Giustizia: garantismo a sinistra? ma quando mai di Luigi Manconi Il Manifesto, 30 settembre 2014 Altro che "ritorno". Nell’idea che i diritti vivano solo in una dimensione collettiva e nella concezione sostanzialista della legge, le ragioni storiche e materiali di potenti pulsioni giustizialiste. C’è qualcosa, nella recente attenzione per quanto, spesso impropriamente, viene definito "garantismo" che mi lascia sommamente perplesso. Il fatto, cioè, che quasi tutti ne parlino come se si trattasse di un "ritorno al". Apprezzato o stigmatizzato che sia, in ogni caso il garantismo costituirebbe, per la sinistra, una sorta di felice "riscoperta delle origini": o, per lo meno, di ritrovamento della propria identità. Ma quando mai. In realtà, la sinistra, nella gran parte dei suoi aderenti e delle sue culture, non è mai stata garantista. E, per converso, è sempre stata attraversata da potenti pulsioni giustizialiste. A spiegare bene la scarsa sensibilità della sinistra, nella sua intera esistenza, per quell’insieme di principi e di regole che lo stato di diritto ha posto a tutela delle garanzie individuali, troviamo solidissime ragioni storiche e materiali. E tra esse: a) l’idea che i diritti vivano prevalentemente in una dimensione collettiva e in uno spazio sociale; b) una concezione sostanzialista della giustizia. Queste due opzioni sopravvivono tuttora e sono l’esito di una situazione pesantemente determinata, che vede la sinistra svilupparsi in una condizione di assoluta minorità e, tuttavia, con l’ambizione di organizzare e rappresentare larghe masse prive di tutto (se non della propria prole). Di conseguenza, per una fase lunga almeno un secolo, al centro del sistema di interessi e di valori della sinistra saranno le garanzie collettive, le tutele sociali, i diritti delle classi e dei gruppi. In altre parole, le libertà intorno alle quali la sinistra si costituisce e per le quali si batte sono quelle fondate sui bisogni delle grandi masse: e, innanzitutto, l’emancipazione dalla miseria economica e dall’esclusione sociale. Per molto tempo, i diritti soggettivi, le libertà personali, le garanzie del singolo e tutto ciò che rimanda all’autonomia individuale vengono, nella migliore delle ipotesi, dopo la conquista dei diritti collettivi. Questa concezione resiste fino agli anni Settanta, quando finalmente il tema delle libertà della persona non viene più collocato tra le categorie "piccolo-borghesi"; e non viene più confinato tra i valori "liberali". Ma diventa la materia viva di profonde trasformazioni e la posta in gioco di aspri conflitti. Ciò si deve, in particolare, agli effetti dell’azione e dell’elaborazione del femminismo e al ruolo delle minoranze radicali, libertarie e anti-autoritarie. E tuttavia, il tema delle libertà individuali - nonostante il dirompente impatto di riforme come quella del divorzio e quella dell’aborto - resta tutt’ora secondario per la gran parte della sinistra, rispetto alle più importanti questioni della giustizia sociale. Non si comprende, e per molto tempo ancora non si comprenderà, che libertà del soggetto e garanzie economiche, autonomia della persona e diritti sociali possano coesistere, reciprocamente richiamarsi e fare affidamento gli uni sugli altri. Certo è possibile che in fasi di acuta crisi economica, si ripropongano le tradizionali gerarchie dei programmi sociali, ma oggi - ed è solo un esempio - il diritto al lavoro è sempre meno scindibile dal diritto alla piena espressione della propria soggettività, compresa quella relativa alla sfera sessuale. Per capirci, un lavoratore ha certamente come priorità la garanzia di un reddito ma non è indifferente al riconoscimento anche giuridico delle proprie preferenze sessuali "di minoranza" (unioni civili) o alla più ampia possibilità di procreazione (fecondazione assistita). In altre parole è oggi possibile considerare la persona nella sua interezza: non più solo come "individuo economico" o "attore politico", bensì come soggetto che intende esercitare la propria capacità di autodeterminazione nei diversi campi della vita sociale e nelle differenti forme della sua esperienza. Una ulteriore conseguenza di quanto detto dovrebbe portare alla più ampia tutela delle imprescindibili garanzie individuali e alla più rigorosa protezione dell’integrità della persona e del suo corpo, quando si trovi sottoposto a limitazione della libertà. Ma qui il ragionamento incontra un altro limite, che ha gravato sull’intera storia della sinistra. Ovvero quella concezione sostanzialista della giustizia prima citata. La sinistra, infatti, si sviluppa per affermare uguaglianza e libertà, combattendo non solo rapporti di forza iniqui, ma anche sistemi giuridici e ordinamenti legali, funzionali a quelle relazioni di potere diseguali. Dunque la sinistra confligge con l’ordinamento giuridico formale per imporre una giustizia sostanziale. Qui è la radice più profonda del sostanzialismo e una delle cause dell’anti-garantismo. Non a caso il sostanzialismo ha avuto conseguenze nefaste proprio sul piano del processo penale. Qui soccorre Luigi Ferraioli e il suo classico Diritto e ragione: "La verità cui aspira il modello sostanzialistico del diritto penale è la cosiddetta verità sostanziale o materiale, cioè una verità assoluta e onnicomprensiva in ordine alle persone inquisite, priva di limiti e di confini legali, raggiungibile con qualunque mezzo al di là di rigide regole procedurali". E tutto ciò finisce con l’essere funzionale a una "concezione autoritaria e irrazionalistica del processo penale". In proposito, le biblioteche, le emeroteche e gli archivi sono zeppi e onusti di una sterminata e inesorabile documentazione. Io, per dirne una, ho proprio qui, tra le mani un ottimo esempio del rapporto tra modello sostanzialista e comportamento politico anti-garantista. L’episodio - a smentire l’euforia per "il ritorno" alla tutela intransigente dei diritti individuali - risale giusto a luglio scorso. Non troppo tempo prima (febbraio 2014) la Procura della Repubblica di Napoli chiede al Senato l’autorizzazione all’acquisizione dei tabulati telefonici relativi a 24 mesi di uso dei telefoni cellulari intestati al senatore Antonio Milo. Da quei tabulati la Procura ritiene di poter desumere se Milo sia stato effettivamente in cura presso il Centro fisioterapico di Napoli delle cui prestazioni ha chiesto il rimborso all’assistenza sanitaria per i parlamentari. La Procura intende dimostrare l’assenza di qualunque aggancio dei telefonini intestati a Milo alla cella di localizzazione dell’istituto presso cui si sarebbero svolte le cure. Se si dimostrasse che i telefonini di Milo "non sono stati mai lì", si avrebbe la prova del comportamento truffaldino dell’intestatario di quegli apparecchi. A prescindere da altre discrepanze (per esempio, l’arco temporale indagato va oltre i limiti entro i quali si sarebbe consumata la truffa), viene ignorata la banalissima possibilità che il parlamentare in questione si sia recato in quel centro privo di telefonino. Per converso, l’eventuale presenza di un telefonino del senatore Milo presso il Centro fisioterapico non testimonierebbe, di per sé, delle prestazioni effettivamente rese. Ebbene, di fronte a ciò, il primo luglio l’aula del Senato, con voto segreto e a maggioranza, autorizza l’acquisizione di quei tabulati. Indovinate un po’ come si pronunciano e come si schierano i parlamentari di centro-sinistra e, segnatamente, quelli del Pd. Ed è solo un esempio, e nemmeno dei più oltraggiosi. Dunque, se quella del garantismo fosse davvero, per la sinistra, una "riscoperta" essa andrebbe collocata in una data certamente successiva al 1 luglio 2014. Giustizia: carceri, le due riforme del governo…. e Renzi "commissaria" Orlando di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 settembre 2014 Una task force di magistrati capitanata da Nicola Gratteri ripensa il Corpo di polizia penitenziaria. Sul riassetto dell’amministrazione penitenziaria la schizofrenia del governo Renzi-Alfano è all’apice. "Commissariato" - si potrebbe dire - il Guardasigilli Andrea Orlando, a competere ora con la sua riforma del sistema carcerario ci sarebbe anche un altro progetto, uguale e contrario, formulato da una commissione di magistrati nominata a luglio dal premier Matteo Renzi. Capitanata dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri (che aveva già fatto parte di un’altra task-force analoga nominata dal governo Letta), la Commissione è formata da una dozzina di docenti universitari, magistrati, giuristi e avvocati (chiamati a titolo gratuito) tra cui il consigliere della Corte di Cassazione Piercamillo Davigo e il Procuratore aggiunto di Messina, Sebastiano Ardita, ex direttore generale del Dap. Questa sorta di "governo ombra" della Giustizia starebbe lavorando, secondo indiscrezioni fatte trapelare da Palazzo Chigi, tra le altre cose anche sul carcere, ipotizzando di abolire il Dap e di trasformare la polizia penitenziaria in un corpo che operi maggiormente sul territorio, in modo da sgravare di alcune incombenze le altre forze dell’ordine. Una sorta di "polizia di giustizia" addetta anche al controllo delle persone sottoposte a misure alternative al carcere o degli ex detenuti, o che esegue gli ordini di arresto dei condannati in via definitiva, o che ricerca i latitanti, protegge i collaboratori di giustizia, e così via. Una strada, questa, che sarebbe pure accolta "con favore" - confida al manifesto Donato Capece, segretario generale del Sappe, ma che dovrebbe allora tenere conto della necessità di "potenziare gli organici" della polizia penitenziaria. Ed è evidente che una tale richiesta rischierebbe di vanificare gli obiettivi di razionalizzazione e risparmio della commissione Gratteri. In tutt’altra direzione si muove invece il ministro Orlando che si prefigge di portare in Consiglio dei ministri, entro il 15 ottobre prossimo, una revisione del Dap basata semplicemente sul decentramento e sull’accorpamento di funzioni in modo da diminuire le spese. Il Guardasigilli, che oggi riceverà in via Arenula i sindacati dei comparti funzione pubblica, sicurezza e polizia penitenziaria, sta pensando all’eliminazione delle direzioni generali "Beni e servizi", sia presso il Dap che nel Dipartimento giustizia minorile, nonché alla soppressione della Direzione generale bilancio del Dap e alla riduzione da 16 a 10 dei Provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria. Ma soprattutto, per distinguere nettamente i percorsi di riabilitazione del condannato fuori e dentro le mura del carcere, vorrebbe trasferire l’esecuzione penale esterna, alternativa alla detenzione, dal Dap al Dipartimento giustizia minorile, sia per i minori sia per gli adulti. Due visioni generali diverse dunque - quella di Renzi e quella del ministro Orlando - del carcere e della funzione del Dap. Probabilmente inconciliabili. Tanto più perché non è chiaro se, nel progetto della commissione Gratteri, gli agenti penitenziari passerebbero alle dipendenze del ministero degli Interni. E neppure, una volta liquefatto il Dap, chi andrebbe a gestire tutto il resto del personale che opera nelle carceri. E infine diventa sempre più pressante un ultimo interrogativo: quale tipo di figura si immagina a dirigere la nuova amministrazione penitenziaria, sia pur così ristrutturata? Chi sarà il nuovo capo, posto vacante dal 28 maggio scorso? Un compito che finora è stato affidato soprattutto a magistrati, malgrado in molti auspicano che la scelta ricada su una persona capace di valorizzare tutte le altre professionalità del mondo carcerario, troppo trascurate. Potrà cambiare nome, il Dap, ma la funzione inevitabilmente resterà. Si spera con retribuzioni apicali inferiori a quelle fin qui percepite, se è vero che fino al 2013 l’indennità del capo del Dap ammontava a 500 mila euro, come riporta l’interrogazione parlamentare presentata dal senatore del Psi Enrico Buemi. Attendendo una risposta, e la conclusione dei lavori del "governo ombra", nel frattempo le carceri sono senza un governo. Giustizia: carceri, ecco come dovrebbero essere riformate di Susanna Marietti (Associazione Antigone) Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2014 Leggiamo su L’Espresso di un progetto di riforma della gestione penitenziaria che partirebbe dalla testa stessa di Matteo Renzi e che sarebbe affidato nell’elaborazione concreta alla guida del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri. Non troppe settimane fa Gratteri, proprio alla festa del Fatto Quotidiano, aveva parlato di chiudere il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per risparmiare denari. Quella che avevamo inteso come poco più di una battuta era, pare, una linea riformatrice ben chiara. Del funzionamento delle nostre carceri concordo che ci sia molto da riformare. Antigone è