Giustizia: la riforma di Orlando incassa un primo ok dall’Unione europea di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2014 La commissaria Martine Reicherts: "Riforma di buonsenso e coraggiosa, in grado di far avanzare l’Italia sulla via della crescita esemplificazione". L’annunciata riforma della giustizia uscita dal Consiglio dei ministri di venerdì scorso ottiene un importante sdoganamento in Europa, almeno per la parte più immediatamente operativa, quella sulla giustizia civile inclusa nell’unico decreto legge previsto dal governo. Incontrando ieri a Bruxelles il ministro Andrea Orlando, la neo-commissaria Ue alla giustizia, Martine Reicherts, ha elogiato le proposte per la riforma della giustizia civile, definendo "coraggiose e nella buona direzione" le scelte del ministro Orlando in materia di procedimenti e di riduzione della durata dei processi. "La riforma del processo civile persegue obiettivi comuni all’Italia e alla Commissione europea" ha detto la commissaria lussemburghese al termine dell’incontro. "La questione dei ritardi è una delle questioni chiave. In materia di processo civile e della durata dei processi, le proposte del governo sono coraggiose e vanno nella giusta direzione" ha ribadito la commissaria. "Seguo con interesse - ha detto ancora la Reicherts - i lavori del governo italiano sulla riforma del processo civile. Faccio a Orlando i miei auguri perché l’intervento possa far avanzare rapidamente l’Italia sulla via della crescita economica e della semplificazione", ha concluso la commissaria, che oggi sarà a Roma per preparare il Consiglio Giustizia dell’Ue di ottobre. "La posizione della Commissione sulla riforma - ha risposto il guardasigilli Orlando - è molto importante per noi. Il fatto che l’Unione Europea riconosca la fondatezza e la bontà dei nostri sforzi è un elemento molto positivo. Come è noto la riforma della giustizia rappresenta una grande opportunità di aumentare la capacità di attrarre investimenti, pertanto rappresenta una parte integrante delle riforme strutturali che hanno per obiettivo la crescita". Il guardasigilli ha ringraziato poi la commissaria per il riconoscimento importante del fatto che la riforma della giustizia civile "è un tutt’uno con l’aspetto della crescita. Siamo felici che ci venga attestato che questa è una parte integrante delle riforme strutturali che il Paese mette in campo per far ripartire l’economia". "Per la nostra politica interna - ha proseguito il ministro - è già stato un successo importante focalizzare l’attenzione su questa riforma, e il fatto che ora l’Ue riconosca la bontà dei nostri sforzi è positivo". La velocizzazione dei processi civili è considerata dalla Commissione, come del resto dal governo italiano, un elemento essenziale per ridare fiducia agli investitori, e dunque per ottenere la ripresa economica. Reazioni positive alle dichiarazioni di Bruxelles sono arrivate anche sul versante parlamentare. Quanto dichiarato dal commissario Martine Reicherts sulla riforma della giustizia civile "è più che incoraggiante, è il riconoscimento che stavolta governo e maggioranza intendono fare sul serio" ha detto Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia di Montecitorio. "È la miglior conferma - ha aggiunto la Ferranti - che il pacchetto Orlando è una riforma vera, una riforma che contribuirà a rilanciare il nostro Paese sotto il profilo dell’economia e dei diritti dei cittadini". Giustizia: riforma del processo penale, sulla prescrizione scelta sbagliata di Salvatore Scuto (Presidente della Camera penale di Milano) Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2014 Sarà solo con la pubblicazione dei testi definitivi che la riforma del processo penale varata dal Governo il 29 agosto assumerà forme e contenuti che permetteranno di valutare se il confronto sulle preoccupanti criticità dei contenuti della stessa, sollecitato con determinazione dalle Camere Penali, sia stato effettivo. È questo il caso delle modifiche che si intendono apportare al regime della prescrizione. Si vuole, infatti, introdurre una generale sospensione del relativo termine per la durata di due anni, dalla sentenza di condanna di primo grado a quella conclusiva del procedimento d’appello, e di un anno da quest’ultima alla sentenza definitiva. Ed è proprio un clamoroso equivoco quello che si annida in una simile proposta di modifica. Un equivoco che è frutto della stessa poca logicità dei presupposti dell’intervento: se si vuol far guadagnare velocità ad un treno non si allunga di certo la lunghezza dei binari del percorso che deve compiere. La riforma, così, produrrà un indiscriminato aumento dei termini di prescrizione, i cui effetti negativi non troveranno alcun efficace contemperamento nella previsione di limiti massimi. L’istituto della prescrizione del reato non ha nulla a che vedere con la durata del processo, mentre il diritto alla ragionevole durata del processo riguarda, senza alcuna differenza, sia l’imputato che veda celebrarsi il processo in prossimità del fatto-reato a lui addebitato sia colui che subirà il processo in prossimità dello scadere del termine di prescrizione. Uno degli effetti di tale intervento riformatore, pertanto, sarà quello di disarticolare il sistema contraddicendo la regola cardine dell’istituto: la durata del termine va commisurata al disvalore del reato e non può essere condizionata dall’incedere del processo in corso. Si evita per tal verso di intervenire sulla causa reale del fenomeno: l’inerzia degli uffici del pubblico ministero. Le stesse statistiche ministeriali, infatti, ci dicono chiaramente non solo che il fenomeno della prescrizione è in graduale riduzione ma che la maggiore incidenza di esso si ha nella fase delle indagini preliminari ovvero nella fase in cui il pubblico ministero è il vero e proprio dominus, dove oscillano tra il 60 ed il 70 % del totale. È evidente che ciò è addebitabile all’inerzia del pubblico ministero non bilanciata, singolarmente, da alcun intervento volto ad introdurre un salutare controllo giurisdizionale sull’iscrizione della notizia di reato né, come si diceva, da alcuno strumento che ne sanzioni l’inattività. Evidente ancora che tutto questo non può che accendere un faro sul problema costituito dall’effettività del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azionale penale di fatto tramutatosi in una sostanziale discrezionalità. Insomma, ancora una volta, viene scaricato sugli istituti di diritto sostanziale e processuale il peso di responsabilità di sistema che non dovrebbero certo costituire la posta del saldo negativo che registra il sistema delle garanzie. Stesse considerazioni vanno sinteticamente svolte a proposito degli interventi che riguardano l’introduzione dell’appello come strumento di impugnazione a critica vincolata, accompagnato dalla malcelata tendenza ad una declatoria di inammissibilità de plano, intervento che risponde ancora una volta ad esigenze di snellimento del carico di lavoro delle corti d’appello come se questo fosse la risultate di attività difensive a carattere "defatigatorio, nonostante non vi sia alcuna deriva di questo tipo nell’esercizio di un diritto irrinunciabile quale è quello della devoluzione al giudice del controllo della decisione di primo grado della res iudicanda nella sua interezza. Preoccupa, poi, l’intervento relativo al giudizio abbreviato, a seguito della pedissequa ricezione di non condivisibili arresti giurisprudenziali, in relazione alla sanatoria delle nullità non assolute e della non rilevabilità di alcune categorie di inutilizzabilità a seguito della richiesta. Per nulla condivisibile l’ipotesi di congelare l’ordinanza dispositiva del giudizio quando la richiesta sia stata anticipata dal deposito dei risultati dell’indagine difensiva ed il pubblico ministero abbia richiesto un termine per lo svolgimento di indagini suppletive; proposta che non tiene conto della giurisprudenza costituzionale secondo la quale, in questa ipotesi, l’utilizzabilità degli atti delle indagini difensiva non è lesiva del principio di parità delle parti mentre la apparente disparità di trattamento risulta comunque giustificata dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero e dalla funzione che gli è affidata. Giustizia: come contrastare l’ennesima cura inutile del settore civile di Associazione Nazionale Avvocati Specchio Economico, 4 settembre 2014 Nel Governo e nel Parlamento lo spirita critico e la discussione sono stati eliminati con l’inflazione di decreti legge approvati, ma non discussi, per avere la fiducia in sede di conversione; quando non c’è un maxi emendamento che stravolge il decreto e si avvale illegalmente di un procedimento legislativo di urgenza. Il Governo ha annunciato una riforma organica della giustizia partendo dal processo civile. Sarebbe l’ennesima riforma che si aggiunge alle quindici precedenti che hanno prodotto un solo risultato: l’allungamento dei processi. Questa la novità. Si è detto che il 30 giugno 2014 sarebbe partito il processo telematico. Ma non si e detto che gran parte degli uffici non erano e non sono pronti e che il sistema previsto è lacunoso (ed anche pericoloso). Si dice che saranno accorciati i tempi dei processi. Ma come? La media conciliazione obbligatoria è servita solo ad ostacolare e rimandare l’inizio dell’azione giudiziaria. Il filtro in appello è di oscura e scarsa applicazione. Mancano giudici e risorse economiche. Continuano gli sprechi nella giustizia. Il Tribunale delle imprese non e decollato. Sono stati chiusi uffici giudiziari funzionanti. E sono stati accorpati processi e sedi con ulteriore intasamento dei processi. Da molte parti si segnalano disfunzioni e assenze di personale e di giudici. Riguardo alla media conciliazione obbligatoria assistiamo al suo fallimento. Non comprendiamo l’ostinazione del Governo e del Ministero della Giustizia nel volere dare ancora corso ad un istituto fallimentare. Forse fa comodo per far credere a Bruxelles che si sta facendo qualcosa per ridurre i tempi della giustizia? Ma vi è di più. Insieme a 9 mila giudici togati lavorano 15 mila giudici di pace e laici che vengono retribuiti a cottimo. Un terzo della giustizia viene amministrata dai giudici laici. E si pensa di incrementarne il numero per smaltire più celermente l’arretrato e risparmiare sulle spese dì giustizia. I giudici cosiddetti "onorari" sono sottovalutati e sottostimati, Non hanno previdenza ed assistenza. Il loro ruolo è di serie B. Da ogni nuova legge vengono sempre più marginalizzati. Il loro sciopero e più che giustificato. Sull’utilizzazione di giudici laici per scrivere le sentenze, dobbiamo segnalare un ulteriore pericolo. Per smaltire l’arretrato il Ministero della Giustizia sta riflettendo sull’opportunità di prevedere una scissione, nelle sentenze, tra il dispositivo e la motivazione. Dopo anni di processo la causa si decide e. mentre la decisione viene adottata dal giudice che ha istruito la causa, la motivazione la scriverebbe un altro "su commissione". Al giudice farebbero sempre capo la titolarità e la responsabilità della stesura della decisione, con l’indicazione dei punti di diritto e di fatto che conducono ad essa, mentre la messa a punto della motivazione verrebbe affidata ad un soggetto esterno, ossia ad un avvocato. Dopo la sentenza con la "motivazione a pagamento", siamo di fronte a un’altra bizzarria del