Giustizia: sovraffollamento delle carceri, niente più ricorsi a Strasburgo di Damiano Aliprandi Il Garantista, 28 settembre 2014 Secondo la Corte dei diritti dell’uomo ora è possibile fare denuncia al magistrato di sorveglianza. Ma la verità è un’altra La Corte europea dei diritti dell’uomo ha deciso di respingere 19 ricorsi presentati da altrettanti detenuti contro il sovraffollamento delle carceri dopo che l’Italia ha adottato lo scorso giugno il decreto legge sul "rimedio compensativo". E non solo. I giudici internazionali hanno deciso di bloccare l’esame di 3.500 ricorsi già pendenti. La corte europea sostiene che il detenuto, prima di fare ricorso all’Europa, ora ha la possibilità di chiedere il risarcimento per il trattamento inumano e degradante esponendo denuncia al magistrato di sorveglianza competente. Solo nel caso che la denuncia non venisse accolta, il detenuto, allora potrà rivalersi alla corte internazionale. La sentenza di oggi indica come l’Italia sia riuscita a convincere i giudici di Strasburgo sull’efficacia e la congruità delle misure messe in atto per fronteggiare il fenomeno del sovraffollamento. Il rigetto dei due ricorsi è infatti dovuto al fatto che la Corte, dopo aver analizzato le leggi introdotte nell’arco dell’ultimo anno, ha deciso non solo che il rischio di sovraffollamento nelle carceri italiane stia diminuendo, ma anche che chi dovesse subirne gli effetti può ora ottenere giustizia direttamente in Italia. E, bloccando l’esame degli altri ricorsi, ha fatto intendere che questo vale anche per chi si è rivolto a Strasburgo prima che passasse il decreto legge risarcitorio. Questa nuova sentenza, in pratica, ha creato sia vantaggio economico perché gli eventuali risarcimenti sono di gran lunga inferiore rispetto a quello che avrebbe chiesto la corte europea, sia un vantaggio di facciata perché ora il ministro Orlando potrà dire che l’Italia non è più sotto osservazione speciale. La realtà, però, è un’altra e lo ha spiegato Desi Bruno, la garante dei detenuti della regione emiliana al "festival del diritto" organizzato a Piacenza. "Stanno già fioccando le pronunce di irricevibilità da parte dei giudici di sorveglianza che non accettano i ricorsi dei detenuti - spiega Desi Bruno - la procedura è farraginosa e noi garanti abbiamo seri dubbi sul fatto che gli otto euro previsti per chi è già uscito di prigione per o un giorno di sconto di pena per chi si trova ancora in stato di detenzione siano un risarcimento sufficiente". Anche per il sostituto procuratore nazionale antimafia Filippo Spiezia, a Piacenza per partecipare al confronto su diritto penale ed Europa, quanto fatto dall’Italia per i detenuti è solo una soluzione tampone per evitare le sanzioni di Strasburgo. "Credo che il legislatore sia consapevole di aver risposto all’urgenza - sottolinea Spiezia - il problema del sistema penitenziario, che era e resta criminologico, richiede interventi più strutturali". Per adesso, rispetto alle centinaia di denunce esposte dai detenuti per le condizioni di "tortura", solo uno di loro ha ottenuto il risarcimento. È il caso del detenuto albanese ristretto nel carcere di Padova, rimasto in carcere per 600 giorni in condizioni di sovraffollamento eccessivo: il minimo, secondo la nuova legge, sono tre metri quadrati di spazio per ogni carcerato. Oltre al risarcimento, il detenuto ha ricevuto lo sconto di dieci giorni di pena sui 100 che gli restavano da scontare. Non è mancata la critica di Massimo Bitonci, sindaco di Padova "in camicia verde", il quale chiede al ministro della Giustizia Andrea Orlando di spiegare perché "con le loro tasse i cittadini debbano pagare la buonuscita di un criminale". Non è mancata la risposta di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, il quale accusa il sindaco di non conoscere minimamente i diritti umani e la sentenza della Corte Europea dei diritti. "L’Italia ha per anni maltrattato i propri detenuti - spiega Gonnella.- e il risarcimento è d’obbligo perché lo prevede la legge e perché, suo malgrado, siamo in Europa". Il presidente di Antigone prosegue ricordando che "d’altronde le colpe hanno nomi precisi molti dei quali leghisti: una menzione la meritano Bossi, la cui legge sull’immigrazione ha riempito le carceri". Poi conclude: "Castelli, negli anni in cui era Ministro, ha lasciato il sistema penitenziario nel degrado totale, La Corte dei Conti dovrebbe rivalersi su di loro". Giustizia: soldi dei Servizi segreti a otto padrini della mafia per avere soffiate sulle cosche di Salvo Palazzolo La Repubblica, 28 settembre 2014 Ecco il "Protocollo farfalla" desecretato. E al processo trattativa Stato-Mafia Riina chiede di essere presente alla deposizione di Napolitano. I servizi di sicurezza hanno offerto laute ricompense a otto autorevoli padrini di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra rinchiusi al 41 bis, per cercare di ottenere informazioni. Eccolo, il segreto che per dieci anni è stato custodito dentro un documento di sei pagine chiamato "Protocollo Farfalla". Un segreto di Stato ai vertici dell’antimafia, sottoscritto nel 2004 dai vertici dell’allora Sisde e del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nei giorni scorsi il protocollo servizi-carceri è stato declassificato dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, e oggi Repubblica è in grado di svelarne il contenuto più riservato. "Farfalla" non è stato soltanto un accordo per consentire uno scambio d’informazioni più veloce fra 007 e operatori penitenziari. Il protocollo Farfalla ha previsto la stipula di un patto riservatissimo con gli irriducibili delle mafie. Tanti soldi in cambio di informazioni sui segreti del crimine organizzato in Italia. Soldi provenienti dai fondi riservati dei Servizi. In fondo, a questo dovrebbero servire: come ricompensa per le notizie ottenute da confidenti d’eccezione. Nel protocollo, lo erano davvero d’eccezione. Anche troppo. Sono stati contattati Cristoforo Cannella, uno dei sicari della strage Borsellino, e altri nomi di primo piano di Cosa nostra: i palermitani Vincenzo Buccafusca e Salvatore Rinella, il catanese Giuseppe Maria Di Giacomo. Gli 007 si sono presentati anche nelle celle del camorrista Modestino Genovese e dello ‘ndranghetista Antonino Pelle. Ora, sul protocollo Farfalla indagano i pm dell’inchiesta trattativa Stato-mafia, e anche la commissione antimafia. Perché tante sono le domande ancora senza risposta: i servizi segreti hanno mai pagato uno degli assassini di Borsellino o qualche altro capomafia al 41 bis? Per quali rivelazioni? Domande pesanti, anche perché sulle indagini per la strage Borsellino c’è l’ombra del depistaggio costruito con tante informazioni fasulle. "Farfalla" è uno degli snodi del processo d’appello al generale Mario Mori, l’ex direttore del Sisde che avviò l’operazione, assolto in primo grado dall’accusa di aver favorito la latitanza di Provenzano. In aula, il pg Roberto Scarpinato e il sostituto Luigi Patronaggio hanno chiesto di riaprire il caso: "Il punto critico del protocollo è la mancanza di un controllo di legalità da parte della magistratura". È pesantissimo il giudizio della procura generale sull’ex direttore del Sisde: "Ha disatteso i suoi doveri istituzionali". "Farfalla" è uno dei cinque capitoli del nuovo atto d’accusa. La ricostruzione di Scarpinato parte dagli anni 70, quando Mori era al servizio segreto Sid; arriva agli anni ‘90, quando i Ros avrebbero fatto scappare il boss Nitto Santapaola ("Abbiamo trovato una relazione di servizio falsa", accusa il pg). "Il modus operandi di Mori è stato sempre da appartenente a strutture segrete", accusa Scarpinato. Insorgono i legali di Mori, Basilio Milio ed Enzo Musco: "È un tentativo di rivisitare la storia d’Italia". Giustizia: Protocollo Farfalla; nuove accuse al generale Mori, ex capo del Sisde Affari Italiani, 28 settembre 2014 Il boss di Brancaccio Fifetto Cannella, Vincenzo Boccafusca, Salvatore Trinella. Sono alcuni dei pezzi grossi della mafia che rientrano negli accordi segreti del Protocollo Farfalla. Dopo il ritrovamento di qualche giorno fa, ecco la conferma: il pg Scarpinato chiede di acquisire agli atti il fantomatico documento nel processo d’appello contro Mori che avrebbe ottenuto informazioni da detenuti al 41 bis in cambio di denaro. Informazioni dai detenuti al 41 bis, in rapporto di "esclusività e riservatezza" e "a fronte di idoneo pagamento da definire": è il Protocollo Farfalla, che per il pg del processo d’appello al generale Mori, assolto in primo grado, ne proverebbe l’attività "opaca e occulta" quando era capo del Sisde. Una decina i mafiosi "preindividuati" che dovevano riferire esclusivamente ai servizi dietro pagamento di denaro. Tra questi il boss di Brancaccio Fifetto Cannella, il padrino Vincenzo Boccafusca e Salvatore Trinella. E poi i camorristi Antonio Angelino e Massimo Clemente e lo ‘ndraghetista Angelo Antonio Pelle Mori, una lunga carriera nel Sismi prima e poi nei servizi civili, impegnato nel contrasto alla mafia è accusato di slealtà verso lo Stato. Il Pg gli contesta di aver agito in modo "autonomo e segreto", tagliando fuori la magistratura "unico organismo preposto alla gestione dei collaboratori di giustizia". "La commissione nazionale Antimafia, da quando si è costituita, ha dedicato molte audizioni al tema del Protocollo Farfalla, ne ha chiesto la desecretazione, l’ha ottenuta e oggi questo è un documento intorno al quale continueremo a fare i nostri approfondimenti". Così al Gr1 Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare Antimafia. Bindi annuncia l’aduzione la prossima settimana del "procuratore generale Scarpinato, sarà un’occasione per fare ulteriore chiarezza. Torneremo anche a sentire i vertici dei servizi". Riemergono vecchie ombre inquietanti sulle indagini della Procura di Palermo. Aperto un fascicolo su Sergio Flamia, l’ex boss di Bagherìa. Sono emersi rapporti sotterranei tra Flamia e i Servizi Segreti. Come riporta Repubblica, Flamia "ha ammesso di avere preso soldi dagli 007, circa 150 mila euro. Ha raccontato di essersi consultato con loro in un momento determinante della sua carriera criminale, la "punciuta" rituale. In quell’occasione, un esponente dell’intelligence lo avrebbe invitato ad intensificare la sua partecipazione in Cosa nostra" e "persino dopo l’inizio della sua collaborazione con i magistrati. Un episodio strano, perché durante i sei mesi previsti dalla legge per le dichiarazioni del neo pentito, solo la magistratura può avere contatti con i mafiosi che decidono di passare dalla parte dello Stato". Il sospetto è Flamia sia stato utilizzato per screditare il testimone cardine sulla vicenda della trattativa, vale a dire Luigi Ilardo. Si tratta di un vecchio gioco, quello del pentito ammaestrato in grado di screditare testimoni e depistare indagini. Ammaestrati da Cosa Nostra e, talvolta, persino dai Servizi. E la grande, grandissima novità, è che il "Protocollo farfalla" non è più un protocollo fantasma. La Procura di Palermo, che ha aperto un’inchiesta, ha rinvenuto il documento che conterrebbe un accordo tra il Sisde e il Dap (Dipartimento per gli affari penitenziari), che risalirebbe al 2004, attraverso cui i servizi di sicurezza potevano "operare" in segreto all’interno delle carceri senza alcun tipo di autorizzazione formale. Del "protocollo" si è sempre parlato, fino ad ora però si è trattato solo di voci. Ma i magistrati della Procura di Palermo che indagano sulla trattativa tra Stato e mafia sono riusciti a scovare a Roma il documento acquisendolo al fascicolo. L’indagine condotta dai pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene ha preso spunto dai contatti tra i servizi segreti e il collaboratore di giustizia Sergio Flamia, contatti "ammessi" dallo stesso pentito. Le dichiarazioni sono state trasmesse alla Procura generale per essere inserite nel dibattimento d’appello contro il generale dei carabinieri Mario Mori, accusato di favoreggiamento per la mancata cattura di Provenzano (ma assolto in primo grado). A sollecitare alla Procura la nuova indagine è stato il procuratore generale Roberto Scarpinato che, assieme al sostituto Luigi Patronaggio, sostiene l’accusa contro Mori. I pm stanno indagando a 360 gradi: dal caso Flamia, al ‘Protocollo farfallà alle dichiarazioni fiume di Totò Riina al suo compagno Alberto Lorusso, detenuto al 41 bis, eppure informato di molti fatti con cui spesso sollecita la memoria dell’anziano boss corleonese. Il documento di cui i magistrati sono entrati in possesso non è stato sottoscritto. Sarebbe datato 2004: all’epoca il Dap era guidato da Giovanni Tinebra (dal 1992 al 2001 capo della procura di Caltanissetta che seguì le indagini sulle stragi del 1992; attuale Pg a Catania) mentre Mori era al vertice del Sisde, il servizio segreto civile. Successivamente - dal 2007 - furono introdotte alcune norme per "regolamentare" l’attività degli 007 nelle carceri imponendo, ad esempio per i colloqui con i detenuti, l’autorizzazione da parte della presidenza del consiglio. Ma, a quanto pare, grazie al "Protocollo farfalla", almeno per il caso Flamia, le norme sarebbero state aggirate. Nei primi giorni di settembre il Pg Scarpinato ha ricevuto una lettera di minacce, poggiata sul tavolo del suo ufficio, al primo piano, del piano di giustizia, uno dei palazzi più blindati d’Italia, ma in cui, "ignoti" e ben informati sarebbero penetrati, approfittando di alcune "falle" della sicurezza. Un "invito a fermarsi", diretto a Scarpinato che arriva proprio mentre i magistrati indagano sui rapporti tra servizi segreti, mafia, massoneria e terrorismo nero. Fava (Led): vertici servizi hanno mentito su Protocollo farfalla "I vertici dei servizi di sicurezza hanno clamorosamente mentito alla Commissione Antimafia, e, ciò che è più grave, hanno mentito nel corso di audizioni segrete, negando l’esistenza del Protocollo farfalla, di cui oggi abbiamo ogni evidenza, dopo la scelta del capo del governo di toglie il segreto di stato". Lo afferma il deputato di Libertà e Diritti Claudio Fava, vicepresidente della commissione Antimafia. Fava afferma di avere più volte insistito, nel corso delle audizioni, sul contenuto di questo protocollo, vale a dire l’accordo attraverso il quale Servizi e Dap avrebbero avuto accesso riservato a informazioni sui detenuti, eludendo il controllo della magistratura. Un protocollo "che legava in modo opaco l’attività dei servizi ad alcuni detenuti in regime di 41 bis - spiega il vicepresidente della Commissione Antimafia. A domande puntuali semmai questi rapporti vi fossero stati, con chi e su quali argomenti, le risposte dei direttori del Dis e dell’Aisi sono state sempre negative". "Mentire alla Commissione Antimafia è grave - conclude Fava - mentire su un tema sensibile come questo, che allude anche alla possibilità di depistaggio in alcune inchieste di mafia, più che grave è inammissibile". Giustizia: la rozza aggressione del pm De Matteo contro Ciriaco De Mita di Piero Sansonetti Il Garantista, 28 settembre 2014 Ho ascoltato per caso la deposizione di Ciriaco De Mita - come testimone - nel corso del famoso processo Stato-mafia. I toni di questo interrogatorio mi hanno un po’ impaurito e molto indignato, Rispondeva alle domande un signore dì più di 85 anni, un intellettuale meridionale che per un lungo periodo ha servito con impegno e dignità il nostro paese - guidandone il governo. E guidando il partito di maggioranza, e ricoprendo varie volte l’incarico di ministro - e che è stato uno