Dieci minuti d’amore fra le sbarre di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 25 settembre 2014 "I condannati possono essere autorizzati dal direttore dell’istituto alla corrispondenza telefonica una volta alla settimana. La durata massima di ciascuna conversazione telefonica è di dieci minuti". (Fonte: articolo 39 - Corrispondenza telefonica. D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230). Normalmente telefono di domenica. Verso l’una del pomeriggio. Quando ho più probabilità di trovare tutti i miei familiari a casa. Spero sempre soprattutto di trovare Michael e Lorenzo. Sono i miei due nipotini. Li penso di giorno. E di notte. Poi di notte. E ancora di giorno. Prima di telefonare sono sempre in agitazione. E guardo tutti i momenti l’orologio, e rimango teso dall’ansia fino a quando non faccio il numero di casa. Nel frattempo il pensiero dei miei figli inizia a poco a poco a occuparmi la mente. E il cuore. Finalmente è l’orario. Sono sempre in anticipo di qualche minuto. Non mi preoccupo tanto a casa lo sanno. Corro nella celletta dove c’è il telefono, accosto il blindato. E faccio il numero. Trovo la linea libera. Attendo qualche istante. Poi dalla parte del filo sento trattenere il respiro. Di sottofondo ascolto le voci dei miei due nipotini. Poi sento bisbigliare mio figlio. Passami il telefono. Ascolto un rumore di cuscino sbattere. Sono arrivata prima io. Subito dopo avverto un grugnito di mio figlio. Sei una stronza, tanto papà vuole più bene a me che a te perché sono un maschio. Sento mia figlia sospirare. Da quando l’ho lasciata bambina. Pronto. È quasi sempre mia figlia Barbara che prende per prima il telefono. Amore. Si potrebbe dire che è da ventitré anni che mi aspetta vicino al telefono. Papà. È stata la prima cosa bella che i miei occhi hanno visto nella mia vita. Come stai? Da quando è nata è l’energia del mio cuore. Bene papà e tu? E della mia mente. Anch’io. Voglio bene ai miei figli anche perché sono diventate le persone che avrei voluto essere io nella mia vita. Ti vengo a trovare la prossima settimana. Spesso ho il senso di colpa di averli fatti crescere senza di me accanto. Va bene amore. Ho sempre paura di non essere stato un buon padre. Cosa vuoi che ti porto da mangiare? E questo pensiero mi fa stare spesso male. La focaccia con le cipolle. Quando telefono sembra che il tempo voli via. Va bene. È che non puoi fare nulla per fermarlo. Amore adesso passami tuo fratello. Non ho mai capito perché quando telefono sembra che i secondi volino via come le foglie in autunno. Papà ti amo. Non li puoi afferrare. Anch’io amore. E con il passare degli anni sembra che i minuti del telefono diventino sempre più brevi. Papà, come al solito la Barbi s’è consumata tutta la telefonata lei. Se solo ci dessero più tempo. Lasciala stare, sai com’è fatta. E più telefonate. Papà ci sono i bambini che stanno aspettando. Mio figlio si lamenta sempre di sua sorella. Chi ti passo per primo? L’ho lasciato che aveva sette anni. Passami Lorenzo. Ormai è grande. Ti voglio bene papà. Continua però lo stesso ad abitare nel mio cuore. Anch’io figliolo. Mi ha dato due meravigliosi nipotini. Ciao nonno Melo. E adesso che sono anziano sono entrambi loro il centro del mio mondo. Ciao amore. Ed il principio del mio universo. Nonno quando vieni a casa? Sono il cielo della mia anima. Presto. La mia acqua nel deserto. Ce la fai a venire a casa prima che compio dieci anni? E i raggi del sole che riscaldano il mio cuore. Certo, adesso però amore passami tuo fratellino che la telefonata sta per finire. Quando parlo con i miei due nipotini la loro voce mi accarezza il cuore. Ciao nonno ti voglio tanto bene. E m’immagino i loro visini. Anch’io tesoro. E mi viene ancora più voglia di abbracciarli. Ciao nonno. Michael è il più piccolo. Ciao amore. E più scalmanato di suo fratello. Lorenzo dice che le telefonate dove sei tu durano così poco perché le guardie sono cattive. Muovo la testa da una parte all’altra. No amore, non sono cattivi. Poi chiudo gli occhi. E allora perché non telefoni tutti i giorni. E penso a come rispondergli. Perché qua la linea si prende male e dobbiamo fare a turno per telefonare. Non voglio che imparino ad odiare lo Stato. Amore adesso passami la nonna perché ormai c’è rimasto poco tempo. La sua vocina si fa più dolce. Va bene nonno, ti voglio bene più di Lorenzo. Spero che i sogni a forza di crederci diventino veri. Ciao amore. E mi auguro di vedere crescere almeno loro. Adesso è il turno della mia compagna. Carmelaccio. E scatta l’avviso che la telefonata sta per terminare. Amore Bello. Fra trenta secondi cadrà la linea. Il magistrato di sorveglianza ti ha risposto sul permesso che hai chiesto? Lei è sempre la più scalognata. Ancora no. E le rimangono solo una manciata di secondi. E porca miseria quanto ci mette? Non capirò mai perché ci danno cosi poco tempo per telefonare a casa. Non dire parolacce che le telefonate sono registrate. Mi sembra una pura cattiveria. Sono due anni che aspettiamo questa cazzo di risposta. In fondo la telefonata la paghiamo noi. Amore lo so, ma che possiamo farci? La presenza della mia compagna nel mio cuore mi aiuta a vivere giorno per giorno. A me dispiace per te. Senza di lei nel mio cuore non ce l’avrei fatta. E a me per te. Non ce l’avrei mai potuta fare. Carmelaccio sbrigati a venire a casa. Potrei fare a meno della libertà, ma non potrei certo fare a meno del suo amore. Penso che questa volta sia quella buona. Vivo grazie o per colpa del suo amore. Mandami un bacino. È stato facile amarla. Prima mandamelo tu. Impossibile smettere di amarla. Cade la linea. E mi arrabbio perché come al solito io e la mia compagna non abbiamo avuto il tempo di mandarci neppure un bacio o di dirci qualche