legislatore: "sentenze in appalto" agli avvocati. Siamo alla follia di un legislatore impazzito che non ha altro da proporre che interventi privi di consistenza giuridica. La decisione viene affidata non solo al dattilografo, ma anche all’avvocato su commissione del giudice. Nel Ministero della Giustizia non c’è più il dottor Luigi Birritteri, promosso a funzioni più alte. Un magistrato di valore che ha dato esempio di grande efficacia ed operatività, per alcuni positiva, ma per gli avvocati estremamente negativa. Il ministro Andrea Orlando può, quindi, agire in discontinuità ed affrontare per la prima volta seriamente il problema della revisione della geografia giudiziaria che non ha portato alcun risultato utile sul piano della riduzione delle spese e dell’efficienza della giustizia. Il Parlamento ha già formulato fondate critiche e indicato soluzioni e riaperture di uffici giudiziari ingiustificatamente soppressi. Se vuole operare bene, il ministro Orlando dovrà solo leggere e valutare gli atti parlamentari. I disastri procurati dalla selvaggia revisione della geografia giudiziaria sono, infatti, enormi. Dopo le recenti conclusioni di una incompiuta Commissione monitoraggio. un quotidiano "filo-revisione" ha titolato un articolo "Tribunalini, non servono marce indietro". Il titolo doveva essere il contrario: "Tribunalini, servono marce indietro". Infatti la stessa Commissione fa rilevare che permangono situazioni di forti difficoltà da approfondire "con un costante monitoraggio, affiancato da un’attività ispettiva" in alcune sedi come Alessandria, Vicenza, Siena, Latina. Santa Maria Capua Vetere, Lagonegro, Bari, Ragusa ecc. L’elenco si può tranquillamente allungare. La realtà è, infatti, ben diversa da quella rappresentata dalla Commissione di cosiddetto monitoraggio. In più del 50 per cento delle sedi la giustizia è stata allontanata inspiegabilmente dal territorio e vi sono insopportabili carenze strutturali e ritardi nell’attività giudiziaria. Oltre che un deprecabile allontanamento della giustizia dal territorio, che rappresenta il danno maggiore procurato dall’improvvida riforma, abbiamo assistito ad alcuni paradossi, Si e voluto sopprimere il Tribunale di Bassano del Grappa per trasferirlo a Vicenza. Ma l’ufficio giudiziario di Vicenza è in fase di decozione, al punto che, con un’istanza "provocatoria", il Consiglio dell’Ordine degli avvocati, con altri enti e associazioni, ne ha chiesto "simbolicamente" il fallimento. Nell’istanza si accusa il Tribunale di essere largamente venuto meno all’adempimento di gran parte degli obblighi istituzionali dei quali è portatore. Rinvii delle cause a 5 anni, diminuzione di magistrati e di personale. Di qui l’istanza di fallimento. Dopo la demolizione di più di 800 uffici giudiziari, anche in numerose altre sedi saranno presentate analoghe istanze. La revisione della geografia giudiziaria doveva attendere l’attuazione puntuale del processo telematico. Abbiamo protestato, ma non siamo stati ascoltati. Lo spirito critico non e, infatti, quasi mai gradito a chi gestisce il potere. Certo e che talvolta l’esercizio dello spirito critico può rallentare il processo decisionale. Ma al ritardo si unisce spesso la modifica del previsto provvedimento. Si opera meglio valutando le osservazioni esterne che formano spesso parte integrante della procedura che porta al provvedimento. Nel Governo, e poi nel Parlamento, lo spirito critico e comunque la discussione sono stati eliminati con l’inflazione di decreti legge approvati e non discussi per avere la fiducia in sede di conversione. Quando non c’è un maxi-emendamento che stravolge il decreto e che si avvale illegalmente di un procedimento legislativo di urgenza. Il ministro Orlando potrà finalmente ascoltare le istanze di cittadini, sindaci e avvocati per porre riparo alle improvvide e affrettate "rottamazioni". Intanto, dopo i Tribunali minori si passa all’eliminazione dei piccoli ospedali. La motivazione è il risparmio dei costi. Ma il pericolo e l’allontanamento dei presidi sanitari dal territorio. Il cosiddetto "Patto per la salute" , che altro non è che un "accordo scellerato contro la salute", si traduce nel taglio dei piccoli ospedali e delle mini cliniche con meno di 60 posti letto. Sotto questa soglia gli ospedali dovranno essere riconvertiti in strutture per l’assistenza nel territorio e per la riabilitazione. mentre le clinichette, salvo quelle mono-specialistiche, dovranno riaccorparsi fino a raggiungere la dotazione di almeno 100 letti o chiudere i battenti. Dopo quello che si è fatto nella giustizia si continua a sbagliare. Dopo aver pagato amaramente l’eliminazione dei presidi giudiziari, i cittadini subiranno anche il danno per la rottamazione dei presidi sanitari. E stata attuata la digitalizzazione della giustizia? Lo diciamo da tempo: se si va avanti così, il processo telematico non potrà entrare in funzione se non a macchia di leopardo. Ed infatti dai dati acquisiti e emerso clic i Tribunali attivati per la fase monitoria sono 86 su 140. per la fase esecutiva 47 su 140, per gli atti di merito endo-procedimentali 53 su 140. Inoltre i Tribunali clic permettono non solo il deposito del ricorso per ingiunzione, ma anche il pagamento elettronico dalle spese e concludono la procedura con l’emissione del decreto sono solo il 36 per cento del totale nazionale. Per quanto riguarda il merito e il deposito degli atti endo-processuali, la percentuale scende al 16 per cento. In ambito esecutivo, i Tribunali che effettivamente permettono il deposito telematico dell’istanza di vendita e il pagamento del contributo unificalo rappresentano il 13 per cerno del totale. Il termine del 30 giugno 2014 è stato prorogato per i vecchi processi, il processo telematico entra in vigore, e parzialmente, solo per i decreti ingiuntivi e per gli atti endo-processuali delle nuove cause. Le cause pendenti dovranno attendere ulteriore tempo. Per accelerare i tempi dei processi da più parli si sostiene che si debba "rottamare" il giudizio per Cassazione. Troppe vertenze. Troppi avvocati, troppi giudici, troppi costi per la giustizia. Ma che fare? Qualcuno irresponsabilmente propone di introdurre filtri e surrettizie pronunce di inammissibilità affidate alla discrezionalità dei giudici e all’inappellabilità dei loro giudizi, anche se errati. Qualcuno più responsabilmente propone, invece, di eliminare, con una norma di revisione costituzionale, la possibilità in taluni casi di ricorrere in Cassazione. Michele Ainis, su "L’Espresso", così si esprime: "Ecco, la Cassazione, potrebbe diventare la prossima vittima di Matteo Renzi, e non è detto che sia un crimine". Sul filtro si è intervenuti anche nel giudizio in Appello con l’introduzione di norme scriteriate ed incomprensibili. Il prof. Pietro Trimarchi, emerito di Diritto civile nell’Università di Milano, ha tentato di dare soluzioni credibili per smaltire l’arretrato. E ciò ha fatto in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera dal titolo "Processi e avvocati, il Paese degli eccessi". Ha, anzitutto, proposto che la parte soccombente, la quale abbia temerariamente abusato del processo agendo o resistendo in giudizio con malafede o colpa grave, sia condannata a pagare allo Stato una sanzione adeguata. Anche la Pubblica Amministrazione, spesso citata in giudizio, potrebbe essere più responsabile separando le posizioni da mantenere in giudizio da quelle da abbandonare. Altro rimedio è quello che riguarda il numero degli avvocati. Ma per fare ciò bisognerebbe fissare un numero programmato all’Università o negli Albi, Il prof. Trimarchi è d’accordo su questo punto. Non ci risulta che siano della stessa opinione gli attuali reggenti delle Facoltà di Giurisprudenza, In conclusione, possiamo tranquillamente affermare che non si rifiuta mai di sedersi a tavola con un ministro. L’apertura del dialogo con l’Avvocatura e una buona cosa che potrebbe portare a risultati utili e positivi. Dobbiamo solo osservare che le "pietanze" del tavolo sono limitate. Non sì parla più dì provvedimenti necessari per rimediare ai guasti della selvaggia revisione della geografia giudiziaria e dell’assurdo dì una "media conciliazione" obbligatoria che ha un esito fallimentare. Giustizia: Berlusconi offre a Renzi il "via libera" sulla riforma se cambia il falso in bilancio di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 4 settembre 2014 Il premier diserta Cernobbio. La Ue: bene il processo civile. Tensione nel Pd, in 54 contro il fiscal compact. Un patto sulla giustizia. A sentire Silvio Berlusconi, è nel bel mezzo della telefonata con Matteo Renzi che il nodo più controverso del dossier governativo ha fatto capolino sul tavolo del confronto: "Si può fare, basta che il Pd dica di sì". Dal quartier generale renziano, in realtà, la circostanza è negata con decisione. Eppure l’ex premier va raccontando un film assai diverso: "Se il governo modifica quello che non va, a partire dal falso in bilancio, noi ci siamo". D’altra parte, è la tesi del Cavaliere, "è innegabile che la responsabilità civile dei magistrati sia un nostro cavallo di battaglia". Il terreno è scivoloso. Così insidioso che difficilmente il Pd potrà accettare lo scomodo abbraccio di Forza Italia. Per questo, l’esecutivo ara comunque il terreno, senza tenere in conto l’eventuale soccorso azzurro. E non a caso ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando è volato a Bruxelles per incassare l’appoggio dell’Unione sulla giustizia civile. "Si tratta di una riforma - ha assicurato il commissario europeo Martine Reicherts, al termine di un faccia a faccia con il Guardasigilli - frutto del buon senso e molto coraggiosa, in grado di far avanzare l’Italia sulla via della crescita e della semplificazione" Il dialogo tra il premier e il leader di Arcore, naturalmente, non si esaurisce sui dossier ucraino e sulla giustizia. È l’intero pacchetto di riforme a "stuzzicare" il Cavaliere, "marcato" a uomo da Gianni Letta, Nicolò Ghedini e Denis Verdini nel corso del colloquio telefonico di martedì. Proprio all’ex coordinatore toscano è affidato il complicatissimo puzzle dell’Italicum. Che, pare, non sarà risolto in tempi brevi a causa delle crescenti fronde interne a Pd e Forza Italia. I rispettivi entourage, in ogni caso, già lavorano a un incontro. Potrebbe tenersi intorno a metà settembre, ma l’agenda di Renzi resta fitta. Così piena che il presidente del Consiglio diserterà anche il forum Ambrosetti di Cernobbio. Nessun atto ostile, giurano da Palazzo Chigi. Eppure il recente forfait al meeting di Cl lascia intravedere una strategia precisa, che fa il paio con il duro affondo contro i "soliti noti dei salotti buoni". In attesa di fare i conti con l’establishment, Renzi deve affrontare anche nuove tensioni interne. Cinquantaquattro parlamentari dem hanno infatti aderito al Comitato di sostegno al referendum per abrogare la legge attuativa del Fiscal compact. E alcuni di loro hanno pure annunciato un emendamento sulle riforme per eliminare l’obbligo del pareggio di bilancio. Di fatto, una nuova trappola sul cammino dell’esecutivo. Anche per queste ragioni, allora, Renzi non abbandona la strada del dialogo con Berlusconi. Il Cavaliere, però, è costretto a districarsi nella selva di questioni irrisolte che rischiano di soffocare via dell’Umiltà. Non si tratta solo del rapporto ormai logoro con Raffaele Fitto - ieri