministrazione deve decidere di fare il nuovo carcere, la Regione ha competenza sulla sanità interna". E la custodia cautelare? "Non vorrei fosse utilizzata sempre meno per i potenti e a man bassa per i poveracci. Non si tratta di fare un’altra riforma, ma di applicare la misura quando davvero non ci sono alternative. Altrimenti la giustizia diventa classista". Vi è poi una questione di sensibilità: si sente dire che il carcere non è un grand hotel. "Si rifletta sul perché papa Francesco visita molte case circondariali, in Italia e all’estero. Sono luoghi in cui bisogna fare i conti sulla nostra umanità e civiltà. Questa società è civile o no?". Reggio Emilia: internato dell’Opg ferisce i genitori e sei agenti La Gazzetta di Reggio, 10 agosto 2015 La violenta reazione dell’uomo durante un colloquio. L’allarme dei sindacato della penitenziaria: "Siamo in pochi". Ha aggredito il padre e la madre con calci e pugni, poi si è rivoltato contro gli agenti della polizia penitenziaria che sono intervenuti per bloccarlo. È finita che oltre ai genitori, a rimanere feriti sono stati sei agenti. La notizia della violento episodio arriva dall’Opg. Il protagonista è un giovane internato, non nuovo purtroppo a reazioni violente. Una situazione difficile, di sofferenza umana non solo del giovane ma anche della sua famiglia e che fa emergere, una volta di più, anche le difficili condizioni in cui la polizia penitenziaria si trova a operare, nonostante il percorso verso la chiusura degli Opg sia avviata da mesi e il numero degli internati stia via via calando. A denunciare l’accaduto è il sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), attraverso la segreteria provinciale. Spiega Mario Tafuto: "Il soggetto internato non è nuovo a questo tipo di comportamenti, tant’è che il Sappe da tempo chiede che questi soggetti possano essere contenuti ai sensi dell’articolo 41 del Dpr 230 del 2000 per prevenire ed impedire simili aggressioni e per la salvaguardia stessa dell’incolumità del ricoverato. Invece, quando si verificano queste situazioni non sappiamo come fare a intervenire. Cerchiamo di contenerle, ma questa volta sono stati sei gli agenti che ci hanno rimesso". Tafuto e il Sappe puntano il dito contro la mancanza di video sorveglianza e misure antiscavalcamento, importanti quando ad esempio gli internati sono a colloquio con le famiglia. Come nel caso del giovane che venerdì ha aggredito i genitori che lo avevano incontrato. Mentre con cinque dei sei agenti che avranno bisogno di ulteriori cure, e dunque di giorni di malattia durante i quali saranno costretti ad assentarsi dal lavoro, una volta in più emerge il problema di un organico non adeguato alle esigenze della struttura. "Questi sono eventi che aggravano e alimentano la gravissima carenza di personale già segnalata - spiega il sindacalista - Quella di quatto commissari, undici ispettori, undici sovrintendenti e almeno venti agenti assistenti". Ora, tra ferie e giorni di malattia toccherà fare degli straordinari. "O avere un solo agente al posto di due in alcune situazioni, a rischio della sicurezza" fa notare Tafuto. Da quando è iniziato il percorso per la chiusura degli Opg, sono molto diminuiti gli internati nella struttura di via Settembrini: attualmente, ci sono 75 persone ristrette. Questo, perchè gli internati sono stati dirottati verso le Rems (le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) regionali. Resta il problema delle Regioni che sono in ritardo nella realizzazione di questi luoghi (come il Veneto) e quindi i relativi internati ancora devono restare a Reggio. E restano coloro che hanno una situazione clinica, e di pericolosità, per cui necessitano non solo di una struttura con personale medico, ma anche di sicurezza. Napoli: contratto con l’azienda scaduto, niente braccialetto e il detenuto torna in cella di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 10 agosto 2015 Manca il braccialetto elettronico, una compagnia telefonica segnala al magistrato la sua "assoluta indisponibilità a gestire lo strumento di controllo, raggiunta la soglia contrattuale massima": e il detenuto torna in cella. Niente domiciliari, che pure erano stati accordati dall’autorità giudiziaria al termine di un confronto tra le parti dinanzi a un giudice; niente affievolimento della misura cautelare (che avrebbe garantito anche una sorta di alleggerimento del penitenziario), ed ecco che un indagato in attesa di giudizio fa ritorno in cella. Si chiama Raffaele Allegretto, è accusato di rapina, finisce sotto inchiesta dalla Procura di Firenze, ottiene gli arresti domiciliari, che gli vengono revocati causa carenze oggettive che non dipendono dalla sua condotta. In sintesi, non ha violato gli obblighi che gli erano stati imposti quando era stato messo ai domiciliari, non ha commesso reati, né ha provato ad eludere o offuscare il segnale elettronico che lo monitorava giorno e notte. No, non ha fatto niente per meritare un ritorno in cella, secondo quanto emerge dal dispositivo del gip del Tribunale di Firenze. Difeso dal penalista Giampaolo Galloro, il presunto rapinatore si vede annullato così un beneficio di fronte a una segnalazione della compagnia telefonica al commissariato del Vasto Arenaccia, causa scadenza del contratto che regola la gestione del braccialetto elettronico. Ma ecco come riassume il gip fiorentino appena pochi giorni fa, facendo marcia indietro rispetto a quanto era stato stabilito