dei massimi personaggi della sua generazione, Poneva le domande un magistrato più o meno cinquantenne. Le domande vertevano sulla storia politica dell’Italia, in particolare sull’anno 1992. De Mita è stato un protagonista assoluto di questa storia e di quegli anni. La conosce benissimo. Il magistrato che l’ha interrogato no, e anzi dava l’impressione di non conoscere benissimo né la storia della repubblica né quei primi anni novanta. L’oggetto dell’interrogatorio era il modo nel quale si formò il governo Amato, nell’estate del 1992, dopo l’esplosione di Tangentopoli e l’uccisione di Giovanni Falcone, (fatti che probabilmente non sono da mettere in collegamento, ma che coincisero nei tempi). De Mita non era imputato. Testimoniava. Il giovane procuratore De Matteo a un certo momento ha iniziato a rimproveralo, in modo minaccioso e intimidatorio, imponendogli di non alzare la voce. "Non si permetta - gridava, come uno sbirro asburgico - non sì permetta, abbassi la voce...". Il Presidente del tribunale credo che fosse molto imbarazzato, e però non ha imposto al Pm di sospendere la sua aggressione verbale. In un tribunale americano - ho pensato - il prosecutor non l’avrebbe passata liscia. Io non ho mai avuto simpatia per Ciriaco De Mita. Quando era al potere e l’intero giornalismo italiano -gran parte del quale è ancora in auge e dirige svariati giornali amici dì De Matteo - era letteralmente ai suoi piedi, mi sono sempre tenuto lontano. (Mi ricordo una volta che lui cercò di cacciarmi da un a sua conferenza stampa, minacciando di interromperla se io non me ne andavo, perché avevo scritto un articolo nel quale lo prendevo in giro, e io non me ne andai, e lui la interruppe...). L’altra sera però ho sentito il sangue ribollire. Come può un giovanotto al quale è stata assegnata la procura di Palermo avere una così grande rozzezza e arroganza, e non avvertire il minimo di rispetto per un intellettuale di 85 anni, o anche - se succedesse - per un operaio, o un contadino, o un geometra di 85 armi? Come può, senza vergognarsi, usare quelle parole, quei toni, quella strabordante arroganza? Ma cosa ha insegnato al piccolo De Matteo, la sua mamma? A un certo momento dell’interrogatorio, De Mita, citando un precedente interrogatorio, lo ha definito "conversazione". Ha detto: "Ebbi una conversazione molto piacevole con il dottor Ingroia". De Matteo gli ha dato sulla voce, alzando la sua: "Non era una conversazione, onorevole De Mitra, era un interrogatorio!". Roba che nemmeno un questurino al tempo del fascismo. La perla, secondo me, sono state le domande sul perché nel giugno del ‘92 la Dc avesse deciso che ci fosse incompatibilità tra incarichi ministeriali e mandato parlamentare, De Matteo, stupito e con l’aria di quello che ti ha colto in fallo, chiede malizioso a De Mita: "Mi vuol spiegare per quale motivo - visto che Scotti, nel precedente governo Andreotti, era sia ministro che deputato - all’improvviso, a metà giugno, si pone la questione dell’incompatibilità?" Ora, io dico, va bene che un magistrato si occupi del suo processo e studi solo i fatti attinenti al suo processo, però in fondo potrebbe anche informarsi un pochino su cosa successe nel ‘92, e cioè nell’anno sul quale indaga, e qualcuno avrebbe potuto avvertirlo, prima della "conversazione" con De Mita, che in quella tarda primavera del 1992 era esplosa Tangentopoli, e tutti i partiti si erano precipitati ad assumere iniziative - come dire? - anti-casta... Al di là di tutte queste considerazioni, un po’ letterarie, e che in fondo mettono in discussione solo l’aspetto "estetico" del processo, c’è un’altra domanda da fare: ma su quale base la magistratura decide di poter indagare sui criteri con i quali è stato formato un governo? Voglio dire: abbiamo stabilito che la politica non ha nessun diritto, non dico di autonomia, ma almeno di "autodeterminazione?. Pare che ormai sia così. Se vuoi fare un governo è bene che prima chiedi ai giudici, perché sta a loro decidere se agli Interni deve andare Scotti o Mancino. È questa la cosa più preoccupante. Perché qui l’arroganza della magistratura non è più estetica, ma giuridica. Su cosa indagava De Matteo, mentre interrogava De Mita? Aveva letto la Costituzione (e la legge dell’epoca) che rendeva Fon De Mita, in quanto deputato, del tutto impunibile - e dunque insindacabile - per le scelte compiute e le azioni realizzate nell’esercizio del suo mandato parlamentare, e quindi anche al momento delle trattative per la formazione del nuovo governo? Non so se sono io che esagero. A me sembra davvero che ci siano tutti i presupposti per lo Stato di polizia. Non credo che nessuno risponderà a queste mie domande, perché anche gran parte di quelli che sono d’accordo con me hanno una fifa blu. Nessuno osa esporsi. Tutti sono terrorizzati dai magistrati. La mia piena solidarietà, comunque, e il mio affetto verso (l’insopportabile ma rispettabilissimo...) Ciriaco de Mita. Giustizia: cinque mesi in prigione per il furto di dieci euro, risarcito cittadino romeno di Antonio Alizzi Il Garantista, 28 settembre 2014 L’ennesimo errore giudiziario, devastante. L’ennesima dimostrazione tangibile delle contraddizioni quotidiane che segnano il corso di una giustizia troppo spesso… ingiusta. La storia di Ioan Lacatus, rumeno domiciliato a Cosenza, in Calabria, può essere assunta a modello delle anomalie giuridiche - e non solo - dell’ordinamento giudiziario italiano. La sintesi, prima di tutto: l’uomo si fa 5 mesi di galera per un presunto furto ai danni di un disabile di una banconota da 10 euro. E lo Stato, che si accorge soltanto anni dopo di avere commesso una clamorosa svista, è costretto a correre ai ripari, disponendo un risarcimento per ingiusta detenzione del valore di 33mila euro circa. I fatti. Lacatus, nato il 12 luglio del 1964 a Reteag, in Romania, viene arrestato il 4 febbraio del 2009 con l’accusa di aver commesso in concorso una rapina. Un reato che secondo la Procura cosentina, il cui titolare delle indagini all’epoca dei fatti era il pm Giuseppe Visconti, commise, istigando i due figli minori S. L. e A. B. e un tale V. F. S., cioè persone non imputabili, a "derubare" la parte offesa che in un secondo momento, a seguito degli accertamenti svolti e dalle informazioni assunte dai carabinieri di Cosenza si scoprì affetto da problemi "di natura neuro-psichica sin dalla nascita, tant’è vero - scrisse l’avvocato del foro di Cosenza, Michelangelo Russo, difensore di Lacatus, nell’istanza di riparazione per ingiusta detenzione - che risulta invalido al 100%". Innocente. Insomma, Ioan fu sfortunato ad essere ritenuto compartecipe dell’azione criminale, che inizialmente comportò ben 144 giorni (cinque mesi e quattro giorni) di custodia cautelare, privandolo della libertà personale. Ma prima i giudici del Tribunale di Cosenza, l’8 luglio 2009, sentenza di primo grado, e poi la Corte d’Appello di Catanzaro (prima sezione penale), il 23 maggio 2012, lo scagionarono per "non aver commesso il fatto". Che i magistrati (ad eccezione della Procura generale che a suo tempo invocò l’assoluzione, oltre alla difesa) avessero sbagliato a valutare il caso in questione, il legale Russo cercò di farlo capire attraverso le dichiarazioni di tre testi, L. L., A. D. T., e G. M. T., che furono "ignorate" dal Tribunale del Riesame. "L’autorità giudiziaria procedente non ha ritenuto di revocare, o quantomeno sostituire, la misura cautelare in carcere in presenza di elementi prognostici positivi quale il decorso del tempo, la disponibilità di una abitazione, il legame con il territorio italiano e la presenza della famiglia in Italia". In poche parole, avrebbe potuto affrontare il processo a piede libero senza far spendere ulteriore denaro allo Stato. Secondo