il big pugliese si è dovuto accontentare di un colloquio con Verdini, che lavora anche a un’intesa con il Ncd per le Regionali calabresi - ma soprattutto della linea ostentatamente filorenziana di Forza Italia. Un afflato governista che non convince molti dirigenti e, soprattutto, non paga nei sondaggi. Al Nord, per dire, Forza Italia arranca, sorpassata dalla Lega. Ciononostante, il Cavaliere non cambia idea: "Renzi non deve cadere, non c’è alternativa". E ogni tanto scherza così: "Andiamo avanti, tanto il vicepremier è Verdini...". Giustizia: "Sentivo le urla dei detenuti torturati"… Rossano Calabro come Guantánamo? di Matteo Lauria Il Garantista, 4 settembre 2014 "Una parola di troppo e quelli ti pestavano". La testimonianza di un detenuto messo in libertà. "Appena entrato mi hanno pestato. ho chiesto un medico e me l’hanno negato". Si chiama D.M., ha 38 anni, ha subito una condanna a cinque anni per furto, falso e lesioni, ha scontato gran parte delia pena e ora è ai domiciliari. Ha passato diversi anni nel carcere di Rossano, e adesso racconta la sua esperienza. Terribile. Che purtroppo conferma alcune delle tristi scoperte fatte qualche settimana fa dalla deputata del Pd Enza Bruno Bossio in seguito a una visita "improvvisa" nella prigione. D.M. dice che appena arrivò in carcere, alla prima visita, fu pestato. Preso a calci in testa. Perse dei denti, chiese di poter vedere un medico ma non ci fu niente da fare. Poi finì nella sua cella, la numero 24, e da lì sentiva le urla e i lamenti dei detenuti che venivano picchiati. Dice che li portavano al reparto isolamento e lì li picchiavano. Perché venivano picchiati? "Bastava niente - dico D.M. - uno sguardo, una parola di troppo". Perché non ha denunciato prima questa barbarie? "Avevo paura di ritorsioni" L’ombra di una specie di "Guantánamo" avvolge la Casa di Reclusione di Rossano, già al centro di una ispezione ministeriale all’indomani della grave denuncia della parlamentare Pd Enza Bruno Bossio, che nel corso di una visita interna alla struttura penitenziaria aveva scoperto situazioni inammissibili, violenze e condizioni di vivibilità impossibili per i detenuti. L’eco mediatico della denuncia dell’on. Bruno Bossio, ripresa dal nostro giornale da Radio Radicale, ha trasmesso coraggio a chi ritiene di avere subito violenze e sopraffazioni, ma senza mai denunciare alle autorità preposte per paura di eventuali ritorsioni. Ora rompe il silenzio un signore di 38 anni, del quale vi diamo solo le iniziali, per ragioni evidenti di prudenza: D.M., attualmente in regime di detenzione domiciliare per una condanna che riguarda reati contro il patrimonio commessi a Corigliano Calabro. Sta scontando una pena di 5 anni e 5 mesi per rapina, falso e lesioni. Gli è rimasto solo qualche residuo, poi tornerà in libertà. L’uomo si racconta, riferisce fatti e circostanze. Lo fa per i suoi ex compagni di cella - dice - per tutelarli, per difenderli da "vili" aggressioni senza scrupoli e dal tenore squadrista. Il metodo cavalca il modello "brigatista": "colpirne uno per educarne cento". Siamo nell’agosto del 2012 quando il 38enne mette piede all’interno della casa di reclusione. Viene collocato nella cella numero 24. Inizia dunque la sua prigionia. Si adagia sulla brandina e inizia a leggere. Nel primo pomeriggio due agenti di polizia penitenziaria lo prelevano al fine di effettuare i rilievi dattiloscopici, la visita medica e, a seguire, l’ispezione corporale, come da rituale, unitamente alla consegna di tutto il vettovagliamento. Cosa succede durante la perquisizione? Al detenuto viene chiesto di denudarsi e di procedere alla esecuzione di flessioni. È in questo momento che uno degli agenti sferra inaspettatamente un pugno che colpisce lateralmente la parte destra del cranio: il mento dell’uomo sbatte contro un muro, salta qualche dente, l’incisivo destro. Il detenuto si accascia a terra, sanguinante. Poi, come se nulla fosse accaduto, viene condotto in cella. Chiede la visita di un medico dentista, ma dall’altra parte trova solo dinieghi. Nell’ora di colloquio con i familiari opta per il silenzio, sospetta possa essere ascoltato e teme ripercussioni non solo per se stesso e per la famiglia. Non parla solo della sua vicenda, anche della vita carceraria. Svela alcuni misteri: "I pestaggi avvengono in isolamento" - denuncia l’uomo. "Dalla cella 24 si sentiva di tutto". L’eco delle urla di dolore e di sofferenza di chi è sottoposto a una vera e propria tortura rimbomba nelle stanze dei detenuti, pronto a rispondere rumoreggiante con il tintinnio delle sbarre. Basta una parola di troppo o un mancato saluto per scatenare l’ira furente di qualche frustrato in divisa. Il 38enne rimarca come vittime prescelte siano prevalentemente soggetti detenuti in media sicurezza, tra cui gli stranieri, presi particolarmente di mira. "Il carcere non rieduca, non riabilita - afferma D.M. - ma aggrava la condizione mentale dei detenuti che, una volta tornati liberi, acuiscono l’azione criminale". Infine, le famose leggi non scritte del carcere tendenti a punire severamente chi commette reati contro donne e bambini. Qui il meccanismo è trasversale. Questa volta i presunti carnefici non sono più interni all’apparato penitenziario ma sono gli stessi detenuti. Alzano un muro umano dietro il quale avviene la tortura, la sevizia, nei confronti di chi ha commesso reati che violano i regolamenti rigidi del popolo carcerario. Episodi di inaudita gravità, narrati da un recluso che ha visto, sentito, e solo ora riferito di quel che accade a Rossano. Una struttura ritenuta recentemente dal Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria) rieducativa e in grado di favorire il reinserimento sociale. La stessa organizzazione sindacale sottolineava la carenza della dotazione organica, di uomini e di mezzi. E rimarcava inoltre come gli istituti di pena oggi siano divenuti luogo di tutti i disagi della società: stranieri, tossicodipendenti, malati psichiatrici. Criticità comprensibili ma che non giustificano l’inaudita violenza denunciata oggi da un detenuto. Giustizia: lo Stato impone il 4-bis... poi lascia straparlare Totò Riina di Patricia Tagliaferri Il Giornale, 4 settembre 2014 Il paradosso del 41-bis: da una parte lo Stato dispone il carcere duro ai mafiosi imponendo loro norme rigidissime per impedirgli di mandare messaggi all’esterno, dall’altro depositando al processo sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo le intercettazioni del boss dei boss i magistrati stessi vanificano gli effetti del 41 bis lasciando trapelare fuori dal carcere le esternazioni di Riina, minacce comprese. E mentre tutti si domandano se l’ex capo di Cosa Nostra sapesse o meno di essere intercettato quando durante l’ora d’aria si sfogava con un altro detenuto nel carcere di Opera tra l’agosto e il novembre del 2013, i giornali continuano a fare da cassa di risonanza ai suoi deliri. Solo farneticazioni, quelle di U Curtu, quando dice che bisogna ammazzare don Ciotti, fondatore di Libera, l’associazione che gestisce i beni confiscati alla mafia? O forse c’è ancora qualcuno, al di là delle sbarre, pronto ad eseguire i suoi mandati? L’avvocato Luigi Li Gotti, difensore di noti pentiti, avverte: "Sarebbe un grave errore considerare Riina un boss depotenziato, senza riferimenti esterni. Quando parla e fa il nome di persone è sempre motivo di allarme". Per questo il giurista si dice sorpreso dalla divulgazione delle intercettazioni ambientali in cui il mafioso ripercorre la storia di Cosa Nostra. Eppure le conversazioni di Riina con il suo compagno di 41 bis, Alberto Lorusso, sono state depositate comunque al processo di Palermo, a disposizione delle parti. Che sarebbero finite sui giornali era praticamente scontato. In un’intervista a il Messaggero il sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia Maurizio de Lucia difende la mossa dei colleghi: "Non si possono fare scelte di opportunità - sostiene - rispetto ad atti che appartengono ad un processo e che devono quindi essere messi a disposizioni di tutti". Eppure qualche cautela per non vanificare gli effetti del carcere duro e delle sue rigidissime limitazioni si sarebbe forse potuta adottare. Altrimenti perché affannarsi per renderlo ancora più rigido, come ha minacciato di fare il ministro dell’Interno Angelino Alfano, per questo entrato pure lui nel mirino di Riina. "I boss devono sapere che se proveranno a far uscire informazioni dal carcere lo Stato non avrà nessuna timidezza per impedirlo ed è pronto a rendere più dura la normativa sul 41 bis", aveva detto lo scorso dicembre in un’audizione alla Commissione Antimafia. E c’è pure un articolo della legge che punisce fino a 5 anni chi consente a un condannato al carcere duro di comunicare con l’esterno. Tutto questo quando poi è lo stesso ordinamento giudiziario a dare gli strumenti a un boss del calibro di Totò Riina per scavalcare le limitazioni di questa norma che per alcuni aspetti è stata anche "bocciata" dalla Corte di Strasburgo. Quindi una misura estrema e necessaria (e forse disumana) viene apparentemente comminata inutilmente. Giustizia: Bindi (Pd): il 41-bis è strumento validissimo e irrinunciabile, ma perfettibile Italpress, 4 settembre 2014 "Serve attenzione per capire dove le cose possono funzionare meglio e forse si possono cambiare alcune norme. La Commissione e anche altri organi parlamentari hanno già lavorato su questo. Il 41 bis è uno strumento validissimo e irrinunciabile. Bisogna solo capire se dopo anni di sperimentazione ha bisogno di alcuni interventi, specie nel rapporto fra la detenzione speciale e i diritti del detenuto. Certo come tutti gli strumenti può essere perfezionato". Lo ha detto la presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, intervenendo a Palermo alla 32esima commemorazione dell’omicidio del generale dell’Arma Carlo Alberto Dalla Chiesa, in merito al regime del carcere duro. Giustizia: il boss Totò Riina resta nel carcere di Parma, nessun vulnus a diritto salute La Repubblica, 4 settembre 2014 Nel rigettare le istanze per il differimento pena per motivi di salute e per la detenzione domiciliare di Totò Riina, in 41 bis a Parma, il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ritiene "insussistente" alcun "vulnus alla tutela del diritto alla salute del condannato". Poi "quanto alla pericolosità sociale" dice che "la caratura criminale" di Riina non consente "una prognosi di assenza di pericolo di recidiva ove si consideri la tipologia di reati commessi, non necessariamente implicante prestanza fisica". La condizione di detenzione di Riina, quasi 84enne, nella casa di reclusione di Parma dotata di Cdt (centro diagnostico terapeutico) - si legge nell’ordinanza del collegio della Sorveglianza, emessa a metà giugno e nel frattempo impugnata in Cassazione dalla difesa - non costituisce "alcun ostacolo alla praticabilità degli accertamenti e degli interventi terapeutici reputati necessari dai sanitari, anche in via di emergenza, sia col ricorso al servizio di guardia medica 24 ore su 24" sia eventualmente con invio alla sezione detentiva dell’ospedale di Parma. Questo, "tenuto conto peraltro che il Servizio Sanitario è organizzato in modo uniforme a livello nazionale in termini di protocollo di pronto intervento, con adeguato percorso terapeutico anche nelle situazioni di emergenze cardiologiche". Il tribunale