da sempre parte di tale dibattito. Ma per riformare non basta cambiare l’esistente: bisogna pur guardare in quale direzione si decide di effettuare il cambiamento. L’articolo de L’Espresso conteneva solamente anticipazioni generiche, dunque aspettiamo di vedere un qualche documento più effettivo e dettagliato per esprimere giudizi di merito precisi. Qualcosa però si può cominciare a notare. Innanzitutto una particolarità di tutti questi dibattiti da spending review: nel valutare se e come si possano risparmiare i troppi stipendi dirigenziali di amministrazioni quali quella penitenziaria, mai si cita la possibilità di abbassare drasticamente l’importo degli stipendi stessi. O si cancella il posto di capo Dap pagato uno sproposito, oppure lo si tiene così com’è (e lo stesso dicasi per i 15 dirigenti generali). Tertium non datur. Portarlo a 3.000 euro - uno stipendio dignitoso, superiore a quel che guadagniamo in tanti, ma certo non sfacciato - sembra inconcepibile. In secondo luogo: l’amministrazione penitenziaria è un’amministrazione pubblica pachidermica, con decine di migliaia di dipendenti, dalle cui decisioni dipende la sorte di altre decine di migliaia di persone. Il piano di Gratteri che prevede la soppressione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria farà risparmiare, si dice, centinaia di milioni di euro. Posto che, fortunatamente, non si arriverà a misure greche di licenziamento pubblico, quei lavoratori verranno dislocati altrove. Ma se una struttura alternativa al Dap e ben più snella è dunque considerata sufficiente a gestire le prigioni italiane, non si potrebbe già ora snellire il Dipartimento stesso mandando i lavoratori là dove serve e risparmiando lo stesso quei soldi? Infine, la parte più delicata: si pianifica di eliminare la polizia penitenziaria e farla confluire in un diverso corpo di polizia che abbia compiti di ordine pubblico dentro e fuori dal carcere. Sarebbero esponenti di questo corpo di polizia a dirigere le carceri al posto degli attuali direttori. Su questo si stia davvero attenti. Una riforma in questa direzione potrebbe riportare il sistema indietro di molti decenni, collocandoci al di fuori di ogni prospettiva legata agli organismi internazionali sui diritti umani. L’amministrazione penitenziaria ha una mission chiara, sancita dalla stessa Carta Costituzionale. Nelle carceri italiane lavorano tantissime persone di grandissimo livello professionale senza le quali non si sarebbe mai passato il tempo della crisi. Ci si dimentica di educatori, assistenti sociali, psicologi che hanno fatto miracoli in assenza di risorse. Le competenze che servono dentro una prigione non sono quelle che servono per la strada ai tutori dell’ordine. Il direttore di un carcere, così come tutti gli operatori che vi lavorano, deve avere una formazione ampia, legata - oltre che al management - ai diritti umani, alla più alta giurisdizione, alla capacità relazionale. Da sempre andiamo dicendo che la polizia in carcere non può avere il solo ruolo di aprire e chiudere cancelli. Su questo concordo pienamente con Gratteri. I poliziotti devono avere compiti di responsabilità e impegno nella gestione della pena. Tutto il lavoro fatto in questi anni sulla cosiddetta sorveglianza dinamica - un modello di custodia che ha dato ottimi risultati anche in termini di abbassamento della recidiva, basato non sulle barriere fisiche quanto piuttosto sulla responsabilizzazione dei detenuti - non era dispendioso e andava nella giusta direzione. Ma non può andarvi una riforma che pensa a risparmiare soldi gestendo un carcere con i soli strumenti dell’ordine pubblico. Giustizia: "Protocollo Farfalla", anche Riina e Bagarella monitorati dal Sisde di Mori di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2014 Nel giugno 2003, un anno prima che tra Dap e Sisde venga siglato il Protocollo Farfalla con allegato l’appunto relativo al pagamento di otto boss detenuti affinché forniscano informazioni confidenziali, un altro appunto, questa volta interno al servizio di sicurezza, si pone il problema di "monitorare" alcuni dei corleonesi stragisti detenuti, per analizzare tutte le informazioni utili sulla loro condotta in carcere: rapporti epistolari incrociati, revoca dei mandati ai difensori e scelta di nuovi avvocati, comportamenti e relazioni con compagni e vicini di cella. Nell’appunto top secret, acquisito dalla Procura generale di Palermo agli atti del processo d’appello a Mori e Obinu, figurano boss del calibro di Totò Riina, Leoluca Bagarella, Cosimo Lo Nigro e Fifetto Cannella, uno degli otto boss pagati dai servizi citati nell’appunto allegato al Protocollo Farfalla. E proprio su Cannella, l’uomo che alla fine del 1991 Riina aveva inserito nella "Supercosa", la struttura "blindata" di Cosa Nostra aperta solo ai fedelissimi, come ha rivelato Vincenzo Sinacori, e che consegna a Spatuzza le cinque lettere da spedire agli organi di stampa firmate Falange Armata che anticipano, nel luglio 1993, le bombe di Milano e di Roma, si sono accesi i riflettori investigativi della Procura. A partire dalla rilettura, in sequenza temporale, degli episodi che risalgono al 2002, anno in cui si apre il capitolo della dissociazione dei boss (confessano delitti propri, ma non accusano i complici in cambio di vantaggi penitenziari e sconti di pena) poi abortito in Parlamento. Dopo la lettera di Pietro Aglieri indirizzata a marzo al superprocuratore Vigna e al procuratore di Palermo Grasso, che propone una sorta di terza via tra irriducibili e pentiti, i dissociati, è la volta dei corleonesi "irriducibili": il 12 luglio tocca a Bagarella che, durante un processo a Trapani, legge un comunicato contro il 41 bis, in cui accusa i politici di non aver mantenuto i patti. Ed è proprio a luglio che i detenuti sembrano scatenarsi: il boss Giuseppe Graviano, al 41 bis, scrive proprio a Fifetto Cannella una lettera in codice in cui discetta di arte e chiede se è più importante "la Cappella Sistina o il Museo Egizio di Torino". E il carteggio prosegue per tutta l’estate 2002 tra i corleonesi detenuti: Giovanni Riina, figlio di Totò, manda alla madre una lettera in cui discute del Milan. I Graviano chiedono che sia loro mandata una maglia del Milan, la squadra di Silvio Berlusconi: la sigla usata per scrivere "Formula 1" è F1, quasi identica a FI, Forza Italia. E il 17 luglio con un’altra lettera 31 boss, tra cui Graviano e Cannella, lanciano avvertimenti ai loro avvocati che, diventati parlamentari, li avrebbero dimenticati. Lo stesso giorno il Sisde in un’informativa mette sull’avviso Marcello Dell’Utri e Cesare Previti: i boss potrebbero reagire, dice l’informativa, e questa volta avrebbero affermato l’intenzio - ne di "non fare eroi". Gli occhi del Sisde, dunque, sono già puntati sulle carceri e l’anno dopo l’interesse viene codificato nell’appunto interno. Si arriva a metà del 2003. Sta per scadere la "moratoria" di dieci anni concessa da Cosa Nostra, ormai saldamente in mano a Binnu Provenzano. Nello stesso anno la Cassazione chiude il processo di via D’Amelio accreditando il depistaggio del falso pentito Vincenzo Scarantino. Ma se Scarantino è un falso pentito, e se i boss condannati per via D’Amelio sono in parte quelli sbagliati, Cosa Nostra ovviamente lo sa. E i capimafia, che incassano in silenzio gli ergastoli basati sulla falsa pista, sanno di avere in mano una formidabile cambiale in bianco da far valere nei confronti dello Stato. "Perché i vertici di Cosa Nostra subirono passivamente quelle condanne? - si è chiesto Roberto Scarpinato il 19 luglio 2011 nell’atrio di Giurisprudenza, a Palermo, al convegno organizzato da Antimafia 2000 - Forse perché si convinsero che quella non era un’iniziativa individuale di alcuni poliziotti che volevano fare carriera, ma un depistaggio pilotato dall’alto, da un potere così alto da non poter essere sfidato impunemente. Un potere che si doveva subire, in quel momento, ma con il quale, poi, si poteva trattare". La conoscenza dei segreti di via D’Amelio può diventare dunque un’arma di ricatto efficace come poche: i detenuti al 41 bis sono inferociti proprio in coincidenza con l’accendersi, nelle carceri, di un’attività febbrile di messaggi incrociati. È in questo contesto che il Sisde di Mori si mobilita per cercare di sondare il mondo delle carceri e capire cosa bolle tra i capi del gotha mafioso detenuti al 41 bis? Certo è che vengono piazzate microspie nelle carceri al di fuori del controllo dell’autorità giudiziaria. Qual è l’obiettivo dei servizi? Domande e ipotesi investigative su cui stanno lavorando i pm di Palermo che ieri hanno incontrato i colleghi della Dda di Messina, i sostituti Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo: al centro dell’incontro le nuove rivelazioni del pentito Malvagna e la deposizione di Giovanni Tamburino, ex capo del Dap, sul ruolo di Rosario Cattafi, uomo cerniera tra mafia, massoneria e servizi. Il pentito doveva procurare una villa tra Letojanni e Messina per un incontro riservatissimo con gente esterna a Cosa Nostra tra febbraio e marzo del 1992 e nella stessa occasione lo zio avrebbe rivelato al nipote: "Ho molta fiducia in Sariddu (Cattafi, ndr) perché lui ha agganci con la massoneria". Arrestato nel 2012 Cattafi, dopo un paio di mesi dice di voler parlare con i pm della trattativa perché ha cose da dire e soprattutto dei nastri registrati. Quasi in tempo reale, al capo del Dap Giovanni Tamburino arriva una richiesta urgente dall’Aisi per conoscere nel dettaglio la situazione carceraria di Cattafi, i soggetti con cui interloquisce in carcere gli orari dell’aria del passeggio e cosa mangia. Per Tamburino, che negli anni trascorsi al Dap aveva ricevuto solo altre due volte richieste dei servizi di informazioni su detenuti, ma di caratura inferiore, si tratta di una richiesta anomala. Giustizia: l’Anm torna all’attacco "Renzi rispetti i magistrati" di Enrico Novi Il Garantista, 30 settembre 2014 È una guerra di nervi, e non accenna a placarsi. Tra Renzi e i magistrati si è aperta una frattura difficile da ricomporre, L’ultimo atto è nella nota affilatissima con cui l’Anm risponde alle parole pronunciate dal premier domenica sera a "Che tempo che fa". "Il presidente del Consiglio ha ripetuto affermazioni riguardanti l’azione dell’Anni che non corrispondono alla realtà dei fatti", fa notare il comunicato, "l’Associazione nazionale magistrati lo rileva con vivo rammarico". Segue una difesa puntigliosa sulla questione del tetto per gli stipendi delle toghe: "L’Anm non ha mai dichiarato che l’introduzione di un tetto massimo di 240.000 euro annuali sia un attentato alla libertà o ali indipendenza della magistratura. Chi sostiene il contrario è invitato a dimostrare, una volta per tutte, quando e come l’Associazione avrebbe fatto una simile affermazione". Praticamente una sfida, estesa anche alla nodo delle ferie tagliate: "L’Anm non ha mai dichiarato che la riduzione della sospensione feriale e delle ferie sia un attentato ai magistrati. Durante il periodo delle ferie, finora determinato in 45 giorni, i magistrati erano comunque tenuti al deposito dei provvedimenti. Dunque il numero dei provvedimenti emessi è indipendente dalle ferie godute, la cui riduzione non pota determinare alcun incremento di produttività, La magistratura ha troppo rispetto della propria indipendenza per strumentalizzarla a secondi fini. Ci si attende uguale rispetto da parte di tutti". Ora il vero punto è: dietro la piccata risposta può celarsi qualche scherzo sulla vicepresidenza del Csm? Possibile che i togati del Consiglio superiore facciano uscire dal primo plenum fissato per le 10 di stamattina un nome diverso da quello di Giovanni Legnini? Il premier ne parla con il Capo dello Stato in un incontro al Quirinale, nella tarda mattinata. Al primo punto della discussione tra Renzi e Napolitano c’è l’esito dell’Assemblea generale dell’Onu. Ma al voto di Palazzo dei Marescialli è rivolta una parte non trascurabile delle preoccupazioni del Colle. Non a caso giovedì il presidente della Repubblica ha rivolto alia magistratura l’esortazione a non far prevalere lo spirito di casta. Certo è che se oggi i consiglieri togati facessero confluire le loro preferenze su un nome diverso da quello dell’attuale sottosegretario all’Economia, la tensione tra magistratura e politica schizzerebbe a livelli inimmaginabili. E’ soprattutto la corrente di sinistra delle toghe, ossia il cartello di Area in cui sono federate Md e Movimenti, che vorrebbe chiudere la partita in modo non conforme ai piani dell’esecutivo. Dai grappi parlamentari del Pd, e da Palazzo Chigi innanzitutto, è arrivata la netta indicazione per Giovanni Legnini, ormai ex sottosegretario all’Economia ed esponente dem di area bersaniana. I togati del Csm non gradiscono, quelli di sinistra meno degli