l’avvocato Russo c’erano i presupposti per un risarcimento per danno materiali e morali, e così nel 2013 chiese alla Corte di Appello di Catanzaro di pronunciarsi sull’istanza di ingiusta detenzione, "determinando il quantum a titolo di risarcimento, da liquidarsi, giusto criterio aritmetico di calcolo in materia, in misura non inferiore a 36.316,28 euro o, in quell’altra misura che, anche in via equitativa, verrà ritenuta di Giustizia". E giustizia arrivò lo scorso 4 aprile quando il presidente del Collegio Alessandro Bravin, chiamato a discutere del ricorso presentato in favore di Ioan Lacatus, decise di accogliere la domanda, riconoscendo al romeno il diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione sofferta, determinando l’ammontare della somma, quantificata in base al coefficiente pari a 235.87 euro per i 144 giorni passati dietro le sbarre, in 33.965,28 euro. "Un’ingiustizia sostanziale rispetto ad una accusa rivelatasi successivamente infondata", rilevò il presidente della prima sezione penale, richiamando nel provvedimento adottato anche due sentenze della Corte Suprema di Cassazione: quella del 10 agosto 2005, a firma del giudice Bruzzano, e quella dell’11 luglio 2007, a firma del giudice Bevilacqua. Dunque si applicò il principio del quantum debeatur secondo cui "la riparazione deve essere determinata, essenzialmente, considerato la durata, le caratteristiche della privazione della libertà personale e le conseguenze personali e familiari derivanti da tale privazione", espresso dalla Cassazione in una sentenza del 13 gennaio 1995. Lazio: il Garante; non curato dopo una caduta, detenuto rischia di perdere uso gambe Il Velino, 28 settembre 2014 Ormai da cinque mesi viene trasferito, senza costrutto da una struttura carceraria all’altra della Regione Lazio nella vana attesa di iniziare un ciclo di fisioterapia che potrebbe salvargli l’uso delle gambe, oggi gravemente compromesso. Protagonista della vicenda, denunciata dal Garante dei detenuti Angiolo Marroni, un detenuto italiano di 46 anni, Claudio B. "Una vicenda surreale - ha commentato Marroni - a metà strada fra malasanità ed eccesso di ottusa burocrazia. Ed intanto, secondo i medici, ogni giorno che passa allontana sempre di più la possibilità per Claudio di recuperare il normale uso degli arti. Proprio in queste ore ho inviato un telegramma al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria. Quest’uomo deve essere curato al più presto". Il 21 aprile scorso Claudio, detenuto a Rebibbia N.C., cade in carcere e da quel momento inizia la sua odissea. L’uomo viene subito ricoverato nel reparto protetto dell’ospedale Pertini con una diagnosi di "Plegia arto superiore dx ed arti inferiori bilateralmente associata ad alterazioni del visus e a deficit campo visivo in occhio dx insorte dopo trauma da caduta". Al momento della dimissione, i medici raccomandano il trasferimento in una struttura carceraria dove sia possibile eseguire cicli di fisioterapia e il costante monitoraggio neurologico. Il 13 giugno Claudio viene però trasferito al Centro Clinico di Regina Coeli dove è universalmente noto che non viene effettuata la fisioterapia. Il 7 luglio, viste la sue condizioni e le reiterate segnalazioni dei medici di Regina Coeli, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, dispone l’assegnazione dell’uomo nel carcere di Velletri, ma tale trasferimento è avvenuto solo il 20 settembre, dopo il pressante intervento del Garante. Arrivato a Velletri, Claudio ha trovato un’altra sorpresa. I medici del carcere hanno deciso di non accettarlo, non ritenendo gestibili le sue problematiche cliniche e l’uomo è stato quindi rispedito in ambulanza a Regina Coeli. "La sostanza di questa odissea - ha detto il Garante - è che a cinque mesi dalla caduta, Claudio non ha ancora beneficiato della fisioterapia con gravi rischi per la sua integrità fisica. Come dimostra questa vicenda, i problemi del carcere non sono legati solo al sovraffollamento. Errori, eccessi di burocrazia, leggerezze e mancanze di comunicazione possono creare danni ancor più gravi". Lombardia: domani Commissione Carceri del Consiglio regionale visita l’Icam di Milano Ansa, 28 settembre 2014 La questione delle madri detenute sarà affrontata dalla Commissione Carceri del Consiglio regionale della Lombardia, presieduta da Fabio Fanetti (Lista Maroni), che lunedì visiterà, appunto, l’Istituto a custodia attenuata per madri detenute (Icam), in via Macedonio Melloni a Milano. Questa struttura ospita le detenute che hanno con sé figli piccoli, in un ambiente più adatto di un normale penitenziario allo sviluppo dei bambini. La commissione ha intenzione, inoltre, di studiare un piano sperimentale di tutoraggio e cultura d’impresa per i detenuti, al quale collaboreranno alcune associazioni di manager d’azienda. Padova: il Sindaco Bitonci; no ai rimborsi per le celle sovraffollate, sì a nuove prigioni Ansa, 28 settembre 2014 "Un altro carcerato è stato liberato con 20 giorni d’anticipo e sarà risarcito con 2.600 euro. Nella sua cella non c’era posto sufficiente e, per questo, sarebbe stato costretto a dormire per terra". Torna sulla vicenda delle scarcerazioni e dei risarcimenti, due in Veneto, il sindaco di Padova Massimo Bitonci, rilevando come "nel frattempo, una giovane donna di Vicenza ha appreso che chi le aveva inflitto 16 coltellate, giudicate non potenzialmente mortali da una perizia medica, ha ottenuto gli arresti domiciliari, a pochi metri da casa sua". "Questo è un Paese che funziona al contrario - dice Bitonci. Renzi si rimbocchi le maniche e, invece di spendere i soldi dei contribuenti per risarcire i detenuti, provveda a costruire nuove carceri in cui i condannati possano scontare tutta la pena, senza sconti, senza rimborsi, fino all’ultimo secondo". "Guai a chi parla di indulto. Occorrono nuove carceri, pene certe e severe per chi delinque - conclude. La pietà va riservata alle vittime. Uno Stato che rimborsa i detenuti è uno Stato che sbaglia tre volte: perché non ha saputo tutelare i suoi cittadini, perché non ha saputo punire i colpevoli, perché non è stato capace di risarcire chi ha subito un danno". Trento: intervista a un ex detenuto "il carcere non riabilita… fa solo crescere la rabbia" di Patrizia Todesco L’Adige, 28 settembre 2014 Tre mesi di carcere e l’impressione di esserne uscito peggio di come è entrato. "Il carcere riabilita? Ma non diciamo sciocchezze, su 100 detenuti 101 escono più arrabbiati, frustrati e rancorosi di come sono entrati. Non certo migliori". A parlare è un uomo di mezza età. Un uomo normale, non uno sbandato, che però nella vita ha fatto alcuni errori. Per il momento ha saldato il suo conto con la giustizia con alcuni mesi in una delle celle di Spini di Gardolo proprio nel periodo in cui due ragazzi si sono tolti la vita. "Non è stata una sorpresa, avevamo mandato segnali inequivocabili del loro disagio ma nessuno ha fatto niente per fermarli", denuncia l’uomo che ha durante il suo soggiorno ha scritto pagine e pagine a memoria di quanto accaduto tra quelle mura. Al solo parlare della solitudine vissuta, dello smarrimento, del senso di abbandono, del "non senso" di quei giorni trascorsi lì, gli occhi gli si riempiono di lacrime. "Quello non è un carcere, è un lager. Un lager senza guida", dice parlando sia della struttura che dei rapporti che si instaurano all’interno. "C’è divieto di fumo ma dentro fumano tutti. L’attività sportiva è permessa una volta a settimana, si può fare una telefonata a settimana per un massimo di dieci minuti e sei visite al mese. L’ingresso in biblioteca è permesso una volta a settimana mentre la cultura e la conoscenza dovrebbero essere le cose che maggiormente dovrebbero essere incentivate. Per il resto del tempo non