ha disposto comunque la trasmissione dell’ordinanza al Dap per le valutazioni di competenza in ordine all’eventuale trasferimento di Riina a Opera, carcere di provenienza. Secondo allegazioni difensive citate dall’ordinanza, infatti, l’istituto milanese "offrirebbe all’istante una condizione detentiva ‘strutturatesi nel tempo’ in modo da rispondere alle condizioni cliniche" di Riina "in modo più adeguato" rispetto a quelle di Parma. I giudici sottolineano comunque che Riina, a Parma da aprile, seppur affetto da "varie patologie di difficile gestione in ambito penitenziario", tuttavia "in carcere viene curato e sottoposto a continuo monitoraggio clinico-strumentale, specialistico ed emato-chimico". Inoltre i sanitari "stanno programmando ed eseguendo gli accertamenti necessari, somministrando le cure adeguate alle patologie del detenuto". Sebbene abbia serie patologie cardiache, questo rischio è definito in situazione di compenso. "Il detenuto - si ricorda infine - dispone di un servizio di guardia medica 24 ore su 24 e la sezione 41 bis può contare su un medico ad essa dedicato". Lettere: detenuti e lavoro fuori dal carcere di Roberto Martinelli (Segretario generale aggiunto Sappe) Corriere della Sera, 4 settembre 2014 Periodicamente le cronache dei media si occupano delle cattive condizioni dei greti dei fiumi cittadini, dei marciapiedi e delle strade di tante città: talune sembrano vere e proprie giungle a cielo aperto, in piena città. Lo ha evidenziato, nella sua lettera al Corriere della Sera di martedì 2 settembre, anche una lettrice di Vigevano. Ma perché non si usano i detenuti per pulire gli alvei dei fiumi o le spiagge o i giardini pubblici, molti dei quali in pessimo stato? Eppure c’è un protocollo d’intesa Amministrazione penitenziaria e Anci per impiegare gratuitamente proprio i detenuti in progetti di recupero ambientale delle città. Manca certamente la volontà politica, ma questo è anche il risultato delle politiche penitenziarie regionali sbagliate degli ultimi 10 anni, che hanno lasciato solamente al sacrificio ed alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria la gestione quotidiana delle sovraffollate carceri liguri. Politiche che, ad esempio, non hanno favorito il lavoro in carcere e l’impiego dei detenuti per il recupero del patrimonio ambientale nazionale e la formazione e l’aggiornamento professionale della Polizia penitenziaria (come l’insegnamento delle lingue straniere) rispetto a una popolazione detenuta prevalentemente extracomunitaria. Bisognerebbe far lavorare tutti i giorni dell’anno i detenuti, specie in lavori di pubblica utilità a favore della tutela ambientale come pulire i greti dei fiumi, i giardini, occupandosi della cura e manutenzione degli spazi pubblici delle città. Farlo un solo giorno all’anno, a Ferragosto, come avvenuto in qualche città italiana, puzza di operazione propagandistica fine a se stessa, che non è utile a nessuno. Eppure chi sconta la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4%, contro il 19% di chi fruisce di misure alternative e addirittura dell’1% di chi è inserito nel circuito produttivo Pesaro: il Garante scrive al ministro Orlando "carcere di Macerata Feltria non va chiuso" Il Resto del Carlino, 4 settembre 2014 Tanoni: "La struttura è un fiore all’occhiello di una politica penitenziaria avanzata e innovativa, va potenziata". Il Garante dei diritti dei detenuti delle Marche Italo Tanoni ha inviato una lettera al Ministro della Giustizia Andrea Orlando nella quale auspica il mantenimento della Casa mandamentale di Macerata Feltria. "Macerata Feltria, assieme al carcere di Barcaglione - scrive Tanoni - rappresenta il fiore all’occhiello di una politica penitenziaria avanzata e innovativa, con ristretti a fine pena impegnati in lavori agricoli, articoli 21 e addirittura detenuti lavoranti nel settore vitivinicolo con contratti a tempo indeterminato". Nell’istituto a vigilanza attenuata, contro la cui chiusura sono state presentate anche due mozioni a firma del Presidente del Consiglio regionale Vittoriano Solazzi e del consigliere regionale dei verdi Adriano Cardogna, da alcuni anni sono state avviate attività agricole nei settori della florovivaistica in serra, apicoltura, coltivazione e produzione di zafferano. "La prospettiva della chiusura - aggiunge Tanoni - cade inoltre in un momento in cui la stessa municipalità della zona feltresca si è dichiarata disposta a concedere ulteriori ettari di terra al penitenziario". In riferimento agli impegni assunti con l’Europa per migliorare il sistema penitenziario, il Garante chiede "non la fine di questa esperienza pilota, ma il suo potenziamento". Nella lettera vengono inoltre sottoposte all’attenzione del Guardasigilli alcune criticità del sistema penitenziario marchigiano. In particolare il Garante manifesta la sua preoccupazione per gli effetti della spending review che "non debbono misconoscere l’importanza funzionale del mantenimento sul territorio di alcuni Provveditorati regionali dell’Amministrazione penitenziaria come quello delle Marche". "Il paventato accorpamento previsto con l’Abruzzo e il Molise, o addirittura con la Puglia - conclude Tanoni - di fatto verrebbe a cancellare lo sforzo che in questi ultimi anni è stato fatto dalla Giunta e dal Consiglio regionale per il miglioramento della qualità della vita dei ristretti". Tra le scelte che "declinano un lento logoramento del nostro sistema carcerario regionale", il Garante ricorda "la mancata costruzione del carcere di Camerino e la direzione in reggenza di importanti istituti di pena (tre su sette) che richiederebbero al contrario una dirigenza sempre presente". Pesaro: Sappe; detenuto straniero tenta di dare fuoco alla cella e poi di togliersi la vita Ansa, 4 settembre 2014 Alta tensione nel carcere di Pesaro, dove lunedì un detenuto straniero ha dato in escandescenza e turbato l’ordine e la sicurezza della struttura penitenziaria. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Dopo gli eventi occorsi negli ultimi giorni all’interno della Casa Circondariale (due atti distinti di aggressione che hanno visto protagonisti alcuni detenuti e detenute di nazionalità magrebina contro un Ispettore Capo ed un Assistente Capo della Polizia penitenziaria), lunedì sera un detenuto di nazionalità tunisina E.R., ristretto per violazione della legge sulla droga con fine pena provvisorio 3/4/2018, ha messo in atto una serie di atti turbativi per l’ordine e la sicurezza del Reparto detentivo", spiega il segretario generale del Sappe Donato Capece. "In pratica, nel primissimo pomeriggio il detenuto si è lesionato un braccio mediante la lametta da barba e poi si rifiutava di rientrare in cella. Portato in infermeria per le cure del caso, al suo rientro, si barricava in cella e tentata di mettere a fuoco suppellettili e indumenti vari. Dopo un paio d’ore, verso le 15, si lesionava di nuovo un braccio e in serata ha tentato di impiccarsi alla finestra del bagno della cella con una corda rudimentale, venendo salvato solo grazie al pronto intervento del personale di Polizia Penitenziaria e dell’altro detenuto presente in cella. Una situazione davvero incredibile e allucinante, gestita con grande professionalità, sprezzo del pericolo e competenza dagli uomini della Polizia Penitenziaria di Pesaro". Capece punta il dito contro il sistema della "vigilanza dinamica" che è in atto nel carcere di Pesaro: "In pratica, si vuole cercare di tenere tutta la giornata aperti i detenuti per farli rientrare nelle loro stanze solo per dormire, lasciando ad alcune telecamere il controllo della situazione. Il Sappe si batte da tempo contro questo improvvido provvedimento che si ritiene assolutamente destabilizzante per le carceri italiane, come per altro proprio i gravi fatti accaduti a Pesaro dimostrano. È infatti nostra opinione che, lasciando le sezioni detentive all’autogestione dei detenuti, si potrebbero ricostituire quei rapporti di gerarchia tra detenuti per cui i più potenti e forti potrebbero spadroneggiare sui più deboli. In secondo luogo, sempre a nostro avviso, si sta ignorando l’articolo 387 del codice penale per il quale potrebbe essere comunque l’agente, anche se esiliato davanti a un monitor, a rispondere penalmente di qualsiasi cosa accada nelle sezioni detentive. Ancora più grave potrebbe essere l’accentuarsi in maniera drammatica di episodi di violenza all’interno delle stanze ove i detenuti non sono controllabili". "Altro che vigilanza dinamica e autogestione delle carceri che sembra essere l’unica risposta sterile dei vertici del Dap all’emergenza penitenziaria" conclude il leader del Sappe. "Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti, come avviene a Pesaro, deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale di Polizia Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza". Trieste: l’attività del Garante dei detenuti, da gennaio sono stati oltre 140 i colloqui Il Piccolo, 4 settembre 2014 Da gennaio sono stati oltre 140 i colloqui con i detenuti effettuati settimanale all’interno del Coroneo dal garante Rosanna Palci. Quello attivato è un impegno costante a favore dei reclusi. I detenuti a Trieste sono 186 mentre nel mese di agosto di un anno fa la media era circa 240. Nel palazzo comunale è attivo l’ufficio del garante con uno sportello aperto ai familiari dei detenuti oppure alle richieste di chi si trova in espiazione in esecuzione penale sul territorio (ricevimento al pubblico il mercoledì pomeriggio dalle 16:30 alle 18:30 oppure inviando una mail a garantedetenuti@comune.trieste.it) Sono questi i dati salienti dell’attività del garante Rosanna Palci. "Le recenti novità legislative scaturite dalla condanna europea all’Italia sulle condizioni dei nostri penitenziari - si legge in una nota - hanno consentito una diversificazione della custodia cautelare ed un alleggerimento delle carcerazioni a favore degli arresti domiciliari, con l’utilizzo anche del braccialetto elettronico". Poi altri elementi. "In alcuni casi - si legge - l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi ha portato alla scarcerazione di persone detenute in applicazione di quanto pronunciato dalla Corte Costituzionale in tema di detenzione di sostanze stupefacenti". C’è poi l’aspetto dei risarcimenti: "Dallo scorso 21 agosto - spiega Palci - è in vigore la legge che prevede i risarcimenti ai detenuti che hanno subito trattamenti definiti inumani. Legge che ora risulta essere in linea con le misure indicate, dopo che il Consiglio d’ Europa ha "apprezzato" gli sforzi effettuati dall’Italia nell’ultimo anno. Ricordiamo però che la verifica sullo stato delle nostre carceri verrà effettuata nuovamente il prossimo mese di giugno". Osserva: "Nel merito, la legge prevede un risarcimento economico di otto euro al giorno per chi ha vissuto trattamenti inumani oppure uno sconto di un giorno ogni dieci di carcerazione se la pena è ancora in fase di espiazione e permangono attuali le condizioni definibili "inumane". Tra i criteri evidenziati: lo spazio fisico personale e le condizioni di vita dell’istituto penitenziario in cui la pena è stata espiata". Napoli: per Franco, detenuto disabile, nessuna slide presidente Renzi, ministro Orlando? di Valter Vecellio Notizie Radicali, 4 settembre 2014 Ci sono storie emblematiche, che fanno pensare e dicono più di cento discorsi, di mille twitter, di "farò" e "prometto