parola affettuosa. Sospiro. Mi sento di nuovo solo. In compagnia solo di me stesso. E contro tutto il resto del mondo. Ho il cuore pesante. Mi sento frustrato. E penso che le telefonate potrebbero essere più lunghe e più numerose. Ritorno nella mia cella come un lupo bastonato pensando al motivo perché il carcere ha così paura e terrore dell’amore dei nostri familiari e ci proibisce le telefonate libere e i colloqui riservati come accade negli altri paesi. Non riesco a trovare una risposta razionale. Penso solo che i buoni quando puniscono non sono meno malvagi dei cattivi. La redazione di Ristretti Orizzonti ha lanciato la campagna per "liberalizzare" le telefonate e consentire i colloqui riservati delle persone detenute con i propri famigliari, come già avviene in molti Paesi. Se volete aderire e sapere di più di questa iniziativa, visitate il sito www.ristretti.org o www.carmelomusumeci.com. Giustizia: dopo le registrazioni delle torture si indaga, ma deve cadere un muro di omertà di Damiano Aliprandi Il Garantista, 25 settembre 2014 Rachid, marito di Emanuela D’Arcangeli, ha registrato le voci di medici e agenti che ammettono le violenze. Si sta indagando, ma deve cadere un muro di omertà. La moglie del detenuto che ha registrato di nascosto le guardie che parlano di pestaggi nel carcere di Parma, decide di rivelarsi al Garantista. Nella registrazione la guardia carceraria si lascia andare: "Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu". Il medico del penitenziario è ancora più esplicito: "Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero. Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredite l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no. Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte. Ne picchiamo tanti, qui comandiamo noi". Da questa registrazione, resa pubblica attraverso i mass media, è partita un’ispezione interna da parte dell’Amministrazione penitenziaria e l’apertura di un’inchiesta da parte della Procura. Sono intervenuti, in merito alla vicenda, Desi Bruno e Roberto Cavalieri, rispettivamente Garante regionale e Garante del comune di Parma dei detenuti, esprimendo "preoccupazione circa il contenuto delle registrazioni diffuse dalla stampa e realizzate, per come viene riferito, all’interno del penitenziario di Parma da parte di un detenuto". Proseguono ancora i Garanti: "Tali contenuti qualora confermati nella loro veridicità e completezza, farebbero emergere che all’epoca dei fatti, e cioè negli anni 2010-2011, si sarebbe verificata una situazione di subordinazione delle questioni di salute e incolumità dei detenuti alle pratiche della custodia anche quando queste si sono manifestate, secondo le accuse, in modo illegittimo attraverso l’uso della violenza". Il detenuto che ha registrato la conversazione si chiama Rachid e attualmente è rinchiuso nel carcere di Sollicciano. La moglie ha inviato una lettera al direttore del carcere affinché gli garantisca protezione da eventuali ritorsioni. Emanuela D’Arcangeli - questo è il suo nome - tramite il suo Blog "Carcere e Verità" sta intraprendendo una battaglia per combattere la situazione infernale del sistema penitenziario. La sua lettera indirizzata al Garantista è un invito ad intraprendere una battaglia che non sia una lotta tra detenuti e guardie "cattive" ma una lotta creando un fronte comune composto da familiari detenuti, operatori e le stesse guardie penitenziarie che credono nel loro lavoro. In altre registrazioni, sempre messe a disposizione sul canale Youtube "Carcere e Verità", ci sono colloqui con altre guardie carcerarie le quali ammettono che non testimonieranno mai contro i loro colleghi. Quello che avviene in carcere resta chiuso tra quattro mura; una sola parola vige tra gli operatori penitenziari: omertà. L’invito di Emanuela è quello di combatterla. Giustizia: lo stavano ammazzando… ecco perché ho deciso di firmare questa lettera di Emanuela D’Arcangeli Il Garantista, 25 settembre 2014 Io ero una persona cattiva. Chiedo scusa se gioco con le parole che usai nella mia precedente lettera, due mesi fa, sempre su questo giornale. A luglio ero un’anonima testimonianza, che se da un lato aveva tanto da dire, dall’altro doveva frenarsi, perché la verità più scomoda, era anche quella che doveva tacere. Ma ora è diverso. La sera del 18 settembre, nell’edizione delle 20 del Tg1, è andato in onda un servizio su un detenuto di Parma, che servendosi di alcuni registratori vocali, era riuscito a documentare una lunga serie di colloqui con le guardie del carcere. Quello che ne è venuto fuori si può sintetizzare in due parole: violenza e omertà. Quel detenuto incosciente e coraggioso è l’uomo che ho avuto la fortuna di sposare. E la persona che ha preso i miei limiti e negli anni li ha spinti sempre un po’ più avanti, fino a farli arrivare vicino ai suoi. Ma come spesso accade, il coraggio viene dalla disperazione e noi non siamo diversi. Nella memoria, l’anno passato a Parma rimane il peggiore di tutta la detenzione di Rachid. Mi bastano solo poche parole, per far capire il mio stato d’animo, dall’ottobre del 2010 all’ottobre dell’anno seguente: Rachid lo stavano consumando piano e a ogni colloquio mi mostrava i segni di questa o quella violenza. Tanto che arrivai a domandarmi se alla fine sarebbe rimasto ancora qualcosa da picchiare. Il pestaggio di cui parla la traccia andata in onda al Tg, documenta uno degli eventi, ma non l’unico. Appena entrato ha subito violenza. Dopo due mesi, avvenne l’aggressione di cui parla la traccia del telegiornale. Poi il braccio chiuso inavvertitamente nel blindato; il dito incastrato inavvertitamente nella ruota della carrozzina, che usava per deambulare. Due scioperi della fame, che lo fecero arrivare a