dallo stesso ufficio del Tribunale di Firenze: "Rilevato che lo stesso gip, in data 13 luglio 2015, ha sostituito la misura originariamente applicata (il carcere, ndr) con quella dei domiciliari, però sotto stretta e subordinata condizione di concreta possibilità di applicazione al predetto del cosiddetto braccialetto elettronico e previa verifica di disponibilità di tale strumento e condizioni tecniche di fattibilità (condizione questa strettamente connessa al dato che il predetto è indagato di ben tre rapine a mano armata, con arma comune da sparo e ha gravi e specifici precedenti); rilevato che c’è il concreto e attuale rischio che egli commetta fatti della stessa specie anche con uso di mezzi di violenza verso le persone, senza questo strumento di controllo l’indagato potrebbe facilmente approfittare dei saltuari controlli di pg per uscire dal domicilio e reiterare le gravi condotte". Quindi? Nonostante tutto ciò, il giudice è costretto a revocare la misura dei domiciliari, dopo una segnalazione arrivata da Napoli: "Vi è comunicazione del gestore telefonico, che comunica l’assoluta indisponibilità dello strumento di controllo a seguito del raggiungimento della soglia contrattuale massima". Raggiunti i limiti contrattuali, fine del bip bip elettronico, quanto basta a tenere alto il dibattito napoletano sulla efficacia del congegno elettronico nato per offrire alternative all’affollamento delle celle. Immigrazione: l’Europa in ordine sparso di Stefano Stefanini La Stampa, 10 agosto 2015 Si può accusare la Germania di tutto (ultimamente è di moda): non di chiudersi a riccio all’immigrazione o di essere insensibile al dramma dei rifugiati. È il Paese europeo che ne ha accolti di più negli ultimi decenni. A Bruxelles, nei mesi scorsi, è stata una delle poche voci a sostegno delle quote proposte da Juncker e fortemente caldeggiate dall’Italia. Se oggi Angela Markel avverte la necessità di mettere le mani avanti sui clandestini in arrivo dalla via balcanica, non sta manifestando un’improvvisa nuova rigidità tedesca. Sta suonando un campanello d’allarme. L’Europa farebbe bene a non ignorarlo. Dietro la presa di posizione del Cancelliere tedesco s’intravedono due ordini di problemi. Il primo, oggettivo: l’aumento di flussi immigratori via terra che per loro natura sono più difficili da controllare. Gli sbarchi dal mare sono sicuramente più massicci e drammatici, ma offrono al Paese d’arrivo affidabili valvole di scrutinio e vaglio delle entrate (a condizione di usarle). Sappiamo quanti arrivano a Lampedusa, Malta e in Sicilia, e volendo chi; non sappiamo quanti passano attraverso in confini sloveni, austriaci, ungheresi, per poi sparire nei meandri della clandestinità senza frontiere all’interno dell’Unione Europea. T 1 secondo problema è psicologico. I Merkel è troppo in sintonia con gli umori profondi dei cittadini tedeschi per non avvertirne le paure di fronte a un fenomeno che appare loro irresistibile e ingestibile al tempo stesso. Che le paure siano ragionevoli o meno non conta. Sono le stesse che dettano le reazioni di Cameron ai disperati tentativi di forzare il tunnel della Manica o la recinzione dell’Ungheria da parte di Orban. È troppo facile liquidare le une o l’altra come cedimenti al populismo anti-europeo della galassia di movimenti che cavalcano la tigre immigratoria. La libera circolazione attraverso le frontiere è uno dei grandi successi dell’integrazione europea. Le frontiere non sono più barriere, ma individuano ancora distinte realtà nazionali; ma se diventano un colabrodo per flussi clandestini non voluti e non controllati, l’inevitabile conseguenza sarà il risorgere dei confini-barriera. L’immigrazione in Europa è ancora più che gestibile per quantità d’ingressi. I numeri sono risibili rispetto ai rifugiati in Libano, Turchia e Giordania; gli Stati Uniti hanno milioni di clandestini. È lo spettro di un’ondata di piena - da Sud, da Est - ad essere psicologicamente e politicamente dirompente. Nessun Paese europeo - lo dimostra proprio la Germania, Paese d’immigrazione - può permettersi d’ignorarlo, pena il regalare i prossimi governi e Parlamenti ai partiti anti-europei. Il rischio è che nell’affrontare il problema ciascuno proceda in ordine sparso, cercando di alleggerirsene e di scaricare sugli altri oneri e responsabilità. Paesi di transito contro Paesi d’ingresso, Paesi di destinazione contro Paesi di transito, Paesi di sbarco contro Paesi di arrivo terrestre. L’ordine sparso sull’immigrazione mina alla radice l’integrazione europea. 0 si creano condizioni uniformi di filtro, accoglienza e respingimento in tutti i Paesi dell’Unione, in modo che rifugiati e migranti abbiano analogo trattamento e simili possibilità dovunque approdino nell’Ue, o l’Europa sarà costretta a fare marcia indietro ad affidarsi a soluzioni nazionali scarsamente compatibili fra loro. Occorre un minimo comun denominatore immigratorio europeo. In assenza verrà meno la fiducia dei cittadini europei nella loro Unione. Questa oggi la sfida principale per l’Unione Europea; forse più del debito greco, più della crisi ucraina. Bruxelles deve essere pronta a distogliere le risorse necessarie da altri impieghi che non abbiano, in questo momento, lo stesso grado d’urgenza e di priorità. Una politica europea sull’immigrazione si fa con fatti, risorse umane e fondi, non con dichiarazioni e parole. Altrimenti prolifereranno i tentativi di soluzioni nazionali. Immigrazione: in arrivo i riconoscimenti lampo per i richiedenti asilo di Silvia Barocci Il Messaggero, 10 agosto 2015 A settembre via alle nuove procedure per l’identificazione dei richiedenti asilo. Diversa distribuzione dei centri tra Nord e Sud. Resta sul tavolo del ministro Orlando la delega sull’abolizione del reato di clandestinità; c’è tempo fino a ottobre per decidere. Richieste di asilo definite con la massima velocità (massimo un mese conto gli attuali 6-7) e nuove regole per i centri d’accoglienza suddivisi in "hotspot", "hub aperti" e "hub chiusi". Partirà tra settembre e ottobre la rinnovata geografia italiana dei luoghi in cui ospitare i disperati che sbarcano sulle nostre coste. Tutto avverrà in contemporanea al varo definitivo da parte del Parlamento europeo della nuova agenda Juncker sull’immigrazione. Al Viminale, dove con preoccupazione hanno conteggiato l’ennesimo sbarco, ieri, al porto di Vibo Valentia, di altre 316 persone, sono certi che la nuova rete di accoglienza non partirà se non sarà definitiva la ricollocazione in altri Paesi Ue di 24mila richiedenti asilo già presenti in Italia. D’altronde, proprio in questi giorni è stata raggiunta quota 100mila migranti sbarcati dall’inizio dell’anno. E senza una soluzione politica di condivisione europea del problema, qualsiasi accelerazione italiana sulle domande d’asilo rischierebbe di trasformarsi in un "boomerang". Mentre il Dipartimento immigrazione guidato dal prefetto Mario Morcone si prepara all’imminente rivoluzione nella rete dell’accoglienza, la polemica aperta da Beppe Grillo contro i permessi umanitari "concessi in massa" offre da un lato l’inedita saldatura tra M5s-Lega, dall’altro induce il governo a replicare. Innanzitutto sul reato di immigrazione clandestina, la cui abolizione fu proposta proprio da un pentastellato, il senatore Maurizio Buccarella, con un emendamento al ddl e sulle misure detentive non carcerarie. Il testo è diventato legge, ma il ministro della Giustizia Orlando non ha ancora esercitato la delega: può farlo fino prossimo ottobre per farlo, nel frattempo il reato resta sempre in vigore. Ma i tecnici del Viminale non hanno tempo per stare dietro alle polemiche. E così, qualche giorno fa, in uno dei cinque "hotspot" preposti all’identificazione degli stranieri che approdano sulle coste di Sicilia, Calabria e Puglia, c’è stata la simulazione delle nuove procedure europee recepite dall’Italia. Presso l’"hotspot" di Pozzallo, presenti alcuni funzionari internazionali, sono state testate le nuove regole europee. A Pozzallo, come ad Augusta, Trapani, Lampedusa e Taranto, è previsto che i migranti restino 48 ore per l’identificazione e la prima assistenza. La seconda tappa sono gli "hub", grandi centri di smistamento divisi in "aperti" o "chiusi". In questi ultimi, collocati alle spalle dei 5 "hotspot", sono destinati coloro che rifiutano di farsi identificare o che non hanno i requisiti per l’asilo. Da qui gli irregolari vengono trasferiti in uno dei cinque ex Cie (Torino, Roma, Bari, Caltanissetta e Taranto) per poi essere espulsi. Negli "hub aperti", invece, saranno accolti i richiedenti asilo in attesa che una delle 40 Commissioni del Viminale decida il più celermente possibile (massimo un mese) sulle domande. Si tratta di ex Cara o Sprar sparsi in tutta Italia. Ma con gli arrivi in massa c’è bisogno di posti. Per questo il ministro dell’Interno ha firmato un bando di gara per 10mila posti straordinari. Immigrazione: reato di clandestinità, Forza Italia attacca Grillo e Salvini Il Mattino, 10 agosto 2015 "La politica giusta e severa è da sempre quella indicata in tutti questi anni dal centrodestra" Malan: "Gli italiani non sono dei fessi". Gasparri: "Proprio il M5S aveva voluto l’abolizione della norma questo ripensamento è ridicolo". Non si placa la polemica sugli immigrati dopo il doppio assist di Beppe Grillo e Matteo Salvini che invocano la linea dura contro l’emergenza sbarchi. Ma Forza Italia non ci sta a cedere al Carroccio e ai Cinquestelle l’arma della protesta anti-immigrati e attacca. "Confido nel fatto che la Lega di Salvini sappia riconoscere l’autentico dal tarocco : Grillo è decisamente un Ogm venuto male" tuona Daniela Santanchè. Maurizio Gasparri e Lucio Malan tentano l’affondo: ripristinare il reato di immigrazione clandestina, la cui abolizione era stata voluta proprio dal Movimento 5 Stelle. "Il ripensamento estivo di Grillo tra uno yacht e una spiaggia è assolutamente ridicolo. Bisogna difendere le leggi fatte dal centrodestra e da Berlusconi", attacca il vicepresidente del Senato che prende di mira Grillo: "I pentimenti estivi di qualche pagliaccio non ci smuovono. La politica giusta e severa è da sempre quella indicata in tutti questi anni dal centrodestra". Anche Malan lo segue: "Ben detto. Per avere il minimo di strumenti necessari a combattere l’immigrazione clandestina bisogna ripristinare il reato specifico, cancellato con il voto del PD e proprio del M5S di Beppe Grillo, che ora cerca di far dimenticare quel voto. Grillo - aggiunge -pensa di infinocchiare gli elettori, ma gli italiani non sono fessi". Il reato di immigrazione clandestina, tuttavia, non risulta ancora abrogato: a tutti gli effetti è ancora in vigore non essendo mai stata esercitata dal governo la delega che il Parlamento gli ha assegnato a cancellarlo. Il provvedimento, per mettere a punto il quale erano stati concessi al governo 18 mesi (la legge venne