si fa assolutamente nulla. Perfino di notte non si dorme perché sul corridoio le luci vengono tenute sempre accese". Mario (il nome è di fantasia) parla di ragazzi alienati, schiacciati dal carcere. "Tutti sono tirati come corde di violino. Basta una punizione per farli crollare. Li vedi in faccia, cogli dai loro sguardi lo smarrimento. La maggior parte sono spacciatori, gente che vendeva cocaina o altro. Ma va detto che là dentro quei ragazzi li stanno uccidendo piano piano come hanno fatto con i due che si sono tolti la vita. Il problema è che non vengono date opportunità per un domani migliore". Il 23 luglio ad impiccarsi è stato un ragazzo di 32 anni che aveva un figlio di otto. "Aveva tentato già tre volte in precedenza ma non è stato fatto niente per fermarlo. Avrebbero potuto portarlo in un’altra struttura, aiutarlo, e invece hanno solo aspettato che succedesse". Una settimana dopo a togliersi la vita era stato un altro ragazzo di 32 anni. "Anche la sua tragica scelta non è stata un fulmine a ciel sereno", dice Mario. "In carcere a quel punto c’è stata una ribellione. Abbiamo fatto lo sciopero della fame e come risposta ci hanno vietato le due ore d’aria". La giornata tipo nel carcere di Spini inizia alle 7 e 30 quando viene portata la colazione. Poi aprono le porte e le persone possono uscire nei corridoi. "Ma non c’è niente da fare. Potrebbero far fare dei lavori, cercare una riabilitazione di qualche tipo e invece nulla. Si aumenta la rabbia e la frustrazione. Dalle 9 alle 11 i detenuti si ritrovano in un’area comune. Una stanza 22 metri per 12 a cielo aperto. "Ma anche qui non si fa assolutamente nulla". Nota dolente il cibo. "Immangiabile - dice Mario - tanto che praticamente tutti acquistano i prodotti e se li cucinano da soli. È un vero e proprio business. Mi viene da ridere perché controllano che nessuno di noi abbia lamette o cinture ma comunque se uno vuole un modo per togliersi la vita, come dimostrato, lo trova. Invece che aiutare le persone, le annientano psicologicamente". Mario ha un misto di rabbia e rammarico. "L’ho promesso a quei ragazzi che una volta fuori avrei fatto sentire la loro voce, il loro disagio, le loro difficoltà di rapporti con le guardie carcerarie. Qualcuno si salva, molti hanno atteggiamenti decisamente discutibili con i detenuti che anche se hanno sbagliato sono sempre delle persone e come tali vanno trattate". Grosseto: "AmiCainoAbele"; giustizia e perdono, emoziona l’incontro con Claudia e Irene di Alfredo Faetti Il Tirreno, 28 settembre 2014 La vedova di Santarelli e la madre di Gorelli a Santa Lucia presentano la loro associazione "AmiCainoAbele". Non c’è giustizia senza perdono". Le parole usate da Giovanni Paolo II vengono ripetute più volte nella "Tenda dell’incontro", allestita alla festa di Santa Lucia. Il primo a pronunciarle è don Enzo Capitani. In un certo senso, è sua l’idea del confronto visto ieri. Poi le riprende Irene Sisi, madre di un ragazzo condannato a 20 anni per omicidio. E poco dopo Claudia Francardi, vedova di un carabiniere. Irene e Claudia: due donne, due storie intrecciate da un dramma. Quello di Antonio e Matteo: il primo, Santarelli, appuntato 44enne della compagnia di Pitigliano, morto dopo un anno di agonia per le bastonate date dal secondo, Gorelli, che di anni oggi ne ha 24, mentre andava a un rave party con altri tre amici. Antonio lo fermò al posto di blocco per un controllo il 25 aprile 2011, Matteo lo aggredì per fuggire. Una storia ripercorsa ieri dalle due donne, durante la presentazione dell’associazione che hanno fondato insieme, "AmiCainoAbele", perché questo dramma possa essere in qualche modo d’aiuto agli altri. "Andiamo nelle scuole e nei carceri per raccontare la nostra esperienza" spiega la madre. Ma l’incontro è soprattutto un viaggio dentro l’animo di Claudia e Irene, che ha portato dal dolore al perdono. Allora vengono fuori tappe ancora sconosciute, come che Matteo, nei primi momenti in carcere, abbia anche pensato al suicidio. E c’è anche una domanda che si rincorre, rivolta alla vedova: "come si fa a incontrare la madre di chi ha ucciso il tuo amore?". Serve ripercorre il viaggio per capirlo. Il primo passo lo fa Irene. "Tornavamo insieme da Milano dove avevamo incontrato Matteo, che sconta la pena nella comunità di don Mazzi, quando ci siamo chieste: come possiamo fare per dare conforto a persone che sono nella nostra situazione?". Così è nata AmiCainoAbele. Irene però è mamma e difende suo figlio, per quel che può. "Matteo si è assunto tutte le responsabilità di quel che ha fatto e ha cercato Claudia per fargli sapere che aveva capito la gravità del suo gesto". Poi parla Claudia, che si alza per stemperare l’emozione. "In molti mi chiedono se sono pazza" esordisce. Parla del suo dolore, dei giorni dopo l’aggressione, di suo marito ridotto a un vegetale, dei medici che le spiegano che non si sveglierà mai più, della depressione. Irene ascolta questa storia già sentita, si morde le labbra, abbassa lo sguardo. "Un giorno poi ricevetti la lettera di una donna, di una madre che chiedeva il mio perdono. Che voleva incontrarmi. Io desideravo che Matteo vedesse Antonio, per capire il male che aveva fatto. Ma era in carcere e non poteva. Allora invitai Irene, che accettò". Arrivò l’incontro, l’abbraccio, la preghiera comune perché "Antonio venga liberato e possa salire nell’alto dei cieli". Preghiere che verranno esaudite una mattina di maggio. "A quel punto ho sentito una grande pace" confessa Claudia. Poco dopo, arriva la condanna in primo grado: ergastolo. "Provai un dolore infinito" racconta Claudia. E arrivò anche a quel punto il momento di incontrare Matteo. "Non volevo vivere nella rabbia, non volevo avvizzirmi con gli occhi spenti di chi vive nell’odio. Non volevo che quella fosse la mia vita". E sotto la neve milanese, due anni dopo quel 25 aprile, abbracciò Matteo. E con lui il perdono. Caserta: riorganizzazione del Dap, chiude la scuola di Polizia penitenziaria di Aversa www.pupia.tv, 28 settembre 2014 Ad affermarlo non le solite voci, ma un atto ufficiale del ministero della Giustizia in cui si parla apertamente di ex Scuola di Aversa. L’atto in questione è il "Documento di sintesi per la predisposizione dello schema del Dpcm di riorganizzazione e riduzione complessiva degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche del Ministero della Giustizia", una bozza del quale è stata consegnata alle organizzazioni sindacali di categoria in vista di una prima riunione che si terrà nella giornata di martedì prossimo. In questo documento, a pagina nove, si legge: "La norma sulle strutture ove allocare i nuovi uffici appare essenziale, anche nell’ottica di utilizzare sinergie logistiche tra le varie strutture dell’amministrazione, per evitare costi di locazioni passive, che il bilancio della giustizia non potrebbe sopportare. Un esempio di tale convergenza operativa è offerto dalla soluzione individuata per l’istituzione del Tribunale di Napoli Nord, che è stato dislocato in Aversa nella ex Scuola della Polizia Penitenziaria". Una situazione che ha creato non poco fermento tra i cinquanta appartenenti alla Polizia Penitenziaria che sottolineano come dopo 12 anni di attività, con la conclusione del corso per 100 allievi ispettori, a dicembre prossimo, rischia di chiudere definitivamente la scuola. Scuola dove, invece, con la chiusura di quella con sede a Portici (che ora, invece, dovrebbe risorgere) avrebbe visto in città anche la sede della banda musicale. Gli stessi addetti alla scuola aversana evidenziano che con la chiusura dell’Opg "Saporito" ad Aversa vi sarebbe spazio sufficiente sia per il tribunale che per la scuola, ma necessità una volontà politica. Il tutto tenuto conto che si prevede l’apertura di