pesare 36 chili. Le manciate di psicofarmaci che gli davano e che lui faceva uscire a colloquio. Senza parlare delle cose più piccole (ma in carcere niente è "piccolo"): l’acqua corrente, sospesa per tre giorni; i generi alimentari acquistati con i suoi soldi, requisiti e restituiti dopo alcune settimane, marci; il suo Corano buttato a terra senza rispetto, durante una perquisizione; le foto della sua famiglia richieste per mesi e per mesi negate, perché ritenute di un formato non consentito, salvo poi scoprire che invece erano consentite. Le voci false di pedofilia, diffuse per screditarlo agli occhi degli altri detenuti. Se queste cose non avessero trovato riscontro, non saremmo mai riusciti a dimostrarle, perché tutte insieme sembrano troppo assurde, per essere vere. Ma lo sono. Due mesi fa, dovevo essere cattiva, perché avevo un ideale da portare avanti, contro poteri più forti di me. Oggi posso dire che non ho solo un ideale, ma ho anche le prove. In questi giorni il Dap e la Procura, si sono limitati a commentare l’accaduto, gettando dei dubbi sull’autenticità di queste registrazioni. Me lo aspettavo, ma la prevedibilità della reazione, non mi non mi consola, anzi. Al Dap, alla Procura, ma anche alle organizzazioni Sindacali della Polizia penitenziaria e ad ogni singolo agente, impegnato nelle carceri italiane, voglio dire che ripetere che non è possibile fare entrare dei registratori in carcere, significa perdere tempo inutilmente. Le registrazioni sono autentiche, parlano di luoghi, date, eventi e la voce è quella di Rachid, che dal giugno del 2008 è detenuto dallo Stato. Non ci sono stati permessi, domiciliari, lavoro all’esterno. Non sono accuse generiche. Non ha senso mantenere una posizione. Non ha senso dubitare o addirittura negare. Piuttosto occorre fare fronte comune: i detenuti, i familiari, insieme agli agenti che credono nel loro lavoro e lo vorrebbero fare al meglio; contro quelle che una volta erano le mele marce, ma che oggi hanno infettato il sistema. Ho detto che la realtà delineata da quelle tracce si compone di violenza, ma anche di omertà. Le carceri sono piene di lavoratori onesti, che non alzerebbero mai le mani, che non sono naturalmente portati alla violenza, ma tacciono. Il silenzio non lascia traccia sulla pelle, ma è complice della violenza. Parole come "io non denuncerò mai un collega" fanno male, quanto un cazzotto sullo stomaco o un calcio alla schiena. Solo parlando, solo denunciando, le violenze possono venire fuori. La lotta per farle uscire, non è la guerra dei detenuti, contro la polizia. Piuttosto è la lotta di tutti quelli che in carcere vivono, o lavorano, al fine di ottenere condizioni più umane e anche più stimolanti, che liberino il carcere dalla certezza di essere un luogo inutile. Voglio terminare con una domanda agli agenti. Il ruolo che il sistema carcere vi attribuisce, al momento, resta sospeso tra due compiti: quello del portinaio e quello del maggiordomo. Ma se vi preparasse, affinché possiate diventare soggetti veramente attivi nel recupero del detenuto, formandovi e incrementando le vostre competenze, non ricavereste un piacere maggiore dal vostro lavoro? Giustizia: "Festival del diritto", l’autogoverno è possibile di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 25 settembre 2014 Il Festival del diritto a Piacenza, fino al 28 settembre prossimo, si interrogherà sulle dinamiche di partecipazione ed esclusione, ragionando sulla "Fortezza Europa". La settima edizione del Festival del diritto a Piacenza (da domani fino al 28) è fondato su due concetti ricorrenti nella riflessione politica e giuridica del suo direttore scientifico, Stefano Rodotà: la partecipazione e l’esclusione. Promosso dal Comune di Piacenza, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, il Politecnico di Milano e la Fondazione di Piacenza e Vigevano, quest’anno il festival propone anche una riflessione sull’autogoverno. "Partecipazione e autogoverno sono le promesse fondamentali della democrazia moderna", sostiene Rodotà. Pratiche lontane da quella teoria della sovranità dove è l’Uno a decidere e a impartire il comando dall’alto. Uno dei tanti esempi è la governance tecnocratica europea che oggi progetta di attribuire maggiori poteri alle istituzioni Ue sulle finanze pubbliche o il mercato del lavoro. Non molto diverso è l’assetto dei poteri all’interno degli Stati. In Italia sta maturando una riforma autoritaria del modello parlamentare vigente, in direzione di una presidenzializzazione del sistema. Un modello di governo che nega alla base l’autogoverno dei cittadini. Su questo punto la denuncia di Rodotà è ferma: "Esistono dinamiche neo-autoritarie, o comunque una notevole diffidenza, rispetto al dissenso e alle istanze critiche dei cittadini". Quest’anno, assicura Rodotà, la riflessione verterà su un’altra tradizione della modernità politica: una sovranità orizzontale costruita dal basso con la partecipazione. E prospetta un ordinamento giuridico dove la decisione è il risultato della volontà dei consociati ed è in grado di rispondere ai loro bisogni. Da questa tradizione dell’autogoverno è nata la democrazia dei consigli operai, quella dei Soviet, e i tentativi di rivoluzione sociale più o meno riusciti nel corso del Novecento. Ancora oggi questa tradizione nutre l’immaginario, e le pratiche politiche, dei movimenti sociali. Rodotà preferisce rileggere questa vicenda all’interno dello Stato costituzionale di diritto: "Oggi la democrazia è diventata una forma di legittimazione complessiva dell’ordine ma non può ridursi a un momento elettorale - sostiene. Essa si rinnova attraverso la garanzia dei diritti sociali, il libero associazionismo, la riorganizzazione degli apparati statali secondo principi