pubblicata in G.U. il 5 maggio 2014 e quindi la delega scade a ottobre), sarebbe da tempo sul tavolo del Guardasigilli Orlando ma, ad oggi, lì è rimasto. Ad opporsi al via libera, mormorano le voci di Palazzo, sarebbe il Nuovo Centro Destra che giudicherebbe molto impopolare il varo di una misura del genere proprio nel bel mezzo dell’emergenza sbarchi. E non si vorrebbe offrire anche a Salvini "altro materiale di propaganda". Mentre la polemica divampa i Cinque Stelle si difendono. Il senatore grillino Maurizio Buccarella, autore dell’ emendamento che ha proposto nel 2014 l’abrogazione del reato di immigrazione clandestina, conferma lo stop del governo e precisa: "Nessun pentimento, quello che ho fatto lo rifarei anche perché la mia posizione è stata confermata a grande maggioranza da un referendum in rete degli elettori M5S". Si riferisce, Buccarella, al referendum indetto sul blog da Grillo che in occasione dell’approvazione, a sorpresa, dell’emendamento M5S, era andato su tutte le furie. Droghe: muore davanti a un discoteca di Lecce, 19enne trovato agonizzante Il Messaggero, 10 agosto 2015 Un giovane di 19 anni, Lorenzo Toma, è morto in Salento in ospedale dopo una serata trascorsa in discoteca. L’allarme è stato dato alle sei e trenta di questa mattina quando qualcuno ha telefonato ai carabinieri segnalando la presenza di un giovane che si sentiva male davanti alla discoteca Guendalina a Santa Cesarea Terme (Lecce). Aveva bevuto poco prima una bibita ghiacciata e, subito dopo essere uscito dalla discoteca, si è accasciato ed è morto. È successo nella notte a Santa Cesarea Terme, in provincia di Lecce, davanti al Guendalina. La vittima era insieme ad alcuni amici. Sul posto sono accorse due ambulanze del 118 il cui personale ha praticato varie manovre di rianimazione per un’ora circa, ma per il giovane non c’è stato nulla da fare. Sono intervenuti il magistrato di turno, i carabinieri e la polizia. La salma del giovane è stata portata a Lecce. Il Prefetto di Lecce, Claudio Palomba, ha convocato per lunedì alle 13 in Prefettura a Lecce una riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. La scorsa settimana, in una riunione del comitato, si era discusso delle iniziative di prevenzione per evitare tragedie nelle discoteche, dopo quella al Cocorico di Riccione, tra le quali eventuali sanzioni commisurate al curriculum pregresso dei locali. I carabinieri sono tornati in queste ore all’interno del Guendalina. I militari stanno cercando una bottiglia dalla quale il giovane avrebbe ingerito una bevanda, per poi sentirsi male pochi istanti dopo. Unica testimone al momento della tragedia è stata un’amica del giovane che ha riferito ai carabinieri del nesso tra l’assunzione del liquido ingerito dalla bottiglia che il giovane aveva in mano e il malore accusato dallo studente. Il giovane era arrivato in discoteca insieme a tre amici. La salma di Lorenzo Toma è stata trasferita all’obitorio dell’ ospedale Vito Fazzi di Lecce in attesa del conferimento dell’incarico per l’autopsia al medico legale da parte del magistrato inquirente, il pm Stefania Mininni. "Sono ancora stordito, non riesco a capire cosa sia successo veramente. Un ragazzo che stava ballando si è sentito male, è caduto a terra, abbiamo provato a soccorrerlo, a fargli il massaggio cardiaco, la respirazione bocca a bocca, perché le autoambulanze non arrivavano, è arrivata dopo 40 minuti e il ragazzo è morto". Lo ha detto a Radio Capital Vincenzo De Robertis, manager del Guendalina di Santa Cesarea, la discoteca davanti alla quale è morto un ragazzo di 19 anni. "A oggi non si può dire che è morto per motivi di droga - ha aggiunto - lo sapremo dopo l’autopsia". "Se le famiglie esercitassero un po’ più di controllo sui figli non morirebbe un 18enne la settimana in disco. Se non sai educare non procreare". Lo ha scritto sul suo profilo Twitter Francesco Errico, sindaco di Gallipoli, uno dei centri della movida salentina, riferendosi alla tragedia di Santa Cesarea Terme. "Un’altra morte in discoteca che mette ancora più in risalto, dopo il caso del Cocoricò di Riccione, la necessità impellente di un giro di vite nelle discoteche italiane e nei locali della movida". Lo sostiene in una nota il Codacons, intervenendo sulla tragedia del 19enne deceduto dopo una serata in un locale di Santa Cesarea Terme Lecce). "In attesa che siano chiarite le cause del decesso - afferma in una nota il presidente del Codacons, Carlo Rienzi - è indispensabile incrementare i controlli nelle discoteche punendo severamente le violazioni delle norme di sicurezza e adottando provvedimenti severi in caso di spaccio di droghe all’interno dei locali. È intollerabile che ragazzi giovanissimi muoiano per una serata in discoteca, e se saranno accertate responsabilità del locale teatro della disgrazia, chiederemo come per il Cocoricò la chiusura immediata della struttura". "Occorre implementare gli sforzi tesi a prevenire e reprimere qualsiasi condizione potenzialmente pericolosa per i soggetti che frequentano le discoteche con particolare riguardo ai giovani". Lo afferma il segretario del Silp Cgil, Daniele Tissone. I giovani, per Tissone, sono "soggetti deboli di una società che non riesce a proteggere tali fasce e che, solo al verificarsi di situazioni come quelle di questi giorni, pensa di risolvere quanto accaduto attraverso provvedimenti di natura restrittiva capaci, nel breve periodo, di sortire l’effetto