altri. Se trovassero sponde all’interno degli 8 laici sarebbero ben contenti di dirottare le loro preferenze verso Renato Balduzzi, indicato da Scelta civica. Dal Pd, riferiscono fonti parlamentari, è stata attivata una discreta forma di pressione sui togati per convincere i più scettici a votare Legnini. Risultato: ì magistrati eletti nel Csm hanno intanto chiesto e ottenuto di ascoltare in una insolita pre-convocazione le linee d’intenti di tutti e 8 i membri laici. La riunione si è svolta ieri pomeriggio in un clima indecifrabile, con ì consiglieri di nomina parlamentare messi quasi sotto esame dai loro "colleghi" magistrati. Tra ì nomi che altri boatos segnalano come "papabili" c’è anche un altro esponente della maggioranza, Antonio Leone di Ncd. In fondo chi più dì lui sarebbe dotato di quella "complessiva esperienza politico-istituzionale" che il presidente della Repubblica giovedì scorso ha indicato come requisito essenziale per il successore di Michele Vietti? In quella cerimonia, che ha sancito il passaggio di consegne tra vecchio e nuovo Consiglio superiore, Napolitano ha ricordato come la vicepresidenza "laica" del Csm serva anche a "far sentire un soffio esterno all’ordine giudiziario" in modo da riallacciare "l’organo di autogoverno della magistratura" alla "fonte popolare". L’elezione di un vice-presidente del Csm che non gradito al partito di maggioranza relativa sarebbe in contraddizione col richiamo del Colle, Il campo andrebbe liberato dalle mine prima che la riforma della giustizia entri nella fase della discussione parlamentare. Ieri il presidente del Senato Pietro Grasso ha segnalato il ritardo dei provvedimenti sulla criminalità economica, e in particolare dell’auto-riciclaggio. Il guardasigilli Orlando a sua volta si prepara a incardinare anche un altro capitolo importante, il ddl sul processo penale. Vorrebbe quindi discutere con l’Anm della riforma del Csm. Magari in un clima che non sia proprio quello della guerra fredda. Giustizia: Anm; da Presidente Consiglio Renzi affermazioni non corrispondenti a realtà Dire, 30 settembre 2014 L’Anm rileva "con vivo rammarico che il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, anche nel corso della popolare trasmissione televisiva ‘Che tempo che fà andata in onda nella serata di ieri 28 settembre, ha ripetuto affermazioni riguardanti l’azione dell’Anm e il concreto funzionamento degli Uffici giudiziari italiani che non corrispondono alla realtà dei fatti". Pertanto, prosegue la nota, l’Anm "si vede costretta a ricordare a tutti, con estrema fermezza, che: l’Anm non ha mai dichiarato che l’introduzione di un tetto massimo alle retribuzioni di 240.000 euro annuali sia un attentato alla libertà o all’indipendenza della magistratura. Chi sostiene il contrario è invitato a dimostrare, una volta per tutte, quando e come l’Associazione avrebbe fatto una simile affermazione. L’Anm, inoltre, ricorda che tale tetto è raggiunto solo dai massimi vertici della Corte di Cassazione e della relativa Procura Generale e che la retribuzione media dei magistrati è enormemente inferiore a quella cifra; gli uffici giudiziari non chiudono mai e l’Anm non ha mai dichiarato che la riduzione della sospensione feriale e delle ferie (realizzata con il decreto legge n. 132/2014) sia un attentato ai magistrati". In realtà, prosegue l’Anm, "l’istituto della sospensione dei termini processuali in periodo feriale, fino ad oggi fissato dal 1° agosto al 15 settembre, è destinato ad assicurare il concreto esercizio del diritto di difesa (art. 24 Cost.), al fine di evitare il decorso dei termini processuali nei processi ordinari, in un tempo che i cittadini tradizionalmente dedicano al riposo annuale". Quanto alle ferie, dicono ancora i magistrati, "finora determinate in 45 giorni, in tale periodo i magistrati erano comunque tenuti al deposito dei provvedimenti, non essendo prevista alcuna sospensione dei relativi termini. Dunque, il numero dei provvedimenti emessi è indipendente dalle ferie godute, la cui riduzione non potrà determinare alcun incremento di produttività. La magistratura ha troppo rispetto della propria indipendenza, per strumentalizzarla a secondi fini. Ci si attende uguale rispetto da parte di tutti". Ci auguriamo, con ciò, di avere fatto, si spera definitiva, chiarezza, nell’interesse di una corretta informazione e della dignità di quanti operano con sacrificio e impegno nel delicato settore dell’amministrazione della Giustizia", conclude la nota. Giustizia: sui nuovi membri della Corte costituzionale il Parlamento dà cattivo spettacolo di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 30 settembre 2014 Intervista al presidente della Consulta Giuseppe Tesauro. La critica: "Vogliono riflettere molto per eleggere i due giudici? Benissimo, ma si poteva fare anche con discrezione. Così invece è dannoso". La Corte di giustizia europea. Poi l’Antitrust, per sette anni. Quindi altri nove alla Corte costituzionale che lascerà il 9 novembre, domenica: giusto una settimana prima del settantaduesimo compleanno. Ne ha viste abbastanza, il presidente della Consulta Giuseppe Tesauro, per non essere scandalizzato dalla durata di quella che chiama "la riflessione". Tre mesi e mezzo per non riuscire ad eleggere due giudici costituzionali. Alla faccia della riflessione. "Vogliono riflettere molto? Benissimo. Ma si poteva fare anche con discrezione. Lo spettacolo che stanno dando in Parlamento si riverbera in modo molto negativo sull’immagine della Corte, come se fosse diventata terreno per scorribande politiche. Con il rischio di invischiare anche il presidente della Repubblica, che dovrà a sua volta nominare due di noi". Spettacolo indecente, ma quante volte l’abbiamo visto? "Non in un momento come questo. La Corte è diventata oggetto di una retorica anti-istituzionale. Vittima di una cattiva e ingiusta considerazione, che va dai nostri compensi alle decisioni stesse della Consulta". La sentenza con cui avete decretato l’incostituzionalità dei tagli agli stipendi dei magistrati ha certo contribuito. "Lo so. Ma lì c’era in ballo il principio dell’eguaglianza tributaria. Se volevano aumentare il prelievo sulle retribuzioni più elevate dovevano farlo per tutti e non solo per i giudici". Ma perché mai il taglio della paga potrebbe compromettere l’indipendenza dei magistrati, com’è stato argomentato? "La costituzione americana prescrive l’intangibilità delle retribuzioni dei giudici della Corte suprema durante il loro incarico. Un organo che fa da contrappeso al governo va tutelato proprio rispetto al potere politico. Anche se comprendo che da noi questo dogma possa venire guardato male. Ci sono magistrati che fanno dell’indipendenza la sorella dell’irresponsabilità, vero. Resta il fatto che l’indipendenza è fondamentale". Come si concilia l’indipendenza con la provenienza politica di alcuni giudici? "Abbiamo avuto grandi giudici e grandi presidenti che erano stati politici. Ricordo per esempio Mauro Ferri. Il contributo di chi ha avuto esperienza in politica spesso è addirittura determinante". Berlusconi arrivò ad accusare la Consulta di essere egemonizzata dalla sinistra. "La verità è che il mondo politico soffre il ruolo della Corte, concepita per limitarne il potere e correggerne le intemperanze. E del resto i partiti tendono sempre a delegittimare qualunque istituzione indipendente. L’ho provato all’Antitrust". La sua busta paga? "Il nostro stipendio è rapportato a quello dei magistrati, in misura leggermente superiore. Pur non avendo l’obbligo di farlo, ci siamo adeguati alla logica dei tetti. Guadagno 12 mila e dispari netti al mese. Certo, se si considera la situazione del Paese siamo dei privilegiati. Ma, deve credermi, ci sono decisioni per cui non dormiamo la notte. Non si trascuri la funzione importantissima che ha la Consulta nel Paese. Se il tasso di civiltà giuridica è cresciuto, si deve alle decisioni della Corte. Pensiamo alle questioni dei diritti fondamentali come la sentenza sulle unioni delle persone dello stesso sesso, a cui abbiamo riconosciuto integralmente i diritti". Poi però il Parlamento non ha mai fatto la legge. "Ma il principio è stato affermato. Come sulla fecondazione eterologa. La legge 40 l’ha vietata, ma senza un fondamento giuridico costituzionale. Qui c’è in ballo il diritto decisivo a creare una famiglia con dei figli, riconosciuto con le adozioni e la fecondazione omologa: perché non dovrebbe esserlo anche con l’eterologa? L’abbiamo definita una libertà incoercibile, utilizzando la formula dell’"autodeterminazione" e non del "diritto", come avrei preferito. Parlare di diritto urtava suscettibilità interne ed esterne. Senza contare che avrebbe portato al coinvolgimento immediato del Servizio sanitario nazionale". Lei è cattolico? "Lo sono. Faccio anche la comunione, sebbene non tutte le domeniche. Ma sono pure un giudice della Consulta. E mi dica che senso costituzionale c’è in un divieto del genere. È costituzionale una norma che spinge ad andare all’estero a spendere una fortuna per avere un figlio proprio? In tutta Europa la fondazione eterologa era vietata solo in Italia, Turchia e Lituania". Purtroppo non siamo avvezzi a guardare quello che succede in Europa. "Noi cerchiamo di farlo, come dimostrano le sentenze con le quali abbiamo recepito importanti decisioni della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, per esempio sulla revisione dei processi non equi, e della Corte di giustizia di Lussemburgo. Il rapporto con le Corti internazionali è importantissimo, perché il prezzo che l’Italia paga per non osservare le direttive comunitarie è enorme". Talvolta si ha l’idea che la cosa non ci riguardi. "Sull’Europa abbiamo investito troppo poco, al contrario di altri. Pensi a Paesi come la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, che si sono modernizzati grazie ai fondi di coesione. Loro stabiliscono ciò di cui hanno bisogno e si presentano con progetti seri e realizzabili. Noi invece andiamo con la mano aperta: dateci i soldi, poi si vedrà come utilizzarli. È un atteggiamento culturale generale che riguarda soprattutto il Sud, e lo dico da meridionale". Sotto accusa per il cattivo uso dei fondi europei ci sono le Regioni, pilastri di un apparato istituzionale sempre più confuso e inefficiente. "Posso dire che sul riparto delle competenze fra Stato e Regioni la Corte ha disperatamente cercato di trovare un equilibrio. L’ambiente, per esempio, è senza confini: e deve toccare allo Stato centrale. Idem la concorrenza". Il suo punto di vista sulla riforma di Matteo Renzi? "Ci sono cose buone e altre che possono essere migliorate. È una riforma che necessita di una sedimentazione maggiore. Il titolo V del 2001 fu fatto in una nottata e abbiamo visto il risultato. La logica del "purché si faccia" non può funzionare: l’articolazione delle competenze è questione troppo delicata". C’è chi dice che anziché le Province si dovevano abolire le Regioni. "Nell’idea dei costituenti c’erano anche le Regioni, ma non tante così. Una rivisitazione profonda delle autonomie locali è necessaria. Ma seria e meditata. Non fatta in fretta e furia sull’onda degli scandali di questo o quel consiglio regionale". Giustizia: Cassazione; sullo sciopero degli avvocati al magistrato pochi controlli di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2014 Il Codice di autoregolamentazione azzera i margini di discrezionalità. Margine di discrezionalità ridotto (quasi) a zero per il giudice se l’avvocato aderisce a uno sciopero dì categoria proclamato regolarmente. Lo stabiliscono le Sezioni unite penali della corte di Cassazione con la sentenza n. 40187 depositata ieri. La Corte ha così annullato la condanna per bancarotta fraudolenta inflitta in seguito a un procedimento che aveva visto l’audizione di una testimone nel corso di un’udienza alla quale l’avvocato di fiducia dell’imputato non aveva partecipato a causa di un’astensione dalle udienze proclamata dall’Unione delle camere penali. Il tribunale aveva proceduto ugualmente, nominando un sostituto e precisando che la testimone aveva affrontato un viaggio per rendere le dichiarazioni, che l’assunzione della testimonianza appariva indifferibile e necessaria e che non era possibile programmare una presenza in altra udienza. Le Sezioni unite ripercorrono, dal più recente passato, le vicende legate al riconoscimento del diritto di sciopero per i legali e alla sua successiva regolamentazione sia primaria, soprattutto con la legge n. 83 del 2000, sia secondaria con il codice di autoregolamentazione. Codice quest’ultimo che è stato dichiarato idoneo dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali nel 2007 e poi pubblicato nel 2008 sulla "Gazzetta Ufficiale". Tra gli elementi fatti valere dalla difesa nei suoi motivi di ricorso si sottolineava, tra