L’emozione della prima fotografia con i propri nipoti Il Mattino di Padova, 29 settembre 2014 Occasioni per “umanizzare” luoghi poco umani come le galere: questo sono giornate come quella che la scorsa settimana nella Casa di reclusione di Padova ha visto i detenuti della sezione di Alta Sicurezza incontrare per alcune ore di seguito le loro famiglie, invece che fare i soliti colloqui striminziti della durata di una miserabile ora, come avviene di solito. Piccole emozioni incredibili, come quella di potersi fare per la prima volta una fotografia con i propri nipoti, che raccontiamo attraverso le testimonianze di un detenuto e della figlia di un altro detenuto: cerchiamo di fare in modo che questa esperienza eccezionale diventi la normalità, per quei figli che hanno diritto a un po’ di affetto in più. Domenica in famiglia, in carcere 21 Settembre 2014: sembrava una domenica come le altre, invece è stata una giornata di libertà per tutti i detenuti della sezione di Alta Sicurezza. Il motivo è che il direttore ha autorizzato un “colloquio lungo” di alcune ore, in via sperimentale, ai detenuti di quella sezione, per dare un segno di rispetto e di umanità anche alle persone che sono viste come “mostri”. Questo progetto di “colloqui lunghi” nasce dalla Redazione di Ristretti Orizzonti, che investe molta parte delle sue energie nelle battaglie per portare più umanità dentro le carceri italiane, e da quella che io credo sia la giusta convinzione del direttore della Casa di reclusione, l’idea che tenere chiuse le persone, isolandole dalle loro famiglie, significa rischiare di farle diventare più criminali. Oggi vi racconto la mia esperienza. Sono un detenuto ergastolano, che aveva dimenticato anche come si mangiasse con la famiglia seduti attorno a un tavolo, dopo tanti anni mi sembra di avere vissuto una nuova vita, emozioni che non pensavo più di provare, invece oggi a Padova le ho ritrovate. 16 famiglie sono arrivate da ogni parte d’Italia, e anche dall’estero, come nel caso della mia famiglia, che proviene dal Belgio, per pranzare con i loro cari reclusi. Tutti noi sedici detenuti, già il giorno prima, abbiamo iniziato a preparare del cibo per consumarlo con le nostre famiglie, con tantissime emozioni, ricordandoci di cosa apprezzavano le mogli, i figli quando ognuno di noi si trovava a casa alla domenica a mangiare con i propri cari. Alle ore 10 partiamo verso la palestra del Due Palazzi dove altri detenuti avevano sistemato dei tavoli con le sedie, lasciando dello spazio per giocare ai bambini, i figli, ma anche i nipotini dei detenuti. La redazione di Ristretti ha pure incaricato un volontario detenuto di fare delle foto con i propri famigliari, in questa occasione ero proprio io. Così mi sono gustato tutte le emozioni di ogni singolo detenuto, di ogni bambino, moglie, di ogni figlio di ogni madre. Alle ore 10.15 arrivano le famiglie, siamo tutti pieni di gioia, emozione, ansia, chi abbraccia i figli, le moglie, i nipotini, che per la prima volta potevano rimanere con il nonno, cosa emozionante e dolorosa nello stesso tempo: queste situazioni le ho vissute in prima persona, ma a vedere quegli abbracci, e qualche lacrima, mi sono emozionato tantissimo, e ho detto a me stesso: “Anche loro, anche i nostri cari sono nostre vittime”. Inizio a sentirmi chiamare, mi chiedono tutti se posso fare delle foto con i loro cari, io mi metto subito a disposizione, dicendo alla mia famiglia di avere pazienza, perché “anche loro è da tanto tempo che non hanno una foto che li ritrae con i propri familiari”. Subito il mio compagno Salvatore mi dice una frase che mi lascia raggelato: “Biagio, quando mi hanno arrestato i miei figli avevano un anno, ho soltanto una foto del loro primo compleanno, oggi di anni ne hanno 21”. Immediatamente dopo viene Peppe, un’altra persona anziana, e mi dice: “È la prima volta che conosco mia nipote, non sono stato presente neanche al matrimonio di mia figlia, oggi ha 30 anni”. Percepisco tutti i dolori di ogni persona detenuta, di ogni familiare. Mentre giro per fare altre foto, vedo una suora, subito mi avvicino e le chiedo se è venuto come volontaria per questa occasione, mi risponde con voce dolce: “No, sono venuta a trovare mio fratello!”. Nello stesso momento mia mamma mi dice: “Vedi, anche le suore hanno familiari in carcere con l’ergastolo”. Mi richiama, suor Consuela, mi avvicino, mi accoglie con un sorriso, mi dice: “Biagio, mi potresti fare una foto con mio fratello?”. Io a mia volta le chiedo se posso fare una foto con lei; mi risponde: “Sono qui per tutti voi, siete tutti i miei fratelli”. Mi sono uscite le lacrime, anche se sono una persona non credente lei è riuscita a farmi vedere una luce diversa. Lei mi ha spiegato che è una missionaria, io le ho raccontato il mio percorso con la redazione di Ristretti Orizzonti, il progetto scuola/carcere, le battaglie che facciamo, informandola della nostra battaglia per avere più telefonate e colloqui. Ci siamo lasciati come due amici che si conoscono da vent’anni. Altra emozione la provo con il mio compagno Tommaso, che non aveva avuto mai una foto con i propri nipotini, due piccolini che sembrano due angeli, e poi ancora emozioni con Francesco, che vedo arrivare con una bambina di un anno: “Biagio, è la prima foto che faccio con mia nipote, e con sua mamma, mia figlia”. Il mio compagno Ernesto invece, che non ha potuto fare una foto con suo figlio di un anno, perché la moglie non è riuscita a portarlo, mi dice: “Peccato, era la mia occasione per avere un ricordo con lui”. A un certo momento arriva una famiglia in ritardo, vedo che un assistente della Polizia penitenziaria si avvicina e mi chiede se possiamo preparare un tavolo in più, io a mia volta gli dico: “Non vedo molta presenza di Polizia penitenziaria”, e lui mi spiega: “Siamo sulla scalinata, vogliamo che viviate un giorno libero, i bambini non devono vedere delle persone estranee”. Hanno dimostrato una grande umanità, grande professionalità, rispetto verso di noi, e per i nostri cari, mi sento di ringraziare anche loro per aver dato un giorno di libertà a tutta la sezione di Alta Sicurezza. Anche le famiglie si sono unite ai ringraziamenti, per la possibilità che abbiamo avuto di rimanere alcune ore speciali ed indimenticabili con i nostri familiari e per tutta la felicità provata, che rimarrà un ricordo importante per tutti quelli che hanno partecipato all’incontro di domenica 21 settembre 2014. Biagio Campailla La sofferenza di una figlia per il suo papà, che manca da una vita Ciao sono Miriana, figlia di Pietro, detenuto a Padova da più di due anni! Se ora sono qui a scrivervi una lettera, è perché vorrei che riusciste a capire come una figlia di un detenuto è arrivata al punto di scrivere a voi, degli sconosciuti, per cercare di spiegare a tutti da quanto tempo soffro per la mancanza di mio papà. Avevo solo un anno quando è stato portato via, io realmente non ricordo nulla, ero piccolissima, e poi sono passati tanti anni, ora ne ho 19, e da sempre ho capito tantissime cose, che è grazie alla mia mamma e al mio papà se sono cresciuta con i piedi per terra, perché anche se con mio papà siamo distanti, è riuscito ad essermi vicino con i dolori e le sofferenze, e con tanto amore. Certo avrei voluto che lui fosse accanto a me realmente, quante feste di compleanno sono passate, di Natale, di Capodanno, i primi giorni di scuola, la mia prima comunione, la mia cresima, e i miei 18 anni, tutti erano presenti, ma mancava la persona più importante, il mio papà. Io vorrei davvero che tutto questo finisse, perché soffrire tanto? Tuttora fa male, mi dispiace che non riesco ad esprimermi tanto, avrei voluto dire migliaia di cose, ma ora solo questo riesco a dirvi. Vorrei, dopo tutti questi anni, un suo ritorno accanto a noi, la sua famiglia, accanto a suo nipote, che non ha visto nascere perché lontano, rinchiuso in quelle quattro mura. Chilometri che ci separano, e noi purtroppo non abbiamo possibilità di andare