anti-autoritari, la fioritura di nuovi diritti civili hanno allargato e arricchito la nozione di cittadinanza". È ciò che il giurista definisce "cittadinanza attiva". Questa impostazione caratterizza anche i temi del festival. Nell’incontro Europa, lasciami entrare! previsto sabato alle 15 all’Auditorium Sant’Ilario si parlerà del diritto alla cittadinanza dei migranti e la loro inclusione reale nel continente della "Fortezza Europa". C’è anche il discorso sui diritti sociali a garanzia del lavoro, tema rovente nei giorni delle polemiche sul Jobs Act voluto da Renzi. Ne parleranno il 28 Maurizio Landini, Umberto Romagnoli e Tito Boeri nel salone Gotico dalle 12. La partecipazione, e l’esclusione, cioè il "diritto alla città", rappresenta un problema per gli architetti, i territorialisti e gli urbanisti. Se ne parlerà venerdì 26 all’associazione Amici dell’Arte. Al sesto anno della crisi, on il rafforzamento dei poteri verticali della finanza, sul tavolo c’è il problema del divorzio tra "democrazia e capitalismo". Per Rodotà è ormai accertata "una drammatica crisi di legittimità della democrazia". Una crisi che non può essere risolta ricorrendo "a una forma di semplificazione autoritaria della complessità". "È pericoloso, ma anche perdente" ribadisce. Un punto di vista esposto più volte commentando le riforme costituzionali volute dal governo Renzi. Per riassicurare un equilibrio tra gubernaculum e iurisdictio, aggiunge, "bisogna recuperare una forte cultura costituzionale che dovrebbe nutrire una capacità di iniziativa politica capace di confrontarsi con le trasformazioni sociali in atto". Rodotà rivolge un coraggioso invito al pubblico del festival piacentino. Considerare il "rifiuto della delega", "il volersi esprimere in prima persona" come l’occasione per rilanciare una democrazia radicale (o "diretta"). "Ma senza contrapporre la democrazia diretta a quella rappresentativa" precisa. In sintesi, ecco spiegato il laboratorio teorico di Rodotà. Oltre alle tavole rotonde, alle lezioni e ai dibattiti, l’edizione di quest’anno del Festival del diritto prevede il coinvolgimento di scuole e associazioni di volontariato. Annunciata la partecipazione del presidente del Senato Piero Grasso, del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e Giovanni Canzio, presidente della Corte d’Appello di Milano. Giustizia: Ferranti (Pd); questa riforma non è contro i magistrati, Grasso esamini i testi di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 25 settembre 2014 "Nessuna rivalsa, nessun intento punitivo nei confronti dei magistrati". Donatella Ferranti, la democratica che presiede la commissione Giustizia della Camera, replica alle osservazioni del presidente del Senato sul Corriere e difende la riforma: "Il presidente Pietro Grasso, parlando anche molto della sua esperienza personale, ha espresso delle note critiche. Però non mi sembra che ci sia un giudizio negativo sui disegni di legge, che tra l’altro devono essere ancora pubblicati". In sostanza, la seconda carica dello Stato dice che sulla giustizia Renzi sta sbagliando... "Direi che i testi ufficiali bisognerebbe esaminarli, prima di criticarli. Dai disegni di legge che il ministro Orlando ha illustrato negli incontri di questa estate si è visto che si tratta di riforme strutturali, a 360 gradi. Dopo anni di leggi ad personam, fatte sull’onda di un conflitto con alcune parti della magistratura, si è pensato di dare un segnale importante, con delle norme pensate per migliorare il servizio della giustizia e andare incontro alle esigenze dei cittadini". Non è una riforma punitiva, magari contro i magistrati? "Non so a quali testi si faccia riferimento. Dopo anni di riforme contro qualcuno o per qualcuno, questa volta si sta lavorando per i cittadini e questa è una garanzia che cercheremo di portare avanti come Parlamento. Il metodo che sta adottando il ministro è quello dell’ascolto, del dialogo e della responsabilizzazione di tutti. Concordo con Grasso sul fatto che le riforme non si fanno contro gli operatori della giustizia". Il presidente del Senato racconta di averne fatte pochine, di ferie... "Io pure prima di entrare in Parlamento ho perso mesi di ferie, non solo Grasso. Il problema non deve essere affrontato con il binomio minori ferie uguale maggiore produttività, perché la produttività della magistratura italiana è tra le più alte d’Europa. Che poi si debba razionalizzare sia il periodo di ferie che quello della sospensione feriale dei termini, questo è un problema che sta nel decreto legge e deve essere affrontato con equilibrio". Grasso respinge la vulgata dei magistrati "privilegiati" e osserva che molti non hanno nemmeno l’ufficio... "L’obbiettivo è far funzionare la giustizia, senza nessuna rivalsa nei confronti di nessuna categoria. Su questo punto Orlando ha garantito l’interlocuzione con l’Anm e porterà al Senato la soluzione più adeguata". Gli arbitrati, secondo Grasso, non funzionano. Non sarebbe meglio limitare l’appello e i ricorsi in Cassazione? "L’arbitrato come misura straordinaria per smaltire l’arretrato è previsto nell’ambito del decreto legge che ora sta al Senato. È una misura che deve essere rafforzata attraverso l’abbassamento dei costi e anche con incentivi fiscali per le parti che accettano di devolvere la causa all’arbitro. Ovviamente poi bisogna che ci sia la garanzia di massima professionalità e trasparenza, nonché la rotazione nella nomina degli arbitri". La riforma rischia di non avere i numeri? "Certamente sarà un percorso difficile, perché i temi della giustizia sono fisiologicamente conflittuali, soprattutto nell’ambito penale. C’è una priorità di intervento nel civile attraverso una revisione del processo, che garantisca snellezza e celerità della decisione. Spero