l’altro, la violazione dell’articolo 4 del medesimo Codice. L’audizione di un teste, infatti, non rientra tra le situazioni che impediscono l’astensione a differenza dell’imminente prescrizione, della decorrenza dei termini di custodia cautelare, della presenza di detenuti). La sentenza, dopo avere rilevato che l’astensione forense deve essere qualificata non tanto come una semplice libertà, quanto piuttosto come l’esercizio di un diritto dal sicuro fondamento costituzionale, e avere sdoganato l’invio via fax della comunicazione di adesione allo sciopero, si sofferma sugli elementi che restano al giudice per bilanciare il diritto all’astensione con altri diritti costituzionalmente rilevanti. Infatti dall’ordinanza di rimessione sembra emergere che il Codice di auto regolamentazione non avrebbe valore vincolante. Una tesi che le Sezioni unite contestano, mettendo in evidenza come, invece, il Codice "contiene una normativa di valore secondario, o regolamentare, che ha efficacia obbligatoria per tutti i soggetti dell’ordinamento e, in primo luogo, quindi, nei confronti del giudice, il quale è tenuto a rispettarla e applicarla". Questo non vuole dire che ai giudici sia sottratta qualsiasi valutazione. Dovrà però, piuttosto, osserva la sentenza, accertare che l’astensione sia stata regolarmente proclamata e che la dichiarazione di adesione da parte del difensore e la sua richiesta di rinvio siano conformi a legge e Codice. Lettere: il mio amico Michele, da 18 mesi nel buio di una cella di Luisella Pescatori Il Garantista, 30 settembre 2014 Parlare di Michele Caccamo per me è parlare di una condivisione di intenti artistici e umani e quindi di una profonda, bellissima e leale amicizia che è nata tra Poesia e Teatro. È raccontare del mio lavoro di attrice ne "Il segno clinico di Alda", (testo di Michele, musiche dello straordinario Edoardo De Angelis) lo spettacolo che ci ha visti tutti e tre insieme, protagonisti in scena, sui bellissimi palcoscenici calabresi, nella primavera del 2013. È scrivere del caloroso pubblico calabrese, che ci ha accolti con entusiasmo e ci ha regalato emozioni indimenticabili, o dei plausi della critica che ci ha recensiti con una rassegna stampa di grande effetto. E ricordare il Salone del Libro dì Torino 2013, dove avremmo dovuto presentare il libro Dalia sua bocca di Michele Caccamo e Maria Grazia Calandrone (dal quale venne estratto L’adattamento teatrale che portammo hi scena) e dove avremmo dovuto incontrare importanti artisti, per avanzare ipotesi di collaborazione. Parlare di Michele è spiegare come una stagione artistica, ancora tutta da realizzare e piena di appuntamenti, si sia potuta interrompere, così bruscamente, alle 5 della mattina, di un lontano 8 maggio 2013, quando Michele venne arrestato a Gioia Tauro. L’indomani avrebbe dovuto raggiungermi a Milano, per partecipare alla presentazione di un libro, lui come ospite e relatore, io nel mio ruolo di attrice ed interprete dei brani. Ma Michele non arrivò mai a Linate. Non capivo nulla, ero stordita dalle notizie, anestetizzata dall’incomprensione di quello che stava accadendo, a quell’uomo così serio e per bene, non capivo più cosa stesse succedendo, sembrava che il mondo iniziasse ad aprirsi all’apocalisse: fermai i pensieri e mi dissi che si trattava di uno scambio di persona, pensai che entro poche ore al massimo si sarebbe chiarito l’equivoco e revocato il fermo. Andai da sola a tutti gli appuntamenti programmati con il dolore appiccato sugli occhi. Iniziai a crederò che al mio collega, al mio compagno di lavoro, all’autore che aveva dato vita ad uno spettacolo di rara bellezza, e che aveva reso un sogno il mio lavoro di attrice, sarebbe stata restituita in tempi brevi la libertà, o che fosse, per lo meno, trattato come per legge con il dubbio della presunzione di innocenza, diritto sancito dalla costituzione, e indagato a piede libero. Ma tutto procedeva all’incontrarlo di come mi aspettavo. Tutto precipitava vorticosamente in un incubo. Un incubo che dura, senza soluzione di continuità, da 18 lunghi mesi. Eppure Michele è un poeta, è un uomo per bene, che ha la misura della generosità e dell’onestà, è l’autore di libri con prefazioni di Alda Merini o Andrea Camilleri, e anche una come Fernanda Pivano s’è presa la briga dì leggere i suoi libri e lo ha incoraggiarlo a continuare nel suo lavoro. Io ho rivisto Michele due volte, negli ultimi 18 mesi, in un’aula di tribunale, chiuso dentro ad una gabbia, come succede nei film insomma, a quelli che sono dei criminali. Io non mi sono mai occupata né di giustizia né di casi giudiziari, perché avevo altro da fare con il mio teatro, con la poesia, con la mia vita. Mai avrei pensato di dover prendere atto di queste atroci condizioni dei detenuti, incapsulati nel tempo asfittico della custodia cautelare. E poi diciamolo senza ipocrisie, nell’immaginario collettivo un calabrese in prigione è colpevole di qualche cosa. Ma quando in prigione ci va un uomo che conosci por il suo animo garbato, gentile e poetico, quando ci va il Poeta che partorisce versi che sono la mappatura intuitiva della sua anima, del suo vivere spirituale, allora la doccia fredda è garantita. Ti svegli amaramente e ti rendi conto che qualche cosa non funziona per davvero. Qualcuno deve iniziare a prendere atto dì questo: Michele è un innocente, incensurato ed è in prigione da 18 mesi. Qualcuno dovrebbe spiegarci allora il senso logico della custodia cautelare e, nei fatti al di là dei paroloni, il significato di un equo processo perché, conoscendo Michele, io credo senza sosta alla sua innocenza e non solo per affinità d’animo. E ti domandi perché un uomo innocente e incensurato non abbia ancora goduto di un giusto processo, di cui si parla tanto e che secondo legge dovrebbe essere svolto in tempi ragionevoli, nel suo caso invece diversi rinvii, che allungano i tempi e sfiancano la sua vita e quelle di chi vive, accanto a lui, la sua detenzione cautelare, una pena preventiva. E nella sua stessa condizione, nelle patrie galere, ci sono altri uomini, altri padri di famiglia, altri drammi, altre pene preventive: altre metafore. Cerchi umana tregua al dolore e all’impossibilità di darti una risposta per questo assurdo destino. Rileggo nella sua Poesia, nella sua poetica coinvolgente, fatta di accostamenti metaforici, una lirica che invita all’introspezione e che avverte costantemente sulla fuggevolezza della vita e sull’accettazione dei dolori, ai quali l’uomo è destinato. Con un linguaggio mai convenzionale, scrive di vita, di morte, d’amore, e ci avverte sull’importanza del presente che segna il tempo. Una poesia religiosa, piegata sotto il dignitoso dolore del legno (o croce) che ogni uomo deve saper portare per diritto di nascita. Ecco qual è la verità di Michele, autore di raccolte poetiche di successo, pubblicate anche all’estero, ecco chi è l’uomo che da 18 mesi è trattenuto in custodia cautelare in un carcere calabrese. Un uomo che dal carcere, con le sue lettere, dà coraggio e amore ai suoi figli, alle sue sorelle, alla sua famiglia piena d’amore, ai suoi amici che mai lo hanno lasciato solo, e a chi da un anno, per non disperdere il suo patrimonio artistico, ha smesso i costumi di scena e cura il suo ufficio stampa, nella fiduciosa attesa che la sua ragione abbia giustizia. Lettere: adesso serve l’ergastolo della patente di Antonio Coppola (Presidente Aci Napoli) Il Mattino, 30 settembre 2014 Da oggi, ne possiamo essere certi, ritornerà, per qualche giorno, il dibattito sulle vittime innocenti della strada e sui loro carnefici: ritorneranno le proposte, tante, che in questi anni sono state, inutilmente, avanzate al Parlamento, a cominciare dall’ergastolo della patente che vieta a chi ha ucciso di rimettersi alla guida. E intanto sulle strade si continuerà a morire. Eppure evitare altre vittime sarebbe possibile. Cambiare le norme senza stravolgere il codice penale è una via percorribile in tempi brevi. Basta volerlo e sostituire i fatti alle parole. I provvedimenti da prendere non sono molti. L’Aci già nei mesi scorsi, a partire dal convegno sull’omicidio stradale, tenuto proprio al Tar della Campania nella scorsa primavera, aveva proposto l’inasprimento delle pene per chi provoca un incidente mortale, l’eliminazione delle attenuanti generiche in modo da aumentare consistentemente il tempo di carcerazione dei responsabili, il ritiro definitivo del documento di guida, il così detto ergastolo della patente. Numerosi, infatti, sono i casi di recidiva ai quali abbiamo dovuto assistere con sdegno e riprovazione. Se le modifiche proposte, e sulle quali c’era già stato l’impegno dell’allora ministro Annamaria Cancellieri, fossero diventate legge, le quattro vittime di Sassano, e molte altre, sarebbero state evitate. Invece, nonostante l’accordo di Cassazione, Corte Costituzionale e Camere penali, resta ancora aperto il dibattito. Era stato ipotizzato che il reato di omicidio stradale restasse "colposo" non potendosi dimostrare la volontà di uccidere di chi conduce un veicolo anche se lo fa da ubriaco o a velocità folle, o dopo aver assunto droghe. Tuttavia va sostenuta la necessità di inasprire le pene e di eliminare in questo modo la possibilità di reiterare il reato. E non solo: l’ergastolo della patente avrebbe una forte potere dissuasivo. Ma c’è chi, da alcuni settori della polizia stradale ad alcune associazioni di parenti delle vittime, giudicano insufficienti questi possibili interventi e puntano a rendere doloso il reato di omicidio stradale. In questo modo l’iter legislativo diventa molto più complicato e allo stato, con tutta probabilità, incostituzionale. Il dibattito va avanti, e intanto continuiamo a contare circa quattromila morti all’anno. Rendere giustizia alle famiglie delle vittime e salvare altre vite dipende proprio dal passare da dibattito sull’onda dell’emozione ai fatti. Abruzzo: Uil-Pa Penitenziari; il Provveditorato di Pescara a rischio di soppressione www.rete5.tv, 30 settembre 2014 "La Uil Penitenziari Abruzzo si dice molto preoccupata per la futura sorte del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria di Pescara. A seguito delle indicazioni pervenuteci dal documento di sintesi per la predisposizione dello schema del Dpcm di riorganizzazione e riduzione complessiva degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche del Ministero della Giustizia si prevede, infatti, la riduzione a 10 degli attuali 16 provveditorati e tra questi quello di Pescara". L’allarme chiusura del Provveditorato di Pescara lo lancia Mauro Nardella, vice segretario regionale Uil penitenziari. "Mentre gli addetti alla predisposizione del documento di sintesi prevedrebbero l’accorpamento del Prap di Pescara a quello della Puglia con sede a Bari, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria lo vedrebbe accorpato a quello del Lazio presso la sede di Roma - continua Nardella in una nota. Entrambe le soluzioni per la Uil Penitenziari porterebbe ad uno sconquasso della geografia penitenziaria abruzzese. La cancellazione del Prap di Pescara dalla mappa dell’Amministrazione penitenziaria porterebbe con se, indipendentemente dalla sede presso la quale andrebbe a confluire, oltre ai tantissimi problemi di gestione delle pratiche meramente penitenziarie, non poche disfunzioni e disagi per i circa 1.500 poliziotti penitenziari operanti nel territorio abruzzese e molisano. Se ciò dovesse accadere, infatti, la disbriga di questioni amministrative, non ultime quelle riguardanti i diritti soggettivi, ovvero l’ambito disciplinare, diventerebbero oggetto di immani spese e notevoli perdite di tempo. Se Il Dpcm sarà varato la centralità di Pescara verrebbe a cadere e lo spostamento delle competenze a Roma, o nella peggiore delle ipotesi Bari, porterebbe un poliziotto penitenziario dell’Aquila o Avezzano per esempio a doversi sobbarcare più di 400 chilometri per dirimere una propria questione. Stress, spese e tempo verrebbero rimessi in negativissima discussione con ovvie e peggiori conseguenze sulle già brutali condizioni alle quali tutti i giorni sono costretti a sottostare. Sarà inoltre molto più difficile garantire le prerogative sindacali decentrate in quanto più complicato diverrebbe la gestione delle relazioni. Per evitare ciò la Uil Penitenziari chiede l’intervento immediato delle Istituzioni Abruzzesi non ultime la Regione e le prefetture di tutte le Province - chiude - In subordine la Uil Penitenziari propone, qualora non dovessero esserci novità in tal senso, l’accorpamento del Prap Abruzzo-Molise con quello delle Marche e conseguente mantenimento della sede a Pescara che si ritroverebbe, così, nella posizione più congeniale possibile sia per le sedi penitenziarie del Molise che delle Marche. Verrebbe ulteriormente sfruttata, inoltre, una struttura, come quella di