di fare" in uno, dieci, cento, mille giorni. Storie come quella di un detenuto nel carcere di Napoli Secondigliano. Questo detenuto è doppiamente prigioniero: in cella, e su una sedia a rotelle. Ha uno spazio vitale ridotto, per muoversi si affida ad altri detenuti, a causa delle numerose barriere architettoniche che ci sono in carcere; in ogni carcere. Da sei mesi questo detenuto chiede di essere operato, è in sciopero della fame da dieci giorni. Questo detenuto che rivendica in questo modo nonviolento un suo sacrosanto diritto, quello della salute, che lo stato ha il dovere di tutelare proprio perché lo ha privato della libertà, si chiama Fabio Ferrara. Ferrara è sulla sedia a rotelle da diversi anni; è rimasto ferito gravemente al momento dell’arresto per concorso in tentata rapina; sei giorni di coma, poi si è risvegliato, ma da quel momento è rimasto immobilizzato. Si trova in una stanza dell’infermeria del carcere. Una stanza adatta per una sola persona, sono in due: lui in carrozzina e l’altro detenuto che lo aiuta a lavarsi, a muoversi, le funzioni più elementari. È difficilissima ogni azione quotidiana, anche essere lavato è un’impresa: bisogna salire e scendere le scale, non è in grado di uscire dalla cella autonomamente: deve essere trasportato in braccio poiché ci sono molte scale: anche per accedere ai colloqui o andare in bagno. Lo aiutano altri detenuti, racconta la moglie Anna Belladonna, se non fosse così, "non potrebbe fare nulla, resterebbe imprigionato in uno spazio che è di tre metri quadri scarso. "Una condizione disumana", la definisce Luigi Mazzotta, dell’associazione Radicali Per La Grande Napoli, che ha visitato il carcere di Secondigliano insieme al senatore Luigi Compagna. "Ferrara deve essere operato alla vescica, e attende questo ricovero da oltre sei mesi". Sono state presentate due istanze per il differimento della pena. Il magistrato di sorveglianza, però, ha rigettato l’istanza in quanto non sussisterebbe "un serio pericolo per la vita o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose". Il detenuto, insomma, può essere curato in carcere. Intanto, il ricovero non arriva, la fisioterapia di cui avrebbe bisogno neanche. Nessuna slide, su vicende come questo né da parte di Renzi, né da parte del ministro Orlando. Buona giornata; e buona fortuna. Civitavecchia (Rm): due detenuti tentano il suicidio, salvati dai poliziotti penitenziari Comunicato stampa, 4 settembre 2014 Ha tentato di uccidersi nella sua cella del carcere di Civitavecchia, realizzando un rudimentale cappio con le lenzuola della cella. Protagonista, nella tarda serata di ieri, un detenuto campano, nuovo giunto nel Nuovo Complesso penitenziario civitavecchiese. "Per fortuna l’insano gesto non è stato consumato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari, ma l’ennesimo episodio accaduto in carcere a Civitavecchia è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, che esprime ai poliziotti che hanno salvato la vita al detenuto "apprezzamento e l’auspicio che venga loro concessa una ricompensa ministeriale". Il sindacalista sottolinea che "anche sabato mattina, un altro detenuto di Civitavecchia, italiano di 34 anni, ha tentato il suicidio mediante impiccamento ma anche in questo caso l’hanno salvato i Baschi Azzurri. Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 16mila tentati suicidi ed impedito che quasi 113mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze". "La situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata", aggiunge. "Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come a Civitavecchia - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri laziali e del Paese tutto". Salerno: la denuncia dei Radicali "donne detenute senza assistenza medica" di Diego De Carlo La Città di Salerno, 4 settembre 2014 L’associazione Radicale "Maurizio Provenza" mette sotto accusa il manager della Asl Antonio Squillante e gli attribuisce la responsabilità di non aver garantito, nel carcere femminile di Fuorni, la presenza di almeno un ginecologo, "manifestando scarsissima attenzione per l’universo femminile". L’associazione radicale sostiene inoltre che a Fuorni non sia stato aperto né il banco alimentare, né quello dei farmaci né quello dei prodotti igienici. "Senza aspettare altro tempo inutile - dice il segretario dei radicali Donato Salzano - occorrerebbe investire somme più considerevoli a beneficio di una corretta amministrazione penitenziaria, le cui risorse vengono vilmente taccheggiate da anni, e inoltre cercare di controllare i prezzi effettivamente praticati per il sopravvitto negli spacci delle carceri". Secondo i radicali salernitani, nell’istituto penitenziario "uno Stato pluricondannato" avrebbe trasgredito il "patto trattamentale" con i propri detenuti, non garantendo una sufficiente soglia di educatori, psicologi, mediatori culturali e agenti di polizia penitenziaria. La pianta organica di quest’ ultimi sarebbe addirittura al di sotto del 30 per cento, con conseguente sfruttamento dell’esiguo personale, costretto a turni lavorativi che a volte sforano addirittura le 18 ore. "Purtroppo oggi un dirigente sanitario non possiede più il potere di assumere personale - replica il manager dell’Asl di Salerno, Antonio Squillante. Il problema è nazionale e politico, non regionale né tantomeno aziendale". "Per troppi anni ci sono state eccessive assunzioni - continua Squillante - e adesso, commissariata la Regione da ormai un decennio, non riusciamo a garantire né uno staff sanitario adeguato, né un numero sufficiente di kit per la somministrazione dell’insulina a tutti i diabetici assistiti". "Squillante con una mano risana il bilancio, con l’altra non retribuisce medici e paramedici", sentenziano i radicali. "Si tratta di attività straordinarie, di indennità accessorie che non sono ancora state suscettibili di verifica, non di stipendi", replica il dirigente dell’azienda sanitaria locale. "Lo stesso blocco dei turn-over è un problema nazionale, non aziendale", continua il manager dell’Asl di Salerno. Salzano si aspetta una risposta da parte del presidente della Regione Campania Stefano Caldoro, anche "per la mancata fornitura del 90 per cento delle medicine da parte della So.Re.Sa. (Società regionale per la riduzione del debito in Campania) alla infermeria del carcere salernitano", fatto del quale Squillante non si dichiara responsabile, né tantomeno a conoscenza. I radicali sono impegnati su vari fronti nel campo sanitario per la difesa dei diritti degli ammalati. Per difendere le vittime della malasanità campana, dallo scorso 13 agosto alcuni esponenti radicali sono in sciopero della fame, un decisione presa anche con l’obiettivo che "vengano garantiti ai reclusi livelli appena accettabili di assistenza sanitaria". Ieri mattina intanto, all’esterno della casa circondariale di via Fuorni, Donato Salzano ha citato Gandhi e don Gallo: "Il digiuno è la più alta forma di preghiera", ha affermato. Cremona: Bordo (Sel) manifesta con il Sinappe "il carcere di Cà del Ferro non è un’oasi felice" www.cremaonline.it, 4 settembre 2014 Sovraffollamento delle carceri e carenza di personale. Ieri mattina il Sindacato di Polizia penitenziaria Sinappe ha organizzato un presidio davanti al carcere di Cà del Ferro a Cremona. "Come non dar ragione a quei lavoratori della Polizia penitenziaria - scrive l’onorevole di Sel Franco Bordo - che ieri hanno protestato pacificamente di fronte al carcere di Cremona? Anche perché sono le stesse ragioni che mi hanno indotto, dopo una visita all’interno della struttura, a presentare un’interrogazione parlamentare a cui il ministro non ha ancora trovato il coraggio di rispondere, evidentemente perché dovrebbe dar ragione all’interpellante e a chi oggi protesta". "Sovraffollamento della popolazione detenuta - prosegue - dotazione di agenti inferiore a quanto previsto dalle norme, educatori assolutamente insufficienti per attivare le procedure finalizzate a concedere forme alternative di pena detentiva, diventano elementi di una miscela esplosiva. Lo abbiamo potuto vedere recentemente con la rivolta della scorsa settimana a cui le istituzioni superiori hanno mostrato attenzione solo con l’intento di ridimensionarne pubblicamente la gravità. Il rapporto con il territorio, con le sue forme associative e di volontariato, è sempre più precario e improntato alla discontinuità". "Che dire - conclude Bordo - delle scarsissime opportunità lavorative e di quei macchinari per il laboratorio di falegnameria acquistati a suo tempo dalla Provincia di Cremona e oggi inutilizzati e accatastati in un deposito? Si continua a descrivere il carcere di Cremona come un’oasi felice, ma così non è. Penso inoltre che, per ristabilire un clima di fiducia e collaborazione tra tutti i dipendenti impegnati nella struttura, un avvicendamento di direzione il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria farebbe bene a prenderlo seriamente in considerazione". Varese: Sottosegretario Ferri; l’attuale sede di Polizia Locale potrebbe essere ceduta al carcere La Provincia di Varese, 4 settembre 2014 Sopralluogo ai Miogni del sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri: e l’attuale sede della Polizia Locale potrebbe diventare parte integrante del carcere varesino. Lo conferma il sindaco Attilio Fontana: "È una delle aree proposte dall’amministrazione nell’ottica di un progetto di recupero e ristrutturazione della nostra casa circondariale". Con Ferri e Fontana al sopraluogo di ieri pomeriggio erano presenti anche vicesindaco Carlo Baroni e dal magistrato di sorveglianza dell’Ufficio di Varese, Francesca Ghezzi. Ferri, estremamente disponibile, non si è sottratto alle domande dei cronisti: "Ho voluto verificare personalmente la situazione - ha spiegato a distanza di poco più di un mese dall’impegno preso dal ministro alla Giustizia Andrea Orlando di non chiudere i Miogni ma di trasformarlo in un carcere modello. Ho trovato la struttura in buone condizioni. Eccezion fatta per parte del muro di cinta dichiarato inagibile da cinque anni. Su questo punto cercheremo di intervenire sul breve periodo". Il sottosegretario si è detto "favorevole ad un progetto di ristrutturazione", seguendo la via indicata dal ministro. Proposta che incontra il favore dell’amministrazione: "Abbiamo sempre ritenuto questa la strada migliore - spiega infatti Fontana - Io credo che mantenere i nostri Miogni sia una soluzione migliore sia per gli operatori della giustizia che per i familiari dei detenuti. Una soluzione preferibile alla costruzione di una struttura ex novo". Ed è Ferri a spiegare l’idea alla base della quale il progetto potrebbe svilupparsi: "In linea con quanto prevede la normativa vorremmo creare nuovi spazi destinati al vero recupero dei detenuti - ha spiegato il sottosegretario. Laboratori, strutture dove i detenuti possano imparare un mestiere o sviluppare delle abilità che potrebbero poi sostenerne il reinserimento una volta terminato di scontare la pena". E a questo scopo potrebbe essere destinata l’area che oggi ospita il comando della polizia locale "che diventerebbe parte integrate del carcere - aggiunge Fontana. Lavorando su un progetto di ristrutturazione vorremmo riuscire a fare dei Miogni un carcere modello, dove appunto investire molto sul recupero dei detenuti. Se la proposta venisse realizzata aumenterebbero anche i posti per