che il percorso parlamentare sia costruttivo e penso che si troverà larga condivisione". I problemi arriveranno con il penale? "Insieme al civile e alla riforma della magistratura onoraria si lavora a un pacchetto che rafforza le misure contro la corruzione, l’auto-riciclaggio, la criminalità organizzata, la confisca e la gestione dei beni confiscati. Tutto questo, con la riforma del processo penale e della prescrizione, avrà un iter più complesso". Il Pd rischia di spaccarsi su questi temi? "Non vedo molte divisioni nel Pd, piuttosto ci sarà la necessità di tenere compatta la maggioranza". In Italia esiste una giustizia a orologeria? "Io lo escludo, oggi come in passato". Giustizia: Ucpi; la riforma non si può fare contro gli avvocati www.camerepenali.it, 25 settembre 2014 Beniamino Migliucci, Presidente dell’Unione Camere Penali, risponde al Presidente Grasso. Nella intervista rilasciata ieri al Corriere della Sera il Presidente del Senato Dott. Pietro Grasso ha espresso il proprio giudizio, quale seconda istituzione della Repubblica, sulla riforma della giustizia nel nostro Paese. Sarebbe lecito attendersi che il Presidente del Senato - come qualunque altra carica imparziale e di garanzia - parli sempre lasciandosi alle spalle ciò che egli è stato nella propria vita professionale, così come rammentato dallo stesso Presidente Grasso che ha affermato che la seconda carica dello Stato "non deve soltanto essere imparziale deve anche apparire imparziale". E invece, nella sua intervista al Corriere della Sera il Presidente Grasso ha ripreso quanto già affermato dal Procuratore Antimafia Roberti e dal Presidente dell’Anm rendendosi così difficilmente distinguibile dalle loro posizioni. Le riforme - sostiene il Presidente Grasso - non si facciano contro i magistrati; la giustizia non funziona perché, nell’ordine, ci sono troppi avvocati, i quali moltiplicano e rallentano procedimenti perché "causa che pende, causa che rende"; ci sono troppi appelli e troppi ricorsi per Cassazione, in relazione al quale ultimo andrebbe abolito il ricorso per difetto di motivazione; quello delle ferie dei magistrati non è un problema, hanno le stesse ferie di ogni pubblico dipendente, quei 15 giorni in più servono per scrivere le sentenze (davvero? E i pm allora?), e comunque sono gli unici a non ricevere regali a Natale e a Pasqua; e così via discorrendo. Non è né bello né confortante sapere che il vertice della Istituzione parlamentare, sia animato da simili convincimenti. Ma non vogliamo cedere alla tentazione un po’ demagogica del semel magistratus, semper magistratus, che pure il Presidente Grasso non fa nulla per smentire. Ci limiteremo a fargli dono, e siamo certi lo gradirà, della ricerca statistica che l’Unione delle Camere Penali Italiane svolse con l’Istituto Eurispes nel 2008 sulle cause del catastrofico malfunzionamento del processo penale, rilevate a seguito di un rigoroso monitoraggio dell’andamento delle indagini e dei processi in decine e decine di Tribunali italiani, piccoli, medi e grandi. Scoprirà, il Presidente Grasso, che le indagini preliminari, anche le più banali, giacciono immotivatamente ferme per anni; che le prescrizioni maturano per il 70% in tale fase; che la prima udienza successiva al rinvio a giudizio viene fissata anche con anni di ritardo; che le udienze si rinviano perché il sistema delle notifiche alle parti è catastroficamente collassato, e perché i testi, una volta citati, compaiono in percentuale molto bassa; e tutto ciò senza che gli avvocati, come dire, abbiano potuto fare danni. Siamo certi che leggerà quella nostra ricerca così come siamo convinti che prenderà atto della percentuale di riforme in appello (oltre il 40%) e, subito dopo, chiederemo di incontrarLa, Presidente, per parlare insieme, finalmente, delle cause reali della paralisi della giustizia in Italia. Da Roberti idee infondate su limiti ad appello "Le esternazioni del procuratore nazionale antimafia non sono nuove e risultano prive di qualsiasi fondamento. Con l’eliminazione, o comunque la forte limitazione, dell’appello si vorrebbe incidere sulla durata del procedimento penale a discapito delle garanzie dei cittadini, che hanno invece pieno diritto al doppio grado di merito, come dimostrato dal dato statistico secondo il quale oltre il 40% delle condanne inflitte in primo grado viene riformato in appello". Lo dichiara in una nota il presidente dell’Unione Camere penali italiane, Beniamino Migliucci, riferendosi all’intervento di Franco Roberti al Prix Italia a Torino. "L’opinione del procuratore Roberti ,oltre a essere infondata sulla base di fatti e dati, è in contrasto con diverse convenzioni internazionali - sottolinea il leader dei penalisti italiani - che garantiscono la sacralità del doppio grado di merito, ed è anche gratuitamente offensiva per gli avvocati, ai quali attribuisce impropriamente l’aumento dei tempi del contenzioso. La durata irragionevole dei processi va cercata altrove - avverte - nella smisurata lunghezza delle indagini, peraltro non sottoposte a termini perentori, e nelle altre disfunzioni già segnalate più volte dall’Ucpi". "L’idea poi di interrompere la prescrizione con il rinvio a giudizio è del tutto inaccettabile, in quanto dilaterebbe a dismisura i tempi del procedimento, metterebbe i cittadini a rischio di rimanere sotto processo sine die e creerebbe in ultimo la figura dell’imputato a vita. Una cosa sulla quale la pensiamo come il procuratore - conclude Migliucci - è la drammatica scarsità di personale e risorse destinate all’amministrazione della giustizia. Ma di questo spero non venga mai in mente a nessuno di attribuire la responsabilità agli avvocati". Giustizia: ok della Camera a ddl su depistaggio, 4 anni di carcere