Giustizia: una riformicchia buona per ogni uso di Valter Vecellio Notizie Radicali, 3 settembre 2014 Che cosa farà il ministro della Giustizia Andrea Orlando? Inseguirà l’Associazione Nazionale dei Magistrati, la mission è tentare di rabbonire le toghe, che sarebbero deluse e preoccupate sulle riforme annunciate e che chissà se e come, ma anche quando, andranno in porto. L’obiettivo del ministro Orlando è scongiurare una rottura con i magistrati, che sembra la preoccupazione costante di chi siede a via Arenula. Ma cosa paventano i magistrati associati dell’Anm? Lo dice Rodolfo Sabelli, il presidente: "Si rischia di aumentare a dismisura i ricorsi, anche strumentali, contro i magistrati". Fosse mai che un magistrato possa essere chiamato a rispondere del suo operato come un qualsiasi professionista, un medico o un architetto, per dire. Finora è stata una pacchia: in quasi trent’anni di legge Vassalli sulla responsabilità civile, quanti magistrati sono stati chiamati a rispondere dei loro doli o colpe gravi? Quattro! La dice lunga su come funziona (o meglio, non funziona) questa legge, la dice lunga su come funziona (o meglio, non funziona) il Consiglio Superiore della Magistratura. E come funzionino (o meglio, non funzionino) le cose lo comprende un lettore attento dei giornali: che riportano ogni settimana almeno uno o due casi di cittadini accusati di crimini gravi, tenuti in carcere per giorni e settimane, e poi, quando va bene, con una pacca sulle spalle scagionati. Per dire: il ministro della Giustizia Orlando, tra un "inseguimento" e l’altro, gli venisse la voglia e la curiosità di spiegare come sia potuta accadere quella mostruosità delle presunte sevizie sessuali nell’asilo di Rignano Flaminio? E volesse provare il presidente Sabelli, a spiegarcelo? E, naturalmente il Csm, visto che chi era titolare di quell’inchiesta finita alle ortiche, è pure stato promosso? Di casi come questo se ne potrebbero citare centinaia, finiti come bolle di sapone, nessuno ha pagato, nessuno ha chiesto scusa. Ora può essere pure che chi scrive sia affetto da congenita, radicata, pregiudizievole diffidenza nei confronti dei magistrati. Non si ha alcuna difficoltà ad ammettere che non sono molte le toghe conosciute in più o meno quarant’anni di mestiere giornalistico, di cui ci si fida, e di tantissimi invece si diffida. Con molta amarezza, chi scrive, trova ottimo il consiglio di Benedetto Croce contenuto in una lettera a Giovanni Amendola a proposito di una disavventura giudiziaria capitata a Giuseppe Prezzolini, il consiglio era di stare quanto più possibile lontano dai tribunali, e… pensate… la data della lettera è del 1 giugno 1911! Come da allora sia mutato poco, e quel poco non in meglio ognuno lo sa e lo vede. Giustizia: le nomine alla Consulta e al Csm, l’altra faccia del "patto del Nazareno" di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 3 settembre 2014 Nomine. Pd e Forza Italia cercano un’intesa che faciliti le riforme. Tra una settimana i nuovi scrutini. Napolitano pressa il parlamento: i partiti si concentrino, le scelte (8 consiglieri e 2 giudici) non possono più essere rinviate. Cinquecentosettanta voti: tanti ne servono al parlamento in seduta comune per eleggere i due giudici costituzionali che non riesce ad eleggere da tre mesi. Gli stessi voti, anzi meno visto che il quorum dei 3/5 in questo caso è calcolato sui votanti, servono per scegliere gli otto componenti "laici" del nuovo Consiglio superiore della magistratura; quello nuovo è rimasto in carica proprio in conseguenza del ritardo delle camere ed è la prima volta che succede nella storia della Repubblica. Paradossi delle larghe intese: Pd centristi e Forza Italia riescono ad accordarsi su quasi tutto, dalle riforme costituzionali a quelle sulla giustizia alla legge elettorale, ma non trovano l’intesa "costituzionale" sugli organi di garanzia. Succede perché le nomine vengono giocate su più tavoli e servono ai partiti per suggellare altri accordi. E così giudici costituzionali e consiglieri del Csm devono servire a "facilitare" le riforme, ecco spiegata la serie di votazioni in bianco, già sei per la Consulta e tre per il Csm. Il 10 settembre il parlamento è nuovamente convocato in seduta comune, e il presidente della Repubblica ieri ha invitato con forza a non perdere altro tempo. Si tratta, ha scritto Napolitano ai presidenti di senato e camera, di "adempimenti non ulteriormente differibili". Anche perché era stato proprio Napolitano a prorogare in vita il Csm, a luglio, malgrado lui stesso pochi giorni prima avesse raccomandato al vecchio Consiglio (di cui è presidente) di non accelerare certe nomine delicate (procuratore capo di Palermo) in vista della nuova consiliatura. Che invece deve ancora partire: i magistrati hanno eletto i loro rappresentati ma i parlamentari ancora no. Anzi ufficialmente è per questo che il governo ha scelto di rinviare la presentazione della riforma del Csm, una "rispettosa attesa" che è tornata utile per rimandare un sicuro scontro nella maggioranza. I due giudici costituzionali mancanti dovrebbero invece ricostituire quel plenum della Consulta che manca da oltre due mesi, fondamentale in vista di decisioni importanti. Per esempio quella sulla costituzionalità della legge elettorale per i parlamentari europei, un giudizio che ha parecchi punti di contatto con quello che ha mutilato il Porcellum: il relatore di quella storica sentenza - il giudice Tesauro - è adesso presidente della Corte, ma è prossimo alla scadenza. A novembre, infatti, Napolitano si troverà nella straordinaria condizione di poter nominare ancora due giudici costituzionali (il suo quarto e il suo quinto) e la Consulta finirà con l’essere rinnovata per quattro quindicesimi rispetto a inizio anno. La lettera di Napolitano è solo l’ultimo dei richiami al parlamento. "È indispensabile - scrive adesso il capo dello stato - che le forze politiche, benché pressate da numerosi impegni, dedichino nel corso di questa settimana l’attenzione necessaria per compiere le loro scelte e garantire l’esito positivo delle prossime votazioni". Grasso e Boldrini hanno aggiunto la loro "totale condivisione" e hanno girato la missiva ai capigruppo, in vista della ripresa dei lavori. Le trattative riprenderanno. Pd e Forza Italia non intendono rinunciare alle loro caselle, e per la Consulta i nomi che restano sulla bocca dei parlamentari sono ancora quelli dell’ex presidente della camera Luciano Violante e del senatore berlusconiano Donato Bruno. Per il Csm la suddivisione classica prevede 5 consiglieri alla maggioranza e 3 all’opposizione. Il Pd ha in squadra il maestro di procedura penale Fiandaca, giurista tra i più critici del processo palermitano sulla trattativa stato mafia, convinto a correre per le europee dal ministro della giustizia Orlando ma alla fine non eletto. Il suo è un nome buono per la vice presidenza del Consiglio. Così come lo sarebbe quello dell’ex ministra Severino, casella che può andar bene a una parte dei centristi - non tutti - che pure chiedono spazio al Pd. Resterebbero esclusi dai giochi i voti di Sel (una trentina tra camera e senato) e soprattutto quelli del Movimento 5 stelle (quasi 150), che invece potrebbero offrire al Pd un’alternativa all’alleanza con i berlusconiani, non ci fossero in ballo gli accordi del famoso "patto del Nazareno". Intanto va a merito dei grillini l’aver presentato candidature ufficiali, offerte al giudizio della rete dal capo del Movimento. Proposte quasi sempre ottime che sono state le uniche a raccogliere qualche voto nelle nove precedenti, e inutili, votazioni. Giustizia: Osapp: l’8 settembre protesta contro disgregazione della Polizia penitenziaria Comunicato stampa, 3 settembre 2014 L’Osapp, organizzazione sindacale autonoma di Polizia penitenziaria, ha lanciato un messaggio al Ministro Orlando, contro la disgregazione della Polizia penitenziaria e annunciando l’intenzion di protestare l’8 settembre prossimo. "Da anni mancano interesse e iniziative nei confronti della Polizia Penitenziaria come unico Corpo di Polizia dello Stato" - ha commentato Pietro Riccardi Segretario Provinciale Osapp. "È necessario il confronto dell’autorità politica del Ministero della Giustizia in tema di organici, è necessario risolvere il problema del sovraffollamento degli istituti, che determina carichi di lavoro insopportabili, così come bisogna mettere un freno alla mobilità del personale posta in essere in ambito regionale senza tener conto delle condizioni di pari opportunità per