a trovarlo sempre, di lavoro qui ce n’è poco, fosse per me andrei fino in capo al mondo pur di stare tra le sue braccia e vederlo accudirmi come un papà accudisce la sua propria figlia. Per me è indimenticabile quel giorno, in cui ho potuto stare tanto tempo accanto a lui, abbracciarlo, così tanto che non volevo staccarmi più, ora mi manca da morire. Non sarà certo questa lettera a farlo tornare da me, ma spero che possa servire a far capire che noi famigliari soffriamo quanto lui, basta quanto ha pagato, e quanto ancora oggi sta pagando, sia lui che io personalmente. Libertà, libertà, libertà, quanto la voglio per mio padre! Tutto questo non sono riuscita a dirlo quel giorno, oggi scrivendo una lettera mi esprimo di più. Queste sono le sensazioni che sento dentro, ed è tutta sofferenza di una figlia per il suo papà, che manca da una vita. Miriana Giustizia: i penalisti non chiudono le porte alla riforma di Sara Seligassi Italia Oggi, 29 settembre 2014 Difendere il diritto alla difesa. “Noi siamo quelli che si battono per i diritti degli ultimi, di Provenzano… sì, anche di Provenzano, non cambia la nostra difesa del diritto”. È stato sicuramente questo il messaggio più forte emerso dal XV Congresso dell’Unione delle camere penali che si è svolto a Venezia, e che ha visto il rinnovo degli organismi di vertice, con il passaggio del testimone da Valerio Spigarelli a Beniamino Migliucci, attualmente alla guida della Camera penale di Bolzano, che ha avuto la meglio su Salvatore Scuto, presidente della Camera penale di Milano, che esprimeva una posizione di continuità con il leader uscente dell’Ucpi Spigarelli. Ed è stata proprio la riforma Orlando al centro della discussione dei lavori dell’assise dei penalisti. Proprio Spigarelli ha tenuto un faccia a faccia animato con il guardasigilli Andrea Orlando, sui contenuti del provvedimento di riforma. Criticandone diversi punti, a cominciare dalla mancanza di coraggio nell’affrontare il tema chiave della separazione delle carriere dei magistrati. “È una pseudo riforma”, ha detto Spigarelli, perché “non tocca la Costituzione e accanto a cose buone, inserisce una serie di previsioni discutibili assieme ad altre francamente inaccettabili”. Il punto veramente critico per i penalisti è aver tagliato fuori dalla riforma la separazione delle carriere, indispensabile per introdurre l’effettiva terzietà del giudice, ma anche di aver escluso altri nodi spinosi i nodi spinosi come l’obbligatorietà dell’azione penale. Anche se, ha ammesso Spigarelli, alcuni risultati sono stati ottenuti dai penalisti, come l’inserimento nel pacchetto della modifica della legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Tra i risultati ottenuti dall’Ucpi c’è anche l’abbandono di alcune scelte “molto negative”, come quelle di innalzare indiscriminatamente la prescrizione a otto anni per tutti i reati e la cancellazione del divieto di inasprire una condanna quando a impugnarla è solo l’imputato. Ma soprattutto i penalisti hanno incassato l’inserimento nel pacchetto di riforma della responsabilità civile dei magistrati, che costituiva un “tabù oggi caduto”. Ma gli esiti ottenuti non sono sufficienti: “bisogna migliorare il resto” della riforma che “non va affatto bene”. Il neo presidente dell’Ucpi Migliucci, ha fatto capire che comunque, sulla riforma, la categoria non chiude la porta, e il dialogo con il governo proseguirà, anche se con più scetticismo e meno convinzione. Il nuovo presidente dell’Ucpi si è scagliato contro alcune distorsioni del sistema giudiziario, in particolare contro i paradossi del patrocinio di Stato: “Con un compenso di cento euro si vuol far capire a tutti che quella funzione è un orpello, senza importanza per nessuno”, ha denunciato Migliucci: “lo Stato si deve vergognare di se stesso nel momento in cui umilia la funzione difensiva, non l’avvocato”. Orlando, nel corso del confronto con i 460 penalisti italiani presenti a Venezia, ha spiegato alcuni punti della riforma, chiarendo alcuni dubbi, come quello sul reato di auto-riciclaggio. “Non ci sarà nessuna marcia indietro del governo sull’auto-riciclaggio”, ha detto Orlando, (anche se pochi giorni dopo, il parlamento lo ha contraddetto, approvando una versione “soft” del reato, limitato nella sua applicazione a “delitti non colposi puniti con la reclusione non inferiore nel massino a cinque anni”, con l’esclusione, insomma, di reati principali anche gravi, ma che non prevedono, appunto, un tetto abbastanza alto). E ha aggiunto che se la riforma che porta il suo nome non prevede interventi sull’assetto costituzionale della magistratura “è per evitare che non si porti a casa niente, che insomma sulla giustizia si scateni una nuova “guerra” come quella che ha bloccato tutto nell’ultimo ventennio”. Ai penalisti il guardasigilli ha anche assicurato che invece ci sarà un intervento sul Csm, al momento bloccato per il mancato rinnovo, da parte del parlamento, di tutti i componenti di Palazzo dei Marescialli: si attende solo di avviare un’interlocuzione con il nuovo organo di autogoverno dei giudici, quando sarà nella pienezza dei suoi poteri, con l’elezione dei membri laici ancora mancanti; e al centro degli interventi ci sarà la legge elettorale, visto che l’attuale ha “rafforzato il correntismo”. Parlando con i giornalisti, infine, Orlando ha aperto su possibili modifiche alla riforma della geografi a giudiziaria sui distretti di Corte d’Appello. Giustizia: dalla Cina arriva il supermarket della tortura… diritti umani addio di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 29 settembre 2014 La difesa dei diritti umani è oramai all’ultimo posto nell’agenda internazionale e nell’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. E dunque non susciterà alcuna reazione il boom dell’industria della tortura che, ne scriveva su queste pagine Guido Santevecchi, sta facendo sorridere l’azienda statale cinese Chian Xinxing con un volume di esportazioni alle dittature del mondo che l’anno scorso ha toccato la soglia dei 100 milioni di dollari. Un grande viavai di “manette, sedie rigide per gli interrogatori, bastoni elettrici che possono essere usati per infliggere scariche estremamente dolorose per genitali, gola, orecchie”. Possiamo immaginarcelo, il commesso viaggiatore che presso 40 nazioni africane (la clientela più entusiasta), in Cambogia e in Tailandia e in Nepal, illustra con orgoglio aziendale il campionario dei suoi preziosi prodotti per l’export: mazze “anti-sommossa” con punte metalliche, catene per il collo che riducono la circolazione del sangue, attrezzature per somministrare scariche elettriche su un uomo nudo e immobilizzato, strumenti per il congelamento del torturato e così via. Possiamo immaginare anche il brivido del virtuoso fustigatore del mercato spietato e del capitalismo disumano. Purché non si colga il centro della questione: i consumatori non sono utenti abbacinati dalle sirene del consumismo, ma Stati che fanno parte dell’Onu, che cercano, spesso ottenendola, una certa reputazione mondiale e che comunque possono agire indisturbati, anzi quasi incoraggiati dalla comunità internazionale, nella pratica della tortura e della violazione dei diritti fondamentali. Noi sappiamo benissimo quali sono gli Stati che praticano la tortura: diciamo che sono Stati sotto il cui tallone vive oltre la metà della popolazione mondiale, altro che staterelli periferici, o cattivi confinati nell’asse del Male. Anzi, dopo il fallimento delle primavere arabe (che peraltro sono esplose in Paesi dove la tortura di Stato, come nell’Egitto di Mubarak, aveva raggiunto vertici di perfezione professionale), abbiamo cominciato a fare il tifo per regimi autoritari che almeno potevano arginare i pericoli del fondamentalismo fanatico e oscurantista. Facciamo tifo per regimi che guardano con ammirazione al catalogo della China Xinxing (presumibilmente forte anche nel mercato interno) e che partecipano con entusiasmo all’internazionale della