i detenuti. Senza un progetto posso ipotizzare nuovo spazio tale da accogliere tra gli 80 e i 140 detenuti". Il sottosegretario Ferri ha anche parlato della palazzina fatiscente adiacente ai Miogni: palazzina ormai disabitata da anni e in condizioni di degrado. "Ho chiesto di poter rintracciare la proprietà della stabile - ha detto Ferri - Pare appartenga a persone da tempo trasferitesi in Sudamerica. L’amministrazione si è resa disponibile a rintracciare la proprietà e a verificare la possibilità di intavolare una trattativa per l’acquisizione dell’immobile". "Ovviamente al momento è soltanto un’ipotesi ma, qualora questa trattativa fosse intavolata e avesse esito positivo, quello spazio potrebbe entrare a far parte del carcere e diventare, ad esempio, uno spazio verde. Sempre nell’ottica del recupero dei detenuti. Elimineremmo anche un edificio oggi degradato". Il sottosegretario non ha dato una tempistica: "Dovrà valutare la situazione e sottoporre la questione a diversi tecnici - ha concluso Fontana - Si è dimostrato estremamente disponibile e per questo lo ringrazio pubblicamente". Padova: quei detenuti-pasticceri che fanno risparmiare lo Stato di Marco Fattorini www.linkiesta.it, 4 settembre 2014 Il lavoro in carcere abbatte la recidiva e riduce i costi pubblici. Il caso del panettone di Padova. "Lei immagini un ospedale da cui il 70-90% dei malati esce morto. Oggi le carceri italiane producono una quota di recidiva che arriva a punte del 90%, mentre tra i detenuti che affrontano un percorso lavorativo nei penitenziari la recidiva si attesta all’1 o 2%". Nicola Boscoletto è il presidente della Cooperativa Giotto, opera sociale che fa lavorare 130 detenuti del "Due Palazzi", carcere di massima sicurezza di Padova. Gente che sconta pene lunghe, se non ergastoli. Si fa giardinaggio, manutenzione, call center per ospedali e grandi aziende, costruzione di biciclette per firme blasonate. Ma il fiore all’occhiello è la pasticceria. "I dolci di Giotto" sforna panettoni artigianali, colombe, biscotti, grissini, cesti regalo. Distribuisce in 165 negozi in Italia, vende pure online e all’estero. Ha vinto i premi del Gambero Rosso e nel 2009 i suoi dolci sono arrivati sul tavolo del G8 de L’Aquila, mangiati dai vari Sarkozy, Obama e Merkel. Ma i clienti affezionati risiedono anche in Vaticano: ogni Natale Joseph Ratzinger ordinava 232 panettoni, Papa Francesco ha confermato lo stesso quantitativo. L’eccellenza della pasticceria non è un caso né un colpo di fortuna, ma un obiettivo. Spiega Nicola Boscoletto: "Se prima chi operava nel sociale dava priorità alla valenza del far lavorare, ad esempio, i disabili, per noi questione centrale dev’essere la professionalità. È un problema nostro se utilizziamo lavoratori di fasce svantaggiate, ma il prodotto e il lavoro devono essere qualitativamente al top. Se un’impresa normale dà 100, noi dobbiamo dare 101 perché bisogna fornire stabilità a situazioni di svantaggio". Grazie ad altre quindici cooperative, con cui è nata una sorta di federazione, sono fiorite esperienze simili in giro per l’Italia: al carcere Vallette di Torino e a Rebibbia di Roma c’è un servizio di catering di eccellenza, mentre a Trani i carcerati sfornano taralli e a Siracusa fanno dolci tipici siciliani. "Sono prodotti di qualità che devono confrontarsi col mercato. Si tratta aziende vere e proprie, altrimenti sarebbe assistenzialismo". Eppure la favola bella del lavoro in carcere è eccezione, non regola. Un miracolo che si fa nelle storie di sinergia tra società civile e direttori illuminati, educatori e agenti di polizia penitenziaria. La normalità è tutt’altro che dolce in un paese dove la situazione delle carceri è argomento di cronaca tra suicidi, condizioni disumane, recidiva e disagio. Un primo dato lo fornisce Boscoletto: su circa 54mila detenuti sono solo 800 quelli che oggi lavorano all’interno delle carceri, praticamente un’inezia. "Spinto dall’urgenza dei numeri e del richiamo europeo il ministero non poteva rimanere fermo. Prima la Severino e poi la Cancellieri hanno tentato di dare una spinta portando la società civile nel Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Ma da quando non c’è più la Cancellieri questo processo si è arrestato. Ciò non implica un giudizio negativo su Orlando, però da sei mesi siamo senza il capo del Dap. La società civile sta spingendo, ci sono decine di imprese sociali e cooperative che stanno aspettando risposta per incontri perché non muoiano progetti che per anni sono stati sperimentati con risultati positivi". In un paio d’anni il sovraffollamento delle carceri italiane è stato sgonfiato: dai 70mila ai poco più di 50mila di oggi. Eppure l’emergenza non rientra. "Rischiamo di concentrarci sull’aspetto formale dei numeri e non sul contenuto, serve il ripristino della funzione del carcere, cioè quella di restituire una persona meglio di come è entrata. Se il 70-90% dei malati che entrano in ospedale escono morti, oppure se il 70-90% degli studenti che vanno a scuola vengono bocciati, allora c’è qualche problema. Oggi le carceri italiane producono una recidiva che arriva a punte del 90%, vuol dire che il sistema ha fallito". È un cane che si morde la coda, nonostante appelli degli addetti ai lavori e situazioni note che si perpetuano negli anni. Prosegue Boscoletto: "Se noi pensiamo di aver risolto il problema del sovraffollamento grazie al fatto che tutti vivono in spazi superiori ai 3 metri quadri, io dico che non ne bastano nemmeno 100 di metri se non si abbina l’aspetto sanitario, lavorativo, educativo". La chiosa ha il sapore della disillusione: "Einstein diceva che non bisogna affidare la soluzione di un problema a chi il problema lo ha procurato, ma bisogna darlo a un altro. Qui ci si ostina a risolvere i problemi nello stesso modo e con le stesse persone che li hanno provocati". A detta di chi nel carcere ci lavora, le priorità per l’agenda governativa sono tre. La prima, spiega il presidente della Cooperativa Giotto, è "un reale principio di accoglienza, ragion per cui non può esserci solo un bancomat che ti dà il numero di cella, i vestiti, il vassoio e il numero di matricola. Devono esserci persone che accolgono altre persone secondo lo scopo del vigilare e redimere". La seconda urgenza è di carattere sanitario: "Il carcere è pluriperiferia in cui ci sono extracomunitari provenienti da decine di paesi, invalidi, persone con problemi psichiatrici, tossicodipendenti, disagiati sociali. L’aspetto sanitario non può ridursi a distribuzione di psicofarmaci". Il terzo punto risiede nel lavoro dei detenuti. E qui scatta l’obiezione popolare: perché in tempi di crisi, quando padri e figli sono disoccupati, bisogna dare lavoro ai delinquenti? Risponde Boscoletto: "Innanzitutto c’è un vantaggio economico. Per ogni milione di euro investito nella rieducazione se ne risparmiano nove. Con gli 800 detenuti che lavorano la recidiva passa dal 70-90% all’1 o 2%. Senza contare che tra costi diretti e indiretti lo Stato sborsa 250 euro al giorno per ciascun detenuto, parliamo di miliardi di euro che si ripetono come spesa ordinaria ogni anno. Un dato su tutti: per ogni detenuto recuperato si risparmierebbero 100mila euro annui". La rieducazione del condannato, sancita dall’articolo 27 della Costituzione, coniuga recupero della persona, sicurezza sociale ed economicità. Altrimenti l’esempio di scuola è quello del detenuto che esce di galera e torna a scippare la vecchietta, che a sua volta cade e si rompe il femore. Intervengono le spese sanitarie per l’ospedale, le spese della sicurezza per la polizia che arresta il delinquente oltre a quelle giudiziarie una volta compiuto il passaggio in tribunale, infine al conto si aggiunge il costo del carcere. La filiera sembra banale, ma comporta l’esborso fior di quattrini per le tasche pubbliche, ragion per cui il lavoro in carcere conviene all’uomo e allo Stato. Produce ricchezza anche fuori dalle mura del penitenziario. A Padova, ad esempio, per i 130 detenuti che lavorano, ce ne sono almeno altri 30 che hanno trovato occupazione fornendo know-how, macchinari, supporto amministrativo. Un vero e proprio indotto che Boscoletto quantifica così: "Il rapporto tra lavoratori liberi e detenuti è circa di 1 a 5. Se le 800 persone detenute oggi smettessero di lavorare, altre 200 o giù di lì perderebbero il lavoro". Alla fine della fiera i reclusi che hanno intrapreso un percorso lavorativo sono troppo pochi. Una minoranza privilegiata, che può contare su una seconda possibilità. Gli insider lamentano mancanza di fondi, assenza di progettualità di medio-lungo periodo, troppa burocrazia che scoraggia le aziende. Attacca Boscoletto: "Ci metti un anno a entrare in carcere e poi quando sei dentro ti dicono che non sanno se puoi restare perché non si sa se ci sono i finanziamenti. Che poi non sono semplici finanziamenti, ma investimenti. Perché ci si guadagna". Il presidente della Cooperativa Giotto cita l’esempio del febbraio 2013, quando il ministro Severino dispose un finanziamento straordinario di 16 milioni di euro per incentivare il lavoro penitenziario. "Oggi - attacca Boscoletto - di quel decreto la burocrazia ha fatto di tutto perché il finanziamento si possa usare il meno possibile e il più tardi possibile. Nessuno ha voluto recepire ciò che arrivava nella forma di suggerimento da società civile, imprese sociali e da chi opera nel carcere da decine di anni". Di governo in governo. Il ministro Cancellieri ha incrementato il budget della legge Smuraglia, quella che favorisce il lavoro dei detenuti. Circa 5,5 milioni in più. "Però a questo non corrisponde una spinta istituzionale centrale per fare in modo che gli 800 detenuti sui 54mila che oggi lavorano all’interno delle carceri diventino di più, anzi rischiamo seriamente che diminuiscano". Da Padova all’Italia, da una parte i panettoni dei pasticceri carcerati, dall’altra l’ozio h24 al chiuso delle celle. I due mondi corrono paralleli, non s’incontrano nemmeno per sbaglio. L’esperienza di Giotto, come quella delle cooperative che operano nei penitenziari d’Italia, ha dimostrato che la ricetta funziona. E basta poco. "Non ha vinto il carcere, ma la professionalità". Nicola Boscoletto evoca un cambio di passo culturale "che renda obbligatorio per lo Stato utilizzare il lavoro come trattamento di rieducazione". I risultati fanno la differenza. Soprattutto perché "la cosa più bella è vedere un altro uomo cambiare e noi di questi spettacoli in carcere ne abbiamo visti parecchi". Lanciano (Ch): da venerdì "sciopero straordinari" da parte agenti di Polizia penitenziaria Ansa, 4 settembre 2014 Dal 5 settembre sciopero degli straordinari degli agenti di Polizia penitenziaria in stato di agitazione da un mese in protesta dallo scorso 4 agosto contro la perdurante mancanza di personale costretto a turni massacranti fino a 12 ore al giorno. A agosto c’era stato un iniziale sit-in di protesta davanti al supercarcere di Villa Stanazzo. Con lo sciopero degli straordinari parte la seconda fase di agitazione indetta dai sindacati Uil, Sappe, Sinappe, Cnpp, Cgil e Osapp a cui hanno aderito l’80 per cento degli agenti penitenziari. "Attualmente sono in servizio 148 agenti a fronte di circa 300 detenuti e la mancanza di personale, che non garantisce il lavoro al minimo di sicurezza, era stato più volte e inutilmente segnalato al Provveditorato regionale il