Via Alento, costata allo Stato diversi milioni di euro e solo da pochissimi anni ultimata". Abruzzo: la Radicale Rita Bernardini potrebbe diventare Garante dei detenuti di Alessio Di Carlo www.pescaranews.net, 30 settembre 2014 Ieri mattina, il Presidente della Regione Luciano D’Alfonso, neo iscritto al Partito Radicale, ha incontrato una delegazione radicale guidata da Marco Pannella e Rita Bernardini. Nel corso dell’incontro è emersa, tra l’altro, la possibilità che l’ex deputata radicale - attuale segretaria di Radicali Italiani - assuma l’incarico di garante dei detenuti in Abruzzo. Si tratterebbe di una designazione che farebbe onore al Consiglio Regionale abruzzese e che, soprattutto, garantirebbe alla popolazione carceraria della nostra regione la possibilità di poter contare sulla massima autorità esistente in campo nazionale, visto l’impegno che, da sempre, Bernardini profonde in materia di giustizia, legalità e di attenzione a tutta la realtà penitenziaria. L’eventuale elezione della segretaria di Radicali Italiani, inoltre, costituirebbe un riconoscimento importante per l’Associazione Radicali Abruzzo che, sin dal 2009, ha spinto affinché venisse approvata la legge istitutiva del garante e che sempre, in questi anni, si è battuta affinché, dopo la legge, giunta nel lontano 2011, venisse formalizzata la designazione. Roma: detenuto rischia di perdere l’utilizzo delle gambe a causa di mancata fisioterapia di Damiano Aliprandi Il Garantista, 30 settembre 2014 Dopo una caduta e un intervento all’Ospedale "Pertini", avrebbe bisogno di fare la fisioterapia. Ma a Regina Coeli da cinque mesi gli è negata. Nelle carceri il mancato funzionamento del sistema sanitario nazionale è emergenza quotidiana. L’ennesima emergenza riguarda questa volta un detenuto che rischia di perdere irrimediabilmente l’utilizzo delle gambe a causa della mancata fisioterapia. Si tratta del caso di Claudio B., un detenuto dì 46 anni ristretto al carcere di Rebibbia. "Una vicenda surreale - ha commentato il garante dei detenuti Angiolo Marroni - a metà strada fra malasanità ed eccesso di ottusa burocrazia. Ed intanto, secondo i medici, ogni giorno che passa allontana sempre di più la possibilità per Claudio di recuperare il normale uso degli arti. Proprio in queste ore ho inviato un telegramma al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria. Quest’uomo deve essere curato al più presto". L’odissea è partita da un incidente verificatosi il 21 aprile scorso al carcere di Rebibbia. Claudio cade in carcere e, a causa dei forti dolori alle gambe dovuti dall’impatto, viene ricoverato d’urgenza all’ospedale Pertini con una diagnosi di "plegia arto superiore destro ed arti inferiori bilateralmente associata ad alterazioni del visus e a deficit campo visivo in occhio destro insorte dopo trauma da caduta". Al momento della dimissione, i medici raccomandano il trasferimento in una struttura dove si effettuino cicli di fisioterapia e il costante monitoraggio neurologico. Il 13 giugno Claudio viene però trasferito al centro clinico di Regina Coeli dove è noto che non viene effettuata la fisioterapia. Il 7 luglio, viste la sue condizioni e le reiterate segnalazioni, il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria dispone l’assegnazione dell’uomo nel carcere di Velletri, ma tale trasferimento avviene solo il 20 settembre e solamente dopo il pressante intervento del Garante. Arrivato a Velletri, però, Claudio, non viene accettato dai medici del carcere che non ritengono gestibili le sue problematiche e deve tornare a Regina Coeli. Sono passati cinque mesi e il detenuto ancora non riesce a beneficiare della fisioterapia e rischia di perdere l’utilizzo delle gambe. Il garante Marroni chiede al più presto un provvedimento sanitario adeguato per il detenuto e conclude con una denuncia generale sulle problematicità del sistema penitenziario: "Come dimostra questa vicenda, i problemi del carcere non sono legati solo al sovraffollamento. Errori, eccessi di burocrazia, leggerezze e mancanze di comunicazione possono creare danni ancor più gravi". Cagliari: detenuto con la tubercolosi trasferito da un carcere all’altro senza ricevere cure di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 30 settembre 2014 La denuncia arriva dal coordinatore della Fp-Cgil in servizio a Is Arenas. C’è un detenuto affetto da Tbc latente che viene trasferito da una Casa di reclusione all’altra senza che su di lui venga attuato il protocollo sanitario previsto dalle normative. Il caso è stato riscontrato nella casa di reclusione di Is Arenas su un detenuto sardo proveniente dal carcere cagliaritano di Buoncammino e prima transitato per quindici giorni nell’istituto penitenziario di Isili. Il recluso infetto avrebbe rifiutato finora la terapia prevista. A denunciare il fatto è il coordinamento regionale della Sardegna della Fp-Cgil Polizia Penitenziaria con il suo coordinatore Sandro Atzeni, in servizio nella struttura penitenziaria di Is Arenas. La Fp-Cgil si dice certa che la Asl di competenza, la 6 di Sanluri, ha assolto i propri doveri, ma rimangono ancora dubbi sui provvedimenti adottati o meno. Si tratta, è spiegato nel comunicato, di Tbc latente, patologia in cui in alcune persone il sistema immunitario non può uccidere i batteri, ma riesce a impedire la diffusione nell’organismo. Ciò può significare la persistenza dei batteri senza produrre sintomi specifici. Il declino da danneggiamento del si-stema immunitario può però indurre l’infezione a diffondersi fino a provocare la tubercolosi attiva. "Ci chiediamo - è ancora detto nel comunicato del coordinatore Sandro Atzeni - come sia stato possibile trasferire il detenuto dalla casa circondariale di Cagliari a quella di reclusione di Is Arenas, passando oltre tutto per il penitenziario di Isili, senza analizzare le condizioni di salute del detenuto in trasferimento. E perché il diri-gente sanitario della Asl 6 operante a Is Arenas, che sapeva del caso di Tbc, non ha messo in atto il protocollo sanitario previsto?". La Fp-Cgil Polizia penitenziaria regionale chiede l’attuazione di controlli sanitari estesi a tutti i detenuti, al personale del Corpo e ai civili operanti nella struttura e nell’intera regione, nonché il blocco dell’assegnazione di detenuti agli istituti di Buoncammino, Is Are-nas e Isili senza che sia stato effettuato e completato il protocollo sanitario. Ferrara: vivere in meno di 3 mq… Mario è il primo detenuto in Emilia a essere risarcito di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 30 settembre 2014 Sconto di pena di 22 giorni per aver diviso una cella angusta con altre due persone. Si chiama Mario A., ha 46 anni e origini campane, soffre di artrosi. In Emilia-Romagna è il primo detenuto ad aver ottenuto il risarcimento previsto dalla legge Orlando, la norma varata per ottemperare alle sentenze di Strasburgo in materia di condizioni di carcerazione degradanti, disumane e lesive della dignità e al dettato della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il magistrato Susanna Napolitano, dell’ufficio di Sorveglianza di Bologna, gli ha accordato una riduzione di pena di 22 giorni, pari a un decimo di quelli passati in una angusta cella del carcere di Ferrara assieme ad altre due persone. I tre detenuti sono stati costretti a spartirsi uno spazio di 9,47 metri quadrati, con un bagno di 1,15 mq senza finestra e senza impianto di aspirazione, per un periodo superiore a 15 giorni. Il giudice Napolitano ha tenuto conto di due fattori presi in considerazione in modo diverso, negativo per i detenuti, dai colleghi di altre città italiane e dal ministero di Giustizia. Dal totale dei metri quadrati pro capite ha tolto la porzione di cella occupata dall’armadio fissato al pavimento e l’ingombro del bagno, facendo scendere l’area vitale disponibile sotto la soglia minima della decenza, 3 metri quadrati per detenuto. Il risarcimento, altra questione dibattuta, è stato riconosciuto anche se le pessime condizioni di detenzione erano superate, anteriori al reclamo. Pesa la lesione dei diritti subita in tempi precedenti. Non è invece rilevante che le violazioni siano state intermittenti. Nel territorio di competenza dell’ufficio di Sorveglianza di Bologna - che include le case di reclusione del capoluogo e della città romagnole, oltre che di Ferrara - sono stati presentati complessivamente 300 reclami. Chi è in carcere, sempre che gli sia data ragione, può ottenere uno sconto di pena. Per chi è già uscito è previsto un bonus di 8 euro per ogni giorno di carcerazione inumana e incivile. Mario A. ha provato a chiedere il risarcimento anche per il periodo di detenzione alla Dozza, ma questa parte dell’istanza è stata respinta. Ferrara: cella troppo angusta, risarcito detenuto (www.estense.com) È stato ristretto in circa 9 metri quadrati di cella, in coabitazione - se così la si può chiamare - con altri due detenuti. In tre usufruivano di uno spazio bagno di 1,15 mq, oltre a un armadio fissato al pavimento che, più che liberare, ingombrava altro spazio vitale. La segreta non aveva nemmeno una finestra a sbarre, come quantomeno l’immaginario collettivo la vorrebbe. Il tutto senza nemmeno un impianto di aspirazione. È il caso di un detenuto, Mario A., 46enne di origini campane, rinchiuso nell’Arginone di Ferrara, che ora diventa un caso emblematico delle condizioni inumane delle carceri italiane. Sì, perché l’uomo, rimasto in quelle condizioni per un periodo superiore a 15 giorni, pur soffrendo di artrosi, ora verrà risarcito in base alla legge Orlando, promulgata per ottemperare alle sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo sullo spazio minimo previsto per un detenuto in cella. Il primo caso in assoluto ha visto un indennizzo di quasi 5mila euro a un detenuto a Padova condannato a 6 anni per associazione a delinquere, prostituzione minorile, violenza privata e falsa testimonianza. Pochi giorni fa era stato il magistrato di sorveglianza veneto a scarcerare (per sconto di pena di 20 giorni), con tanto di indennizzo di oltre duemila euro, un 33enne arrestato per fatti di droga recluso a Rovigo. ha ottenuto dal Tribunale uno sconto di pena di 20 giorni. Ora tocca al 46enne, primo detenuto in regione a usufruire della legge Orlando, grazie all’ordinanza del magistrato di sorveglianza di Bologna, che ha accolto il reclamo del suo avvocato e gli ha concesso una riduzione di pena di 22 giorni (riduzione corrispondente a un decimo del periodo già passato dietro le sbarre). Cagliari: interrogazione On. Piras su trasferimento docente del carcere di Buoncammino Tm News, 30 settembre 2014 Al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, al Ministro della giustizia. Per sapere, premesso che: la professoressa A.D., in servizio da 36 anni, attualmente impiegata presso la Scuola Media "Mannu" di Cagliari, da circa 7 anni presta servizio di insegnamento alla casa circondariale di Buoncammino (Cagliari); nel corso degli anni, nonostante la difficoltà di poter svolgere con continuità le lezioni per mancanza di agenti di sorveglianza, i docenti hanno comunque deciso di svolgere il proprio lavoro in assenza degli stessi, portando avanti diversi progetti con i detenuti comuni al maschile, detenuti di alta sicurezza al maschile e detenute comuni al femminile; di comune accordo con la direzione del carcere, sono stati portati avanti progetti teatrali, uno sul riciclo e recupero come attività possibilità lavorative, uno di pittura coi detenuti di alta sicurezza; i docenti ed in particolare la professoressa A.D., ritengono di non aver mai avuto problemi ed impedimenti nel loro lavoro all’interno della casa circondariale di Buoncammino, anche in attività non strettamente curriculari; nel dicembre 2013, la docente A.D. è stata convocata dal direttore del carcere dottor G. Pala, per chiedere quali rapporti e corrispondenze avesse con il detenuto D.D., nel frattempo trasferito da Cagliari a Palermo, il quale dopo il trasferimento scrisse alcune lettere con relativo timbro censorio alla docente; la professoressa A.D., viene informata del fatto che sarebbe stato preferibile non scambiare corrispondenza con il detenuto D.D., cosa a cui la docente non ha dato peso considerando la possibilità di scrivere a D.D. come un suo diritto; a giugno 2014, una lettera della docente A.D. viene sequestrata dal magistrato di sorveglianza perché vi si riscontrerebbero elementi di pericolosità, nonostante nell’atto, cui copia è in possesso della docente, ci fossero solo elementi di generica solidarietà e vicinanza al detenuto, nel frattempo trasferito dal carcere di Palermo a Caltanissetta; il 1o settembre 2014, la docente prende servizio con i colleghi presso la struttura carceraria, nell’area educativa della casa circondariale, per pianificare le attività dell’anno scolastico 