tortura. Diritti umani adieu. Deve essere questa la “globalizzazione dell’indifferenza denunciata da Papa Francesco? Giustizia: “diteci se siamo dei mostri”… parlano i detenuti per reati sessuali di Ferruccio Sansa Il Fatto Quotidiano, 29 settembre 2014 Parlano i detenuti per reati sessuali condannati per violenze e omicidi, per la prima volta si raccontano senza reticenze e (quasi) senza auto-assoluzioni. Occhi. Sono dunque questi occhi, scuri, lucidi, che hanno guardato la donna prima di aggredirla. Mani. Sono queste le dita sottili, curate, che si sono strette intorno al collo di una ragazza fino a toglierle il respiro e la vita. Ecco cosa ti colpisce prima di tutto: davanti a te c’è un uomo come tanti. Come te. Non un essere con il volto coperto da una maschera, come nei film; una bestia cui il male ha stravolto il viso rendendolo irriconoscibile. Diverso. “Io sono un mostro?”, ti chiedono guardandoti in faccia e lasciandoti muto. E tu non hai risposta. Siamo nel carcere di Bollate, struttura modello - a parte le foto del Duce in un gabbiotto della polizia carceraria - alle porte di Milano. Una percentuale di recidiva più bassa degli altri istituti, all’ingresso bacheche di vetro con collane e braccialetti opera dei detenuti. Sui muri disegni di boschi, fiori, come quelli che si intravvedono dalla finestra, irraggiungibili, sui monti della Brianza. E due murales, con una parola che basta per darti una fitta di dolore o di speranza che qui sono quasi la stessa cosa: “libertas”. Perché non bastano i colori, la pulizia, c’è un confine che senti dentro anche se la porta con le sbarre è spesso aperta. VII reparto: isolati dal mondo Intorno al tavolo con te ci sono Matteo, Alberto, Giulio, Giancarlo, Franco, Ivan, Gabriele. Erano artigiani, manager, maître, operai, ma oggi sono soprattutto carcerati con anni, a volte decine, da scontare per delitti che arrivano all’omicidio. Alcuni dei loro volti li avevi già visti sulle prime pagine dei giornali, sbiancati dai flash. E ora te li ritrovi davanti in carne e ossa. Siamo nel VII reparto, l’ultimo, quello in fondo al carcere, diviso da tutti gli altri. Sì, perché qui sono detenuti i condannati per reati sessuali: violenze, molestie, pedofilia e omicidi. Trecento persone circa, su un totale di 1.300 della struttura diretta da Massimo Parisi. “Grazie di essere venuto”, ti dice uno di loro. Addosso ti senti gli occhi di tutti. Con un velo di diffidenza all’inizio, ma soprattutto con un carico di curiosità, attesa e gratitudine. Perché qualcuno ha accettato di superare il cancello del VII reparto, di ascoltare quello che dicono. Perché loro sono gli “intoccabili”, per la gente che sta fuori e per la legge non scritta del carcere, che vuole infame chi ha violentato una donna e non chi, magari mettendo una bomba, di donne e bambini ne ha uccisi decine. Perché anche in carcere hai bisogno di sentirti un poco giustiziere, di pensare che i veri criminali sono altri. O, magari, soprattutto perché le azioni di queste persone toccano quella forza misteriosa e violenta che ci fa tremare tutti: il sesso. I sette uomini intorno al tavolo da mesi hanno scelto di affrontare un percorso di recupero insieme con una delle psicanaliste più note e capaci, Marina Valcarenghi (collaboratrice del Fatto). E oggi con il cronista hanno deciso di raccontare la loro vita. Senza reticenze. Perfino di provare a ricostruire, spiegare ai lettori - e a se stessi - che cosa è successo nei momenti terribili. È la violenza raccontata da chi l’ha commessa. Ma per arrivare fino al fondo del baratro bisogna ripercorrere tutto il viaggio. “Lo so, ho sbagliato, non cerco giustificazioni”, esordisce Giancarlo e i suoi compagni, quasi senza accorgersene, fanno tutti cenno di sì con la testa. Giancarlo è il primo a parlare. Ha quasi settant’anni e sulle spalle una condanna pesante, quasi interamente scontata. Aveva una vita più che normale: un lavoro da manager affermato, una famiglia, dei figli. Poi, apparentemente senza preavviso, quel folle salto, le manette, la sua vita sulla cronaca nera dei giornali: “Mi sono innamorato di una minorenne”, racconta. Come è potuto succedere? “Voglia di primavera”, si era lasciato scappare nei primi incontri. “Ho commesso una cosa grave. È stato giusto pagare. Me sta ben che son stato un mona”, si mette a parlare nel suo dialetto quando lo prende la foga. Non si fa nessuno sconto. Eppure capisci che per lui, per tutti qui dentro, è stato un lavoro doloroso affrontare le proprie responsabilità: “Il carcere ti fa riflettere per il solo fatto che ci stai dentro. Tolti gli impegni quotidiani, qui hai abbondanza soltanto di una cosa: il tempo. Allora pensi, ripensi migliaia di volte a quello che è successo per capire chi sei, perché ti sei comportato così”. Non si può sfuggire dalle sbarre della cella, ma soprattutto al confronto con te stesso. Ma non è nella solitudine che ti rendi conto: “Non so come potremmo fare senza questi incontri con la psicanalista dove ognuno di noi ha accettato di mettersi a nudo. E senza gli altri detenuti. Dev’essere per questo che qui tutti, o quasi, chiedono di condividere la cella con qualcuno. Di non essere lasciati soli. Abbiamo bisogno di parlare, di raccontare. Di confrontare le esperienze e gli errori”, spiega Ivan e guarda i compagni, si scambiano un sorriso: “Io sentivo di essere in colpa, ma non capivo perché. Non sapevo davvero cosa mi aveva spinto, che cosa era successo dentro di me. E dovevo scoprirlo… sennò sarebbe stato tutto inutile, il carcere, la sofferenza”. “Uscire consapevoli è l’unico modo per salvarsi. E ricominciare”, non ha dubbi Giancarlo. Anche se pare un compito enorme: capire, senza schiantare la propria vita, ma non cadendo nel rischio dell’indulgenza. E rispondere in fondo a quella domanda: “Chi sono io?”. Tu ascolti e ti accorgi che per questi sette uomini il momento più difficile deve essere stato l’arresto. Le manette, il carcere, gli articoli sui giornali. Certo. Ma soprattutto la scoperta di essere capaci di compiere una violenza così terribile. È ancora Ivan a parlare, con la felpa, i bermuda, quel modo di fare irruente da ventenne che cerca di nascondere i pensieri più profondi: “Io sono responsabile”, esordisce, per spazzare il campo. Ma non riesce a rassegnarsi, non del tutto: “Non ho mai negato di essere stato là quel giorno con i miei amici, non ho fatto nulla per evitare che succedesse. Me lo rimprovererò sempre. Però mi dispiace essere considerato un mostro. Accetto di pagare per la mia colpa, ma non possono condannare tutta la mia vita. Non sono cattivo”, e si guarda intorno come per chiedere agli amici di testimoniare. Tu saresti pronto a credergli fino in fondo. Finché un disagio, un profondo disorientamento ti prende ascoltandolo scendere nel baratro, raccontare quei momenti: “C’era una tipa, mi stava dietro. Allora l’ho detto alla mia ragazza e tutti, con i nostri amici si è deciso di punirla”. Mentre ascolti affiorano i ricordi, gli articoli sui giornali: le violenze, il tentativo - secondo l’accusa - ad - dirittura di bruciare l’amica. Ivan è stato condannato. E tu non puoi fare a meno di pensare a lei, alla vittima. Di vedere in lei te stesso, le persone che ami. Allora ti pare di non riuscire più a mettere a fuoco l’immagine di Ivan, quasi si sdoppiasse. Come se i tuoi occhi non potessero accettare che si tratti della stessa persona: il ragazzo vitale che hai di fronte e il condannato per un delitto. “Io non sono il mio reato” Così ti vedi sfocare l’immagine di Matteo - l’unico che si professi totalmente innocente - quando racconta della disabile mentale che lui avrebbe convinto ad avere un rapporto sessuale. E poi Gabriele che è stato condannato per avere violentato una sua dipendente. Non riesci più a capire chi hai di fronte: il ragazzo con gli occhi azzurri e i modi franchi o il marito che violenta la ragazza che lavora per lui. Non ti pare possibile che siano la stessa persona. Soprattutto che siano uomini come