sperato". "Interventi preventivi e costanti sul versante preventivo-repressivo costituiscono - afferma ancora Tissone - l’unica alternativa al verificarsi di episodi come quelli verificatisi nei giorni scorsi". Per prevenire, sottolinea poi Tissone, "serve un investimento di uomini e mezzi sul delicato versante giovanile che consenta, nel lungo periodo, la riduzione di fatti-reato che rappresentano, oggi, la punta di un iceberg che si dovrebbe, finalmente, portare alla luce in maniera definitiva". Quanto alla misura della sospensione della licenza di un esercizio pubblico, come avvenuto recentemente a Riccione, alla luce dei fatti accaduti in Romagna e nel Salento introduce, per Tissone è un "argomento non nuovo che ravvisa aspetti di crescente drammaticità che travalicano i singoli interessi commerciali tali da impegnare ogni soggetto preposto nella lotta tesa a scongiurare ogni condizione ritenuta pericolosa per la sicurezza delle persone dentro o fuori dagli esercizi pubblici". Quella notte arrestati due pusher con ecstasy e coca La stessa notte in cui al "Guendalina" ha perso la vita Lorenzo Toma, i carabinieri hanno arrestato in flagranza due pusher. Il primo è un giovane di 21 anni della provincia di Bari, con precedenti specifici, sorpreso mentre spacciava. Perquisito, è stato trovato in possesso di cinque involucri contenenti sostanza stupefacente del tipo "mdma", più nota come ecstasy, per circa due grammi, e cinque involucri contenenti 1,5 grammi di cocaina, oltre ad una decina di grammi di hascisc. Il 21enne è stato bloccato dopo che aveva cercato di divincolarsi, opponendo resistenza ai carabinieri. La seconda persona arrestata è un 24enne della provincia di Brindisi, sorpreso mentre cedeva cocaina ad un giovane. È stato trovato in possesso di una dose di cocaina ed una dose di ecstasy. Nel corso dell’identificazione ha fornito false generalità ed è stato denunciato per questo reato; ora è agli arresti domiciliari. Al momento gli inquirenti escludono qualsiasi connessione tra gli arresti e la tragedia del 19enne Lorenzo Toma. L’autopsia dovrà verificare se la vittima aveva assunto droga e di che tipo. Poi se gli esami confermeranno questa ipotesi, la posizione per i due spacciatori potrebbe aggravarsi. In Prefettura a Lecce, intanto, riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Il vertice è stato convocato dal prefetto Claudio Palomba dopo la morte di Lorenzo Toma. In questa sede potrebbero essere discusse misure nei confronti del locale. India: il caso marò al Tribunale del mare. L’Italia "faremo valere le ragioni" di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 10 agosto 2015 Al via il procedimento avviato dall’Italia ad Amburgo. Il legale del nostro Paese chiederà il rientro di Girone e la permanenza di Latorre in Italia. Nel pomeriggio la replica indiana. Dalla disputa diplomatica al dibattimento giuridico. Si apre in un clima teso il procedimento avviato dall’Italia sul caso dei marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre presso il Tribunale internazionale del diritto del mare di Amburgo (Itlos). "L’India ha mostrato una particolare aggressività ma siamo determinati a far valere le nostre ragioni", dice l’ambasciatore Francesco Azzarello, l’agente del governo a capo della delegazione italiana. Sarà lui ad aprire i lavori nell’udienza pubblica di stamane, insieme alla squadra di esperti e avvocati internazionalisti capitanata da un veterano dei contenziosi tra Stati, il britannico Sir Daniel Bethlehem. Nel pomeriggio tocca al team legale indiano. I 21 giudici di Amburgo, nominati per nove anni secondo i criteri dell’equa ripartizione geografica e della pluralità dei sistemi giuridici, dovranno esprimersi sulla richiesta italiana di "misure cautelari con carattere d’urgenza" a tutela dei due fucilieri di Marina. Il governo chiede in sostanza il via libera al rientro di Girone dall’India e l’estensione della permanenza in Italia di Latorre (convalescente in seguito a un’ischemia), oltre alla sospensione immediata della giurisdizione indiana in attesa del giudizio di merito di un’altra Corte, quella arbitrale dell’Aia, che non sarà operativa prima del 26 agosto e che potrebbe anche ribaltare la decisione di Amburgo. Il procedimento arbitrale però rischia di durare anni, Roma vuole riportare Girone e Latorre a casa subito. Di qui il carattere d’urgenza del ricorso all’Itlos per scongiurare il rischio di "danno grave e irreparabile". Del collegio (presieduto da un russo) fa parte anche un giudice indiano, l’Italia ha nominato giudice ad hoc il professor Francesco Francioni. Entrambi saranno pure arbitri all’Aia. New Delhi vuole processare Girone e Latorre per il presunto omicidio di due pescatori indiani di 20 e 44 anni, il 15 febbraio 2012 al largo del Kerala. I marò, imbarcati come nuclei militari di protezione sulla petroliera Enrica Lexie, avrebbero scambiato il peschereccio per una nave pirata e aperto il fuoco. Roma rivendica la giurisdizione della magistratura italiana perché l’incidente è avvenuto in acque internazionali, i due agenti erano in servizio per conto dello Stato e a bordo di una nave battente bandiera italiana. Il governo indiano si richiama invece al concetto di "fascia contigua", ovvero quel tratto di mare che si estende per un limite massimo di 24 miglia nautiche dalla costa, 12 in più rispetto alle acque territoriali, e sul quale uno Stato può esercitare diritti non sovrani ma di