tutto il personale e senza tener conto dei criteri stabiliti dal C.C.N.L. e dall’Accordo Nazionale Quadro. Ancora - ha continuato Riccardi - è necessario pagare le competenze per i servizi di missione effettuati dal personale di Polizia Penitenziaria e meglio distribuire il lavoro straordinario e garantire maggiore sicurezza, in particolare nel beneventano dov’è alta la presenza della criminalità organizzata. Altro problema da risolvere è quello dell’assenteismo e del mancato rispetto delle norme che regolano le relazioni sindacali. Prima che accada l’irreparabile e si inneschi una bomba ad orologeria - ha concluso Riccardi - abbiamo deciso di protestare l’8 settembre". Giustizia: suicida Leonardo "Chucky" Vecchiolla, finì in carcere dopo manifestazione Il Manifesto, 3 settembre 2014 Era stato arrestato con accuse pesantissime e si era sempre detto estraneo agli "incidenti" in Piazza San Giovanni a Roma del 15 ottobre 2011. Lascia la compagna e il figlio di un anno. 99 Posse: "È il terzo suicidio di un giovane impegnato nelle lotte sociali, un fenomeno che chiama tutti noi a una riflessione doverosa". Leonardo Vecchiolla, detto "Chucky", giovane attivista di 26 anni, si è ucciso ieri sparandosi un colpo di arma da fuoco alla tempia nella casa dello zio in via Intonti ad Ariano Irpino. "Chucky" viveva a Chieti insieme alla compagna con la quale ha avuto un figlio che oggi ha un anno. Vecchiolla era stato arrestato a Chieti nel 2011 per gli incidenti del 15 ottobre in piazza San Giovanni a Roma tra manifestanti e forze dell’ordine. Pesantissime le accuse: tentato omicidio del carabiniere che guidava il blindato dato alle fiamme, devastazione, saccheggio e resistenza. Era stato scarcerato il 16 novembre 2011 dal tribunale del riesame. Video e fotografie che lo ritraevano a volto scoperto e lontano dal furgone in fiamme lo hanno scagionato. Chucky si è sempre dichiarato estraneo ai fatti. "Chucky ieri sera ha deciso di lasciarci. Ha deciso di spezzare le catene della repressione per volare libero" ha scritto l’Osservatorio contro la Repressione. In un messaggio di commiato i 99 Posse hanno ricordato che Leonardo è stato attivo nelle lotte contro l’inceneritore di Acerra e contro la discarica di Difesa Grande ad Ariano Irpino. "Ci resta tanta rabbia e tristezza - scrivono i 99 Posse - per il terzo suicidio di un giovane impegnato nelle lotte sociali, un fenomeno che chiama tutti noi a una riflessione doverosa". "Il sequestro di stato che perdura da quasi mille giorni mi impedisce di dargli l’ultimo saluto - scrive Davide Rosci detenuto per gli scontri del 15 ottobre. So cosa significa essere accusato ingiustamente e per reati che non dovrebbero esistere nel nostro ordinamento giuridico perché figli del fascismo. Che la terra ti sia lieve compagno Chucky, per te continueremo a resistere". Abruzzo: Monticelli (Pd) presenta Risoluzione per sostegno al Satyagraha di Panella www.abruzzo24ore.tv, 3 settembre 2014 Sostegno al Satyagraha di Marco Pannella, impegnato per l’affermazione dei diritti civili, nonché stimolare il Parlamento italiano ad approvare gli obbligatori provvedimenti di legge per ripristinare la legalità nelle carceri. È il tema della risoluzione urgente presentata dal Consigliere regionale del PD, Luciano Monticelli, che ha dato seguito alla deliberazione del Consiglio regionale del 29 aprile scorso, in occasione del quale l’assemblea abruzzese ha approvato una risoluzione intitolata "Sostegno al Satyagraha di Marco Pannella per l’amnistia". Nella stessa risoluzione - aggiunge il Consigliere regionale Luciano Monticelli - invitiamo il Presidente del Consiglio Matteo Renzi e il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, nonché i Presidenti di Camera e Senato, ad adottare provvedimenti di amnistia e indulto, il cui ambito di applicazione sarà definito dal Parlamento stesso in considerazione della gravità dei reati. È la nostra battaglia per i diritti civili. Puglia: il Presidente Vendola e il Provveditore presentano iniziative nel carcere di Bari Italpress, 3 settembre 2014 Il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola ed il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Giuseppe Martone parteciperanno giovedì alle 10.30 presso la Casa Circondariale di Bari (corso De Gasperi, 307) alla conferenza stampa di presentazione del Protocollo d’Intesa Sperimentale siglato lo scorso 23 luglio. Il protocollo è stato firmato con il direttore della Casa Circondariale di Bari Lidia De Leonardis, l’assessore regionale allo Studio e Formazione Professionale Alba Sasso ed il Garante dei diritti dei detenuti della Puglia Piero Rossi. Alla conferenza stampa parteciperanno quindi anche l’assessore Alba Sasso e l’assessore alle Risorse Agroalimentari e Agricoltura Fabrizio Nardoni per l’iniziativa "orto in carcere". Il protocollo innovativo e sperimentale tra le due Istituzioni nasce da uno studio svolto dal direttore Lidia de Leonardis e dal responsabile dell’area Educativa della casa Circondariale di Bari Tommaso Minervini nello spirito dell’accordo del 2012 tra il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria ed il Presidente della Regione Puglia, in materia di inclusione sociale delle persone sottoposte a provvedimenti restrittivi della libertà. Il protocollo ha quale obiettivo primario quello di promuovere la realizzazione di "un sistema innovativo sperimentale integrato", capace di esportare un nuovo modello penale, che sia insieme inclusivo, deflattivo del sistema penitenziario, anticipatore del principio della giustizia "ripartiva", attraverso l’impiego di tali detenuti in lavori di pubblica utilità, orientato ad una dimensione di "carcere aperto", alternativo e territoriale, sulla scia delle più avanzate esperienze europee, capace quindi di offrire concrete possibilità di reinserimento sociale, anche attraverso l’orientamento e il sostegno all’inserimento lavorativo, scolastico e della formazione professionale e culturale, nell’ambito della affermazione e del rilancio di una cultura della legalità. Durante l’incontro di giovedì sarà anche presentata dall’assessore regionale Risorse Agroalimentari e Agricoltura Fabrizio Nardoni l’iniziativa "orto in carcere". Il Progetto, avviato nel mese di maggio 2014, ha previsto l’allestimento di un orto attraverso la tecnica idroponica, ossia in assenza di terreno, allestito in maniera volontaria dall’Associazione Civiltà Contadina di Molfetta e dalla Ditta "Facchini e Francese". Il progetto prevede il diretto coinvolgimento dei detenuti ai quali è affidata la cura quotidiana dell’orto e la raccolta dei prodotti della terra. Gli ortaggi saranno distribuiti, in parte, alla "Caritas" di Bari. Trento: si impicca detenuto di 38 anni, da inizio 2014 nelle carceri si sono tolti la vita in 29 www.radiocarcere.com, 3 settembre 2014 Dopo il suicidio avvenuto ieri nel carcere di Pisa, si registrano nelle carceri altri due decessi. Ed infatti una persona detenuta si è impiccata ieri nel carcere di Trento, mentre, sabato 30 agosto, un detenuto è morto nel carcere di Poggioreale. Napoli, 30 agosto. Vincenzo Cargiulo di 40 anni viene trovato morto nella sua cella del carcere di Poggioreale. Da quanto si è appreso pare che l’uomo sia morto per un infarto. Trento, 1 settembre. Giacinto Verra di 38 anni, si impicca nel bagno della sua cella con un laccio. Verra avrebbe finito di scontare la sua pena tra pochi mesi, ovvero a gennaio del 2015. Pisa, 1 settembre. Martin Amcha, di 46 anni, si impicca nella sua cella della Casa Circondariale di Pisa. L’uomo, che avrebbe finito di scontare la sua pena nel 2018, è stato trovato appeso con delle lenzuola alla finestra del bagno. Sale così a 29 il numero delle persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio del 2014, per un totale di 99 decessi Trento: esiti autopsia; morì in cella a 28 anni, nell’ottobre 2013, ucciso da farmaci e gas Il Trentino, 3 settembre 2014 Procedimento civile per ottenere l’autopsia. I periti: inalò butano da una bomboletta. Decesso nell’ottobre 2013. Per la procura non c’è reato: archiviazione. Ucciso da un cocktail micidiale, un mix di farmaci e di gas propano. A quasi un anno dal decesso in carcere di un detenuto 28enne trentino, si chiariscono i contorni di quella strana morte dietro alle sbarre. Non si trattò di morte per cause naturali, come sosteneva il medico che eseguì l’ispezione cadaverica. Ad uccidere sarebbe stato quel terribile cocktail per disperati che forse serviva al giovane detenuto per "evadere" per un attimo da una