gli altri. È la stessa domanda che sembra tormentare i condannati: “Parlare con la psicanalista, con gli amici ci aiuta a vedere il male dentro di noi. Ma anche il bene…perché c’è anche quello, nella stessa persona. Io non sono il mio reato!”, ripetono. “Ero una persona come tante. Poi un giorno ho scoperto che mia moglie era malata. Allora la mia vita è cambiata. Ho cominciato ad avere altre storie, tante. Poi quel giorno…”, lascia la frase a metà Gabriele. Attilio sfiora la sessantina. Aveva quasi quarant’anni più della ragazzina con cui ebbe dei rapporti. “Era consenziente”, esordisce, “Mi provocava. Anche i miei amici me l’hanno detto: il novanta per cento delle persone si sarebbero comportati come te”. Attilio si blocca. Non sai se perché si trova davanti un estraneo o per intima convinzione. Allora vedi affiorare parole e pensieri nati in cella. “Lei era d’accordo, ma io questa condanna me la merito. Perché a quella ragazza le ho messo un marchio addosso. A me chi mi conosce forse mi ha capito, ma lei per tutta la vita si porterà addosso la vergogna. Sì, in questi casi la vittima è quella che paga di più… tutti dicono, lo ha provocato e poi l’ha pure denunciato”. Attilio ti guarda come per vedere se può osare. Poi tenta: “Certo che ci cadono in tanti, anche dei politici...”, e nella stanza senti ridere. E d’improvviso ti accorgi che in queste celle sono sopravvissute l’amicizia, dei lampi di allegria subito frenati dai timori: “I nostri parenti non ci hanno abbandonati, nonostante tutto. Perfino le mogli a volte. Però abbiamo bisogno di vederli di più, soprattutto i bambini. Sei ore al mese non bastano”. Ma è la paura del futuro a bloccare ogni slancio: “Quando sono entrato in carcere non c’era nemmeno internet. Ora sto per uscire e non capisco il mondo che mi aspetta”. Intanto il giro si compie. Hanno parlato tutti tranne lui: Alberto, una condanna a 29 anni più lunga dei 26 anni che finora ha vissuto. Ti guarda dritto negli occhi, ma non per sfida. Gli pare forse di non dover fuggire. Se ne sta in un angolo aspettando che il discorso alla fine arrivi a lui. Perché Alberto è l’unico che ha ucciso: “L’ho strozzata”, dice e senza volere si guarda le mani. Intorno si fa silenzio mentre il ragazzo racconta quei momenti: “Era una mia amica. Mi ha dato una coltellata nel braccio come per difendersi”, racconta non per trovare giustificazioni, ma per spiegare, “appena ho visto quel sangue ho perso la testa. Come se mi stesse uscendo fuori tutto l’odio per il mondo che mi tenevo dentro da anni, da quando ero nato. E…le ho stretto i lacci della sua borsetta… intorno al collo”. Nessuno fiata, come se non si avesse il diritto di interrompere Alberto: “Posso avercela solo con me stesso. Ogni giorno rivedo quella donna; lei e sua figlia alla quale ho tolto una madre. A volte penso che quel gesto non mi riflette, ma l’ho fatto e lei non c’è più”. Non sembra fingere Alberto, né avrebbe senso. Ormai è stato condannato, non deve convincere nessuno. Ma che cosa è successo in quel momento? “È un buco nero”, ti guarda Alberto quasi aggrappandosi a te. E Ivan gli viene in aiuto: “Vedi quello che succede, ma non riesci a fermarti”. Giancarlo annuisce: “Ca - pivo di sbagliare, ma non riuscivo a farci niente”. “Alberto oggi non è una persona pericolosa”, è pronta a giurare e a mettere per iscritto nella sua relazione Marina Valcarenghi. E lui potrà forse andare a lavorare fuori dal carcere. Alberto ha sempre ammesso l’omicidio. Ma una cosa la nega: la violenza. Come quasi tutti gli altri condannati. Come Franco che non chiede sconti per le percosse alla moglie, ma nega di aver violentato l’amica di lei. Come Gabriele, come Matteo. Come Ivan: “Non nego niente, accetto la condanna. Ma non ho commesso violenza sessuale”. Ammettere di aver tolto la vita si riesce, di aver violentato una donna no. È la paura di essere considerato un intoccabile. Dalle persone che ami. Dagli altri carcerati. Ma soprattutto da te stesso. E alla fine senti di nuovo quella domanda: “Sono un mostro?”. Giustizia: violenze sessuali, com’è difficile denunciare di essere vittima di Chiara Daina Il Fatto Quotidiano, 29 settembre 2014 Non sei più capace di cucinare”. Squalificata. “Ti sei vista allo specchio? Sei piena di cellulite, che schifo”. Derisa. “Io non ti ho detto niente, ti inventi tutto. Sei pazza”. Incolpata. “Se entro le sette non sei a casa, mi arrabbio”. Controllata. La violenza dell’uomo contro la donna comincia con le molestie psicologiche dentro le mura di casa. Poi davanti ad amici e parenti. Subdole, difficili da individuare all’inizio, più frequenti e più degradanti col passare del tempo, alla fine intrappolano mogli e fidanzate in una spirale di aggressività che arriva a mettere a rischio la loro incolumità. Perché lei non denuncia subito i fatti Dalle umiliazioni, l’uomo passa agli spintoni, poi alle botte e a rapporti sessuali forzati. La violenza non scatta mai di punto in bianco. È sbagliato dire che è la donna che se l’è cercata. Negli amori “malati” c’è un graduale adattamento alla violenza fisica, frutto del plagio e della manipolazione esercitati dal partner sulla compagna. Ecco perché lei non se ne va subito, a volte mai, e il numero di denunce resta basso. In Italia, secondo un’indagine Istat del 2006, la prima sulla violenza femminile, su sei milioni e 743 mila donne che hanno subito almeno un episodio di maltrattamento (cioè il 31,9 per cento della popolazione femminile), solo il 7 per cento è riuscito a superare le remore e a denunciare l’aggressore, che nel 48 per cento dei casi è il marito, nel 12 per cento il convivente e nel 23 per cento l’ex. Perché la donna spesso è stata minacciata di morte o ha paura che lui faccia del male ai figli. “In media la denuncia arriva dopo sei anni di maltrattamenti, ma se ci sono di mezzo un matrimonio e dei figli le vittime resistono anche 12 o 14 anni pur di non far patire i bambini e non disfare la famiglia. Le donne più anziane arrivano a subire in silenzio anche trent’anni” spiega Nadia Muscialini, psicoterapeuta, responsabile del centro antiviolenza dell’ospedale San Carlo Borromeo di Milano. Su 555 accessi nel 2013, solo 167 si sono rivolte al tribunale e hanno intrapreso un percorso di riabilitazione. Il profilo della donna vittima di violenza è trasversale. Fascia di età tra i 35 e i 54 anni, il 53 per cento con un diploma, il 22 per cento laureato, dalle disoccupate alle libere professioniste in carriera. “Si rivolgono a noi direttamente oppure tramite il pronto soccorso. Quando arrivano sono devastate e trascurate - continua Muscialini. Sono confuse, fanno fatica a esprimersi. Tipiche conseguenze da stress post traumatico. Hanno investito tutte le loro energie per attivare strategie di sopravvivenza, si distraggono facilmente e hanno perso la voglia di ripetere la loro storia perché fino a quel momento nessuno le ha credute”. L’ostacolo più grande è ammettere il dramma Il 30 per cento di loro ha perso il lavoro per depressione o volontà del partner. La difficoltà più grande è far riconoscere alla donna di avere subito degli atti di violenza. “Tendono a giustificare l’u omo, che all’inizio chiede scusa e promette di non farlo più, scambiano il possesso per amore, la dominanza per protezione. Sono così insicure e abituate alle umiliazioni che non ci fanno più caso. Isolate da amici e famiglia, dipendono da lui in tutto. Per aiutarle, è importante fare un confronto con chi era prima e chi è adesso”. Ci sono donne predisposte a una relazione violenta, “perché l’hanno già vissuta in casa tra i genitori, per loro è normale, replicano un modello di cui si ha nostalgia. Altre invece non sono reduci da traumi, e hanno avuto relazioni sane con altri uomini”. La luce in fondo al tunnel c’è. “Prima di ricostruire la loro identità, devono sbrigare le questioni legali. Circa due anni tra la denuncia e la fine del processo. Dimostrare le molestie psicologiche è uno strazio, la donna anche dopo la denuncia