per manomissione prove Adnkronos, 25 settembre 2014 Chi manomette prove per depistare rischierà il carcere fino a 4 anni. Nel codice penale entra il "delitto autonomo di depistaggio e inquinamento processuale", con aggravanti per i pubblici ufficiali e nel caso di processi di strage, mafia e associazioni sovversive. Il provvedimento, che ora andrà al Senato per il voto definitivo, è stato approvato dalla Camera. Secondo le nuove norme sarà punito chiunque, allo scopo di ostacolare o impedire indagini o processi, modifica il corpo del reato o la scena del crimine, distrugge, occulta o altera prove oppure crea false piste. La pena prevista dal nuovo delitto di depistaggio e inquinamento processuale è la reclusione fino a quattro anni. Quando a depistare è un pubblico ufficiale la pena aumenta da un terzo alla metà. L’inasprimento di pena (da sei a dodici anni) scatta anche qualora tale reato riguardi processi per stragi e terrorismo, mafia e associazioni segrete, traffico di armi e materiale nucleare, chimico o biologico, o altri gravi delitti come la tratta di persone e il sequestro a scopo estorsivo. Se la condanna supera i 3 anni si applica l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Una riduzione di pena (da metà a due terzi) premierà chi si adopera a ripristinare lo stato della scena del reato e delle prove o a evitare conseguenze ulteriori oppure aiuta i magistrati a individuare i colpevoli del depistaggio. Il depistaggio aggravato comporta il raddoppio dei termini di prescrizione. Giustizia: la condanna a De Magistris censura modo d’agire di certa magistratura italiana di Alessandro Campi Il Mattino, 25 settembre 2014 Immaginiamo che Luigi de Magistris non manchi di coscienza e di buon senso politico. Deciderà perciò secondo il suo metro di valori e secondo opportunità, sempre che non scattino anche nel suo caso gli obblighi della Legge Severino, quali conseguenze trarre dalla condanna in primo grado che gli è stata inflitta ieri dal Tribunale di Roma: un anno e tre mesi di reclusione e l’interdizione per un anno dai pubblici uffici. In questo Paese, nel corso degli anni, ministri, parlamentari, governatori di regione, sindaci, assessori e semplici consiglieri sono stati costretti alle dimissioni o a fare il fatidico passo indietro per molto meno: non per una condanna, ma per un rinvio a giudizio risolto in un’assoluzione, per un’inchiesta poi archiviata, per un avviso di garanzia, per un’intercettazione finita sui giornali, per un semplice sospetto trasformatosi in voce di popolo grazie alla solita campagna di stampa. Ma è anche vero che c’è chi, per molto di più, condanne in via definitiva e per reati assai più gravi che l’abuso d’ufficio, a dimettersi e a farsi da parte non ci ha mai nemmeno pensato. Ciò detto il tema è un altro. Questa condanna (che oltre De Magistris ha riguardato anche il secondo degli imputati nel procedimento, il tecnico informatico Gioacchino Genchi) suona come sconfessione e censura rispetto ad un modo d’agire di certa magistratura italiana. Ci si riferisce alle inchieste "monstre", tese non ad inseguire singoli colpevoli di reati, ma a smantellare apparati di potere e cricche affaristiche, condotte con grande dispiego di mezzi e spesso forzando le procedure, con un occhio sempre rivolto alla reazione dell’opinione pubblica e l’altro puntato minaccioso sulla classe politica. Inchieste spesso eclatanti, che se da un lato hanno accesso la curiosità morbosa degli italiani e attizzato la loro voglia di giustizia-vendetta, dall’altro poco o nulla, molto spesso, hanno prodotto sul piano giudiziario. "Why Not", cui si deve la fama mediatica di Luigi de Magistris, quella che poi gli ha consentito il salto vincente in politica, all’epoca è stata una di queste inchieste, che aveva per oggetto l’illecita gestione dei fondi pubblici della Regione Calabria, operata da quella che si sospettava fosse una loggia massonica politicamente trasversale. Nel mirino del magistrato, mentre era in forze presso la procura catanzarese, finirono, accanto aprocacciatori d’affari, consulenti d’azienda e dirigenti pubblici, anche parecchi esponenti politici di primo piano, da Clemente Mastella a Francesco Rutelli, da Beppe Pisanu a Marco Minnitti. L’inchiesta ad un certo punto lambì persino l’allora premier Romano Prodi. Tutti costoro - da qui il processo che ha portato alla condanna di De Magistris - all’epoca furono indebitamente intercettati. Forse qualcuno ancora ricorderà il polverone mediatico sollevato dal loro coinvolgimento nell’inchiesta, dalla quale tutti sono alla fine usciti indenni e senza colpe. Quanto agli altri imputati, per così dire minori, alla fine di un tortuoso iter processuale, molti sono stati assolti, mentre altri hanno visto le loro condanne fortemente ridotte o prescritte. Di inchieste del genere, giornalisticamente eclatanti ma giudiziariamente povere di risultati, pieni di nomi eccellenti nei confronti dei quali quasi mai si è arrivati ad una incriminazione o, meglio ancora, ad una condanna, nel corso degli anni ne abbiamo avuto diverse. È stata, come qualcuno ha scritto, una forma di giustizia-spettacolo: non a caso ne è nata una grande notorietà presso il largo pubblico per quei magistrati che se ne sono resi protagonisti. Inchieste che, con il senno del poi, erano destinate a sgonfiarsi proprio per l’enormità delle ipotesi di reato perseguite, per il numero abnorme dei soggetti coinvolti, per il carattere oggettivamente fantasioso, in alcuni casi, delle imputazioni, per gli errori di procedura e le forzature di legge sulle quali sono state talvolta costruite e che la stessa magistratura ha sanzionato. Il problema è che queste inchieste, ai cui esiti penali finiscono per interessarsi solo i cronisti di