vita difficile. L’aspetto particolare di questa vicenda è che a chiarire i contorni del decesso è stata la giustizia civile, non quella penale. La morte risale al 29 ottobre dell’anno scorso. Quella notte il detenuto venne trovato privo di sensi nel bagno della cella dove era detenuto nel penitenziario di Spini di Gardolo. La procura, acquisite testimonianze e parere medico, ritenne che non ci fossero gli estremi per ordinare l’esame autoptico perché nulla faceva pensare ad un evento traumatico o a ipotetiche responsabilità da parte di terzi. La madre del giovane però insisteva perché venisse fatta piena luce su quello strano decesso. "Mio figlio - scrisse la donna - è entrato nel carcere di Spini a fine luglio 2013, dovendo scontare una pena di 4 mesi per il reato di resistenza a pubblico ufficiale. La mattina del 29 ottobre, alle 6 circa, i compagni di cella lo hanno trovato in bagno privo di sensi. Hanno chiamato gli agenti penitenziari, poi è intervenuto il 118, ma non sono riusciti a rianimarlo. Il medico di guardia ha certificato che le cause del decesso sono attribuibili ad arresto cardiaco". La donna sottolineava che il figlio "soffriva di problemi di tossicodipendenza e per curarsi aveva già trascorso tre anni in una comunità, in carcere gli era stato somministrato del metadone con "terapia a scalare". Non aveva altri problemi di salute". E si chiedeva: "Come può essere morto, improvvisamente, per cause naturali?" Per rispondere a questa domanda la donna ha avviato un procedimento civile. Attraverso l’avvocato Alessandro Baracetti ha chiesto e ottenuto dal Tribunale civile di Trento un’autopsia con la formula dell’accertamento tecnico preventivo. L’ipotesi è che ci potessero essere delle responsabilità di rilievo civile da par te dell’amministrazione carceraria sotto il profilo della colpa in vigilando. Anche se erano trascorsi mesi dal de cesso, per eseguire l’esame medico legale non è stato necessario riesumare il cadavere perché il corpo del ragazzo era stato conservato all’obitorio. La perizia ha infine chiarito le cause dell’arresto cardio circolatorio. Il giovane è stato stroncato da un mix di farmaci, alcuni prescritti altri invece no, e dall’inalazione di gas propano. Su questo concordano sia il perito del giudice, sia il consulente di parte della famiglia. Pare che il gas venga sniffato dalle bombolette da campeggio che i detenuti possono tenere in cella per cucinare. Viene usato come sostitutivo degli stupefacenti per l’effetto di "sballo" che produce. Dopo il deposito della perizia il magistrato titolare del procedimento civile, il giudice Aldo Giuliani, ha trasmesso gli atti alla procura della Repubblica per le valutazioni del caso. Procura che tuttavia non ha cambiato idea: è stata chiesta infatti l’archiviazione del fascicolo poiché dall’esame autoptico non emergerebbero elementi di possibile rilievo penale. Ora la parola è tornata alla madre del ragazzo e al suo legale che dovranno valutare se promuovere o meno la causa nei confronti dell’amministrazione penitenziaria. Busto Arsizio: 100 detenuti in meno e nuove celle con doccia sono concreto miglioramento La Prealpina, 3 settembre 2014 Nuove celle con doccia, colloqui all’aperto, crollo del sovraffollamento, novità una volta tanto positive dal carcere cittadino. Continuano i lavori nell’area della socialità. La novità è che le nuove celle avranno la doccia e anche il water, non più la turca. Una sorpresa piacevole che può sembrare una banalità, ma per la casa circondariale si pone così fine ad un forte disagio lamentato dai reclusi, soprattutto in estate, più volte rilanciato dal sindacato e raccolto anche da La Prealpina. Finalmente arriva la doccia in ogni alloggio dei detenuti (quelli nuovi s’intende) e va in pensione la turca. "Confermo che le nuove costruzioni si presentano molto migliorate con interventi che le rendono decisamente più vivibili" dice soddisfatto il direttore Orazio Sorrentini. Si proseguirà anche nelle altre sezioni con queste migliorie? "Magari fosse l’avvio di un piano di ammodernamento - dice - perché ce lo auguriamo tutti". Il primo passo è comunque fatto. Poi c’è la questione del sovraffollamento sconfitto. Cento detenuti in meno si vedono: 320 rispetto ai 430, si comincia a respirare. Circa 140 gli italiani, altrettanti e più ancora gli stranieri a conferma che la casa circondariale cittadina mantiene alta la percentuale di extracomunitari, oltre il 60 per cento, una cifra di molto superiore rispetto alla media italiana. Tra di essi un numero significativo è rappresentato da corrieri delle droga fermati a Malpensa. Un flusso continuo soprattutto dal Sudamerica che non si arresta da anni. I periodi ruggenti delle celle stipate stanno lasciando posto ad un regime di detenzione meno problematico. "Registriamo con soddisfazione questa inversione di tendenza e speriamo sinceramente che continui, quantomeno si mantenga sugli attuali livelli", puntualizza lo stesso Sorrentini. Due le ragioni principali che hanno regalato l’eccezionale calo degli ospiti dietro le sbarre: la forte riduzione degli arrestati e della custodia cautelare. I condannati definitivi sono 170, scendono a 150 quelli in custodia cautelare, appellanti e ricorrenti. Altro settore riformato e che incide nella diminuzione dei detenuti è l’intervento governativo sulla droga con la depenalizzazione. Cairo Montenotte (Sv): manifestazione di protesta del Sappe per la visita del ministro Comunicato stampa, 3 settembre 2014 Lunedì 15 settembre il Ministro della Giustizia Andrea Orlando parteciperà, a Cairo Montenotte, ad un convegno sulla formazione nella Scuola di Polizia "Andrea Schivo" e il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, preannuncia una rumorosa manifestazione e un sit-in di protesta in concomitanza con l’evento. "Saremo in piazza a gridare la rabbia dei poliziotti penitenziari della Liguria, abbandonati a loro stessi da una Amministrazione centrale che non fa nulla per risolvere le endemiche criticità della Regione e che sarà presente a Cairo con i suoi massimi vertici", denuncia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria, per voce del leader Donato Capece. "Si parla tanto di formazione, ma quella che si propina da sessant’anni ai poliziotti penitenziari è vecchia e superata dai cambiamenti socioculturali intervenuto nella popolazione detenuta e nella criminalità. E non tiene conto che la Polizia Penitenziaria è un Corpo di Polizia dello Stato. Ma la realtà è che da anni i nostri poliziotti non fanno nessun tipo di aggiornamento professionale e di formazione. Altro che convegni e autocelebrazioni come quella che si vorrebbe fare il 15 settembre a Cairo Montenotte". Capece denuncia anche i problemi delle sedi penitenziarie liguri: "Imperia, Sanremo, La Spezia, Pontedecimo, Marassi, Savona, Chiavari sono penitenziari che vanno avanti solamente grazie ai poliziotti, alla loro professionalità, al loro spirito di servizio, alla loro umanità. E lavorano sotto organico e in penitenziari spesso degradati e degradanti: basti pensare al carcere di Savona, struttura che potrebbe essere superata da un nuovo penitenziario da costruirsi proprio in Valbormida. In Liguria manca il personale di Polizia Penitenziaria e ogni giorno c’è una nuova criticità, come dimostra anche il caso che ha riguardato Marassi proprio in questi giorni. L’Amministrazione Penitenziaria è ormai da diversi mesi senza un Capo Dipartimento e l’organico dei Baschi Azzurri è sotto di 7mila unità. La spending review e la legge di Stabilità hanno cancellato le assunzioni, nonostante l’età media dei poliziotti si aggira ormai sui 40 anni. Altissima, considerato il lavoro usurante che svolgiamo. Nonostante le affrettate rassicurazioni di chi va in giro a dire che i problemi delle carceri sono (quasi) risolti e non c’è più un’emergenza, i drammi umani restano, eccome. Lo sanno bene i poliziotti penitenziari della Liguria, che gestiscono questi drammi ogni giorno e che si sentono abbandonati a loro stessi da chi tratta la Liguria con colpevole superficialità nonostante i tanti problemi che vi sono a Imperia, Sanremo, La Spezia, Pontedecimo, Marassi, Savona, Chiavari". E il Sappe chiama direttamente in causa proprio il Ministro Orlando: "Non è pensabile chiudere strutture importanti di raccordo tra carcere, istituzioni e territorio come il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Genova" conclude Capece "a meno che non si voglia paralizzare il sistema ed avere del carcere l’esclusiva concezione custodiale che