una casa di reclusione a custodia attenuata con 150 detenuto che di giorno sarebbero liberi di circolare per la città. Sull’argomento il sindaco di Aversa, Giuseppe Sagliocco, dopo aver evidenziato che l’amministrazione si batterà per far permanere la scuola in città, anche se le scelte strategiche sugli spazi sono di competenza del ministero, ha evidenziato come il Comune abbia mantenuto gli impegni presi fornendo gli spazi necessari e muovendosi per darne altri tipo il complesso di San Domenico per il quale è stato sottoscritto il contratto di finanziamento comunitario con la Regione Campania proprio nella mattinata di venerdì. Avezzano (Aq): persone in esecuzione penale, giornata di sensibilizzazione e di conoscenza di Luisa Novorio www.terremarsicane.it, 28 settembre 2014 Un’azione attiva verso la comunità locale effettuata dalle persone in esecuzione di pena. Si è svolta sul Monte Salviano una giornata di recupero del patrimonio ambientale con la partecipazione di alcuni detenuti della Casa Circondariale di Avezzano. Nello svolgimento della giornata sono stati rimossi i rifiuti dalle aiuole, siepi e arbusti, i lavori sono stati svolti da cinque degli ospiti della Casa Circondariale in permesso premio, cosi come chiarito dalla dott.ssa Sabrina Paris educatore: " La scelta è stata determinata verso quei detenuti già usciti in permesso premio e quindi si è sviluppata una nutrita fiducia. Tutto è basato sulla buona condotta accertata dal magistrato di sorveglianza di L’Aquila su parere favorevole della Direzione dell’Istituto penitenziario". Il Comandate Facente Funzione Giovanni Luccitti soddisfatto del progetto nato con la Comunità di S. Egidio e l’Associazione "Azione Cattolica" - diretta dalla dott.ssa Masci - ha specificato che "Si è pensato ad una giornata ecologica ed è stato un risultato positivo, la prima di questa attività." "È un intervento molto importante - ha sottolineato il Direttore Mario Giuseppe Silla - l’azione svolta con il recupero dei rifiuti in alcune aree del Salviano, ha anche la funzione per loro di sentirsi attivi e partecipi al decoro della Città". "È una giornata di alta socializzazione da parte dei detenuti omaggiati dal magistrato di sorveglianza, delle ore concesse - ha dichiarato l’avv. Roberto Verdecchia assessore all’ambiente del Comune di Avezzano, a nome della Amministrazione- Tutto si è ottenuto con la perfetta sinergia tra la Direzione della Casa Circondariale, educatori e staff, la costate e continua presenza della Comunità di S. Egidio e con l’associazione "Azione Cattolica". Fabio Gulli uno dei volontari della Comunità di S:Egidio, proveniente da Roma, ha manifestato il piacere del rapporto che li lega alla città di Avezzano con tante iniziative ultima il pranzo di Natale con oltre 70 presente all’interno del carcere San Nicola. "In programma abbiamo di realizzare un altro pranzo della solidarietà nel mese di dicembre. Il motto è: si può fare". L’incontro con uno degli ospiti della Casa Circondariale ha fatto emergere quanto questi incontri siano importanti e positivi. "Gli operatori ci hanno messo a nostro agio, l’impatto è stato come andare ad una gita, la mente ha la percezione della libertà. Io ringrazierò sempre il Direttore che mi ha dato la possibilità di sostenere gli esami presso la Scuola Alberghiera. ed ottenere la qualifica professionale. " Cesare (nome di fantasia) ha avuto una condanna di 8 anni e fra due mesi tornerà ad essere un uomo libero. Il progetto più grande vivere ogni momento della vita della sua bambina, nata appena è stato recluso, ed aprire una piccola attività di ristorazione al Nord. Un ringraziamento gli operatori e le suore del Santuario di Pietraquaria intendono rivolgerlo alle Fer.tec di Vincenzo Salone e alla Tecno Edil che hanno donato il materiale utile per la bonifica. Bollate (Mi): Susanna Ripamonti, dall’Unità di Veltroni al giornale dei detenuti di Chiara Beria di Argentine La Stampa, 28 settembre 2014 Dalla finestra del suo soggiorno oltre alle torri della nuova Milano si fatica a riconoscere nel simile grattacielo d’acciaio quella che un tempo fu la storica sede in via Volturno della Federazione del Pci. Ma non è solo il quartiere Isola che è cambiato nel mondo di Susanna Ripamonti. Figlia di un critico teatrale de "L’Avanti" il quotidiano del fu Psi, militante del Pci ai tempi di Berlinguer ("Ma non presi più la tessera dopo la Bolognina"), funzionaria a Modena del partito Susanna con sua gran delusione ("Lo vissi come un fallimento, mi piaceva molto far politica") venne spedita a "L’Unità". Assunta da Emanuele Macaluso, promossa inviata da Veltroni, la cronista giudiziaria Ripamonti seguì l’inchiesta Mani Pulite con relativa fine di ogni illusione su una sinistra più pulita ("Conosci il compagno G?", chiese a uno sconosciuto nel corridoio della Procura ignorando che quell’uomo era Primo Greganti in attesa di essere interrogato da Di Pietro). Crisi del quotidiano fondato da Gramsci, crisi della politica. Ripamonti ricorda: "Approfittando di una finestra per i prepensionamenti me ne sono andata. Non volevo più vivere l’ennesimo stato di crisi". Passano gli anni e "L’Unità" come altri fogli di partito non esce più; la compagna S. senza i birignao delle star del giornalismo ha saputo reinventarsi. Da quel 2007 - lavora gratis, ovvio - come direttore di "Carte Bollate", il periodico assai ben fatto dei detenuti di Milano-Bollate, la casa di reclusione modello nel pluricondannato nostro sistema penitenziario (a Bollate il 40% dei 1.200 detenuti si mantiene lavorando; polizia penitenziaria e 200 volontari assicurano corsi e attività preziose per il recupero). Nel 2012 proprio nella redazione di "Carte Bollate", direttrice Ripamonti, con l’aiuto degli esperti dello sportello giuridico del carcere come il prof Valerio Onida è nata la "Carta di Milano": un protocollo deontologico che, su modello di quelli che tutelano soggetti come i minori e i malati di mente, detta ai giornalisti le 9 regole su come trattare le notizie sulle carceri, le persone in esecuzione penale, detenuti ed ex detenuti. Da far attenzione a evitare di creare ingiustificati allarmi sociali che rendono più difficile i percorsi di reinserimento al diritto all’oblio, dalla tutela dei familiari dei condannati all’uso di termini corretti. Approvata nel 2013 dal consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti la "Carta di Milano" ormai è materia di studio ai corsi obbligatori d’aggiornamento della categoria. Una bella soddisfazione per la redazione di "Carte Bollate". Per Susanna che nei giorni scorsi a Mantova, a margine del Festival della letteratura, ha partecipato a un incontro proprio sulla "Carta di Milano" un bel passo avanti nella sua speranza di costruire una cultura del carcere. Sono ben 70 i giornali che vengono fatti dietro le sbarre dove sono vietati Internet e cellulari; hanno qualità assai diverse e testate suggestive: "Ristretti Orizzonti" si chiama quello della Casa di reclusione di Padova, "La Gazza Ladra" a Novara, "Sosta forzata" a Piacenza. C’è anche una Federazione nazionale informazione dal e sul carcere, presieduta da Ornella Favero. Voci troppo flebili. "La "Carta di Milano", dice Ripamonti, "è nata per combattere le troppe omissioni e distorsioni. È una notizia il detenuto in permesso che fa una rapina ma non storie come quella di Enrico Lazzara che, utilizzando i permessi, ha creato la tipografia dove stampiamo il nostro giornale e dove lavorano 6 detenuti. È un solo esempio, ma i dati sono incontestabili: la recidiva scende da una media del 70% al 28% tra chi usufruisce di misure alternative o di benefici penitenziari". Sfoglio il suo giornale con lo scoop di Santino Nardi, detenuto in articolo 21 al lavoro