cui dirigente e ora in pensione e sarà sostituito da altro dirigente. Se non saremo ascoltati neppure stavolta - dice Ruggero Di Giovanni - segretario Uil Penitenziari, attueremo forme di protesta più incisive e rumorose". Rovigo: "La città entra in carcere", iniziativa promossa dal Centro Francescano di Ascolto Ristretti Orizzonti, 4 settembre 2014 Giovedì 18 e venerdì 19 settembre sarà possibile entrare nella Casa Circondariale di Rovigo, apprendendo la storia del luogo attraverso una visita guidata che verrà fatta dalla presidente del Fai Chiara Tosini con l’ausilio di alcune persone ristrette. L’iniziativa dal titolo "Salviamo il salvabile" si colloca all’interno del progetto "Tra memoria e futuro", promosso dal Centro Francescano di Ascolto con la collaborazione della Fondazione Banca del Monte, Archivio di Stato e Centro di Servizio per il Volontariato. La visita renderà note tutta una serie di nozioni di architettura penitenziaria, attraverso cenni storici per comprendere come si sono sviluppati gli istituti di pena a Rovigo, e come l’attuale Palazzo del Tribunale e la Casa Circondariale di Rovigo insistano su quello che era un Convento delle Monache agostiniane della SS. Trinità, chiuso dal 1810, trasformato sul finire dell’800. Di come erano dislocati i luoghi di pena in precedenza sino al ricordo del tragico episodio dell’evasione del 1982. Per le due visite, previste per giovedì 18 e venerdì 19 settembre, con entrata dalle ore 14,30 e conclusione alle ore 17,00 saranno ammesse 40 persone (20 a giornata) e gli interessati dovranno far pervenire la richiesta alla mail centroascolto@tiscali.it o al fax 0425.28385 entro le ore 12,00 del 9 settembre con i dati: cognome e nome, luogo e data di nascita, residenza, estremi documento di riconoscimento. Bari: oggi presentazione del Protocollo d’Intesa Sperimentale siglato il 23 luglio 2014 Comunicato stampa, 4 settembre 2014 Ore 10.30, Casa Circondariale di Bari. Il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola ed il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Giuseppe Martone saranno presenti alla Conferenza Stampa di presentazione del Protocollo d’Intesa Sperimentale siglato il 23 Luglio 2014 tra il direttore della Casa Circondariale di Bari Lidia De Leonardis, l’Assessore regionale allo Studio e Formazione Professionale Alba Sasso ed al Garante dei diritti dei detenuti della Puglia Piero Rossi. Alla conferenza stampa parteciperà altresì l’Assessore Regionale Risorse Agroalimentari e Agricoltura Fabrizio Nardoni per l’iniziativa "orto in carcere" ed il Consigliere regionale Angelo Di Sabato. Il Protocollo innovativo e sperimentale tra le due Istituzioni nasce da uno studio svolto dal direttore Lidia de Leonardis e dal responsabile dell’area Educativa della casa Circondariale di Bari Tommaso Minervini nello spirito dell’accordo sottoscritto il 14.12.2012 tra il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria ed il Presidente della Regione Puglia, in materia di inclusione sociale delle persone sottoposte a provvedimenti restrittivi della libertà. Il Protocollo che sarà presentato, ha quale obiettivo primario quello di promuovere la realizzazione di "un sistema innovativo sperimentale integrato", capace di esportare un nuovo modello penale, che sia insieme inclusivo, deflattivo del sistema penitenziario, anticipatore del principio della giustizia riparativa, attraverso l’impiego di tali detenuti in lavori di pubblica utilità, orientato ad una dimensione di "carcere aperto", alternativo e territoriale, sulla scia delle più avanzate esperienze europee, capace quindi di offrire concrete possibilità di reinserimento sociale, anche attraverso l’orientamento e il sostegno all’inserimento lavorativo, scolastico e della formazione professionale e culturale, nell’ambito della affermazione e del rilancio di una cultura della legalità. Tale proposta si svilupperà in due fasi. Si potenzia così il significato Costituzionale della pena, nello spirito di un’esecuzione penale innovativa, che voglia promuovere il "miglioramento delle qualità della detenzione" attraverso un modello inclusivo dell’esecuzione penale e che realizzi un effettivo reinserimento sociale ed attui la Giustizia riparativa attraverso l’impiego di tali detenuti in lavori di pubblica utilità. Nella stessa Conferenza stampa altresì sarà presentato con l’Assessore Regionale Risorse Agroalimentari e Agricoltura Fabrizio Tardoni l’iniziativa "orto in carcere". Il Progetto avviato nel mese di Maggio 2014 ha previsto l’allestimento di un orto attraverso la tecnica idroponica, ossia in assenza di terreno, allestito in maniera volontaria dall’Associazione Civiltà Contadina di Molfetta e dalla Ditta "Facchini e Francese". Il progetto prevede il diretto coinvolgimento dei detenuti ai quali è affidata la cura quotidiana dell’orto e la raccolta dei prodotti della terra. Gli ortaggi saranno distribuiti, in parte alla "Caritas" di Bari, incrementando quel circolo virtuoso tra carcere e territorio nello spirito di rinnovamento dell’Istituto barese voluto dalla nuova dalla Direttrice della Casa Circondariale Lidia De Leonardis, dal Capo Area Sicurezza Francesca De Musso e dal Capo Area Trattamentale Tommaso Minervini. Un rinnovamento ed adeguamento ai principi Costituzionali ed Europei possibile grazie alla grande considerazione che il territorio culturale e del volontariato di Terra di Bari e degli Enti Istituzionali, principalmente la Regione Puglia, hanno nei confronti della nuova operatività gestionale della Casa Circondariale del capoluogo pugliese. Livorno: un’iniziativa culturale per la valorizzazione del lavoro dei detenuti a Pianosa www.parks.it, 4 settembre 2014 Il Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano insieme al Comune di Campo nell’Elba e all’Amministrazione Penitenziaria di Porto Azzurro, con la collaborazione di alcuni volontari, hanno organizzato per Domenica 7 settembre la seconda escursione serale a Pianosa, una iniziativa culturale ed enogastronomica volta alla valorizzazione del lavoro dei detenuti di Pianosa di Porto Azzurro e di Gorgona. L’accordo tra il Ministero della Giustizia e il Ministero dell’ Ambiente per far lavorare i detenuti nei parchi ha prodotto tra Comune di Campo nell’Elba, Parco e Carcere di Porto Azzurro una positiva sinergia che ha messo a frutto l’attività lavorativa dei detenuti in regime di semilibertà. Grazie a questo progetto pilota su Pianosa è stata intensificata la manutenzione dei percorsi verdi, quella delle aree archeologiche, la sistemazione dei muri di pietra, infine dallo scorso marzo sono stati dissodati i terreni dell’ex pollaio per le orticole. Gli agenti di guardia hanno dato un impulso molto positivo a questa sperimentazione: i risultati della produzione sono ora a disposizione per una ghiotta degustazione. I lavoratori possono impiegare il loro tempo in modo socialmente utile e constatare l’apprezzamento dei loro sforzi da parte degli ospiti. Un progetto che mette d’accordo, trasversalmente, gli obbiettivi primari degli attori istituzionali coinvolti: la ricerca della tutela ambientale e dello sviluppo sostenibile per il Parco, il recupero sociale dei detenuti per il carcere, la valorizzazione della splendida isola per il Comune di Campo nell’Elba. Sarà un evento godibilissimo in uno scenario spettacolare anche per il palato, grazie all’arte del grande cuoco elbano Alvaro Claudi. Molte persone hanno salutato con favore l’iniziativa della cena fatta a Pianosa lo scorso 19 agosto scorso per celebrare il Bimillenario della morte di Augusto e da più parti sono provenute sollecitazioni per replicare. La serata del 7 settembre avrà come tema l’osservazione del cielo con l’Associazione astrofili Elbani. Gli ospiti saranno guidati nell’osservazione del disco solare con l’uso di speciali telescopi per scoprire le tempeste di fuoco nell’astro. Vi sarà anche il tempo per bagno ristoratore o per immergersi nella storia e natura dei luoghi. Poi si partirà con la cena a Km 0: da Pianosa i prodotti orticoli, da Porto Azzurro il pane e da Gorgona i formaggi. La prenotazione della cena non è necessaria poiché vi saranno coperti per le 200 persone traghettate. Trasferimento da Marina di Campo Partenza per Pianosa ore 15.00 e rientro ore 22,00. Arrivo a Marina di Campo alle ore 23.00 Biglietto non residenti A/R 26.90 €, bambini dai 4 ai 12 anni 10 € Biglietto per residenti A/R 8.00€, bambini dai 4 ai 12 anni 4 €. Info e prenotazioni: Aquavision 0565.976022 e 328.7095470 fino alle ore 23.00 o c/o ufficio Aquavision a Marina di Campo Programma ore 16.00 osservazione del sole con gli astrofili ore 17.00 relax in spiaggia, visite alle mostre nel paese, possibilità di escursioni con guida ore 20.00 cena all’aperto a € 15.00 Il biglietto della cena si paga direttamente sull’isola alla cassa della coop. San Giacomo. Nel prezzo è compreso il primo, il secondo, pane e acqua e kit personale di piatti e posate per il pasto. Non è compreso il vino che si paga a bicchiere o a bottiglia. Altre bevande, gelati e caffè saranno disponibili al bar ristorante. La borsa di carta fornita servirà alla fine per riportare i rifiuti. Menù Cena al chiar di luna di Alvaro Claudi Primo - Pappa tiepida di verdure pianosine: pane di Forte S. Giacomo con verdure fresche, pomodori maturi e basilico dell’Isola Secondo - Scrigno di terra e mare: Filetto di sgombro sabbiato con salsa di limoni e capperi e Turbante di caponata in agrodolce, Barchetta di pomodoro alla ricotta gorgonese con marmellata di cipolle rosse, Erbette strascicate con aglio e olio di peperoncino verde Cinema: "Comandante", a Milano Film Festival storia dell’estremista che salvò un magistrato di Alberto Pezzetta Corriere della Sera, 4 settembre 2014 Enrico Maisto, figlio del giudice Francesco, racconta l’amicizia del padre con l’extraparlamentare Felice. È l’ultima fase degli anni di piombo, la più feroce e delirante. Prima Linea prende di mira magistrati democratici come Guido Galli, ucciso alla Statale il 19 marzo 1980. E in una trattoria della Barona, il Mulino Doppio, gestita da ex di Lotta Continua, si incontrano due insospettabili: l’extraparlamentare Felice e un Giudice di sorveglianza di San Vittore, Francesco Maisto. Il figlio di quest’ultimo, Enrico, oggi ha ventisei anni e racconta questa amicizia in "Comandante", il suo film d’esordio: in concorso al Milano Film Festival l’11 settembre. Enrico Maisto da piccolo giocava nel garage di Felice. "Volevo raccontare in un film un personaggio della mia infanzia, che sembrava uscito dalle pagine di Garcia Màrquez. Poi, parlando con lui, ho scoperto una vicenda che ignoravo". Il giudice Maisto era diventato un bersaglio dei terroristi e si salvò grazie all’intervento di Felice che oggi si schermisce e minimizza. "Il mio progetto è cambiato", continua Enrico. "Ho sentito la necessità di fare i conti con il passato. E ho deciso di far parlare anche mio padre, che all’epoca lavorava in un carcere pieno di detenuti "politici". A lui si deve, tra l’altro, l’abolizione delle vecchie e disumane celle di rigore di San Vittore. "Mio padre si occupava della tutela dei diritti dei detenuti. Un ruolo scomodo, pieno di contraddizioni. Anche mia madre è un magistrato e fin da piccolo mi sono sempre sentito attratto dal loro lavoro". Ma perché un giudice, sia pure illuminato, frequentava un covo di estremisti come il Mulino