2014/2015; l’11 settembre, con convocazione del preside, dottor P.P. Porcu, viene comunicato alla docente il suo trasferimento, dopo 7 anni di attività, dalla casa circondariale di Buoncammino alla sede centrale della scuola Media Mannu di Cagliari; le motivazioni del trasferimento sono relative all’incolumità della docente, dettate da una riservata del Ministero della giustizia, nella quale si classifica esplicitamente il detenuto D.D. come "anarchico"; la docente A.D. presta servizio da ormai 7 anni come insegnante nella struttura carceraria di Buoncammino, garantendo continuità e competenza nel difficile ruolo di docente all’interno della casa circondariale; il detenuto considerato anarchico e pericoloso per l’incolumità della docente non è più presente all’interno della casa circondariale di Buoncammino, ma è stato trasferito da tempo prima a Palermo e poi a Caltanissetta; la docente ha impugnato il provvedimento, sia in sede amministrativa che giudiziaria, in quanto non ritiene che sussista alcun rischio per la sua incolumità personale ed in quanto ritiene sia stata lesa la sua dignità professionale e compromessi i suoi diritti costituzionalmente garantiti di libera cittadina: se i Ministri della giustizia e della pubblica istruzione siano a conoscenza dell’accaduto e della riservata inviata alla direzione carceraria di Buoncammino; se non ritengano, per quanto di competenza, di dover attivare un supplemento di verifica sui fatti esposti, ascoltando anche le ragioni della professoressa A.D., da anni impegnata nel difficile compito dell’insegnamento in una struttura carceraria; per quali motivazioni sia stata inviata una riservata di allontanamento, motivandola sulla base della tutela dell’incolumità della docente, nonostante il detenuto D.D. fosse stato da tempo trasferito in Sicilia; se non ritengano di dare mandato agli organi preposti per reintegrare in servizio nella struttura carceraria in questione la professoressa A.D. Ivrea (To): Sappe; incendio in carcere sventato da poliziotti penitenziari, uno resta ferito Adnkronos, 30 settembre 2014 "Sabato sera, tre detenuti italiani nel carcere di Ivrea hanno dato fuoco alla loro cella. Poteva essere una tragedia, sventata dal tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari in servizio, uno dei quali - nella concitazione del momento - si è fratturato un piede con una prognosi di 25 giorni. Bravi i poliziotti penitenziari di servizio a intervenire tempestivamente, con professionalità, capacità e competenza". Lo spiega in una nota Donato Capece, segretario generale Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria. "La situazione, a Ivrea e nelle carceri italiane, resta grave e questo determina difficili, pericolose e stressanti condizioni di lavoro per gli Agenti di Polizia Penitenziaria", prosegue il sindacalista dei Baschi Azzurri. "E sebbene l’Italia risulti di fatto inadempiente rispetto alla Sentenza Torreggiani della Corte europea per i diritti dell’uomo, il rinvio al giugno 2015 per un’ulteriore valutazione sull’attuazione delle misure decise dal governo per affrontare il problema del sovraffollamento segna il fallimento delle politiche penitenziarie adottate dal Dap, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Perché se il numero dei detenuti è calato, questo è la conseguenza del varo - da parte del Parlamento - di 4 leggi svuota carcere in poco tempo". "Il Dap non ha migliorato le condizioni di vivibilità nelle celle - prosegue il sindacalista - perché ad esempio il numero dei detenuti che lavorano è irrisorio rispetto ai presenti. Occorre dunque rivedere il sistema dell’esecuzione penale il prima possibile, altro che vigilanza dinamica nelle galere. E allora serve una nuova guida all’Amministrazione Penitenziaria, da mesi senza un Capo Dipartimento, capace di introdurre vere riforme all’interno del sistema a partire dal rendere obbligatorio il lavoro in carcere". "Nei 206 penitenziari del Paese il sovraffollamento resta insignificativamente alto rispetto ai posti letto reali, quelli davvero disponibili, non quelli che teoricamente si potrebbero rendere disponibili. Un problema è la mancanza di lavoro, che fa stare nell’apatia i detenuti - prosegue Capece. Ma va evidenziato anche che l’organico di Polizia Penitenziaria è sotto di 7mila unità, che non è pensabile chiudere strutture importanti di raccordo tra carcere, istituzioni e territorio come i Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria a meno che non si voglia paralizzare il sistema, che il carcere non può continuare con l’esclusiva concezione custodiale che lo ha caratterizzato fino ad oggi", conclude il segretario del Sappe. Gela (Cl): Sappe; detenuto tenta suicidio incendiando materasso, salvato dagli agenti Ansa, 30 settembre 2014 Sabato pomeriggio un detenuto italiano ha tentato di suicidarsi nel carcere di Gela dando fuoco al materasso della sua cella. L’intervento dei poliziotti penitenziari ha salvato la vita al detenuto. L’episodio è accaduto nello stesso giorno in cui, a Ivrea, tre carcerati hanno tentato di dare fuoco alla loro cella. Ne dà notizia Donato Capece, segretario del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria. "Sebbene l’Italia risulti di fatto inadempiente rispetto alla sentenza Torreggiani della Corte europea per i diritti dell’uomo, il rinvio al giugno 2015 - aggiunge - per un’ulteriore valutazione sull’attuazione delle misure decise dal governo per affrontare il problema del sovraffollamento, segna il fallimento delle politiche adottate dal Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nei 206 penitenziari del Paese il sovraffollamento resta significativamente alto rispetto ai posti letto reali". Imperia: detenuto fuggì nel 2009, giudice dispone sopralluogo per stabilire orario evasione di Fabrizio Tenerelli www.riviera24.it, 30 settembre 2014 Tre, in totale, gli imputati. Oltre all’evaso, anche due operatori della Polizia penitenziaria di Imperia accusati di omissione colposa: Elia Lonardo, agente scelto e Felice Serafino, assistente capo. Il Got Sonia Anerdi di Imperia ha disposto un sopralluogo (fissando la data al 2 febbraio 2015), al processo per l’evasione dell’immigrato tunisino Farah Ben Faical Trabelsi, di 38 anni, avvenuta, il 7 luglio del 2009, dal carcere di Imperia. Oggi, nel corso di una nuova udienza, è stata ascoltato l’ultimo teste, il maresciallo dei carabinieri di Imperia, che si occupò delle indagini, secondo il quale risulta impossibile stabilire l’ora esatta dell’evasione, visto che il computer, la macchina per timbrare i cartellini e le telecamere (quest’ultime anche con uno scarto di venti e quaranta minuti) davano tutti orari diversi. Senza contare che gli stessi orari vennero rilevati nove giorni dopo l’accaduto, col rischio che qualcuno avesse potuto, nel frattempo, manomettere i vari sistemi. Tre, in totale, gli imputati. Oltre all’evaso, anche due operatori della polizia penitenziaria di Imperia (questi accusati di omissione colposa): Elia Lonardo, agente scelto e Felice Serafino, assistente capo. I due poliziotti, secondo l’accusa del pubblico ministero Alessandro Bogliolo non avrebbero prestato le dovute attenzioni nel sorvegliare i detenuti e nel controllare le apparecchiature anti-evasione del piccolo penitenziario imperiese. Il sopralluogo servirà per esaminare i dettagli dell’evasione. Fanno parte del collegio difensivo gli avvocati Eminio Annoni e Mario Leone. Rovigo: venerdì prossimo l’incontro-dibattito "La Chiesa e il problema della pena" Ristretti Orizzonti, 30 settembre 2014 Venerdì 3 ottobre alle ore 18,00 presso l’Archivio di Stato di Rovigo si terrà un incontro con Luciano Eusebi, docente di diritto penale dell’Università Cattolica di Milano e della Pontificia Lateranense, che è stato collaboratore a suo tempo con il cardinal Martini sulle problematiche della giustizia, che parlerà sul tema "La Chiesa e il problema della pena", che è anche il titolo del suo ultimo libro, il tutto coordinato dal direttore del Centro Francescano di Ascolto Livio Ferrari. L’iniziativa si colloca all’interno del progetto "Tra memoria e futuro", promosso dal Centro Francescano di Ascolto con la collaborazione della Fondazione Banca del Monte, Archivio di Stato e Centro di Servizio per il Volontariato. Punizione, colpa, redenzione, perdono: un’indagine in una prospettiva che mette in dialogo diritto, religione e teologia sul tema della pena, nel quadro della tensione tra sedimentate letture retributive della giustizia e il contenuto della salvezza. "Nulla probabilmente deturpa il messaggio religioso più della sua identificazione con l’idea secondo cui il compimento del male esigerebbe una ritorsione dal contenuto analogo - afferma il professor Eusebi - il proprium dell’annuncio cristiano, e il suo apporto a ogni altro pensiero religioso, sta infatti nel convincimento che solo il bene, l’amore, in quanto adesione all’essere stesso di Dio, costituisce la vera alternativa di vita allo scandalo del male". In gioco è la possibilità di pensare nuovi modelli della giustizia umana. Ferrara: "Oggi voglio parlare", il tentativo di raccontare le carceri con un documentario La Nuova Ferrara, 30 settembre 2014 Attesa per la prima proiezione ufficiale nella nostra città di "Oggi voglio parlare" Dietro ai detenuti: le loro storie, le loro passioni e le loro aspirazioni. Si svolgerà oggi alle 17, alla Biblioteca Ariostea di Ferrara, la prima proiezione ufficiale nella nostra città di "Oggi voglio parlare" (2012), documentario prodotto dalla Regione Toscana e da GD Film, un coraggioso tentativo di raccontare gli uomini che stanno dietro ai carcerati, le loro storie, le loro aspirazioni e le loro passioni. Il coraggioso e riuscitissimo tentativo, girato in parte nel carcere di Sollicciano (Firenze) in parte nel carcere dell’Arginone di Ferrara, passa per le mani di Gianmarco D’Agostino (regista toscano che può vantare un eclettico lavoro dietro alle macchine da presa, con regie di spot e documentari d’arte per Fondazioni Bancarie, Enti Pubblici, Musei, Tv, ma anche backstage, tra cui spicca la curatela della video arte per l’allestimento del Don Giovanni di Mozart alla Jerusalem Opera di Gerusalemme) e si avvale di una sceneggiatura potente, scritta a quattro mani con il famoso Marco Vichi, autore di bestseller (pubblicati da Guanda) con protagonista il Commissario Bordelli, oltre che della preziosissima voce narrante di Lorenzo degl’Innocenti, importante attore teatrale. I realizzatori del documentario saranno tutti presenti in sala, insieme al comandante del carcere di Ferrara, vice commissario Paolo Teducci, e al vicecomandante, vicecommissario Annalisa Gadaleta, per sottolineare la linea di profonda sinergia tra le istituzioni pubbliche e il pool di artisti che ha lavorato sul campo, grazie al quale nasce questo progetto. Il dibattito sarà moderato dal collaboratore de La Nuova Ferrara Riccardo Corazza. Un film (perché chiamarlo soltanto documentario ci pare riduttivo, data l’innegabile qualità del prodotto finito) che rappresenta sì una riflessione sulla vita nelle celle, e oltre le celle, ma soprattutto una fuga dalla prigione più pericolosa, quella del pregiudizio, rischioso soprattutto per noi, che stiamo fuori. Al centro loro, i carcerati, con le loro storie, fatte di a volte di casualità, spesso di disagio ma anche di coraggio, viste in una luce che ha dentro di sé non solo speranza, ma soprattutto la schiettezza di guardarsi dentro. Usando la musica, le parole, tutti i mezzi possibili che possano servire per entrare in contatto. Chi ha sbagliato deve espiare, certo, ma anche covare dentro di sé la scintilla della redenzione. Questo, e anche altro, è "Oggi voglio parlare". Cinema: "Meno male è Lunedì" di Vendemmiati, al Festival Internazionale Film di Roma www.articolo21.org, 30 settembre 2014 Importante riconoscimento per il regista Filippo Vendemmiati (collaboratore di Articolo21, ndr) e per la società di produzione bolognese Tomato Doc & Film. Il film "Meno male è Lunedì" ambientato all’interno del carcere della Dozza di Bologna è stato selezionato in concorso alla 9^ edizione del Festival Internazionale del Film di Roma (16 - 25 ottobre 2014). Il film, in anteprima internazionale, parteciperà alla sezione Prospettive Italia dedicata alle nuove linee di tendenza del cinema italiano. La proiezione ufficiale è prevista mercoledì 22 Ottobre alle 17 presso la Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica. Al termine di ogni proiezione gli spettatori potranno votare per il film visto e assegnare così il Premio del pubblico. Una seconda proiezione è prevista sempre a Roma, Domenica 26 Ottobre alle 14.30 al Cinema Barberini. L’anticipata stampa martedì 21 Studio 3 alle 21.30. I biglietti sono acquistabili on line sul sito ufficiale del festival: www.romacinemafest.it. Sinossi