alla Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Titolo: "Il mio compagno di lavoro Mister B". A proposito d’editori come vi finanziate? Susanna sorride: "Abbiamo l’appalto delle foto. I detenuti amano farsi fotografare anche più volte al mese per spedire le immagini ai loro cari. Noi li fotografiamo. Stampiamo. E loro ci pagano". Perugia: PerSo Film Festival, in carcere porte aperte alla cultura Corriere dell’Umbria, 28 settembre 2014 Toccante e intensa giornata, all’interno del carcere di Capanne, per il PerSo Film festival, la rassegna di film documentari che domenica chiuderà la sua edizione numero zero. I detenuti del penitenziario hanno potuto vedere in anteprima nazionale (c’è stata un’unica proiezione al carcere di Foggia, ma in forma ancora più privata) "Sbarre", l’ultimo lavoro di Daniele Segre, tra gli autori più affermati nella cinematografia del sociale e protagonista della prima retrospettiva del Perugia Social Film Festival. Una fama che i detenuti di Capanne hanno legittimato, apprezzando con lunghi applausi la verità e l’onestà intellettuale del lavoro di Segre. Oltre alla proiezione, i detenuti hanno ascoltato la commovente e incisiva testimonianza di Salvatore Striano, detenuto per dieci anni e libero da otto, diventato un attore professionista dopo i successi ottenuti con i fratelli Taviani e il loro "Cesare deve morire", Orso d’Oro a Berlino, e con "Gomorra" di Matteo Garrone. Applausi e qualche lacrima dai carcerati per l’incoraggiamento ricevuto da Striano, scevro da toni retorici e desideroso di comunicare quanti miracoli possa fare un libro e la cultura in genere dentro un carcere e di come sia necessario incoraggiare i detenuti verso questa attività, per riempire non solo di spazio ma anche di senso le lunghe ore di detenzione e i grandi disagi che si vivono nelle carceri italiane. Assolutamente apprezzabile e coraggiosa la scelta della direttrice dell’istituto penitenziario di Capanne, Bernardina Di Mario, che si è detta disponibile ad accogliere le richieste del PerSo di coinvolgere i detenuti nella selezione e nella commissione di giuria della prossima edizione del Festival, finalmente nella sua veste di premio e concorso. Il festival si chiude con il conegno di Libera sulle ludopatie, preceduto dalla proiezione del cortometraggio "All in" di Marco Valerio Carrara, quindi un’altra opera di Segre, "Vecchie" (ore 15) e di seguito il corto di Silvia Cutrera "Vite indegne" (17,15), l’applauditissimo "Il libraio di Belfast" di Alessandra Celesia (18,00), Excim Teaser di Andrea e Ivan Frenguelli sulle controculture perugine e gran finale con una delle opere più dense di Stefano Rulli, direttore artistico del Festival, e il suo "Un silenzio particolare", proiettato a Venezia quattro anni fa e considerato un piccolo caposaldo nell’ambito della cinematografia sociale. Perugia: oltre le Colonne d’Ercole del carcere, sul palco l’Ulisse detenuto parla di libertà di Silvia Colangeli www.umbria24.it, 28 settembre 2014 Grande successo del progetto teatrale ha coinvolto i detenuti di Capanne. L’idea: "Portiamo lo spettacolo nei teatri". "Sono arrabbiato, soprattutto con me stesso. Ho capito che l’aver oltrepassato i limiti mi ha fatto perdere anni che non torneranno più. Adesso ho paura di non saper vivere qui fuori". A dirlo è un Ulisse tutto particolare, che parla in dialetto e finisce in carcere. È uno dei protagonisti dello spettacolo teatrale messo in scena nella struttura di Capanne questo pomeriggio. "L’idea - racconta Noemi, operatrice sociale di Arci Ora d’Aria fra le curatrici del progetto - è partita dall’attrice Vittoria Chiacchiella, che ha espresso il desiderio di fare un laboratorio teatrale con i detenuti di questa struttura. Il progetto è partito a maggio e non sapevamo neanche che sarebbe culminato in quello che avete visto oggi". Ulisse il detenuto "Nessuno o il gusto strano della paura" è nato quasi per caso, con l’intenzione di rivisitare la vicenda di Ulisse, che come capita ai detenuti, oltrepassa i limiti e rischia la perdita dell’identità. E lascia da soli per tanto tempo moglie e figli. Infatti sul palco ci sono anche Penelope (interpretata dalla Chiacchiella) e Telemaco, che restano fuori, ma fra mille difficoltà. Quando Ulisse sta per lasciarli, la moglie gli dice "A te daranno da bere e da mangiare, io tuo figlio come riuscirò a mantenerlo?". In un’ora e mezza vengono messi in scena una decina di episodi che, partendo dal mito dell’eroe greco, raccontano la quotidiana vita in carcere e la fanno percepire anche a chi non ci ha mai vissuto: le visite dei parenti, la difficoltà di dormire la notte, l’ansia, la paura e il desiderio della vita oltre le sbarre. Far conoscere il carcere all’esterno "I 12 detenuti - spiega ancora Noemi - sono stati scelti in base al criterio di fine pena, cioè si è cercato di coinvolgere quelli che per un lungo periodo non si sarebbero mossi da questo carcere. All’inizio qualcuno si è tirato indietro, perché fare questo spettacolo significa anche mettersi a nudo, ma poi ci hanno ripensato e questo è il risultato". "Avete recitato con grande spontaneità" ha detto la direttrice del carcere Bernardina Di Mario, a conclusione dello spettacolo. Poi ha aggiunto: "Mettendovi in gioco vi siete aperti all’esterno, questo vi aiuta a farvi comprendere dal resto della società. In questo momento le istituzioni e questa struttura sono particolarmente attente alle vostre problematiche, approfittatene". Capanne penitenziario "aperto" La direttrice ha ricordato il successo dei progetti formativi e di reinserimento che quest’anno hanno ricevuto un budget importante e più alto che negli anni precedenti: 19 mila euro. Come dimostra l’esperimento delle porte aperte in carcere, tentato a Capanne per la prima volta nel 2011 e poi diventato un modello nazionale, migliorare la vita dei detenuti aiuta il loro reinserimento anche fuori. "Nel 2011 - dice la Di Mario - c’erano 630 detenuti, 130 dormivano per terra ed era il quarto carcere d’Italia per casi di autolesionismo. Oggi i detenuti sono 360: con le porte aperte e i progetti formativi, i casi di autolesionismo sono sempre meno". Replicare a teatro? Ad assistere allo spettacolo c’erano anche la vicepresidente della regione Carla Casciari, la senatrice Nadia Ginetti e l’onorevole Walter Verini. Parlando con la direttrice di Capanne i due parlamentari hanno espresso il desiderio di portare "Nessuno o il gusto strano della paura" anche sui palchi dei teatri umbri. Così molte più persone potrebbero conoscere questo lato di Ulisse. Milano: "L’ora di luce", successo per la mostra fotografica dei detenuti di Ariano Irpino www.ilciriaco.it, 28 settembre 2014 "Non potevamo non sostenere con un patrocinio un’iniziativa di tale valenza sociale e culturale, che nasce dal volontariato ed approda in una sede di tale prestigio quale il Castello Sforzesco di Milano, alla luce del fatto che, inoltre, due dei promotori sono eclanesi. Il successo che stanno ottenendo ci riempie di orgoglio poiché mostra un sud attivo e culturalmente vivace". Così l’Assessore Raffaella Rita D’Ambrosio nel congratularsi, a nome del Sindaco e dell’intera Amministrazione, con il Collettivo D:N:A ed in particolare con Annibale Sepe, Federico Iadarola, Simona Spinazzola e Luca Lombardi, per il successo che sta ottenendo la mostra fotografica "L’ora di luce", progetto realizzato quale attività di volontariato con i detenuti del carcere di Ariano Irpino e che sta partecipando all’esposizione collettiva sulla Legalità presso il Castello Sforzesco di Milano nell’ambito dell’iniziativa "Infiltrazioni di Legalità", promossa da Fondazione "Con il Sud" e realizzata dall’associazione culturale "La Fucina". Gli scatti, realizzati da alcuni detenuti grazie alla disponibilità del