Doppio (oggi convertito in trattoria toscana)? "Lo interpreto come un gesto quasi provocatorio da parte di mio padre, per distinguersi da un sistema con cui non si identificava del tutto. Ma soprattutto penso volesse conservare un dialogo con una parte della società in rivolta. La sua amicizia con Felice rimane comunque un enigma. Ho lasciato che sia lo spettatore a immaginare che cosa lì univa". Ma Felice, che cosa pensava del terrorismo? "Era legato a un ideale romantico di ribellione, alla Che Guevara. Infatti è sempre stato legato a Cuba. All’epoca ammetteva che si potesse ricorrere alla violenza, ma solo per uccidere i "fetenti", come diceva lui. Era estraneo ai calcoli strategia di chi uccideva gli onesti per far implodere lo Stato. E l’ha dimostrato". Enrico Maisto, ventisei anni, si è laureato in Filosofia con una tesi specialistica su Nietzsche e Orson Welles. Come regista è autodidatta. "Ho imparato molto realizzando il backstage di "Vincere" di Bellocchio. E sono molto contento che un film tatto in casa come il mio sia stato selezionato al Milano Film Festival". Come hanno reagito i protagonisti di "Comandante"? "Ero molto in apprensione. Felice alla fine si è alzato e mi ha abbracciato. Mio padre si è riconosciuto nella sua scissione tra essere parte di un’istituzione e il desiderio di cambiare la società. Ma soprattutto mi ha colpito mia madre. "Non ho mai visto mio marito cosi senza difese", mi ha detto. "È stato un grande atto di amore da parte sua". Immigrazione: Garante; nel Cie di Ponte Galeria un nigeriano in sciopero della fame Agi, 4 settembre 2014 Un cittadino di origine nigeriana, trattenuto al Cie di Ponte Galeria dallo scorso 13 giugno, da circa due settimane sta sostenendo uno sciopero della fame e un parziale sciopero della sete, che lo hanno portato a perdere 14 kg. La vicenda è stata denunciata dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni che dal 2008, con i suoi collaboratori, ogni settimana visita la struttura ed effettuano colloqui con gli stranieri trattenuti. L’uomo, D.M., ha una moglie e due figli minori regolarmente residenti in Francia, ed ha avviato la sua protesta perché intende ricongiungersi con la propria famiglia. Immigrazione: Bonafoni (Pl); una nuova tragedia umana nel Cie di Roma Ponte Galeria Dire, 4 settembre 2014 La notizia dell’ennesimo gesto estremo messo in atto in questo caso da un cittadino di origini nigeriane recluso nel Cie di Ponte Galeria e in sciopero della fame totale da due settimane sottolinea - semmai fosse necessario - l’inutilità nonché la pericolosità sociale di strutture come i Cie. Istituzioni totali, adibite a "carceri di passaggio" dove ai cittadini immigrati sono sospesi arbitrariamente tutti i diritti civili ed anche umani. Quello denunciato oggi dal Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni è solo l’ultimo caso di una lunga serie di gesti come questo, estremi al limite dell’autolesionismo, che gli immigrati sono costretti a compiere per non far cadere nell’oblio la loro inumana situazione. I centri di detenzione temporanea vanno chiusi, così come richiesto in una mia mozione presentata nei mesi scorsi in Consiglio regionale, superando così il paradosso della normativa italiana e comunitaria in tema d’immigrazione. Una normativa incapace di approvare e applicare leggi in grado di garantire accoglienza ma anche il ricongiungimento famigliare, come accaduto in questo caso, in cui il diritto di ricomposizione della famiglia viene negato perché la moglie e i due figli dell’uomo vivono in Francia. La dichiarazione di Marta Bonafoni, vice capo gruppo Per il Lazio. Germania: io, tassista italiano, spogliato e sbattuto in cella senza neanche sapere il perché di Riccardo Bastianello Corriere della Sera, 4 settembre 2014 L’odissea del tassista padovano incarcerato e prosciolto: "Clandestini sulla mia vettura? Avevano tablet e iphone". "Mi hanno spogliato, mi hanno tolto anche le mutande e mi hanno messo la divisa del carcere. Che perdessi la giacca e non entrassi nei pantaloni non gli interessava. Poi, per 15 giorni, ho solo letto e scritto, ha passato giorni interi senza aprire bocca, non volevo parlare con nessuno, io non sono un delinquente come gli altri lì dentro. Potrei fare un libro con le oltre venti lettere scritte ai miei familiari, molte di queste non me le hanno nemmeno spedite. Ho rivisto tutta la mia vita. Quindici giorni che mi hanno distrutto, moralmente e fisicamente". La voce di Fabio Forin, padovano, inizia a tremare; quando racconta dei giorni trascorsi in carcere, gli occhi diventano rossi. Lui è uno di quei tassisti veneti finiti nei guai in Germania con l’accusa di avere introdotto degli stranieri clandestini in territorio tedesco. Clandestini che per lui erano normali clienti, visto che un tassista non può certo chiedere i documenti prima di accettare i passeggeri. Un incubo, quello vissuto dall’uomo, che ieri ha voluto raccontare nello studio del suo avvocato Carlo Bottoli per fare finalmente luce su una vicenda che l’ha profondamente segnato. "Hanno scritto che sono come uno "scafista" - continua Forin, io che ho tre figli e tre ragazzi in affido, due nigeriani e una moldava, e sono presidente di un’associazione sportiva senza sponsor né finanziatori, solo per permettere ai tutti i ragazzi di giocare a calcio. Mi viene voglia di mollare tutto, non è possibile essere infamato così senza aver commesso nulla". L’odissea per Forin inizia il 21 luglio scorso, quando viene chiamato da una ditta con cui collabora per andare a prelevare delle persone in centro a Milano, da trasportare alla stazione di Monaco di Baviera ed eventualmente, per alcune di loro, in Danimarca. "Erano vestiti bene, avevano iphone e tablet - ricorda Forin - erano puliti, sbarbati e ad accompagnarli c’era quella che io pensavo fosse una guida turistica, con una cartellina in mano e intenta a spuntare i nomi di chi entrava in auto. Avevo anche visto che avevano il passaporto, come avrei mai potuto pensare che fossero irregolari?". Dopo essere stato fermato dalla polizia tedesca a Rosenheim, Forin capisce che qualcosa non va. "Pensavo mi chiedessero una deposizione - ha continuato - ma parlavano solo in tedesco e nessuno in inglese. Non riuscivo a capire cosa mi stava succedendo. Mi hanno fatto spogliare in una stanza insieme ad altre 8 persone, io non capivo. Mi hanno svuotato le tasche e il portafoglio e fotocopiato ogni singolo bigliettino o appunto. Poi mi hanno portato in carcere e solo dopo 4giornì, a forza di pregare in ginocchio, mi hanno concesso una telefonata per avvisare i miei familiari, Ormai temevano che fossi morto". Dopo il processo per direttissima, una traduttrice gli ha spiegato che servivano altri giorni di indagini, Forin è stato così portato in un altro carcere, a Traunstein, in una cella d’isolamento. "Quando mia moglie ha chiamato la Farnesina - ha continuato - le hanno detto che è pieno di mariti che vanno a prostitute all’estero e di stare tranquilla, che prima 0 poi sarei tornato. Il consolato poi non sapeva nemmeno della mia detenzione, Se non avessi avuto delle persone che mi vogliono bene, dei veri amici, sarei ancora lì dentro". Fortunatamente, il 6 agosto arrivato il rilascio e l’n il proscioglimento ufficiale da tutte le accuse, "I danni che ho subito sono tantissimi -concluso il tassista padovano scuotendo la testa - dal punto di vista del lavoro, danni materiali, psicologici, danni alla mia famiglia e alla società sportiva che presiedo. Io non sono uno scafista". India: non solo i marò… mobilitazione per un documentario sulla storia di Tomaso Bruno di Licia Casali Il Secolo XIX, 4 settembre 2014 Il caso dei marò detenuti in India continua a far discutere dopo il malore di Salvatore Latorre. Ma nelle prigioni indiane ci sono altri italiani: Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni (lui di Albenga, lei di Torino), dopo un processo controverso, stanno scontando un ergastolo vivendo in baracche che ospitano sino a 140 detenuti e che in estate sfiorano i 50 gradi. Hanno la corrente elettrica solo per qualche ora al giorno, bevono acqua non potabile e dormono a terra su strati di stuoie e coperte senza contatto con il mondo esterno, se non la scrittura di lettere. A loro non sono mai stati concessi né il rimpatrio né la libertà su cauzione: nelle prossime settimane sarà pronunciata la sentenza definitiva della Corte Suprema di Nuova Delhi. La loro storia dovrebbe diventare un documentario dal titolo "Più libero di prima": i suoi ideatori stanno raccogliendo i fondi necessari tramite un crow-founding. Sinora sono stati raccolti poco meno di 4mila euro: l’obiettivo, da raggiungere entro fine mese, è 10.680. "Vogliamo essere lì, il giorno della sentenza - spiegano - per poter testimoniare che cosa succederà. Perché nessun altro, a parte noi, lo farà. Vogliamo raccontarvi chi è oggi Tomaso Bruno, dopo milleseicento giorni di ingiusta prigionia". Siria: ostaggi Usa sono stati detenuti da cittadini canadesi che hanno aderito ad al Qaida Tm News, 4 settembre 2014 Almeno tre canadesi che hanno aderito al braccio siriano di al Qaida sono stati direttamente coinvolti nella detenzione di due giornalisti americani, che sono stati in seguito rilasciati. Lo ha indicato la tv pubblica canadese Cbc. Citando fonti di sicurezza non identificate, la Cbc ha affermato che i canadesi, la cui identità non è stata rivelata, hanno costretto il giornalista americano Peter Theo Curtis e il fotografo Matt Schrier a rivelare le password dei loro computer, per poter avere accesso ai loro conti correnti bancari e utilizzare le loro carte di credito. Hanno così potuto scrivere alle famiglie dei due uomini, spacciandosi per loro, secondo la Cbc. Il governo di Ottawa ha aperto un’inchiesta su questa vicenda. Curtis e Schrier sono stati prigionieri insieme ad Aleppo, in Siria, nel 2012 e nel 2013. Peter Theo Curtis, il cui sequestro era stato tenuto segreto, è stato liberato dal Fronte al Nusra - braccio siriano di al Qaida - lo scorso mese, dopo 22 mesi di prigionia. Matt Schrier era da parte sua riuscito a fuggire da una piccola finestra nel luglio 2013, sette mesi dopo essere stato rapito. Malgrado gli sforzi Curtis, leggermente più largo, non era riuscito a farcela, restando bloccato e non riuscendo a scappare. Ong: 5.281 morti per torture dal 2011, 243 ad agosto Sono 5.281 le persone morte in seguito alle torture subite nelle carceri del regime del presidente siriano Bashar al-Assad dall’inizio del conflitto nel marzo del 2011. Lo denuncia l’ultimo rapporto della Rete siriana per i diritti umani, nel quale si legge che 5.281 persone, tra cui 94 bambini e 32 donne, sono state torturate fino al decesso. Solo ad agosto, 243 persone sono morte per torture in Siria. Turchia: uccise manifestante, poliziotto condannato 7 anni carcere Aki, 4 settembre 2014 Un tribunale di Ankara ha condannato a sette anni e nove mesi di carcere un poliziotto accusato di aver ucciso un manifestante durante le proteste antigovernative dello scorso anno. Lo riportano i siti turchi, spiegando che il poliziotto Ahmet Sahbaz era sotto processo con l’accusa di aver sparato al manifestante 26enne Ethem Sarisuluk, durante una protesta ad Ankara. Alla lettura della sentenza, alcuni dei presenti in aula hanno protestato e scandito lo slogan "stato assassino", sostenendo che la pena inflitta all’agente sia troppo leggera.