controllo per prevenire o reprimere violazioni della legge. Una zona prevista dalla Convenzione di Montego Bay alla quale non tutti si richiamano. Il contatto tra le due imbarcazioni avvenne a 20,5 miglia dalla costa indiana. L’intenzione di New Delhi di far valere la piena sovranità e non retrocedere di fronte a uno Stato occidentale è stata chiara sin dall’inizio. L’arrivo al governo del nazionalista Narendra Modi non ha facilitato la distensione. "I nostri Paesi sono tradizionalmente amici - dice l’ambasciatore Azzarello - ma questa vicenda ha provocato una controversia estremamente delicata. L’Italia ha tentato in tutti i modi, attivando canali informali e formali, di trovare una soluzione concordata. Purtroppo non è stato possibile". L’udienza di domani sarà dedicata a domande e repliche delle parti. Verdetto atteso non prima del 24 agosto. Libia: si tratta per liberazione dei quattro italiani, ostaggio di banda di criminali comuni Il Tempo, 10 agosto 2015 Sono stati rapiti in Libia il 19 luglio scorso e ora sono "ostaggio di una banda di criminali comuni". I quattro italiani rapiti in Libia il 19 luglio scorso sarebbero a Zuara, una città a nord del Paese, nella regione della Tripolitania. Il contatto con chi ha in mano i dipendenti dell’azienda Bonatti di Parma sarebbe stato agevolato dal governo non riconosciuto di Tripoli e si tratta per la liberazione che potrebbe arrivare a fine mese. Se l’accordo salta, però, il rischio è che gli ostaggi possano essere venduti ad altri gruppi armati che si trovano nella zona, compresi quelli legati allo Stato islamico. È quanto riferisce un documento pubblicato nei giorni scorsi in Rete dai media libici. Nello scritto anonimo, di cui fonti investigative locali stanno ancora accertando l’attendibilità, si sostiene che la contropartita chiesta in cambio dai rapitori non sia solo economica. Il gruppo che detiene Gino Tullicardo, Filippo Calcagno, Salvatore Failla e Fausto Piano, sarebbe effettivamente composto da criminali comuni che però avrebbero ricevuto mandato di compiere il sequestro dal governo islamista di Tripoli, che punta al riconoscimento internazionale, al pari di Tobruk. Una vicenda complicata, dunque, dove alla fine la trattativa si giocherà su un piano prevalentemente politico. Il dubbio sollevato nel documento, infatti, è che gli italiani diventino merce di scambio nella trattativa in corso per la formazione di un governo di unità nazionale condotto dall’Onu con l’Italia in prima fila. Oltre agli interessi economici che il nostro Paese ha in Libia, la mediazione condotta con le tribù, e non solo, per unire intorno ad un tavolo tutte le anime che popolano un paese allo sbando dalla morte di Gheddafi, ha creato molto malumori. In primis a Tripoli, dove il governo islamista non ha digerito l’accordo firmato il 12 luglio scorso da Tobruk e che, tra le altre cose, potrebbe far saltare il businness dell’immigrazione gestito anche dallo Stato islamico. Nei giorni scorsi, il presidente del Copasir, Giacomo Stucchi, aveva confermato all’Adnkronos che sulla questione dei connazionali rapiti in Libia "si sta lavorando, ci sono contatti in corso, Manenti ha dato gli ultimi aggiornamenti sulla vicenda". In merito al gruppo che avrebbe preso i tecnici nella zona di Mellitah, nei pressi del compound della Mellitah Oil Gas Company, di ritorno dalla Tunisia, Stucchi ha chiarito che "non sono in mano di terroristi, ma di criminali comuni. Criminali che cercano un riscatto, senza apparenti motivazioni politiche. Per questo - ha detto ancora il presidente del Copasir - la cosa può essere valutata con una preoccupazione di tipo razionale, maggiormente gestibile". Intanto fonti libiche continuano a sostenere che gli ostaggi sono nelle mani di Ansar al Sharia, il gruppo salafita vicino all’Isis. Stati Uniti: a Ferguson, un anno dopo cortei blindati e proteste di Arturo Zampaglione la Repubblica, 10 agosto 2015 L’Fbi in campo dopo l’uccisione di un ragazzo ad Arlington. Molti temevano nuovi episodi di violenza nel primo anniversario della morte di Michael Brown, il diciottenne afro-americano fermato e ucciso a Ferguson da un poliziotto bianco. E ieri le strade della cittadina del Missouri, alle porte di St. Louis, diventata il simbolo dell’America razzista e, assieme, la bandiera della nuova campagna anti-razzista "Black Lives Matter", erano pattugliate da decine di auto della polizia, mentre le truppe statali proteggevano i centri commerciali che furono saccheggiati durante le rivolte dell’agosto 2015 seguite alla morte di Brown. Ma a dispetto di tante misure di sicurezze e dell’allarme per alcuni colpi di pistola, poi rivelatosi infondato, a Ferguson tutto si è svolto in un clima teso, ma pacifico: guidato dal padre di Michael, che indossava una maglietto con la scritta "Chosen for Change" (Prescelto per il cambiamento), un grande corteo di protesta si è snodato per le strade cittadine. Centinaia di neri e di bianchi, di vecchi e di bambini, si erano dati appuntamento nel quartiere dove Brown, che era disarmato e assieme a un amico, fu fermato il 9 agosto 2014 dall’agente Darren Wilson. Il quale, pensando che il giovane volesse rubargli la pistola, gli sparò a bruciapelo. Il cadavere del diciottenne fu lasciato per quattro ore e mezza per la strada: un segno di incuranza e disprezzo da parte della autorità, stigmatizzato ieri da 4 minuti e mezzo di silenzio della folla di Ferguson. Poi il corteo ha ripreso