lo ha caratterizzato fino ad oggi. Vogliono il Ministro Orlando e il Governo Renzi essere ricordati per questo demolizione dei presidi di sicurezza del Paese?". Roma: al Pontificio Collegio Internazionale religiose a servizio nelle carceri a confronto Radio Vaticana, 3 settembre 2014 Sono 234 le religiose, appartenenti a 110 Istituti diversi, che in Italia prestano servizio negli Istituti di pena italiani. Da ieri mattina, sono a Roma presso il Pontificio Collegio internazionale "Maria Mater Ecclesiae" per parlare di sovraffollamento, di tossicodipendenza, di abbandono, di povertà e di emarginazione. Problemi che interessano la quotidianità del detenuto e che lo condannano al di là dei suoi sentimenti e delle sue esigenze. Ma per chi ha scelto di stargli accanto, sa che qualunque luogo può diventare missione e che chi ha di fronte è comunque un essere umano che chiede aiuto. Come nasce l’iniziativa di un confronto tra religiose e consacrate al servizio delle carceri? Davide Dionisi lo ha chiesto a monsignor Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane. R. - L’iniziativa dell’incontro e del convegno con le suore che lavorano in carcere nasce da una richiesta da parte delle religiose che desideravano confrontarsi sui loro percorsi e vedere quali prospettive condividere per lavorare un po’ più in rete e per essere persone che - insieme, naturalmente, agli altri, cappellani e volontari - possono oggi accettare la sfida che Papa Francesco ci dà: creare una missionarietà più creativa partendo dalle periferie. Il carcere è una delle periferie e - visto che ci siamo - ci si interroga assieme verso quali strade andare, verso quali tipi di servizi, con quale significato, riscoprendo anche il carisma di ciascun Istituto religioso rispetto alle persone che si trovano in difficoltà, in particolare le persone in carcere. D. - Quali sono i problemi più diffusi denunciati dalle religiose che prestano servizio al fianco dei detenuti? R. - Da un piccolo incontro che abbiamo fatto anche questa mattina con le referenti regionali, è risultato che molte delle persone che sono in carcere non dovrebbero stare in carcere: dovrebbero avere nella società strutture che le curino. Parlavano di tossicodipendenti, di malati mentali, di immigrati senza permesso di soggiorno che finiscono nell’illegalità semplicemente per poter "campare" e abbiamo convenuto che, in ogni caso, il carcere non può essere la soluzione ai problemi sociali. Chiaramente, la situazione delle carceri è su tutti i giornali, anche ultimamente. Ci sono alcune situazioni che sono migliorate rispetto a prima, perché si sono abbattute le presenze di persone detenute all’interno delle carceri, ma ce ne sono ancora alcune - soprattutto nelle grandi città - in cui il sovraffollamento è il problema maggiore. D. - La religione all’interno del carcere, secondo lei, può avere una funzione rieducativa? R. - Innanzitutto, bisogna tener conto che noi siamo presenti non solo come religiose e cappellani, ma come Chiesa per fare in modo che le persone che sono in carcere e che credono in Gesù Cristo abbiano la possibilità di professare liberamente la loro fede. Questo è un diritto! Non è una concessione dello Stato, ma è un diritto sacrosanto per ogni persona quello di esprimere la propria fede. L’esperienza di incontro con un Dio che ti vuole bene sicuramente può aiutarti nel momento in cui ti accorgi che c’è un "Papà" che, nonostante tutto - qualsiasi cosa tu abbia fatto nella vita - vuole sentirti ancora come figlio e questo naturalmente incoraggia molto. Papa Francesco, quando è andato a far visita nelle carceri, ma anche quando ha incontrato i detenuti in gruppo, rilancia continuamente questo discorsoe cioè che, nonostante tutto, Dio ti vuole bene e se vuoi ti riaccoglie con molta gioia. Questo, naturalmente, per persone che tante volte sono considerate lontane da Dio - considerate lontane da possibili percorsi di riconciliazione e di cambiamento della propria vita - è un messaggio che incoraggia la speranza. Aosta: nuovo direttore per il carcere di Brissogne, 20 ex detenuti chiedono risarcimento www.aostacronaca.it, 3 settembre 2014 Avvicendamento alla direzione della Casa circondariale valdostana di Brissogne. Domenico Minervini, direttore in Valle dal 2010, da lunedì 1 settembre dirige il penitenziario di Le Vallette a Torino. Al vertice del carcere di Brissogne è stata scelta una donna, Francesca Daquino, già direttore aggiunto alla Casa circondariale di Torino e direttore dell’Ufficio sicurezza delle traduzioni del Provveditorato regionale del Piemonte e Valle d’Aosta. Laureata in Giurisprudenza all’Università degli studi di Catania, Daquino ha svolto la professione forense fino al 1997, anno di ingresso nell’Amministrazione Penitenziaria. Ha prestato servizio anche alla Scuola di Formazione e Aggiornamento per il personale dell’Amministrazione Penitenziaria " Giovanni Falcone" di Roma dal 2003 al 2006. 20 ex detenuti chiedono risarcimento per violazione diritti umani Degli oltre 6.000 tra detenuti ed ex delle carceri italiane che hanno presentato ricorso alla Corte europea per violazione dei diritti umani una ventina erano in carcere nella Casa circondariale di Brissogne. Contestualmente ai ricorsi, gli ex detenuti del carcere valdostano hanno presentato altrettante richieste di indennizzo al Giudice di Sorveglianza. Se le domande fossero accolte, in base al decreto legge svuota carceri i richiedenti potrebbero ottenere 8 euro per ogni giorno di detenzione risultato inumano, ovvero lesivo dei diritti più elementari degli esseri umani. Un precedente è già stato fissato dalla ormai nota (almeno negli ambienti carcerari) sentenza Torreggiani, dal nome di un ex detenuto nel carcere di Busto Arsizio che due anni fa si rivolse alla Corte Europea. L’8 gennaio 2013, accogliendo il ricorso di Torreggiani la Corte ha certificato che il nostro sistema carcerario non solo funziona male, ma lede i diritti più elementari. Fu in quell’occasione che i giudici europei diedero un anno di tempo all’Italia per approvare una legge che prevedesse una riparazione effettiva in caso di trattamento disumano verso detenuti: da qui nacque il cammino del decreto svuota carceri. Il fondo per i risarcimenti ammonta a 20,3 milioni di euro fino al 2016. Ad oggi i detenuti reclusi in meno di tre metri quadrati sono poche decine, ma erano molti di più fino a una decina di anni fa. La ratio del decreto è quella di risarcire chi, in passato, ha vissuto in quelle condizioni. Rimini: Uil-Pa; la Polizia Penitenziaria aggredita ma, allo stesso tempo, salva un detenuto Comunicato stampa, 3 settembre 2014 "Negli ultimi giorni a Rimini, due poliziotti penitenziari sono stati vigliaccamente aggrediti da un detenuto con pugni in faccia e testate ed hanno riportato una prognosi rispettivamente di 22 gg per una frattura al 5 dito e 10 gg per trauma cranico per un pugno ricevuto alla nuca". A darne comunicazione il Coordinatore Regionale della Uil-Pa Penitenziari, Giuseppe Crescenza che aggiunge "Esprimiamo la nostra totale vicinanza e solidarietà ai colleghi feriti nella giornata del 29 agosto". Quello di Rimini è solo l’ultimo episodio di una stagione di violenze negli istituti penitenziari emiliani che ha determinato il ferimento di molti agenti penitenziari. La cosa che fa più rabbia - chiosa il Coordinatore Regionale della Uil Penitenziari - è che l’aggressione è avvenuta in una sezione dove è già in vigore la sorveglianza dinamica e questo dimostra che le nostre continue lamentele sulla scarsa sicurezza degli Agenti hanno il loro fondamento". Da tempo - continua Crescenza - abbiamo posto la questione delle violenze in danno di personale penitenziario. Purtroppo continua il silenzio della stampa e delle Istituzioni su questa incredibile situazione. È antipatico dirlo ma non osiamo immaginare e pensare cosa sarebbe accaduto a parti inverse. Oramai la pazienza del personale sia di Rimini che degli altri Istituti è agli sgoccioli - afferma Crescenza - ed in mancanza di provvedimenti certi e concreti la risposta non tarderà ad arrivare con proteste e manifestazioni anche eclatanti. Di contro nella giornata di domenica 31 Agosto un detenuto ha tentato il suicidio nel carcere di Rimini. Tempestivo l’intervento dell’agente della polizia penitenziaria che è riuscito a salvarlo. "Si tratta di pochi istanti, - commenta Crescenza - basta un minimo ritardo, una distrazione, e la vita di un uomo finisce. Sono tanti i tentativi di suicidio nelle carceri, molti sono atti puramente