deve tenere acceso il cellulare per documentare l’arrivo di messaggi minatori del marito che non smette di cercarla”. Il prezzo morale è ancora molto alto Grazie alle recenti campagne di sensibilizzazione, molte vittime arrivano già con la documentazione pronta raccolta nel corso degli anni, quando non erano ancora pronte a troncare il rapporto. Ma il prezzo morale ed economico è sempre alto. Nella ricerca nazionale Quanto costa il silenzio?, di Intervita Onlus, si stima che la violenza sulle donne costi ogni anno 16,7 miliardi. Si tratta di spese sanitarie, di ordine pubblico, giudiziarie, per consulenze psicologiche e farmaci. Giustizia: De Magistris si avvia allo stop, avanza l’ipotesi di Pasquino per la “reggenza” di Luigi Roano Il Mattino, 29 settembre 2014 “Non mollerò mai, se ci sarà sospensione sarà per un tempo breve e ne uscirò politicamente più rafforzato”. Nella domenica dove si festeggiano “Le Quattro Giornate”, la lotta dei napoletani contro il nazifascismo, e la liberazione della città dagli oppressori, il sindaco Luigi de Magistris mostra la sua di resistenza. Gira in lungo e in largo con la fascia tricolore, in attesa di indossare quella - forse - di sindaco sospeso, stringe mani, soprattutto quella del prefetto Franco Musolino, sarà il prefetto a comminare o no la sospensione a de Magistris, e riceve applausi e incoraggiamenti che fanno il giro d’Italia. Dunque, la cifra della giornata è che al di là della maggioranza che si ricompatta politicamente e approva il bilancio, per de Magistris dalla città arrivano segnali di solidarietà e invocazioni ad andare avanti. “Resisti” gli hanno gridato i suoi concittadini. A chi invita a “non mollare”, risponde: “Il popolo napoletano sa lottare. Lotteremo e non mollerò mai”. Una iniezione di fiducia che ringalluzzisce il primo cittadino. Sono ore delicate per Napoli e per i napoletani. E - naturalmente - per de Magistris. Mercoledì arriva il Capo dello Stato in visita, Mario Draghi con i banchieri a discutere del futuro del pianeta, mica una cosa da ridere. Musolino ha dichiarato nei giorni scorsi che si prenderà tutto il tempo che riterrà utile per decidere sulla sospensione del sindaco. De Magistris spera che non arrivi in settimana - ammesso che arrivi “non sono convinto che sia automatismo” spiega - perché sarebbe poco piacevole sfilarsi la fascia tricolore proprio con la città all’attenzione di tutto il mondo. Già sabato ha smorzato i toni ma non i contenuti, una strategia che continua, all’Anni ribadisce un concetto: “Ci sono politici e magistrati perbene - afferma - e magistrati collusi e politici disonesti”. Una stoccata va a Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, che aveva preso le distanze dagli attacchi del sindaco di Napoli ai giudici: “Mi auguro che Cantone faccia un po’ meno salotti televisivi e qualche battaglia per strada in più insieme con noi”. Malgrado tutto quella di ieri è stata una giornata da de Magistris, normale. Dai messaggini inviati al presidente di Asia per chiedere spiegazioni “del perché alcuni cassonetti sono ancora pieni” alle altrettanto consuete a Napoli Servizi che si occupa delle buche. Poi c’è il tweet dove cita Che Guevara: “E se vale la pena rischiare, io mi gioco anche l’ultimo frammento di cuore”. Con questo spirito de Magistris va avanti, “in attesa di ottenere giustizia”. Infatti i suoi legali stanno preparando il ricorso in appello contro la condanna subita per Why Not. E anche l’eventuale ricorso contro la altrettanto eventuale sospensione. Sullo sfondo de Magistris sta lavorando e decidendo a chi affidare le chiavi - solo formalmente - di Palazzo San Giacomo. Un vicesindaco facente funzione, dunque Tommaso Sodano che vicesindaco lo è o un facente funzione nuovo di zecca? In questo senso atteso che de Magistris punterebbe senza se e senza ma su Sodano, un suo fedelissimo e fidatissimo, non è da trascurare la strada di una figura terza, esterna o interna, come il presidente del Consiglio comunale Raimondo Pasquino. Ipotesi, ragionamenti in attesa di decidere. Giornate pesanti quelle di de Magistris ieri a rompere la tensione di una situazione a prescindere complicata ci hanno pensato “Le Iene”. Prendendo alla lettera le parole di de Magistris, “farò il sindaco sospeso ma in strada e vicino ai miei concittadini” gli hanno regalato un sacco a pelo. La motivazione? “In strada fa freddo”. De Magistris lo ha accettato ma non ci scherza su: “Spero siano sempre meno i senzatetto costretti a dormire in strada”. Porto Azzurro (Li): il carcere è nel caos, ma non arrivano il nuovo direttore e il garante di Luigi Cignoni Il Tirreno, 29 settembre 2014 La nomina è stata rinviata e i tempi non sono chiari Intanto alcuni reclusi denunciano le condizioni inumane. Il carcere di Porto Azzurro dovrà ancora fare a meno di un direttore in pianta stabile. La nomina attesa in queste ore di un nuovo responsabile dell’istituto, alle prese con gravi problemi che riguardano sia gli operatori interni, sia gli stessi reclusi, non si è concretizzata. Si dovrà attendere ancora, dunque, ma non è dato sapere quanto. Intanto un dato certo. La candidatura di Francesco D’Anselmo, in questi mesi reggente a Forte San Giacomo e in contemporanea direttore anche di altri tre istituti penitenziari in Sardegna, sembra aver perso notevolmente quota. Al punto da essere quasi del tutto accantonata, sebbene D’Anselmo avesse dato la disponibilità per ricoprire il ruolo sull’unico istituto di pena presente all’Elba ed essendosi fatto ben volere in queste settimane dagli stessi operatori carcerari e da tutti coloro che gravitano intorno alla casa di reclusione. Niente di fatto, insomma. Secondo quanto apprendiamo il carcere sarà gestito per il momento con una reggenza ad interim. E la figura più papabile per questo scopo sarebbe Vittorio Cerri, già direttore a Massa e a Pisa. Ma a tutt’oggi non ci sono decisioni e individuazioni sicure. La nomina di un direttore in pianta stabile è stata richiesta più volte dai sindacati della polizia penitenziaria in una fase in cui i problemi, sollevati dagli stessi detenuti, si stanno amplificando. Due su tre di loro hanno formalmente presentato domanda per il risarcimento per i “trattamenti inumani o degradanti”, subito all’interno della cittadella carceraria. Ci vorrà tempo, ma l’iter è in corso. Niente direttore e, per adesso, niente garante dei detenuti per Porto Azzurro. L’amministrazione comunale retta dal sindaco Luca Simoni sta avviando tutte le procedure previste per legge per individuare la figura di garante del carcere, che sia tale da rappresentare i bisogni della popolazione carceraria. Non solo, che operi affinché siano tutelati i diritti cui spettano al ristretto. Entro la prima decade del mese di ottobre la giunta potrebbe trovarsi nelle condizioni di affidare un tale incarico. Un incarico che potrebbe riportare un po’ di serenità nella struttura che sovrasta il paese. Napoli: Papa Francesco a Poggioreale, lezione d’umiltà di Antonio Mattone Il Mattino, 29 settembre 2014 Quando Jorge Mario Bergoglio era arcivescovo di Buenos Aires si recava molto spesso nel carcere di Devoto, situato al centro della capitale argentina. Tanti ricordano le visite a sorpresa, come quella del 26 dicembre del 2006 quando andò senza preavviso e celebrò la messa di Natale. Poi se ne tornava in arcivescovado con il “colectivo”, il pulmino che a prezzi popolari offre un servizio di taxi. Una volta, uno dei detenuti che stava lì per rapina a mano armata, gli chiese: “come dobbiamo chiamarla? Vescovo o cardinale?”