il cammino, passando accanto a un memoriale improvvisato di orsetti di peluche, candele e fiori, e a una placca di metallo a ricordo di Michael Brown. Dopo una inchiesta ufficiale sulla sua morte, che ha sollevato molta indignazione, l’agente Wilson è stato prosciolto da ogni responsabilità. In compenso un rapporto di 102 pagine del ministero della giustizia ha accusato la polizia di Ferguson di alimentare pregiudizi razziali. Ieri, in coincidenza con l’anniversario dell’uccisione di Brown, altre proteste si sono svolte in varie città americane, da New York a Baltimora. E tutte con lo stesso obiettivo: denunciare la violenza della polizia - e soprattutto dei poliziotti bianchi - contro gli afro-americani. Negli ultimi mesi questi episodi si sono moltiplicati e sicuramente hanno colpito l’opinione pubblica, perché spesso sono stati filmati dalle telecamere indossate dagli agenti. Proprio venerdì, del resto, un altro giovane studente, nero e disarmato, Christian Taylor, 19 anni, è stato ucciso dalla polizia di Arlington, nel Texas, non lontano da Dallas. Secondo gli agenti Taylor era entrato in una concessionaria di auto e stava vandalizzando i veicoli. Ci sono alcuni filmati che lo confermerebbero, ma sul caso indagano non solo le autorità locali, ma anche l’Fbi. Iraq: alto dirigente dello Stato islamico si suicida impiccandosi in carcere Nova, 10 agosto 2015 Un alto dirigente dello Stato islamico, Abu Ayub al Iraqi, catturato due giorni fa dalle forze di sicurezza irachene, si è suicidato impiccandosi nella sua cella dove era detenuto nel carcere a nord di Nassiria. Lo comunica la polizia irachena della provincia meridionale di Dhi Qar. Il terrorista, che oltre a quella irachena ha anche una seconda nazionalità straniera, era stato fermato due giorni fa nel nord dell’Iraq e catturato e portato in un carcere che si trova a 118 chilometri a nord di Nassiria. Egitto: morto in carcere esponente islamista filo-Morsi Nova, 10 agosto 2015 Un responsabile del movimento islamista Gamaa Islamiya, sostenitore del deposto presidente Mohamed Morsi destituito dall’esercito nel 2013, è morto mentree si trovava in carcere in Egitto, L’ha riferito oggi il ministero dell’Interno. Gamaa Islamiya, che ha realizzato una serie di attentati mortali negli anni 90 prima di rinunciare alla violenza, ha accusato le autorità di essere responsabili dell’"assassinio" di Essam Derbala, che sarebbe stato "privato delle cure mediche". Dermala, 58 anni, era stato arrestato a maggio per "incitamento alla violenza" e per "appartenenza a organizzazione illegale" per essere stato parte della Coalizione anti-colpo di stato formatasi dopo la destituzione di Morsi. La morte è avvenuta sabato, mentre veniva trasferito in ospedale al Cairo, ha spiegato il ministero in un comunicato. Derbala era diabetico e aveva diversi altri problemi di salute. Era stato detenuto per 25 anni durante la presidenza di Hosni Mubarak, rovesciato nel 2011 da una rivolta popolare, ed era stato liberato nel 2006. Medioriente: detenuto palestinese in sciopero fame da 50 giorni è grave La Presse, 10 agosto 2015 Il palestinese Mohamed Allan, in sciopero della fame da 50 giorni durante la detenzione amministrativa in Israele, è in condizioni di salute critiche. Lo hanno fatto sapere organizzazioni per i diritti dei prigionieri palestinesi. Le autorità israeliane, intanto, stanno valutando se sottoporlo ad alimentazione forzata, in virtù di una legge approvata a luglio. L’avvocato 31enne, in detenzione senza processo dal novembre scorso, è ricoverato nel reparto terapia intensiva dell’ospedale Soroka di Beersheva, nel sud di Israele, e secondo i media locali è ancora cosciente. Venerdì il Comitato internazionale della Croce Rossa aveva avvertito che Allan era "a rischio immediato" di morte, in vista del superamento dei 50 giorni di sciopero della fame. Il legale dell’uomo ha dichiarato all’agenzia palestinese Maan che, nonostante il peggioramento delle condizioni di salute, il digiuno proseguirà. Un’altra organizzazione palestinese che si batte per i detenuti nelle carceri israeliane ha denunciato che non appena Allan aveva dichiarato l’intenzione di entrare in sciopero era stato trasferito in isolamento, perché desistesse. Secondo i medici, dal 42esimo giorno in cui non si ingerisce cibo l’organismo può avere complicazioni che mettono in pericolo la vita. Intanto, da mercoledì scorso circa 120 palestinesi incarcerati a Nafha, nel sud di Israele, sono entrati in sciopero della fame contro le dure condizioni di detenzione e la discriminazione razzista. Israele: tra i palestinesi di Betlemme "dovete fermare i coloni terroristi" si Alberto Flores D’Arcais La Repubblica, 10 agosto 2015 Lo Shin Bet arresta nove estremisti coinvolti nell’attentato costato la vita al piccolo Ali e a suo padre. E nei Territori cresce la tensione. "Nessuno, non si vede nessuno. Dalla guerra dello scorso anno per noi è un disastro, ora con questi momenti di tensione sta succedendo lo stesso". Ahmad allarga sconsolato le braccia, il suo negozio vende articoli religiosi a poche decine di metri dalla Chiesa della Natività (dove i pellegrini ci sono, ma sono in maggioranza africani e russi) e sono giorni da incasso zero. Nei Territori è una domenica blindata, dopo la morte di Saad Dawabcheh - padre di Ali, il bimbo di 18 mesi morto bruciato vivo la settimana scorsa a Duma - i palestinesi hanno giurato vendetta e cercano giustizia. La prima la