dimostrativi, vale a dire che non vi è una vera intenzione di portare a termine l’atto suicida, magari è solo un modo per attirare attenzione sulla propria condizione, ma in tanti altri casi le intenzioni sono reali, e solo il tempestivo e professionale intervento degli agenti penitenziari, come è accaduto a Rimini, impedisce l’esito fatale" Agli Agenti di Rimini va il nostro plauso e ringraziamento per l’attività fin qui svolta. Cuneo: Sappe; detenuto aggredisce 3 agenti, situazione nelle carceri italiane resta grave Ansa, 3 settembre 2014 Un detenuto straniero ha aggredito tre agenti di Polizia Penitenziaria all’interno del carcere di Cuneo. Lo rende noto il Sindacato di polizia penitenziaria Sappe, precisando che l’episodio è avvenuto verso le 13 nell’Ufficio di servizio della Polizia Penitenziaria. Il recluso ha dato in escandescenza rompendo alcuni oggetti e scagliandosi contro le guardie, che sono in seguito ricorse alle cure dei sanitari. Il sindacato denuncia l’accaduto: "La situazione a Cuneo e nelle carceri italiane resta grave - afferma il segretario, Donato Capece - e questo determina difficili, pericolose e stressanti condizioni di lavoro per gli agenti". Il Sappe chiede al Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, di intervenire sulle criticità attivandosi affinché i detenuti stranieri possano scontare la pena nei Paesi d’origine. Cinema: docufilm girato al carcere di Padova è stato presentato alla Mostra di Venezia di Silvia Zanardi Il Mattino di Padova, 3 settembre 2014 "A tempo debito" si impara a conoscere la propria personalità, a raccontarsi anche dove manca la libertà di muoversi, di esplorare, di vivere. Dove sì rimane in attesa di giudizio e in un limbo di sofferenza. A Padova, poco distante dalla Casa di reclusione Due Palazzi, c’è la casa circondariale, dove il disagio del sovraffollamento è un amaro pane quotidiano. È lì che ha preso forma "A tempo debito", documentario con protagonisti 15 detenuti, di sette nazionalità diverse, in attesa di processo. Il documentario di 60 minuti, prodotto dalla casa padovana Jengafilm - e realizzato con un contributo della Regione e fondi reperiti in crowd-funding - è stato presentato ieri alla Mostra del Cinema di Venezia nello spazio della Regione Veneto all’Hotel Excelsior. Il regista Christian Cinetto; la direttrice della casa circondariale Antonella Reale; la produttrice Marta Ridolfi; il regista teatrale Giorgio Sangatì e l’autrice del montaggio Alice Ranzato ne hanno spiegato la genesi. Con il supporto della psicologa Alessia Colzada, dopo un casting al quale si sono presentati in 40 candidati, 15 detenuti sono diventati i protagonisti del cortometraggio "Sugar, Coffee and Cigarettes". E il "making of" del corto, con le illustrazioni di Loris Bozzato, sta diventando a sua volta un documentario a tutti gli effetti. Il montaggio è in corso ma "A tempo debito" verrà presentato al pubblico da novembre, probabilmente nell’ambito del Torino Film Festival. "Sono ì detenuti a raccontare una storia, sono stati loro a realizzare il copione", ha spiegato il regista Cinetto. Cinema: i miei 3 film di culto sulla pena di morte di Valter Vecellio Il Garantista, 3 settembre 2014 Si può forse cominciane con un ricordo. È il 19 novembre del 1998. A New York una suora, Helen Prejean, autrici; del libro Dead Man Walking, e il regista Tim Robbins, che da quel libro ha tratto un film con Susan Sarandon e Sean Penn, guidano una delegazione di Nessuno tocchi Caino, consegnano al segretario generale dell’Onu di allora, Kofi Annan, un appello di Premi Nobel e personalità di rilievo mondiale a favore della moratoria delle esecuzioni e delle condanne a morte. Lo stesso giorno, l’appello - firmato tra gli altri dal Dalai Lama, Rita Levi Montalcini, Desmond Tutu, Dario Fo, Nadine Cordimor, Jose Saramago, Mario Cuomo e Emma Bonino - è pubblicato, su ‘The International Herald Tribune e sul Corriere della Sera. Ci vorranno anni, prima che la moratoria universale della pena di morte sia ratificata dall’Assemblea Generale, 104 voti a favore, 54 i contrari, 29 gli astenuti, in una storica seduta, quella del 18 dicembre 2007. Un risultato che si deve sì all’impegno di Nessuno tocchi Caino e dei Radicali ma anche persone come quell’esile suora, e a quel film, che raggiungi; la coscienza di milioni di persone, e le costringe a pensare. Ha ormai vent’anni, quel film... Dead Man Walking (Uomo morto che cammina) è il grido con cui i secondini accompagnano il condannato alla sala dell’esecuzione. È la storia di Matthew, accusato di stupro e duplice omicidio, è chiuso in cella, attende di sentire; quelle parole terribili; chiede aiuto a suor Helen, una suora laica cattolica, che accetta non senza perplessità il difficilissimo ruolo di assistente spirituale del condannato. La suora s’impegna per il suo riscatto etico-religioso, perché, dice, "ogni persona vale più della sua peggiore azione". Poco importa, qui, sapere se Matthew (Sean Penn) sia o no colpevole (lo è, è indubitabile, le prove ci sono, alla fine lo confessa lui stesso); e solo fugacemente, a tratti, nello sguardo gelido di Matthew si coglie un barlumi; di umanità soffocata: forse por qualche attimo comprende l’enormità, l’atrocità di quello che ha fatto; forse è solo paura. Suor Helen, contattata attraverso una lettera, è attiva nel quartiere nero di New Orleans, ma non ha mai avuto a che fare con condannati a morte, con le loro paure e il terrore della fine imminente; e neppure con le famiglie disperate delle vittime che chiedono giustizia e vendetta, o con le famiglie dei condannati, quasi mai rassegnate a questo tipo di sentenze definitive. Per lei è un mondo nuovo, dolente e insidioso, tacere è poco, parlare è troppo. Helen comunque; accetta la sfida, avvicina Matthews, cerca di fargli conoscere dei sentimenti veri: umanità, pietà, conforto. Trascorrono insieme gli ultimi giorni di vita del ragazzo, insieme tentano la via disperata della grazia; e mentre cercano un perché, si intrecciano le scene dei crimini commessi, la pietà e la sete di vendetta si mescolano e confondono. Helen è l’unico conforto di Matthews, che alla fine sembra comprendere, anche se è troppo tardi, la macchina della giustizia deve fare il suo corso... Più che un’arringa contro la pena di morte, il film suggerisce, dimostra che le esecuzioni "legali" tendono a essere barbare e orribili come gli omicidi commessi dagli individui, e gli esempi non mancano anche oggi. Un film di forte e serio impegno civile, simbolo di una condizione frequente negli Usa; un film la cui cifra consiste nell’abilità del regista di trasmettere le diverse psicologie dei personaggi: dalla paura all’odio, dalla vendetta alla pietà, dalla speranza alla crudeltà, dalla giustizia all’incertezza che fare con condannati; e naturalmente la Sarandon e Penn danno il meglio di cui sono capaci. Non per un caso Sarandon vince l’Oscar come Miglior Attrice; Robbins e Penn, conquistano insieme a Bruci; Springsteen, per la migliore canzone originale tre nomination all’Oscar, e altrettanto nomination ai Golden Globe. Un’altra Hollywood, se si vuole, è possibile. È servito Dead Man Walking che qualcuno, a suo tempo, ha giudicato zuccheroso e scontato? Guardate la carta geografica degli Stati Uniti d’America: gli Stati che aboliscono la pena di morte aumentano, lo voci che si levano contro questa "giustizia" crescono... ci vorranno ancora tanto suor Helen, tanti Dead Man Walking, ma la direzione è quella. E quel film ha "sognato", "sogna". Veniamo in Italia. In una ipotetica rassegna del film di impegno civile che uno dei mille festival che si organizzano in questo Paese potrebbe organizzare (o anche una rassegna in uno dei canali Della televisione pubblica) non può mancare The Special Need, dell’udinese, trapiantato a Berlino, Carlo Zoratti. Non poteva che chiamarsi Enea, il protagonista di questo film. Enea, come il "profugo" (oggi lo si chiamerebbe "migrante", "extracomunitario"), che fugge dopo la sconfitta, e dopo mille peripezie, approda in quel Lazio destinato com’è dal Fato, a originare Roma. L’Enea di Zoratti è a suo modo anche lui un eroe. È un ragazzo di 29 anni; come tutti cerca un’anima gemella, una persona da amare e da cui essere amato. All’Enea di Zoratti però il Fato ha giocato un brutto scherzo: perché è un ragazzo autistico, e questo ovviamente rende tutto più difficile. Per aiutarlo i suoi due migliori amici, Alex e Carlo, decidono di accompagnare Enea in un viaggio attraverso l’Europa. Un viaggio che aiuterà Enea a