giudiziaria e delle quali i cittadini si dimenticano dopo il clamore delle prime settimane, hanno avuto sulla società italiana un impatto emotivo e politico a dir poco devastante. Sono state uno dei fattori che ha contribuito al discredito generalizzato della politica e che ha alimentato l’onda del populismo giustizialista. Hanno dato l’impressione che in questo Paese non ci siano colpe individuali o reati singoli da perseguire (che è esattamente il compito della giustizia), ma che fosse da gettare a mare (o preferibilmente in galera) la classe politico-imprenditoriale nel suo complesso, senza distinzioni di appartenenze politiche. Ma lo stile di queste inchieste - da giustizieri in lotta contro il male del mondo, da vendicatori contro i soprusi dei potenti, buttando nel calderone chiunque fosse soltanto sospettabile di aver commesso qualcosa di illecito - sono state anche un male, a conti fatti, per la stessa magistratura. Ad un certo punto è nato infatti il sospetto, tra i cittadini, che alcuni procuratori troppo arrembanti fossero più a caccia di pubblicità che di colpevoli. Da parte della magistratura ci si è poi resi conto che a voler smantellare nuove cricche affaristiche e logge massoniche deviate, nuove organizzazioni mafiose e associazione a delinquere transnazionali, si finisce magari per alimentare la fobia complottista degli italiani, ma senza la garanzia di mettere nelle mani della giustizia i veri criminali, che chissà perché sono quelli che riescono sempre a farla franca. Al tempo stesso, ci si deve essere accorti che, avendo esaurito gli italiani la loro dose di disgusto universale, la stessa magistratura ha finito per perdere quel consenso sodale di cui aveva goduto per decenni. Senza infine considerare che questo genere di inchieste, spesso con centinaia di indagati, condotte con scarso rispetto per i diritti e le garanzie dei singoli, hanno sempre avuto un che di tecnicamente mostruoso, che in uno Stato di diritto non dovrebbe essere considerato accettabile. Sarebbe bello, ora che si parla di riformare la giustizia, chiamando la magistratura nel suo complesso a rivedere il proprio ruolo pubblico e professionale, se questo modo di applicarla potesse essere considerato un lascito del passato, l’immagine di una stagione della storia politico-giudiziaria italiana destinata a non ripetersi più. Parma: il boss Domenico Belforte tenta il suicidio, è detenuto da 16 anni in regime 41-bis di Marilù Musto Il Mattino, 25 settembre 2014 Il 57enne prova a impiccarsi ma la corda non regge: intervengono gli agenti . Sabato notte si è legato il cappio al collo e si è lasciato cadere giù, abbandonandosi al destino che si era scelto, ma suicidarsi in carcere è mille volte più difficile che fuori, da liberi. La corda che gli reggeva il corpo, legata alle sbarre della cella, ha ceduto e il tonfo ha richiamato l’attenzione degli agenti della penitenziaria: "Belforte, Belforte risponda", ha gridato l’agente che lo ha soccorso per primo. Ma il boss dì Marcianise, Domenico Belforte, l’uomo che aveva creato la diabolica associazione mafiosa alle porte della città dì Caserta, aveva la schiuma alla bocca e gli occhi rotolati verso l’alto. Quando il 118 è giunto nel carcere dì massima sicurezza dì Parma, dov’è rinchiuso anche l’ultimo capo dei Casalesi, Michele Zagaria di Casapesenna, hanno tentato in tutti ì modi dì rianimarlo. All’ospedale della città ducale, Mimi Belforte è stato ricoverato nel reparto di Rianimazione; solo ieri ha aperto gli occhi e ha ripreso conoscenza. È rimasto sedato per tre giorni, in attesa che rispondesse bene alla terapia. Piantonato notte e giorno dalla polizia, il clapoclan ha chiesto dei familiari. Dal 1998 Domenico è rinchiuso al 41bis, il carcere duro previsto per i detenuti pericolosi. Anche alla moglie, Maria Buttone, è stato applicato lo stesso regime detentivo in una casa circondariale dì Roma. La Dda scoprì che reggeva le sortì del clan in maniera magistrale dopo l’arresto del consorte. Fuori, liberi, i due figli della coppia. Il motivo del gesto estremo del boss sarebbe legato alla situazione detentiva. Domenico Belforte, ormai 57enne, non avrebbe retto alle regole ferree del carcere. O forse, voleva denunciare dei presunti soprusi. Le sue istanze sono state inviate, nel corso di questi 20 anni di reclusione, alle varie procure d’Italia. Il boss è uno a cui piace prendere carta e penna e scrivere per far sentire la sua voce. Accusato di aver preso parte all’atto di nascita del clan egemone a Marcianise e dintorni, assieme al fratello Salvatore, è stato condannato per associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsioni e riciclaggio, Dal tribunale di Milano era stato, inoltre, condannato a 18 anni di reclusione per traffico di droga. Per i tre omicidi contestati - l’ultimo è quello di Alessandro Menditti, ucciso a Recale 13 anni fa - il tribunale del Riesame di Napoli ha annullato tutte le misure, dopo l’emissione delle ordinanze. Nel 2007 venne addirittura assolto dal reato di omicidio, così come nel processo sui rifiuti e veleni trasportati dal Nord verso il Sud Italia. Ma è ancora troppo presto per mettere la parola fine sui fatti di sangue. Se ieri, è pur vero, è stata annullata anche la custodia cautelare nei confronti di Vittorio Musone e Pasquale Cirillo, difesi dall’avvocato Angelo Raucci, è vero anche che le indagini sono nella fase iniziale, curate dalla Dda. A difendere Belforte Domenico, c’è l’avvocato Massimo Trigari. A Marcianise non si parla d’altro, del boss che voleva togliersi la vita perché non vuole restare a Parma, dove nel 2001 denunciò il direttore della casa circondariale per abuso d’ufficio. In sostanza, Belforte aveva spiegato che la polizia penitenziaria gli inondò la cella per