grida (senza troppa convinzione) Hamas dalla Striscia di Gaza, dove si limitano a un paio di razzi lanciati contro i villaggi israeliani, la seconda la chiedono i familiari (la madre e il fratellino di Ali sono ancora in ospedale in gravi condizioni) la pretende Abu Mazen, la auspicano i cristiani della Terra santa ma la vogliono soprattutto molti israeliani (il presidente Reuven Rivlin in prima fila) convinti che occorre fermare prima che sia troppo tardi gli ultras dell’ebraismo "messianico". Molta tensione ma nessun serio incidente. Dopo i sassi lanciati contro i poliziotti sabato pomeriggio ai funerali di Saad, tutto è calmo anche nella zona di Nablus, le teste calde che chiedono una Terza Intifada non hanno (per ora) alcun seguito e le vere operazioni militari le stanno facendo - poche centinaia di metri più in là - reparti speciali dello Shin Bet. Agenti israeliani contro coloni ebrei: non è la prima volta, ma adesso il governo di Netanyahu sembra fare sul serio. Con un’operazione che non ha precedenti nove coloni sono stati arrestati in due insediamenti in Cisgiordania, no comment su nomi e responsabilità, forse non saranno gli autori materiali ma potrebbero essere implicati nell’attacco notturno con bottiglie incendiarie alla casa di Saad. Arresti che seguono quelli dei giorni scorsi, con la "detenzione preventiva" (sei mesi in prigione senza processo e senza condanne) applicata - ed è la prima volta che vengono colpiti estremisti ebrei - nei confronti di due leder della destra religioso- messianica come Meir Ettinger (nipote del famoso rabbino Kahane, ucciso da un estremista arabo a Manhattan nel 1990) ed Eviatar Slonim, accusati entrambi di "terrorismo ebraico". Per un terzo estremista, Mordechay Meyer, l’arresto preventivo era stato deciso dal ministro della Difesa Yàalon la settimana scorsa. Lui, che si fa chiamare con il nome ebraico Ben Gedalia, è sospettato di aver partecipato agli incendi dolosi della Chiesa della Dormizione a Gerusalemme e di quella della moltiplicazione dei pani e dei pesci a Tiberiade. E proprio ieri diverse chiese cattoliche hanno sporto denuncia contro il rabbino Bentzi Gopshtain, leader di Lehava ( Fiamma), il principale gruppo estremista ebraico che da giorni predica l’attacco a chiese e moschee: "Bruciarle è un diritto biblico". È semideserta anche Gerico. Qui a controllare che non accada niente ci sono i poliziotti palestinesi e gli unici segni di una rivolta che non c’è sono i cartelli e gli striscioni che denunciano i ragazzi "imprigionati e torturati" nelle carceri di Israele. "Quello è un altro focolaio pronto ad esplodere", raccontano nei villaggi arabi che circondano Gerusalemme Est, decine di detenuti palestinesi sono in sciopero della fame per protestare contro le condizioni carcerarie e la legge sull’alimentazione "forzata" varata nei giorni scorsi. Così ieri - invece dei soliti sassi - la protesta ha assunto una forma "gandhiana", con altri dozzine di detenuti che si sono uniti e centinaia di altri pronti a farlo nei prossimi giorni. A Ramallah Mohammed Allan, arrivato al 55esimo giorno di protesta, è già un eroe popolare e i leader palestinesi hanno preannunciato il ricorso alla Corte Penale dell’Aja. Lungo le strade che da Gerusalemme vanno a sud, nei Territori che costeggiano insediamenti ebraici difesi da reticolati ad alta tensione, molti pannelli solari - vitali per l’energia di questi villaggi e di queste case - sono fuori uso. "Sassi, li hanno spaccati con i sassi", spiega Tayseer, palestinese che ha portato la famiglia (moglie e cinque figli) nei sobborghi orientali della capitale dello Stato ebraico per non farli crescere in mezzo alla violenza: "Hanno iniziato a tirarli alle auto con targa ebraica, poi sono passati ai pannelli solari, purtroppo i teppisti ci sono da tutte le parti". Gran Bretagna: David Gilmour e il coro di detenuti per la title track di "Rattle that lock" rockol.it, 10 agosto 2015 Come già annunciato, il chitarrista e cantante dei Pink Floyd - David Gilmour - il prossimo 18 settembre vedrà la pubblicazione del proprio nuovo album solista "Rattle that lock". Nel disco si registra un cameo di David Crosby e Graham Nash, che hanno prestato le loro voci alla musica di Gilmour: ma non è tutto. Infatti per la title track - che è anche il singolo apripista per il disco - è stato utilizzato un coro, il Liberty Choir, composto in maggioranza da ex detenuti del carcere londinese di Wandsworth. L’idea è nata da un’esperienza personale che ha segnato l’artista: il figlio Charlie, infatti, ha passato quattro mesi proprio lì, in stato di detenzione, nel 2011. Era stato arrestato e condannato durante alcuni disordini nell’ambito di una manifestazione studentesca. E il musicista ha spiegato a BBC che lui e la moglie Polly ora sono fra i sostenitori (e benefattori, visto che supportano le attività anche economicamente) del Liberty Choir: l’esperienza di Charlie è stata di grande impatto sulla mia famiglia e ci ha reso più consapevoli del sistema carcerario, di cosa si può fare e si dovrebbe fare per migliorarlo. Diventando parte di questa iniziativa, che speriamo cresca, cerchiamo di dare una mano. Il coro dà speranza e ottimismo ai detenuti, così che non escono di prigione trovando il vuoto e andando incontro alle vecchie tentazioni. Almeno per una sera a settimana dà loro qualcosa da fare per cui si sentono valorizzati e possono fare qualcosa di artistico, che aiuta il morale.