convivere con il suo problema, ma soprattutto consente ad Alex e a Carlo di scoprire assai più di quello che pensavano di dover cercare, e capire quello che non hanno compreso. Detta così la storia di Zoratti potrebbe sembrare zuccherosa, melensa. No. È invece una storia di consapevolezza che senza tar ricorso a un’esplicita denuncia di quello che accade, ci rende consapevoli che di fronte a persone come ad Enea troppe volte l’atteggiamento è di banale e irritante commiserazione, un compatimento pietistico un po’ ipocrita, indifferenza e fastidio; mentre invece non ci si rende conto che di fronte abbiamo persone sì diverse (ma poi qualcuno dovrebbe ben chiarire in cosa consiste la "normalità") ma come tutte bisognoso di affetto, amicizia, amore, con esigenze e necessità uguali a quelle di tutti. Così seguiamo Enea nel suo "viaggio", con dipinta in viso quell’espressione via via stupefatta, uno stupore che lascia il posto alla perplessità; e come dargli torto, se si pensa alle situazioni che man mano gli capitano. Enea reagisce nel più "normale" dei modi, limitandosi a un "Sì, sì", "No, no", che sembrano accettarli, assecondarli i discorsi che sente fare attorno a lui e su di lui; ma sono in realtà il modo astuto e saggio per guadagnare tempo, e infine fulminare le banalità di chi lo circonda, con battute che dimostrano come lui abbia capito, compreso, previsto tutto. Il viaggio di Enea è il pretesto por partire dall’Italia, con tutti i suoi pregiudizi e arretratezze montali, in una sorta di road movie in tutta Europa: dove pregiudizi e arretratezze mentali non sono da mono, ma almeno mitigato, bilanciate da mentalità più pragmatiche, grazie allo quali si può beneficiare di un welfare più moderno, mono insensibile e burocratico, in una parola, più umano. Il film di Zoratti ha il coraggio e l’irresponsabilità di adottare la stessa "leggerezza" e sensibilità acuita e disorientata di Enea; e riesco così ad affrontare un tema delicato e scivoloso evitando scontati atteggiamenti pietistici. Il suo è il racconto di un processo di crescita, che non è solo quella del protagonista. Non c’è nulla di pedagogico, in The Special Need, ma chi lo vede, impara qualcosa. Infine si può approdare a Maria Novaro, una regista messicana che ha raggiunto una sua indubbia maturità, e proprio per questo prosegue in un interessante lavoro di scavo e di ricerca che le consentono di affrontare temi delicati e difficili con grazia e tenerezza. Prendiamo Las Buenas Hierbas, e non fatevi fuorviare, non c’entra nulla "l’erba" che si fuma. Si parte, piuttosto, da un antico codice azteco, del 1552, che parla di piante che curano l’anima, e questo concetto è la stessa polare del film. Un film su vari piani, e che propone vari livelli di lettura. Il primo: la regia è di una donna, Maria Novaro appunto, che ha curato anche la sceneggiatura, e l’ha prodotto. Tre donne sono le interpreti principali: Dalia, separata, con un bambino da crescere; Lala, la madre che lavora all’Orto Botanico di Città del Messico (la "buona erba", appunto); e Blanquita, un’anziana vicina che convive col ricordo della nipote quindicenne scomparsa. E qui un altro livello di lettura, la congiunzione tra i vivi e i defunti, la "compresenza" di cui parla il filosofo Aldo Capitini, uno dei massimi teorici e studiosi della nonviolenza. Film di donne, dove l’uomo è figura marginale. "In Messico - dice Maria Novaro - ci sono più capi-famiglia femmine che maschi. Tante donne sono rimaste solo perché i loro uomini sono emigrati". Ma film anche sulle grandi questioni della vita e della morte: Lala si ammala di Alzheimer, e si fa promettere dalla figlia che quando sarà il momento le praticherà l’eutanasia; e come Million dollar baby di Clint Eastwood, o Mare dentro di Alejandro Amenabar, è in definitiva un film d’amore. Quello che Novaro ci dice è che la morte è inevitabile, è inutile che si finga che così non sia; e che a volte, come nel caso dell’Alzheimer non c’è possibilità di scelta. A Città del Messico chi vuole può sottoscrivere un documento, "volontà anticipata" si chiama, dove si può scrivere come si vuole morire. Novaro, che rispetta tutte le scelte, in questo film ci dice che adempiere alla volontà anticipata di una persona è un atto di rispetto e di amore; e che a nessun essere umano si possa proibire di porre fine alla propria vita con dignità. Ancora: richiamandosi e rifacendosi alle tradizioni e al "sapere" antico popolare, Novaro ci dice che ognuno di noi fa parte di un tutto. Quelle pianto, quelle erbe, quella "buenas hierbas", appartengono a una cultura secolare che attraverso quegli infusi allontanava angosce e paure, e rinvigoriva il cuore. Ora, buona visione, se potete. Rivederli al cinema non se ne parla; trovarli su cassetta non è facile, che siano trasmessi in Tv, un sogno. Resta qualche festival, anche di nicchia, ci vorrebbe un assessore alla cultura determinato e intelligente. Ne conoscete? Droghe: sentenza della Cassazione, coltivare la marijuana in vaso non è reato di Franco Corleone Il Manifesto, 3 settembre 2014 Una recente sentenza della Cassazione, la 33835 del 29 luglio 2014, ha affermato con nettezza che la coltivazione di poche piante di marijuana in un vaso, destinate ad uso esclusivamente personale non costituisce reato secondo quanto previsto dall’art. 73 della legge sulla droga 309/90. La VI Sezione Penale (presidente Milo, relatore Di Stefano) ha accolto il ricorso del Pg della Corte d’Appello di Sassari avverso la condanna confermata dalla stessa Corte il 7 febbraio 2013 contro P.A. per aver coltivato due piante di canapa indiana. La decisione assume un particolare rilievo perché viene dopo la sentenza della Corte Costituzionale, la 32/2014, che ha annullato l’unificazione del trattamento sanzionatorio per le diverse droghe previsto dalla Fini-Giovanardi e sollecitato il Parlamento ad affrontare finalmente un punto controverso che provoca assurde persecuzioni, soprattutto di giovani che amano prodursi la sostanza senza ricorrere al mercato illegale. Tanti giudici di merito e diverse sezioni della Cassazione si sono confrontati con il senso del dettato della legge che distingue nettamente tra detenzione e coltivazione. Infatti mentre la detenzione per uso personale, risulta pacifico, è soggetta a sanzione amministrativa, la coltivazione sempre e comunque comporterebbe una sanzione penale. Lo spartiacque è stato rafforzato dalla sentenza 28605 del 2008 delle Sezioni Unite della Cassazione che ribadiva che la condotta della coltivazione non poteva essere sottratta al rilievo penale perché non è menzionata nell’art. 75 della legge antidroga tra i comportamenti soggetti ad illecito amministrativo. Aggiungeva anche una valutazione risibile in quanto la coltivazione "merita un trattamento diverso e più grave" rispetto alla detenzione, per il solo fatto di aumentare la quantità complessiva di stupefacenti presenti sul mercato. Il carattere ideologico, fondato su un pregiudizio moralistico, era reso evidente da una retorica conclusione: l’azione poneva in pericolo "la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico e la salvaguardia delle giovani generazioni". La sentenza, che si limita ad una lettura pedissequa, meccanica e superficialmente riduttiva di un fenomeno storicamente e culturalmente complesso, non ha alcun pregio giuridico e interpretativo. E infatti è stata contraddetta dalle sentenze, che abbiamo commentato in questa rubrica, di giudici come Salvini, Pilato, Renoldi e da alcune sezioni della Cassazione. La recente sentenza non si confronta con gli argomenti sostenuti in precedenza, in particolare la differenza tra coltivazione industriale e "casalinga", e la presenza drogante nella pianta, ma valorizza la destinazione all’uso personale sotto il profilo del principio di offensività come delineato dalla Corte Costituzionale soprattutto nelle sentenze 360/1995 e 260/2005. Se da una parte si pone il principio dell’offensività in astratto - rileva la sentenza - dall’altro si pone l’accertamento del fatto, l’offensività in concreto, affidato al giudice. Si tratta di una rottura del tabù. La via maestra è però quella della politica. Come sosteneva Giancarlo Arnao, la Convenzione di Vienna sulle droghe del 1988, al par. 2 dell’art. 3, equipara la coltivazione per consumo personale al possesso e all’acquisto. È davvero ora che sia definita la liceità della coltivazione personale o all’interno dei social cannabis club, come prevede la legge dell’Uruguay, sottraendola alla discrezionalità del