Un gruppo di operai in pensione riprende il lavoro per insegnare il mestiere a 13 detenuti nell’officina-azienda nata in carcere. La trasmissione del sapere ribalta il rapporto libertà-prigionia. Usare la vite giusta diventa metafora della ricostruzione di una vita. "L’officina dei detenuti" è spazio di libertà. Se l’operaio torna metalmeccanico in prigione, il detenuto con quello stesso ruolo rientra nel gioco della vita. Il film non insiste sul passato dei protagonisti: il tono è leggero, quasi commedia. Nel "lavoro fuori" il Lunedì è il giorno peggiore, nel "lavoro dentro" è il migliore. Sabato e Domenica per il detenuto operaio sono solo noia e l’attesa del lavoro di chi non vuole ferie. Il carcere è un non luogo senza tempo. I giorni non passano e non hanno nome. Credo sia la peggiore condanna cui è sottoposto un detenuto, non solo la negazione di uno spazio libero, ma soprattutto la sottrazione del trascorrere dei giorni. I detenuti che lavorano in questa insolita officina all’interno del carcere della Dozza in qualche modo hanno ritrovato un luogo di libertà e un tempo di vita. I giorni della settimana hanno un senso e una cadenza dettata dai turni di lavoro. I gesti e le parole evadono per costruire un mestiere e relazioni umane. Né detenuti né uomini liberi: solo colleghi, operai che s’incontrano e lavorano accanto, scambiandosi conoscenze, saperi, "storie di viti e di vite". Ho immaginato "Meno male è Lunedì" come una "commedia brillante" ambientata in un carcere. Otto giorni, da Lunedì a Lunedì, per costruire un grande manufatto, uno spider dalla calotta arancione, ingranaggio fondamentale di un sistema avanzato di confezionamento della merce. I dialoghi dei protagonisti (scherzosi, tecnici, arrabbiati e intimi) accompagnano la costruzione del manufatto, anzi sono "la storia del manufatto" e delle mani che lo hanno creato. Un discorso a parte merita la colonna sonora del film composta, dopo un lungo e appassionante confronto, da Carlo Amato, compositore e bassista dei Têtes de Bois. Abbiamo visto in questa grande officina dalle finestre alte e dalle inferriate simili a croci di una cattedrale "laica", una chiesa nel quale "monaci di clausura" lavorano e cantano durante il giorno e poi la sera tornano nelle loro "celle" al piano di sopra per pregare. "Labor omnia vincit", Virgilio Le Georgiche, la fatica vince ogni cosa. Droghe: i tossicodipendenti si curano… il carcere non è la soluzione di Matteo Lunelli L’Adige, 30 settembre 2014 "Potenziamo le strutture riabilitative: il carcere non è la soluzione giusta, perché è più costoso e non riesce a risolvere i problemi delle persone". L’appello arriva da Angelo Parolari, presidente di Voce Amica, il centro di Villa Lagarina che da anni si prende cura di persone tossicodipendenti. "Il carcere riabilita? Ma non diciamo sciocchezze, su 100 detenuti 101 escono più arrabbiati, frustrati e rancorosi di come sono entrati, non certo migliori": questo era, in sintesi, il concetto emerso dall’intervista rilasciata da Mario (il nome è di fantasia), un uomo reduce da un periodo di detenzione nel carcere di Trento. "Tutto quello che avete scritto non mi sorprende assolutamente, anzi. Il carcere non riabilita le persone: e se non ci riesce la struttura di Trento, che è un modello a livello nazionale, figuriamoci cosa accade in carceri di altre città, che sono messe molto peggio". Procediamo con ordine, partendo da un dato: un quarto dei detenuti lo è per reati legati alla droga. "A Trento sì, a livello nazionale la percentuale è molto più elevata. Si parla di spaccio, rapine e furti soprattutto, ma c’è anche qualche di omicidio o di sequestro di persona. Il nodo centrale è che per le tossicodipendenze, che sono spesso legate e associate a patologie psichiatriche di varia natura, necessitano di cure. Queste persone vanno curate e rieducate alla vita. Il carcere non lo fa: basti pensare al fatto che chi espleta la propria pena in strutture riabilitative nella maggior parte dei casi non ha ricadute. Chi invece va in carcere poi esce e molto spesso torna a compiere reati". La soluzione per queste persone quale sarebbe quindi? "Sarebbe di offrire loro una soluzione, un percorso alternativo, che è rappresentato dalle strutture riabilitative. In Trentino ce ne sono quattro, ovvero Voce Amica, il Centro Trentino Solidarietà, il Centro Antidroga Camparta e Nuovi Orizzonti. Noi da anni accettiamo detenuti, che sono circa il 40% sul totale dei 23 posti che abbiamo: abbiamo uno stretto e ottimo rapporto di fiducia con il tribunale di sorveglianza, ma resto convinto che si debba fare di più e potenziale le strutture riabilitative. Faccio un esempio: da noi i detenuti restano, ovviamente, per tutto il tempo della pena ma in molti casi restano più a lungo perché vogliono completare il loro percorso. Vogliono finire quello che hanno iniziato..." Invece è molto difficile che qualcuno abbia mai chiesto di restare in carcere più a lungo... Ma perché non si potenziano le strutture se quello che accade è questo? Parrebbe la soluzione più ovvia... "Parrebbe la più ovvia anche perché un detenuto costa circa 200 euro al giorno allo Stato, mentre le comunità terapeutiche per le tossicodipendenze spendono circa 60 euro al giorno". A parità di servizio? "No, nelle strutture riabilitative il servizio è migliore: ci sono psichiatri, ad esempio, che parlano quotidianamente con le persone e non per mezz’ora alla settimana. Quindi il problema non è certamente economico, ma sociale e politico: non ci si rende ancora contro della gravità di questo problema. Io sostengo che la tossicodipendenza, che porta le persone a commettere dei reati, sia una malattia e quindi va curata, non solo punita con il carcere". Qual è l’evoluzione della droga qui in Trentino? "La tendenza è che siano coinvolti sempre più i giovani, anche ventenni. E anche per questo, a maggior ragione, devono essere allontanati dalla strada della delinquenza con un percorso. Ci sono anche ragazze e devo dire che i "classici" eroinomani ormai non esistono quasi più: la nuova dipendenza è l’assunzione di parecchie droghe differenti, dal crack alla cocaina, dagli allucinogeni alle anfetamine passando per le nuove cosiddette molecole. Si tratta di droghe che devastano il cervello". Lei è favorevole allo svuota carceri? "No, direi proprio di no. Però dico con forza che il carcere non è la soluzione giusta almeno per quel quarto di detenuti che sono lì per reati legati alla droga. Sono persone che devono essere curate e i centri come il nostro lo fanno: se ce ne fossero di più riusciremmo a salvare molte più persone". Corea del Nord: io, ex detenuto, vi racconto com’è la vita nei campi di lavoro forzato di Federica Seneghini Corriere della Sera, 30 settembre 2014 "Ora muoio, ho pensato questo quando le guardie mi hanno trascinato di fronte al campo delle esecuzioni. Dopo mesi di torture e isolamento, quella mattina ho pensato che stessero per uccidermi. Solo quando ho visto mia madre con una corda al collo, pronta per essere impiccata, e mio fratello legato ad un palo, pronto per essere fucilato, ho capito che non ero io quello che stavano per ammazzare. Sono morti poco dopo. Ma in quel momento non ho provato nessuna emozione. Anzi. Ho pensato che fosse giusto così. Del resto li avevo denunciati io agli agenti". Shin Dong-hyuk è l’unica persona nata, cresciuta e poi riuscita a fuggire da un campo di internamento della Corea del Nord. Come tutti i prigionieri, conosceva bene le regole del Campo 14: "Ogni testimone che non denunci un tentativo di fuga sarà ucciso all’istante". Per questo, quando una notte sentì la madre e il fratello parlare di un piano per scappare, il suo istinto di sopravvivenza gli disse che doveva salvarsi. Tradire i suoi familiari. Fare la spia. Era il suo dovere del resto, quello che gli avevano insegnato fin dalla nascita. E forse avrebbe potuto pure guadagnarci qualcosa. Una razione in più di cibo, magari. Le cose andarono diversamente. Le guardie pensarono che avesse anche lui intenzione di fuggire. Lo portarono in cella e lì lo torturano per mesi. "A quel tempo odiavo mia madre per avermi messo al mondo in un campo di tortura. Oggi invece, se fosse ancora viva, le chiederei perdono". La vita dentro Fino all’età di 22 anni, nella vita e nella testa di Shin non ci sono stati la tv, internet, gli hamburger, gli Stati Uniti o la Corea del Nord. Non sapeva nemmeno se la terra fosse piatta o rotonda. La sua esistenza, da quando era nato, era solo il Campo 14. I giorni tutti uguali. Fatti di violenza e regole da seguire. "Nessuno mi aveva mai spiegato perché stessi là dentro", racconta. "Pensavo semplicemente che ci fossero persone nate con le armi e persone nate prigioniere, come me. Che il mondo fuori fosse uguale a quello dentro. Forse per questo non ho mai pensato di fuggire". Quando parla, la sua voce sembra non tradire nessuna emozione. Non gesticola. Sorride poco. Si muove appena. Senza fare rumore. Alla presentazione del volume sulla sua vita, a Milano, arriva un pò in ritardo. Dice al microfono che gli hanno rubato la borsa e il portafoglio. Ma non ha voluto fare denuncia. Spera di ritrovarlo. Da anni gira il mondo per raccontare la sua esperienza. Il regista Marc Wiese l’ha tradotta nel documentario Camp 14, il giornalista Blaine Harde nel libro Fuga dal Campo 14 (Codice Edizioni, 2014), diventato in breve tempo un bestseller tradotto in 27 lingue. Di fronte alla prima Commissione d’inchiesta istituita dalle Nazioni Unite per indagare sulla catastrofe umanitaria nel suo Paese le sue parole erano intervallate da lunghe pause. A quasi 10 anni dalla sua fuga, il suo corpo è una cartina geografica dell’orrore. Le caviglie deformate dai ceppi per tenerlo appeso a testa in giù durante l’isolamento. La parte bassa della schiena e le natiche marchiate dalle ustioni. Le braccia piegate ad arco per i lavori forzati. Il dito medio della mano destra mozzato, punizione per avere fatto cadere una macchina da cucire. Il basso ventre forato dal gancio con cui le guardie l’avevano appeso sopra le fiamme, per torturarlo. Gli stinchi bruciati dal recinto elettrificato scavalcato durante la fuga. I suoi genitori si conobbero nel gulag. Tra le baracche. I loro rapporti sessuali erano un premio cui solo i detenuti modello avevano diritto - permessi 5 volte all’anno: una ricompensa per la buona condotta. Dal loro incontro, il 19 novembre 1982, nacque Shin. Che oggi è più o meno coetaneo del dittatore Kim Jong-un. A 32 anni sono le due facce della Corea del Nord di oggi. "Una società nominalmente senza classi - ha scritto Blaine Harde - ma dove in realtà tutto dipende dal sangue e dal lignaggio". Il primo ricordo "Il mio primo ricordo, avrò avuto quattro anni, è un’esecuzione. Quel giorno ero con mia madre. Ci siamo infilati tra la folla, io mi sono fatto largo tra le gambe degli altri detenuti. Per raggiungere la prima fila. Di fronte alle guardie con le armi puntate, c’era un uomo legato a un palo. Per evitare che urlasse, maledicendo magari il governo nordcoreano, gli avevano riempito la bocca di sassi. Poi ricordo un paio di colpi, la morte dell’uomo e il silenzio". Al Campo le esecuzioni erano sempre pubbliche e i detenuti erano costretti a partecipare. Ma a dire la verità "spesso erano considerate un diversivo rispetto alla vita monotona che facevamo". Dei sei campi di internamento nordcoreani, dicono che il 14, quello dove è nato Shin, sia il più duro di tutti. Nascosto tra le montagne e il fiume Taedong, a circa 80 km da Pyongyang. Ma non abbastanza per sfuggire ai satelliti di Google Maps. Le strade, i campi dove avvengono le esecuzioni, le miniere e le baracche compaiono sugli schermi dei pc di tutto il mondo impuniti. Recensiti dai troll, addirittura. Zoomando un pò, Shin ha riconosciuto l’edificio dove è nato. Quello dove è stato rinchiuso in isolamento. Al 14 i detenuti scontano tutti la stessa pena: l’ergastolo. Un luogo dove "amore, pietà e famiglia erano parole prive di significato", ha scritto Harde. E dove "Dio non era né morto né scomparso, Shin semplicemente non lo aveva mai sentito nominare". La fame e la fuga "Era la mancanza di cibo, non la violenza, il problema più grande al Campo 14". Nel piatto di Shin, per i primi 23 anni della sua vita, ci sono state solo due cose: minestra di cavolo e pasticcio di mais. Tre volte al giorno, 7 giorni su 7. Razioni così misere che capitava di leccare la zuppa che finiva sul pavimento. "Ogni tanto chiedevamo il permesso di prendere un topo. Se la guardia ci dava l’ok, lo catturavamo e lo mangiavamo". A volte invece si riusciva a rubare qualcosa. E i prigionieri lo ingoiavano subito, senza farsi vedere. Perché ancora una volta le regole del Campo erano chiare. "Chi ruba o nasconde cibo sarà ammazzato". Chi sgarrava finiva male. Durante