. “Né vescovo né cardinale - rispose - chiamami padre, come dite al sacerdote del carcere”. L’incontro di papa Francesco con i carcerati napoletani, quando verrà in città la prossima primavera, sarà come quello di un padre che va a trovare i suoi figli che si sono perduti nelle maglie della delinquenza, nel dedalo dei vicoli dell’illegalità. Una visita forse insperata ma sicuramente invocata ed attesa da tanti detenuti che fin dagli inizi del suo pontificato lo hanno visto come una persona semplice e vicina alle loro sofferenze. Alcuni gli hanno scritto delle lettere e mostrano con orgoglio le sue risposte che sostengono chi vive un periodo difficile della vita e incitano a non scoraggiarsi e chiudersi, una parola buona per tutti. “Il Signore è un maestro di reinserimento” ha detto il papa qualche mese fa durante il suo incontro con i detenuti del carcere di Castrovillari, “che prende per mano e riporta nella comunità sociale”. Mai condanna. Mai perdona soltanto, ma perdona e nello stesso tempo accompagna. D’altra parte Bergoglio ha ripetuto più volte che la chiesa deve essere come un ospedale da campo, vicina alla gente ferita e ammalata, nel corpo e nell’anima. Per questo l’opera dei preti e dei volontari è un sostegno concreto, “un’opera di misericordia che rende visibile la vicinanza di Gesù nelle celle”, come ha detto nel discorso inviato ai cappellani delle carceri italiane. Un atteggiamento diametralmente opposto a quello dei dottori della legge di ieri e di oggi, una parte dell’opinione pubblica sempre pronta a giudicare e castigare, che ritiene che l’esecuzione della pena debba essere fondamentalmente uno strumento di sola punizione e ritorsione sociale. È il rapporto personale la chiave attraverso cui papa Francesco si fa vicino ai carcerati e ai poveri. Nel carcere di Buenos Aires ascoltava tutti i detenuti, uno per uno, beveva il mate, la tradizionale bevanda argentina e poi celebrava la messa. Il cappellano della prigione di Devoto ricorda che spesso riceveva sue telefonate: “parla Bergoglio, ho bisogno che tu vada a trovare una ragazzo che è carcerato”. E dopo gli chiedeva di raccontargli come lo avesse trovato. Ancora oggi, alcune domeniche pomeriggio, telefona al carcere di Buenos Aires per fare una chiacchierata con qualche detenuto che conosce da tempo. Il giovedì santo, poche settimane dopo la sua elezione si recò nel carcere minorile di Castel del Marmo per la lavanda dei piedi, non fece grandi affermazioni o lunghi discorsi, ma si chinò ai piedi di quei giovani reclusi, e li guardò negli occhi. Papa Francesco probabilmente pranzerà con i detenuti della casa circondariale “Giuseppe Salvia - Poggioreale”, una periferia esistenziale al centro della città di Napoli. La sua visita è come una benedizione per sostenere quel cambiamento che l’istituto di pena ha intrapreso da alcuni mesi, e potrà dare speranza e coraggio ai detenuti e a chi opera per il loro reinserimento nella società. Ivrea (To): detenuti nel reparto di isolamento bruciano i materassi, 4 agenti intossicati La Presse, 29 settembre 2014 Venerdì sera, alle 22 circa, tre detenuti ristretti nel reparto isolamento della casa circondariale di Ivrea hanno incendiato i materassi provocando fumi nocivi che hanno intossicato 4 agenti di polizia penitenziaria. I poliziotti sono stati portati in ospedale con una prognosi che va dai 4 ai 12 giorni. A dichiararlo è Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, che spiega che i fumi hanno invaso le sezioni sovrastanti creando panico tra i detenuti e il malore di uno di loro, subito soccorso dagli agenti. Durante la concitazione un altro agente ha riportato la rottura di un piede ed è stato giudicato guaribile in 25 giorni. “È sempre solo grazie alla polizia penitenziaria - afferma Beneduci - che le gravi emergenze nelle carceri italiane non hanno esiti quasi mai infausti e sono sempre le donne e gli uomini del corpo a pagare lo scotto anche fisico del disastro penitenziario italiano”. Taranto: Fsn-Cisl, detenuto aggredisce due agenti, poliziotti guariranno in 10 e 15 giorni Ansa, 29 settembre 2014 Due poliziotti penitenziari sono stati aggrediti da un detenuto all’interno del carcere di Taranto. Lo rende noto Erasmo Stasolla, segretario generale aggiunto della Fns-Cisl ionica. Ad agire, secondo il sindacalista, è stato “un trentenne tossicodipendente con evidenti segni di squilibrio psichico”. Gli agenti hanno riportato lesioni giudicate guaribili in 10 e di 15 giorni. “Insistiamo - sottolinea Stasolla - nel riproporre la nostra vertenza riguardante almeno la conferma degli organici previsti, pari qui a 357 unità a fronte delle circa 310 esistenti attualmente. La media delle aggressioni ai colleghi continua a salire a Taranto, e noi continuiamo a chiedere all’Amministrazione penitenziaria che vengano presi i giusti provvedimenti per fermare questo stillicidio”. Il personale, aggiunge il segretario aggiunto della Fns Cisl, “è carente e con turni massacranti. Ciò determina situazioni di stress correlato ad assenze per malattia, senza tacere poi sui fatti che, a fronte della chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, tal genere di detenuti, per essere assistiti adeguatamente con servizi alla persona che ne salvaguardino la dignità, confluisce in strutture carcerarie idonee a livello regionale determinando, così, altre problematicità”. L’auspicio del sindacato “è che sia posta la parola fine ad episodi di aggressioni gratuite tanto dei detenuti costretti a vivere in situazione di sovraffollamento”. Velletri (Rm): poliziotto penitenziario aggredito da un detenuto, prognosi di sette giorni www.castellinews.it, 29 settembre 2014 “La Fns-Cisl Lazio esprime solidarietà nei confronti del Sovrintendente e chiede che il detenuto sia trasferito in altra sede”. “Apprendiamo dell’ennesima aggressione avvenuta a danno di personale di Polizia Penitenziaria presso l’Istituto Casa Circondariale di Velletri. Un detenuto italiano, di anni 38 anni - scrive Massimo Costantino, Segretario regionale della Fns Cisl - e in carcere per estorsione, rapina, minaccia e maltrattamenti in famiglia, uscito dalla cella, si è scagliato contro un Sovrintendente di Polizia Penitenziaria colpendolo con un pugno al braccio. Il poliziotto è stato visitato e ha avuto sette giorni di prognosi. Purtroppo nell’Istituto di Velletri non è il primo caso del genere. Per la Fns-Cisl in casi del genere la pena da applicare non può essere la più favorevole ma semmai quella massima affinché atteggiamenti del genere non possono più ripetersi. La Fns-Cisl Lazio esprime solidarietà nei confronti del Sovrintendente e chiede immediati provvedimenti atti a far si che detto detenuto sia trasferito in altra sede”. Roma: collaboratore eurodeputato Sel porta marijuana a un detenuto Adnkronos, 29 settembre 2014 Entrato a Regina Coeli in qualità di collaboratore di una europarlamentare in visita ispettiva nel carcere, è stato sorpreso mentre tentava di consegnare 1,30 grammi di marijuana a Nunzio D’Erme, detenuto nel penitenziario romano da venerdì scorso, quando è stato arrestato per i tafferugli avvenuti il 21 maggio negli uffici del VII Municipio. A raccontare l’episodio, risalente a ieri pomeriggio, è Massimo Costantino, segretario regionale Fns Cisl Lazio. L’uomo, poi denunciato, a quanto spiega Costantino, accompagnava l’eurodeputata Eleonora Forenza, che ha precisato di non sapere nulla della droga.Per la Fns Cisl occorre “rivedere l’accesso di tali collaboratori dei parlamentari poiché è inaccettabile che utilizzando il loro status possano approfittare di entrare in carcere e perpetrare un reato”. È un fatto gravissimo, aggiunge, che “non può accadere in luoghi di legalità, è inammissibile. La detenzione dovrebbe servire a rieducare”. Se in carcere con la lista Tsipras c’è un fantasma con la marijuana (Corriere della Sera) Un fantasma con la marijuana. “Non l’ho visto, non lo sapevo, e nemmeno lo conosco”. Una smentita politicamente “scorretta” quella dell’europarlamentare Eleonora Forenza, eletta nella lista L’Altra Europa con Tsipras, che ieri ha vissuto, da comprimaria, un momento “caldo” nel carcere di Regina Coeli. Quando un accompagnatore dell’europarlamentare, che però è risultato misteriosamente sconosciuto a tutti, ha cercato di passare un po’ di marijuana, un grammo e mezzo, a Nunzio D’Erme, esponente dei movimenti per la casa in cella da qualche giorno. Quando