Direttore della Casa Circondariale Gianfranco Marcello, con la preziosa guida dei volontari dell’Associazione Culturale Miscellanea - Collettivo D:N:A, selezionati da MostraMI tra i vari progetti pervenuti, hanno suscitato grande interesse e curiosità ed hanno attirato l’attenzione anche di personalità di spicco quali Raffaele Cantone e Romano Prodi giunti al Castello Sforzesco per partecipare a conferenze e workshop sulle diverse tematiche legate alla legalità e al meridione. Ciò che ha colpito del progetto "L’ora di luce" è il tentativo ben riuscito di far affiorare la realtà carceraria vista dall’interno, con gli occhi del recluso, confermando la filosofia che una pena efficace non può che basarsi sulla socializzazione e sull’educazione. La scelta poi di realizzare autoritratti ha voluto regalare la possibilità ai detenuti di vedersi con occhi diversi, di potersi raccontare in maniera personale. Il ritratto ha consentito loro di lavorare su se stessi, raccontando tanto la dura consapevolezza della situazione attuale quanto la volontà di mostrarsi in modo diverso a chi c’è intorno, per cercare di andare oltre il cliché del "carcerato". Milano: "Ti aspetto fuori", quindici detenuti del carcere di Opera sul palco di Zelig Tm News, 28 settembre 2014 Ridere per "evadere", per sentirsi ancora vivi anche dietro le sbarre di una prigione di massima sicurezza. Quindici detenuti del carcere di Opera sono saliti per due serate sul palco di Zelig a Milano. Il tempio del Cabaret ha ospitato lo spettacolo "Ti aspetto fuori" grazie all’impegno di comico Matteo Iuliani, al secolo il postino Bruce Ketta, che da due anni lavora con il gruppo Opera Comika. "75 appuntamenti divisi per tre ore, fai un po’ i conti sono 255 ore se la matematica non mi inganna". Battute, gag, tormentoni e sketch in salsa agrodolce, racconti inventati e di vita reale, scritti dagli stessi detenuti. "Con la risata che riesco a costruire qui, un giorno vorrei portarla fuori da questo contesto". "Prima facevamo piangere. Se riusciamo a far ridere quelli che prima piangevano sarà una vittoria". "Ti aspetto fuori un augurio per un futuro migliore, più roseo". Giancarlo Bozzo, direttore artistico di Zelig, guarda al futuro: "Questo progetto di corsi di cabaret nelle carceri noi vogliamo rilanciarlo e vogliamo fare una proposta innanzitutto agli istituti di pena lombardi". Un cocktail di emozioni, dolori e speranze di chi sta pagando il suo debito alla società. "Su questo palco non ho visto fiori appassiti ma dei germogli, perché la giustizia rinchiude gli uomini ma non i loro sogni". Libri: "Io, killer mancato", l’autobiografia di un giornalista cresciuto insieme ai boss recensione di Franco Nuccio Ansa, 28 settembre 2014 Il ragazzo sta per ammazzare un uomo. È in un vicolo di Palermo e deve vendicare suo padre, ucciso alcuni anni prima. Quel ragazzo poco più che adolescente ha imparato a sopravvivere nel cuore nero della Sicilia e ora è a un bivio. "Io, killer mancato" (Chiarelettere editore, pp. 160, 11,90 euro, da oggi in libreria) è la storia del giornalista Francesco Viviano, cresciuto a Palermo tra i mafiosi e oggi uno dei più importanti inviati italiani. È la storia di un ragazzo che ce l’ha fatta. Che non si arrende ai soldi facili, che non cede alla vendetta: non vuole fare come i suoi amici e diventare il braccio destro dei boss della Piana dei Colli. "Nel mio quartiere - racconta Viviano - c’erano personaggi legati a diverse famiglie mafiose: Madonia, Riccobono, Scaglione, Troia, Liga Nicoletti, Di Trapani, Davì, Pedone, Gambino, Bonanno, Micalizzi e Mutolo, la crema di Cosa nostra. Vivevamo fianco a fianco". Come sia riuscito a non diventare anche lui un killer, nonostante le frequentazioni con quei "bravi ragazzi", è lo stesso autore a spiegarlo in un libro che si legge tutto d’un fiato come un romanzo. Cameriere, marmista, pellicciaio, muratore, commesso. Poi la svolta, fattorino e telescriventista per l’Ansa, quindi giornalista. Prima all’Ansa, poi a "La Repubblica". È qui che Francesco Viviano tira fuori tutto quello che ha imparato tra i vicoli di Palermo, perché lui sa come muoversi e dove trovare le notizie, sa con chi deve parlare e come farlo. Attraverso il suo racconto, il lettore rivive gli anni terribili delle guerre di mafia, il maxiprocesso nell’aula bunker dell’Ucciardone, gli omicidi Falcone e Borsellino, le grandi confessioni dei pentiti, l’arresto di Brusca, la caccia al papello di Riina, le prime rivelazioni sulla trattativa tra mafia e Stato. Viviano è un cronista di razza: vuole i nomi e sa da chi ottenerli. "Io killer mancato" è anche la storia dell’amicizia con Peppe D’Avanzo, Mario Francese e Attilio Bolzoni, di chi ha fatto giornalismo cercando insieme gli scoop o strappandoseli di mano. È il ritratto della Sicilia e delle sue contraddizioni attraverso gli occhi di uno dei suoi migliori giornalisti. Ma soprattutto questo libro è un atto d’amore verso la persona alla quale Francesco Viviano deve tutto: la madre Enza, rimasta vedova a 19 anni, che ha lavorato tutta la vita per riuscire a crescere quel figlio inculcandogli i valori dell’onestà e non della vendetta. Fino a quando, felice e orgogliosa di quella foto che lo ritrae accanto al Papa, non ha visto che il suo Francesco aveva imboccato la strada giusta, diventando un giornalista importante e non uno dei tanti mafiosi di borgata finiti in carcere o al cimitero. Afghanistan: stuprarono 4 donne, ok presidente Karzai per condanna a morte assalitori Aki, 28 settembre 2014 Il presidente uscente dell’Afghanistan, Hamid Karzai, ha firmato l’ordine di esecuzione della condanna a morte di cinque detenuti accusati di stupro e sequestro. Karzai, al potere dal 2001, si appresta a lasciare la presidenza e per lunedì è prevista la cerimonia di insediamento del nuovo presidente Ashraf Ghani. I fatti in relazione ai quali sono stati condannati i cinque risalgono al 22 agosto scorso, quando alla periferia di Kabul un gruppo di uomini armati ha bloccato quattro auto di ritorno da una festa di matrimonio, rapinando i passeggeri. Quattro donne sono state rapite e violentate e una delle vittime delle violenze, che era incinta, è morta. La vicenda aveva sollevato l’indignazione degli afghani. "Il presidente ha firmato l’ordine di esecuzione della condanna a morte di cinque criminali condannati per stupro e sequestro in relazione all’incidente nel distretto di Paghman", ha scritto su Twitter il portavoce di Karzai, Aimal Faizi. Oltre ai cinque condannati a morte a inizio mese, con una sentenza confermata in appello, due persone sono state condannate a 20 anni di carcere. Altre tre persone sono ancora latitanti. Giamaica: arrestati tre poliziotti, hanno pestato a morte giovane rinchiuso in cella di Flavio Bacchetta Il Manifesto, 28 settembre 2014 Arrestati gli agenti che hanno pestato a morte il giovane, rinchiuso in una cella per uno spinello, con le manette ancora ai polsi. Indecom, la Commissione investigativa sui crimini della polizia istituita dal governo giamaicano, ha arrestato venerdì scorso a Montego Bay, con l’accusa di manslaughter (omicidio colposo) tre agenti, di cui due donne: Elaine Stewart e Juliana Clevon, più Marlon Grant. Sono accusati di aver orchestrato il pestaggio che ha causato la morte di Mario Deane, un ragazzo incensurato, mentre questi era rinchiuso in cella, ancora ammanettato dal momento dell’arresto, a causa di uno spinello. I tre devono anche rispondere del tentativo di occultamento prove, per aver fatto lavare la cella sporca di sangue prima dell’arrivo degli investigatori Indecom. Processati per direttissima, i poliziotti sono già liberi su cauzione, per la risibile somma di Ja$ 400 (circa 4 dollari) a testa. I loro passaporti sono stati comunque confiscati.