una ispezione, a scuola, una insegnante trovò in tasca a una bambina cinque chicchi di mais. Le ordinò di andarsi a mettere in ginocchio di fronte alla lavagna. Poi iniziò a picchiarla con una bacchetta. I bambini, avevamo nove anni, se ne stavamo lì a guardare. La testa e il naso della ragazzina iniziarono a sanguinare. Poi crollò a terra svenuta. Shin e i compagni la portarono a casa trascinandola per le braccia. Morì durante la notte. "Un giorno al Campo arrivò un nuovo prigioniero, il suo nome era Park. Mi raccontò di quello che stava fuori. Della Cina, del mondo, della tv. Ma soprattutto dei pasti squisiti e abbondanti che aveva mangiato quando era un uomo libero. Galline allo spiedo, carni arrostite, manzo, riso. Tutte cose che avrei potuto mangiare anche io, se fossi riuscito a scappare". La libertà per Shin iniziò ad assumere la forma di un pollo arrosto. Decise che valeva la pena provare. Il 2 gennaio 2005 i due compagni tentarono la fuga. Park finì fulminato sulla recinzione elettrificata. Shin usò il suo corpo come una sorta di messa a terra e passò dall’altra parte. Arrivò al confine con la Cina dopo mesi di viaggio. Corruppe le guardie e abbandonò il Paese. Dopo alcuni anni raggiunse il consolato della Corea del Sud e si trasferì a Seul. Migliaia di detenuti Da quando è un uomo libero, Shin è stato sottoposto al test della macchina della verità più volte. E il risultato è stato sempre lo stesso. Le cose che dice sono vere. "Tutto coincide con le cose che altri ex detenuti dei campi hanno raccontato", ha spiegato al Corriere l’attivista David Hawk, della Commissione Usa per i Diritti umani in Corea del Nord, che ha intervistato decine di ex detenuti e ex guardie. "Non ho mai avuto dubbi sulla veridicità della sua storia". La vita di Shin oggi è fatta di viaggi per testimoniare l’orrore. Come quella delle sorelline Andra e Tati Bucci, bambine ad Auschwitz dal marzo 1944 al gennaio 1945. Che ancora oggi, coi capelli bianchi e le gambe instabili, vanno in giro a raccontare "perché la gente deve sapere cosa è successo, perché non accada più". Invece, accade ancora, a 21 ore d’aereo da Milano. In quei campi di cui il governo nordcoreano ha sempre negato l’esistenza. Secondo il governo sudcoreano ci sono rinchiuse 150 mila persone. La cifra sale a 200 mila per il Dipartimento di Stato americano. Chi è dentro spesso ha nessuna "colpa". Visto che "la fetta più grande della popolazione carceraria è composta dai figli o dai nipoti di detenuti", spiega David Hawk. Perché in Corea del Nord - unico Paese al mondo - esiste una legge che prevede la "Punizione per tre generazioni", istituita nel 1972 dal Grande leader e Presidente Eterno Kim Il Sung. Ed è probabilmente questo il motivo per cui il padre, il nonno, la nonna e due zii di Shin finirono al Campo 14: per "colpa" di due zii fuggiti a Seul ai tempi della Guerra di Corea. Negli ultimi giorni qualcuno ha raccontato a Shin del viaggio a Pyongyang di due politici italiani. "Due parlamentari, credo, non ricordo di che partito", spiega alle persone sedute ad ascoltarlo in una piccola libreria vicino alla Stazione. "Tornati in Italia hanno detto ai giornalisti che la Corea del Nord assomiglierebbe alla Svizzera". In sala qualcuno mormora due nomi. Un signore sospira. Altri sorridono e scuotono la testa. Shin non aggiunge altro. "Sono stati ospiti di un dittatore, non del popolo nordcoreano". Ancora una volta, la sua voce e il suo volto sembrano non tradire nessuna emozione. Ucraina: cosa c’è dietro lo scambio di prigionieri tra ucraini e filorussi di Emanuele Felice Pagina 99, 30 settembre 2014 Il primo a essere liberato è stato un ragazzo di 19 anni. Ancora tremava mentre veniva accompagnato sull’autobus, ma un grande sorriso era stampato sulla sua faccia. Era un volontario che combatteva per il governo ucraino, catturato dalle milizie filorusse e liberato grazie a uno scambio di prigionieri. Domenica 28 settembre lungo la superstrada a nord di Donetsk, in direzione Karkiv, è avvenuto il sesto scambio sorvegliato dagli osservatori dell’Osce e da una trentina di giornalisti. Dal sette settembre i negoziati tra il presidente ucraino Poroshenko e Putin hanno portato solo a una nuova buona notizia. Anche questa però da vagliare attraverso il filtro della propaganda. Scambio di prigionieri: secondo le regole, in egual numero tra filorussi e ucraini. Ma un po’ come la notizia della tregua, fittizia a vedere le bombe che cadono incessantemente tra Donetsk e Mariupol, anche la liberazione degli ostaggi non è così trasparente. Incaricato di essere il tramite tra le due parti in causa, dichiaratosi neutrale, c’è il capo del Centro per lo scambio dei prigionieri Volodymyr Ruban, la cui organizzazione non governativa ha sede a Dnipropetrovska. Dall’altra parte, a parteggiare per i separatisti Bes, nome di battaglia, a capo della milizia di Gorlovka. Igor Bezler è uno dei soldati intercettati mentre si suppone parlasse dell’abbattimento dell’aereo malese Mh17. Le due parti solitamente propongono una lista di nomi. E dopo una verifica si decide se si è disposti a cedere oppure no. Per quello che è successo fino ad ora sono stati sempre liberati soldati semplici. Quelli graduati valgono di più, e lo scambio uno a uno non sarebbe conveniente per nessuna delle due parti. Parlare di propaganda anche in questa delicata fase del rilascio dei prigionieri non sembra azzardato. Innanzitutto ogni operazione avviene immediatamente dopo un rapido giro di telefonate per avvisare tutta la stampa presente. Una volta incolonnate le auto dietro agli autobus con i prigionieri ucraini detenuti dai filorussi (la spedizione parte sempre da Donetsk, città sotto il controllo dei separatisti) si parte verso una meta sconosciuta, facendo numerose e lunghe soste in luoghi isolati e circondati da militari armati. Inoltre, dall’ultimo scambio avvenuto su una strada crivellata da colpi di artiglieria pesante, si è potuto verificare che la maggior pare dei prigionieri è composta da civili e non militari, come dovrebbe essere secondo gli accordi. Domenica i filorussi hanno rilasciato 30 persone, gli ucraini 60. Oksana Bylozir, un ufficiale ucraino presente sul posto ha ricordato come il trattato firmato a Minsk non descrive in maniera chiara le modalità di scambio, per questo, soprattutto i filorussi che detengono il maggior numero di prigionieri, tendono a catturare civili per poi liberarli, evitando così di lasciare liberi i veri soldati catturati. Molti degli uomini nella lunga fila che scendeva da un autobus, sfilava davanti alla stampa e saliva su un altro convoglio, urlava con le braccia alzate "siamo civili!". Le loro storie sono molto simili. Alexei, per esempio, era al telefono con lo zio nella piazza del suo paese sotto l’occupazione dei filorussi. Tre uomini lo hanno sorpreso alle spalle, incappucciato e gettato in una cantina per 4 giorni. Secondo loro Alexei era in possesso di informazioni militari sull’esatta posizione dei soldati ucraini. Dopo essere stato picchiato è stato rilasciato insieme ad altri. Alla domanda su possibili torture gli occhi si abbassano. Un uomo ha un braccio fasciato, un altro zoppica ma nessuno spiega il motivo. Solo Volod sussurra alla madre che è venuto a prenderlo, "Non posso dire nulla, altrimenti uccideranno tutta la mia famiglia". Per quanto riguarda i soldati più specializzati, i cecchini, i graduati la questione del rilascio si complica notevolmente. E nemmeno chi può pagare un riscatto riesce a uscire indenne dalle prigioni. Sia ucraine che filorusse. Diversi testimoni hanno parlato di torture. Ai cecchini viene tagliato un dito alla volta, mentre agli altri le ginocchia vengono spezzate con il trapano elettrico. L’Osce non conferma, ma nemmeno smentisce. "Siamo qui solo per verificare che lo scambio avvenga", spiega un osservatore moldavo, "torture? Forse basterebbe contare le loro dita dei piedi. Ma non siamo autorizzati a farlo". Iran: uccise il marito che tentava di stuprarla, una ragazza di 26 anni rischia impiccagione La Repubblica, 30 settembre 2014 L’esecuzione potrebbe avvenire nelle prossime ore. L’omicidio del marito avvenne 7 anni fa. La vittima era un ex impiegato del ministero dell’Intelligence. La donna confessò l’omicidio subito dopo l’arresto, ma non le fu consentito di avvalersi di un avvocato durante la deposizione. La giovane affermò di aver agito per autodifesa. Lo riporta il sito di Iran Human Rights (Ihr), un’Ong che si batte contro la pena di morte nella Repubblica islamica, secondo cui l’esecuzione potrebbe già avvenire nelle prossime ore. A confermare la notizia è stata su Facebook la madre della giovane, Sholeh Pakravan. Secondo quanto scritto dalla donna, Reyhaneh le ha comunicato che è stata trasferita nel carcere di Rajaishahr. Alcune fonti all’interno del carcere - ha scritto Pakravan - le hanno confermato che il nome di Rayhaneh è sulla lista delle prossime esecuzioni. La 26enne iraniana è stata condannata a morte per l’omicidio, avvenuto sette anni fa, di un ex impiegato del ministero dell’Intelligence, Morteza Abdolali Sarbandi. Reyhaneh confessò l’omicidio subito dopo l’arresto, ma non le fu consentito di avvalersi di un avvocato durante la deposizione. La giovane affermò di aver agito per autodifesa. Venne condannata a morte da una corte penale della capitale iraniana nel 2009. La sentenza fu poi confermata dalla Corte Suprema pochi mesi dopo. A marzo di quest’anno i familiari di Reyhaneh furono informati del fatto che la donna sarebbe stata giustiziata in 15 aprile, ma l’esecuzione fu poi rimandata. Ihr ha lanciato ora un appello alla comunità internazionale e a tutti i paesi che hanno rapporti con l’Iran affinché "usino i loro canali per fermare l’esecuzione di Reyhaneh". Il presidente di Neda Day, Taher Djafarizad, chiede una mobilitazione internazionale per scongiurare l’esecuzione e punta l’indice contro il presidente iraniano Hassan Rohani. "Da quando è al potere - dice - le esecuzioni sono aumentate. Non è affato un moderato, è sempre stato dentro l’apparato del regime e ha avuto un ruolo in tutte le pagine più nere della Repubblica Islamica. L’Occidente ripone in lui una fiducia ingiustificata". L’associazione presieduta da Djafarizad, che risiede a Pordenone, ha lanciato una campagna con la quale invita tutti gli italiani a recapitare un messaggio di protesta contro Rohani all’ambasciata iraniana a Roma, nel tentativo di riuscire a fermare l’esecuzione di Reyhaneh. Marocco: 7 feriti e 23 arresti in scontri a Dakhla. dopo il decesso di un detenuto Sahrawi Asca, 30 settembre 2014 Scontri tra manifestanti e forze dell’ordine marocchine sono avvenuti a Dakhla, nel Sahara occidentale, in seguito al decesso in ospedale di un detenuto Sahrawi. È quanto si è appreso da fonti concordanti. Questi scontri, che hanno contrapposto tra le duecento e le trecento persone ai poliziotti, hanno provocato sette feriti tra i ranghi delle forze dell’ordine, che attribuiscono la responsabilità delle violenze alle forze dell’ordine, mentre altri hanno puntato il dito contro i simpatizzanti indipendentisti. Un responsabile locale, El Mami Aamar Salem, ha da parte sua affermato che 23 persone sono state arrestate e ci sono stati cinque arresti. Gli scontri, durati dalle 23 alle 3, sono scoppiati dopo il decesso di un detenuto Sahrawi. Egitto: protagonista della rivolta anti-Mubarak detenuto in sciopero della fame da agosto Aki, 30 settembre 2014 Continua la protesta in carcere in Egitto di Ahmed Douma, uno dei più noti attivisti egiziani e protagonista della sollevazione popolare che nel 2011 portò alla caduta di Hosni Mubarak. Douma è da più di un mese in sciopero della fame e, nonostante il peggioramento delle sue condizioni di salute - come ha fatto sapere la moglie Nourhan Hafezy - continua la sua protesta. "Le voci secondo cui Ahmed avrebbe posto fine allo sciopero della fame non sono assolutamente vere", ha scritto su Facebook la Hafezy. "Giovedì scorso, durante la mia ultima visita in carcere, si è rifiutato di porre fine allo sciopero della fame nonostante le sue preoccupanti condizioni di salute e le pressioni degli agenti", ha aggiunto, come riporta il sito web del giornale Ahram Online. Ahmed Douma, che starebbe assumendo alcuni farmaci, è stato condannato a tre anni di carcere, insieme ai due fondatori del movimento del "6 Aprile" Ahmed Maher e Mohamed Adel, per aver partecipato lo scorso novembre a una protesta non autorizzata. La scorsa settimana è arrivato in un’aula di tribunale in sedia a rotelle. Douma è sotto processo anche con l’accusa di coinvolgimento in scontri registrati al Cairo nel 2011 e ha iniziato lo scorso agosto, insieme ad almeno altri 80 attivisti in carcere, uno sciopero della fame per chiedere la scarcerazione ed emendamenti della contestata legge sulle manifestazioni.