Tsipras ha fondato l’Altra Europa forse non immaginava che il concetto sarebbe stato esteso a Regina Coeli (L’Altra Regina Coeli) dove sarebbe stato possibile, nonostante la detenzione, ricevere il necessario per un po’ di spinelli. Forenza ha provveduto a colmare il deficit di intenzioni. Il suo “non so, non ho visto, non conosco” fa un po’ sorridere. Forse sarebbe stato meglio rivendicare l’atto “eversivo” e farlo diventare, in mancanza di meglio, una priorità della Lista, vista anche la mancanza evidente di iniziativa politica. Nella sua visita, Forenza era accompagnata da Giovanni Russo Spena, responsabile Giustizia di Rifondazione comunista e dal “collaboratore” fantasma che ha cercato di passare a D’Erme il necessario per qualche spinello. La manovra però non è sfuggita a un agente della penitenziaria che ha bloccato il tutto. Forenza ha fatto subito chiarezza: “Non sappiamo chi sia. Né io, né Russo Spena, né lo stesso D’Erme, sapevamo cosa avrebbe fatto quell’uomo. E non lavora con la mia segreteria. Anzi, non l’ho mai visto”. Che dire? Non è chiaro se Eleonora Forenza non sia in grado di scegliersi i “collaboratori”, sicuramente dovrebbe fare più attenzione ai “fantasmi”, specialmente a quelli con la marijuana. Savona: ceramica, inglese, disegno e teatro, al via i laboratori per i detenuti www.ivg.it, 29 settembre 2014 Oggi presso il carcere Sant’Agostino di Savona avranno inizio le attività del progetto "Passi Sospesi", promosso da Arcisolidarietà Savona, con il contributo della Fondazione Intesa San Paolo di Milano. Il progetto prevede la realizzazione di laboratori di ceramica, disegno, inglese e teatro dedicata agli ospiti della struttura penitenziaria e un servizio di mediazione culturale di area albanese e araba. Il rapporto tra Arcisolidarietà Savona e la Casa Circondariale di Savona è ormai consolidato: "I primi progetti comuni risalgono al 2009, per svilupparsi e rafforzarsi ogni anno di più. Essenziale, per le attività è la collaborazione con la Polizia Penitenziaria, che condivide e che contribuisce fattivamente alla buona realizzazione, con la Direzione della Casa Circondariale, con l’area trattamentale, con la quale vengono dall’inizio strutturati gli interventi" spiegano dall’associazione. "La struttura penitenziaria savonese ha la particolarità di ospitare parecchi detenuti in attesa di giudizio – commenta Marisa Ghersi direttore di Arcisolidarietà – con i quali sembrerebbe difficile creare una situazione formativa imporrante. Ma non è così". Le attività sono intese come opportunità di intraprendere percorsi di crescita e maturazione, sperimentando modalità di relazione più appropriate alla reclusione forzata attraverso un atteggiamento più attivo e critico circa la propria condizione e le proprie esperienze di vita. "Oltre che creare degli spazi nei quali le persone detenute possano avvicinarsi a esperienze inedite trovando il modo di evidenziare e far conoscere aspetti di sé spesso ignorati e non considerati, organizzare un laboratorio all’interno di un carcere vuol dire anche stimolare processi di riflessione che possono portare a modificare l’atteggiamento dei cittadini reclusi nei confronti delle istituzioni, con le quali spesso il rapporto è di totale sfiducia o comunque altamente conflittuale" concludono da Arcisolidarietà. Bolzano: "Musica oltre le sbarre", i musicisti del gruppo "The Lads" si esibiscono in carcere Alto Adige, 29 settembre 2014 Quarta edizione, oggi dalle ore 15, di "Musica oltre le sbarre", iniziativa dell’assessorato comunale alla cultura in favore dei detenuti della Casa circondariale di via Dante. I musicisti del gruppo "The Lads" si esibiranno in concerto per avvicinare la città alla popolazione carceraria e creare una sorta di legame con chi vive "al di là del muro". Così oggi pomeriggio chi si troverà a passeggiare sui prati del Talvera vicino al carcere avrà la possibilità di ascoltare il repertorio dei "The Lads", band di sei ragazzi, nata quasi per caso da una finale di Uplod spaziando tra rock acustico e folk rock. Bari: associazione “Il Borgo delle Arti”… da Gramsci al teatro, un progetto con i detenuti di Cinzia Debiase www.turiweb.it, 29 settembre 2014 Presentato in sala Giunta, nella mattinata di martedì 23 settembre, presso il Comune di Turi il progetto “Antonio Gramsci - Una capacità di pensiero in movimento”. L’iniziata, promossa dall’Associazione culturale “Il Borgo delle Arti” patrocinata e finanziata dalla Provincia di Bari - Assessorato alle Politiche Sociali, dal Comune di Turi, e dall’Aics, Associazione Italiana Cultura e Sport, apre le porte del famoso carcere turese per raccontare, attraverso il progetto, il mondo dei detenuti, con uno sguardo molto particolare. “Il laboratorio video cinematografico - come ha esposto il regista, autore e presidente dell’Associazione culturale “Il Borgo delle Arti”, Pino Cacace - coinvolgerà circa una ventina di detenuti”, ognuno impegnato nei diversi ruoli che una messa in scena richiede. Ecco che dalla fine di questo settembre e per circa quattro mesi, la Casa di Reclusione di Turi sarà teatro di preparazione e formazione di detenuti che indosseranno i panni di attori, scenografi, costumisti e di tutto quello che richiederà la produzione del corto. L’obiettivo, come ha presentato il regista e rimarcato la Direttrice della Casa di Reclusione, Maria Teresa Susca è - “potenziare le capacità espressive dei detenuti, sviluppare le capacità di collaborazione con gli altri, migliorare il rapporto tra gli stessi e gli operatori e approfondire e diffondere temi storici e politici attraverso la conoscenza della figura di Antonio Gramsci”. Ed è proprio a lui e da lui che parte l’idea del progetto, e il Carcere di Turi si dimostra sede ottimale per realizzarlo. “Non sola sede di detenzione definitiva - dichiara Cacace - ma anche struttura che ha fornito spunto a Gramsci per i suoi Quaderni”. Il pensatore sardo qui, infatti, ne iniziò la stesura l’8 febbraio 1929 e durante tutto il suo periodo detentivo Gramsci lavorò alla scrittura di ben 33 quaderni (non tutti compiuti però) dal febbraio 1929 all’agosto 1935. “Tale iniziativa - ha affermato Giuseppe Quarto, assessore provinciale ai “Servizi alla persona, problematiche socio-assistenziali e volontariato” - è un’altra dimostrazione dell’impegno e della sensibilità messa in atto dall’Amministrazione nei confronti delle fasce più deboli della società, in questo caso dei detenuti, ma soprattutto una testimonianza umana e cristiana nei confronti degli stessi per un loro reinserimento sociale e lavorativo”. Dalla difficoltà di reperimento di finanziamenti utili a realizzare i progetti - prima finanziati dal Ministero -alla sensibilità dimostrata dalla Provincia e dal Comune di Turi, la Direttrice della Casa di Reclusione si dimostra soddisfatta di questa opportunità di comunicazione e di avvicinamento degli Enti e della popolazione alle tematiche e alla vita sociale all’interno del carcere. Di pari entusiasmo le parole del sindaco di Turi, Menino Coppi che, a nome dell’intera comunità, patrocinando il progetto spera di “avviare quel processo che porti a superare la distanza tra la cittadina e la vita carceraria”, spesso non vista, volutamente emarginata. “Ci auguriamo che questo progetto - che ricordiamo avrà spessore nazionale perché inserito nel circuito ‘Teatro in Carcerè - sia solo l’inizio di una più vasta relazione che magari, e ci auguriamo, possa permettere anche ai detenuti di operare in lavori socialmente utili per la stessa cittadina” - ha concluso salutando il sindaco Coppi. Milano: convegno su “Dei delitti e delle pene” di Beccaria a 250 anni da pubblicazione Adnkronos, 29 settembre 2014 A 250 anni dalla pubblicazione di “Dei delitti e delle pene” dell’illuminista italiano Cesare Beccaria, Università Statale di Milano, Scuola Superiore della Magistratura e Fondazione Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale (Ccpds) promuovono un convegno internazionale