giudice. Bisogna evitare processi inutili, che portano ad assoluzioni perché il fatto non costituisce reato. La giustizia deve essere liberata dalla caccia alle streghe. Germania: polizia contro gli "scafisti delle strade", arrestati 29 italiani di Sandro De Riccardis La Repubblica, 3 settembre 2014 Al posto dei gommoni che sfidano le onde del Mediterraneo, ci sono taxi e pulmini, auto a noleggio e camion con rimorchio. In viaggio lungo le rotte che, dall’Italia fino al nord Europa, li ha trasformati nei nuovi scafisti dell’asfalto. Gli italiani finiti nella rete della polizia tedesca, da gennaio, sono già 29, ma sono decine - spiegano le autorità tedesche - i viaggi della speranza lungo le frontiere di almeno tre paesi. Traghettatori che speculano sul bisogno incondizionato di profughi libici e siriani di arrivare soprattutto in Danimarca e Svezia. Senza considerare le pedine del racket che vengono individuate e a volte bloccate alla partenza. In azione a Roma, Brescia, Milano, Padova, Vicenza. Solo nel capoluogo lombardo, sono tanti i racconti dei profughi in stazione Centrale che, dopo interminabili viaggi, cercano di evitare quell’identificazione in Italia che li inchioderebbe per sempre nel nostro Paese, impedendogli di raggiungere i parenti in Scandinavia. E pagano dai 700 ai mille euro per viaggiare di notte lungo le nuove tratte dell’emigrazione. Milano, Brennero, Monaco. Poi Danimarca e Svezia. Anche se a volte il sogno di una nuova vita si sbriciola di fronte a una verifica in dogana o a un normale controllo di un posto di polizia. Un mese e mezzo fa gli arresti scattano a Rosenheim, in Baviera, per tre veneti, finiti in carcere per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Per due di loro, Marco Santi, tassista di 51 anni, e Fabio Forin, autotrasportatore di 30 anni, entrambi di Padova, le accuse cadono, mentre resta in carcere Alessio Tavecchio, 45 anni, vicentino, titolare di una ditta di veicoli con conducente. Tavecchio, è tuttora detenuto a Hof, in Alta Baviera, e aspetta il processo a ottobre. Lo scorso 22 luglio, la carovana di tre mezzi con a bordo 25 siriani sbarcati a Lampedusa, viaggia verso la Danimarca, ma finisce molto prima nelle maglie della polizia di Rosenheim. Un controllo non casuale, ma parte dell’indagine che da mesi gli investigatori tedeschi portano avanti su decine di scafisti di strada. L’inchiesta separerà poi la posizione dell’imprenditore da quella dei due autisti, che secondo l’accusa sarebbero alle sue dipendenze. "L’arresto per il mio assistito è stato già revocato su richiesta della procura - chiarisce l’avvocato Carlo Bottoli, legale di Forin. Non era consapevole di trasportare clandestini. È stato contattato per accompagnare manager stranieri, vestiti anche in maniera impeccabile". Un pulmino, otto persone, partenza dal cuore di Milano, tappa intermedia a Rosenheim. "Forin ha chiesto a tutti i passeggeri i passaporti e poi ha capito - continua l’avvocato. Durante il controllo, la polizia ha preso passaporto e telefonino di Forin, l’ha spogliato e buttato in cella". E per quei dieci giorni di carcere, ora l’autista sta pensando di chiedere il risarcimento per illegittima detenzione. Per le autorità tedesche, i 29 casi di italiani fermati per immigrazione clandestina in otto mesi, non sono che la punta di un iceberg: sarebbero infatti decine i nuovi scafisti delle autostrade, italiani e stranieri, a volte connazionali delle stesse vittime. Prima dei veneti, è toccato a due bresciani. Un manovale e un operaio, alla guida di due auto cariche di siriani. Da Brescia a Monaco, il prezzo della libertà era di 700 euro a persona. Tailandia: "Due anni senza luna", bambini migranti detenuti in condizioni disumane di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 3 settembre 2014 Centinaia di minori sono arrestati ogni anno e costretti a vivere in celle sovraffollate con adulti sconosciuti. Spesso sono loro negati diritti fondamentai come istruzione e gioco, anche nei casi in cui la reclusione dura anni. L’allarme di Human Rights Watch. Chi arriva in Tailandia in cerca di un futuro migliore o per fuggire da persecuzioni e guerre, spesso trova una cella dove i diritti umani vengono sistematicamente violati. Il trattamento non cambia in base al sesso e all’età, sono infatti centinaia i minorenni che vengono reclusi insieme ad adulti non appartenenti al nucleo familiare. Un report di Human Rights Watch - "Two Years with No Moon: Immigration Detention of Children in Thailand" - punta il dito contro il governo di Bangkok che usa la reclusione come deterrente per combattere l’immigrazione. "Quando ce ne andremo?". La durata della detenzione dipende dallo stato di provenienza. Per coloro che arrivano da Paesi confinanti come Laos, Birmania e Cambogia, la permanenza dura solo pochi giorni al termine dei quali vengono rimpatriati forzatamente, anche se in patria rischiano la vita. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni riferisce che sono circa 375.000 i bambini immigrati in Tailandia, compresi figli di lavoratori provenienti da Paesi limitrofi, minori rifugiati e richiedenti asilo. La maggior parte dei richiedenti asilo arriva dalla Birmania e fugge dagli attacchi dell’esercito birmano nelle zone abitate da minoranze e dalla violenza settaria contro i Rohingya, un’etnia di religione islamica dell’Arakan. Altri rifugiati arrivano principalmente da Pakistan, Sri Lanka, Somalia e Siria. Per questi la durata della detenzione è nella maggior parte dei casi indefinita. Yanaal, un migrante recluso con la sua famiglia da sei mesi nel carcere per immigrati di Bangkok ha raccontato a Hrw: "Mia nipote di cinque anni mi ha chiesto: per quanto tempo dovrò restare? Passerò qui il resto della mia vita? Io non sapevo cosa risponderle". Mentre i vicini se ne vanno in fretta, coloro che arrivano da Paesi non contigui si trovano davanti a un bivio: o restare in prigione a tempo indeterminato con le loro famiglie sperando prima o poi di poter iniziare una nuova vita o pagare per tornare nel loro Paese dove temono di essere perseguitati. Inoltre raramente i migranti riescono a godere di un supporto legale per far valere il proprio diritto alla libertà. Condizioni disumane. "I bambini migranti detenuti in Tailandia - afferma Alice Farmer, ricercatrice per i diritti dell’infanzia di Human Rights Watch e autrice del rapporto - stanno soffrendo inutilmente in celle sovraffollate, sporche, senza un’adeguata nutrizione, senza istruzione e senza lo spazio necessario per fare esercizio fisico. Queste prigioni non sono luoghi adatti per i figli degli immigrati". Le condizioni detentive minano non solo la salute psicologica, ma anche uno sviluppo fisico sano. L’alimentazione è insufficiente al fabbisogno energetico dei più piccoli, tanto che alcuni genitori ricorrono al mercato nero e si indebitano pur di assicurare ai propri figli abbastanza cibo. Non ci sono spazi per giocare e muoversi e le celle sono così affollate che spesso i più piccoli non possono sdraiarsi neanche per dormire. Ignorando la Convenzione del fanciullo, nelle prigioni i bambini sono vittime di violenze da parte di guardie carcerarie e adulti con cui sono costretti a dividere le celle anche se non appartengono alla loro famiglia. "La cosa peggiore - racconta Cindy, una bambina detenuta dai 9 ai 12 anni - era che stavi intrappolato e bloccato. Ogni volta guardavo fuori, vedevo le persone che camminavano per le strade e speravo che un giorno sarei stata al loro posto". Imprigionare per fermare il flusso migratorio. Per la sua posizione geografica e il boom economico degli ultimi anni, la Tailandia deve fare i conti con il forte aumento dei flussi migratori verso i suoi confini. "Bangkok deve affrontare numerose sfide poste dalla migrazione - sottolinea Hrw - e ha il diritto di controllare i propri confini. Ma deve farlo rispettando i diritti umani fondamentali, compreso il diritto alla libertà dalla prigionia arbitraria, il diritto all’unità familiare e gli standard minimi internazionali per le condizioni di detenzione". Secondo la legge thailandese, tutti i migranti irregolari, anche se minorenni, possono essere arrestati e detenuti. Nel 2013, il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti del fanciullo ha esortato i governi a "cessare rapidamente e completamente la detenzione dei bambini sulla base del loro status di migranti", affermando che tale detenzione non è mai nell’interesse del bambino. "Data l’attuale crisi dei diritti umani in Tailandia - conclude Farmer - è facile ignorare la condizione dei minori migranti. Ma le autorità thailandesi devono affrontare questo problema, perché non si risolverà da solo". Inoltre, secondo Hrw, la Thailandia dovrebbe adottare immediatamente misure alternative alla detenzione, come ad esempio centri di accoglienza aperti e libertà condizionale. Queste misure costano meno della detenzione, rispettano i diritti dei bambini e proteggono il loro futuro. India: o ci restituiscono i marò… o ritiriamoci dalle missioni di Massimo Tosti Italia Oggi, 3 settembre 2014 È del tutto comprensibile lo sfogo di Giulia, la figlia maggiore di Massimiliano Latorre, il marò ricoverato d’urgenza in un ospedale di New Delhi per un’ischemia. Da due anni e mezzo Massimiliano e il suo collega Salvatore Girone sono agli arresti domiciliari in India, in attesa di un processo che non arriva mai (peggio che in Italia, verrebbe da dire). Giulia ha lanciato anche un’invettiva ("Italia di merda"), che rivela la sua rabbia per l’impotenza dei tre governi (Monti, Letta e Renzi) che non hanno saputo riportare in patria due servitori dello stato che rischiano la pena di morte per un reato commesso nell’esercizio del loro lavoro. Perché loro erano imbarcati su un mercantile per difenderlo dalle aggressioni dei pirati che infestano l’Oceano Indiano, e non davano la caccia ai tordi. I tre ministri degli esteri che si sono succeduti alla Farnesina dal febbraio 2012, quando i due militari italiani furono arrestati, ad oggi (Giulio Terzi di Sant’Agata, Emma Bonino e Federica Mogherini) hanno detto e ripetuto che la soluzione del problema era in testa alle loro priorità, ma i risultati non si sono visti. L’India sta calpestando tutte le norme di diritto internazionale nel procrastinare la data d’inizio di un processo illegittimo (perché i due pescatori indiani uccisi si trovavano fuori delle acque territoriali) e ha preso palesemente in giro i nostri governanti (compreso il plenipotenziario Staffan De Mistura, rimasto in India, inutilmente, per parecchi mesi). L’India ha trattato l’Italia come un paese del quarto mondo, un’ex colonia che non merita alcun rispetto, condannata a subire qualunque prepotenza. Se i nostri governi chiedono di contare di più in Europa, a maggior ragione dovrebbero pretendere il rispetto delle leggi internazionali da parte di chi trattiene (illegittimamente) due nostri connazionali in attesa di un giudizio per il quale non sono stati ancora formalizzati i capi di imputazione. Abbiamo oscillato fra la speranza di un accordo bilaterali e la richiesta di un arbitrato internazionale. Occorre alzare il tono, minacciando di ritirare le nostre truppe dalle tante missioni all’estero nelle quali sono coinvolte per garantire la pace, sotto le insegne dell’Onu. Stati Uniti: scontano 30 anni carcere per omicidio, poi test Dna li scagiona Asca, 3 settembre 2014 Sono stati liberati dopo aver scontato trent’anni di carcere, prosciolti grazie a un test del Dna dalle condanne per lo stupro e l’omicidio di una 11enne nella Carolina settentrionale. Il New York Times riferisce che il 50enne Henry Lee McCollum e il 46enne Leon Brown, fratellastri afroamericani e disabili mentali, sono stati dichiarati innocenti e rilasciati dalla prigione della contea di Robeson. McCollum era nel braccio della morte, mentre Brown scontava l’ergastolo. Nel 1983, rispettivamente 19enne e 15enne, subito dopo l’arresto avevano confessato la propria colpevolezza. Poco dopo avevano ritrattato, denunciando di essere stati forzati e ricattati nelle loro dichiarazioni. Nessuna prova li legava all’omicidio. A cambiare la sorte dei due detenuti è stato il test del Dna condotto su un mozzicone di sigaretta conservato tra le prove, che ha chiamato in causa un terzo uomo già legato ad altri casi di stupro e omicidio. L’attuale procuratore distrettuale, Johnson Britt, ha fatto sapere che non si opporrà al proscioglimento e che non intende procedere perché i due uomini siano riprocessati. Stati Uniti: evasione di massa da carcere minorile di Nashville, nel Tennessee 17 in fuga Agi, 3 settembre 2014 Evasione di massa dal carcere minorile di Nashville, nel Tennessee. Secondo l’emittente locale Wsmv, oltre 30 giovani detenuti sono riusciti a eludere la sorveglianza e a oltrepassare la recinzione della struttura. Diciassette detenuti, tutti con diversi precedenti penali, sono ancora in fuga. "Alle 23 di ieri (le 6 di mattina in Italia, ndr), 32 ragazzi sono riusciti a passare sotto la recinzione perimetrale", ha riferito l’addetto stampa del Tennessee Department of Children’s Services. Due giovani sono stati catturati poco dopo e un altro gruppo è stato ritrovato nella notte. Ma è caccia ai 17 detenuti che mancano ancora all’appello: elicotteri della polizia polizia stanno sorvolando la zona e gli agenti stanno impiegando unità cinofile. Cina: uccidono una guardia e fuggono dal carcere, già ripresi 2 dei 3 detenuti evasi La Presse, 3 settembre 2014 Tre prigionieri, tra cui uno detenuto nel braccio della morte, hanno ucciso una guardia e sono fuggiti da un carcere nel nordest della Cina, scatenando una caccia all’uomo che ha portato più tardi alla cattura di due di loro. Il quotidiano People Daily ha riferito che i tre avevano indossato uniformi della polizia prima di scappare dalla prigione, situata nei pressi della città di Harbin, nella contea di Yanshou. Due di loro sono stati fermati a circa 2 chilometri dal carcere, mentre continuano le ricerche del terzo fuggitivo. I tre sono stati identificati come il 50enne Gao Yulun, condannato a morte, il 35enne Wang Damin, accusato di aggressione che ha provocato la morte di una persona, e Li Haiwei, di 29 anni, incriminato per omicidio. Non è chiaro se i due siano stati già processati. Iran: un Pastore Cristiano Evangelico in carcere per "attentato alla sicurezza del Paese" Aki, 3 settembre 2014 Festeggerà in carcere il suo 35esimo compleanno il Pastore cristiano evangelico, Farshid Fathi, da oltre tre anni tenuto a languire dietro le sbarre per la sua fede. A riaccendere i riflettori sulla sua storia è il Wall Street Journal che rilancia il dibattito sulle persecuzioni delle minoranze religiose nella Repubblica islamica a pochi giorni dall’arrivo a New York della delegazione iraniana per l’Assemblea Generale dell’Onu e alla vigilia della tappa a Roma del ministro degli Esteri di Teheran, Mohammad Javad Zarif. Fathi è stato arrestato nel dicembre 2010 dagli uomini dell’intelligence iraniana. Padre di due bambini, ha trascorso un anno in isolamento o semi-isolamento nel famigerato carcere di Evin, nella sezione 209, quella dedicata ai prigionieri politici. In questo periodo - come ha raccontato al Wsj un iraniano convertito al cristianesimo che conosce bene il caso del Pastore - Fathi è stato sottoposto a lunghi interrogatori e ad abusi psicologici. Nel febbraio 2012 un tribunale rivoluzionario di Teheran ha condannato il religioso a sei anni di carcere per aver messo a repentaglio la sicurezza del paese. Di recente Fathi è stato trasferito nel carcere di Rajai Shahr, alla periferia della capitale, dove condivide una cella con tossicodipendenti e altri detenuti comuni che regolarmente lo sottopongono a molestie e minacce. Quando Fathi ha chiesto le ragioni del suo trasferimento gli è stato spiegato che era stato sentito recitare inni cristiani. Corea del Nord: detenuti americani chiedono a Washington di intervenire per liberazione Asca, 3 settembre 2014 La Corea del Nord ha permesso a due testate americane, Cnn e Associated Press, di intervistare tre cittadini statunitensi detenuti nel Paese. I tre, riferisce il New York Times, si sono scusati per aver violato le leggi di Pyongyang e hanno implorato Washington di mandare un inviato di alto livello a negoziare la loro liberazione. Tra Usa e Corea del Nord non ci sono relazioni diplomatiche, mentre i rapporti sono tesi a causa dei programmi militare e nucleare di Pyongyang. "La coreografia" delle interviste, si legge sul quotidiano, "sembra chiarire meglio che la Corea del Nord vuole usare i tre americani come leva per far pressione su Washington perché si impegni in un dialogo". In passato, americani incarcerati sono stati rilasciati dopo che gli Usa hanno inviato emissari di alto livello. I tre detenuti sono Kenneth Bae, missionario cristiano arrestato nel 2012, e Jeffrey Edward Fowle, entrato ad aprile, accusati di proselitismo finalizzato alla destituzione del potere; Matthew Todd Miller, entrato ad aprile e arrestato per condotta ribelle dopo che ha chiesto asilo.