che si terrà venerdì 3 ottobre, presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Milano. A raccontare la “grandezza” e la “modernità” dell’opera e del pensiero di Beccaria ci penseranno studiosi, magistrati e rappresentanti politici, attraverso il confronto su temi come pena capitale e relativa moratoria, tortura ed ergastolo, con un focus storico anche sui profondi cambiamenti affrontati dalla scienza penale dopo la pubblicazione del saggio del giurista milanese nel 1764. Nel corso della giornata si terrà anche la consegna della medaglia “Cesare Beccaria” in memoria di Adolfo Beria di Argentine alla Fondazione Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale. Aprono i lavori Giovanni Canzio, presidente della Corte d’Appello di Milano, il rettore Gianluca Vago, Livia Pomodoro, presidente della Fondazione Cnpds e del Tribunale di Milano, Giuliano Pisapia, sindaco di Milano, Paolo Giuggioli, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano e José Luis de la Cuesta, presidente dell’Associazione internazionale di diritto penale. Gli interventi saranno in italiano, francese e spagnolo con traduzione simultanea. Cinema: nel film “La buca” di Daniele Ciprì un avvocato truffaldino ed un ex detenuto recensione di Mauro Guidi www.lettera43.it, 29 settembre 2014 Una trama semplice, dove tre sono gli interpreti principali, una cane simpaticissimo ed espressivo, un avvocato truffaldino ed iperattivo ed un ex detenuto che ha scontato 27 anni di carcere per un delitto che non ha commesso. Ma - qua sta la novità e contemporaneità problematica: la denuncia di una giustizia italiana che è, forse, il motivo dominante e unificante delle esigenze e destini di questi due bravissimi interpreti del film. Sergio Castellitto è l’avvocato che ricorda molto da vicino l’atteggiamento di molti professionisti nostrani e Rocco Papaleo è l’ex detenuto alla disperata ricerca di una giustizia che non ha mai avuto. Tra esilaranti gag, tipo il morso ad una gamba che l’avvocato dice fraudolentemente di avere ricevuto dal cane per spillare un risarcimento al povero ex detenuto, oppure la sua ostinata dedizione a mettere in atto un incidente provocato da una buca nell’asfalto stradale e da un mezzo pubblico a scapito di un finto invalido in carrozzella nella speranza di ottenere improbabili risarcimenti, il film analizza e sottolinea con ironia e sagacia il comportamento poco professionale di giudici, altri avvocati ed un medico disposto a dichiarare false diagnosi. A questo punto è ovvio che nasce nello spettatore, divertito ma anche incuriosito, il dubbio che questo film sia una vera e propria denuncia per il sistema giudiziario italiano. Quando l’avvocato, cerca con il consenso interessato dei familiari, di riaprire il processo dell’ex detenuto per cercare di ottenere un grande risarcimento, una volta avuto il riconoscimento di innocenza, si delineano oltre al malcostume anche tracce consistenti di buoni sentimenti espressi prima di tutto dal condannato che grida con dignità e disinteresse la propria innocenza , dal cane che dimostra affetto smisurato e dalla barista interpretata da Valeria Bruni Tedeschi ( sorella di Carla Bruni) che esprime buon senso, tolleranza e carità cristiana nella sua semplicità con cui comprende e cerca di aiutare affettuosamente il povero ex detenuto senza voltare del tutto le spalle all’avvocato che forse in altri tempi ha amato. Ottima la regia che da brio e ritmi giusti a vicende dove si alternano molti attori tra i quali si ergono Castellitto e Papaleo che riescono a caratterizzare due personaggi intorno ai quali ruota la storia che sembra sottolineare un dibattito serrato già presente da tempo nell’opinione pubblica ed ora, finalmente, anche nella classe politica. Guarda caso in questi giorni cosa stanno chiedendo a gran voce il Presidente Napolitano ed il Primo Ministro Renzi: una riforma della giustizia in Italia! Perché quella attuale sembra sprofondata in fondo ad una “buca”. Regia: Daniele Ciprì. Con: Sergio Castellitto - Rocco Papaleo - Valeria Bruni Tedeschi - Jacopo Cullin - Ivan Franek - Teco Celio - Sonia Gessner - Lucia Ocone - Giovanni Esposito - Fabio Camilli - Carlo de Ruggeri - Fabrizio Falco - Barbara Chiesa - Silvana Bosi - Emmanuel Dabone. Anno: 2014. Nelle sale italiane da giovedì 25 settembre 2014. Cina: l’intervista al leader di Occupy “pronti al carcere per la democrazia…” di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 29 settembre 2014 In sottofondo si sentono urla e scoppi. Al telefono da Hong Kong il dottor Chan Kin-man, professore di sociologia e cofondatore di Occupy Central, risponde di fretta. Che cosa farete ora che la polizia usa la forza? Vi ritirerete o resterete in piazza? “Noi manifestiamo contro gli ordini del governo centrale di Pechino, quindi siamo pronti ad essere arrestati. Siamo professori, intellettuali, bravi cittadini, siamo consapevoli che quello che stiamo facendo, anche se è pacifico, è illegale. E se ci arresteranno non ci faremo difendere da avvocati. Noi, bloccando il centro violiamo la legge, ma lo facciamo per suscitare la consapevolezza, la discussione della gente, la loro simpatia”. Non sarebbe meglio accettare il suffragio universale che Pechino vi ha proposto? In Cina il principio un uomo un voto era sconosciuto. “Non c’è significato perché è il partito che decide chi può essere candidato. Noi non vogliamo un voto “con caratteristiche cinesi”. Il punto è che Pechino aveva promesso il suffragio universale, e questa formula ha un significato internazionale e regole internazionali. Quindi noi non possiamo accettare che la promessa non venga rispettata”. Avete contro di voi tutta la business community di Hong Kong, preoccupata che l’instabilità distrugga il miracolo economico della piazza finanziaria. “La comunità degli affari di qui dipende dalla Cina continentale, per questo dà sempre ragione a Pechino. Ma se si creasse instabilità, la causa sarebbe Pechino, perché un autentico suffragio universale avrebbe portato a una grande conciliazione tra le parti. Basterebbe ascoltarci per evitare le proteste ed è chiaro che queste manifestazioni porteranno danni maggiori all’economia”. Sudan: ex condannata per apostasia Meriam Ibrahim dagli Usa si batterà per vittime Ansa, 29 settembre 2014 Meriam Ibrahim, la donna sudanese che grazie ad una campagna internazionale e all’intervento del governo italiano è stata salvata dall’impiccagione per apostasia, ha annunciato che intende battersi in favore di altre vittime di persecuzione religiosa nel suo paese. “Ci sono altri che, in Sudan, sono in condizioni peggiori di quelle in cui ero io”, ha detto Ibrahim parlando alla Bbc negli Usa, dove sta chiedendo asilo. La donna ha detto di sperare di poter tornare in Sudan, un giorno. “Il giudice mi diceva che era necessario che mi convertissi all’islam”, ha rievocato la Meriam, figlia di un musulmano, ma cresciuta come cristiana dalla madre e sposa di un uomo della stessa religione invisa alle autorità sudanesi: una situazione che aveva portato alla condanna per abbandono della religione islamica. “Questi avvertimenti” del giudice “mi fecero capire che sarei stata condannata a morte”, ha raccontato ancora Ibrahim come riferisce il sito della Bbc. “È triste - ha detto ancora - ma tutto ciò è avvenuto nell’ambito della legge: invece di proteggere la gente, la legge la danneggia”. La condanna della donna, divenuta madre di una bambina in carcere, aveva suscitato proteste a livello internazionali fino alla scarcerazione, avvenuta in giugno. La donna giunse in Italia con un aereo di stato dove fu accolta dal premier Matteo Renzi e del ministro degli esteri Federica Mogherini ed ebbe un incontro con il papa Francesco prima di partire per gli Stati Uniti. La Bbc segnala che sabato la donna ha ricevuto un premio di una fondazione cristiano-evangelica statunitense che ha voluto esaltare il suo coraggio e sottolineare come la sua condanna sia stato un attacco ai propri valori.