spegnere un presunto incendio. Possibili vessazioni era state tutte denunciate alle autorità. Dopo l’evento del 2001, Domenico Belforte venne trasferito a Milano, ma ritornò poi a Parma. Dove non voleva restare. Piuttosto avrebbe abbracciato la morte. Padova: cella troppo piccola, detenuto risarcito con 4.800 euro e sconto di pena di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 25 settembre 2014 Prima applicazione del decreto voluto dall’Europa contro la "detenzione inumana". Ad un carcerato albanese condannato a 6 anni, liquidati 4.808 euro: era stato detenuto 701 giorni in meno di 3 metri. Risarcimento di 4.808 euro per 601 giorni di detenzione in condizioni inumane di sovraffollamento carcerario, e 10 giorni di detrazione della pena sui residui 100 giorni che ancora gli restavano da scontare: è la prima applicazione a Padova del "rimedio compensativo" introdotto dal decreto legge 92 del 26 giugno per placare Strasburgo ed evitare una raffica di condanne dell’Italia da parte della Corte europea dei Diritti dell’uomo, che con le sentenze Sulejmanovic il 16 luglio 2009 e Torreggiani l’8 gennaio 2013 aveva indicato in 3 metri quadrati per detenuto lo spazio minimo in cella sotto il quale la detenzione diventa automaticamente "trattamento disumano e degradante", cioè tortura. Il decreto legge introduce una riduzione di pena di 1 giorno di detenzione per ogni 10 giorni trascorsi in condizioni inumane, oppure il risarcimento di 8 euro al giorno se la detenzione si è già conclusa. Ad oggi, tuttavia, pur a fronte di parecchie migliaia di richieste già formulate dai detenuti in tutta Italia, molti uffici di Sorveglianza o non hanno ancora maturato un orientamento (come Milano e Napoli, che per priorità lavorano intanto sullo smaltimento delle istanze di "liberazioni anticipata" passibili di determinare l’urgente messa in libertà dei detenuti richiedenti); oppure stanno adottando - come a Vercelli - una linea restrittiva che sfocia in molte dichiarazioni di inammissibilità dei ricorsi. Diversa l’interpretazione a Padova, e in genere nel distretto di Venezia come pure a Genova. Nel caso esaminato dalla giudice di sorveglianza Linda Arata, un carcerato albanese condannato a 6 anni (per associazione a delinquere, prostituzione minorile, violenza privata e falsa testimonianza) lamentava tutta la propria attuale detenzione nella casa di reclusione di Padova. La giudice ha però circoscritto il titolo di risarcimento al periodo in cui si è ricostruito che il detenuto era stato in cella con altre due persone, situazione che faceva scendere lo spazio disponibile pro capite a 2 metri e 85 centimetri: misura nella quale la giudice, in dissenso dal ministero della Giustizia che ora ha fatto reclamo contro l’ordinanza, ha escluso il bagno "in quanto mero vano accessorio della camera detentiva", e "gli arredi inamovibili come l’armadio", conteggiando invece "letto e tavolino e sgabelli in quanto arredi che possono essere spostati". Con questi paletti sono risultati 701 i giorni trascorsi in cella dal detenuto albanese in condizioni disumane. Dall’esecuzione della pena residua di 100 giorni la giudice gli ha allora detratto 10 giorni (appunto uno ogni dieci), tolti i quali il detenuto è tornato in libertà il 2 settembre. Per gli altri pregressi "601 giorni di detenzione in condizioni di illegalità", la giudice ha "applicato il criterio di liquidazione residuale del risarcimento predeterminato dal legislatore" di 8 euro al giorno, per un totale quindi di 4.808 euro. Porto Azzurro (Li): Cgil e Sippe denunciano carenze su igiene e sicurezza luogo di lavoro Comunicato stampa, 25 settembre 2014 Le scriventi OO.SS. FP-CGIL e Si.P.Pe., a seguito di visita sui luoghi di lavoro effettuata l’11 settembre 2014, hanno riscontrato presso il penitenziario di Porto Azzurro, un’inquietante situazione igienico sanitaria; il personale di polizia penitenziaria e del comparto ministeriale sono costretti ad operare in mezzo agli escrementi dei piccioni che albergano ormai indisturbati all’interno dei reparti. Gli escrementi dei piccioni sono nocivi e costituiscono un serio problema igienico-sanitario. La contaminazione fecale dell’ambiente, la polverizzazione e dispersione del guano (sostanza naturale formata dalla decomposizione di escrementi di vertebrati), la presenza di nidi negli edifici, causano danni talvolta irreparabili e sono occasione di diffusione e di contagio di malattie infettive all’uomo. Ciò, quindi, costituisce un serio pericolo non solo alla salute dei lavoratori ma anche a quella degli utenti. È stato altresì riscontrato lo stato di totale degrado della locale armeria dove la presenza eccessiva di muffa non consente di sostare più di qualche secondo in questo ambiente. Le affezioni più frequenti che possono causare sono varie malattie delle vie respiratorie, predisposizione alle infezioni, allergie, emicranie, disturbi motori, ecc. Esse sono addirittura molto più rischiose delle comuni allergie stagionali (raffreddori da fieno) perché attaccano le vie respiratorie costantemente, a tutte le ore di permanenza nei luoghi di lavoro e costantemente per l’intero anno. A questi gravissimi rischi sanitari sono esposti sia i lavoratori che la popolazione carceraria, col conseguente rischio che la popolazione elbana stessa possa essere interessata alla diffusione delle patologie sopra elencate. Tra le cause dello stato di degrado denunciato da queste sigle sindacali si evidenzia l’assenza di un direttore titolare dell’Istituto di Porto Azzurro, costituendo grave pregiudizio alla regolare gestione amministrativa. Taranto: detenuto aggredisce agente penitenziario, in Puglia grave carenza di personale di Vanda Sarto www.puglia24news.it, 25 settembre 2014 Nuova denuncia del Cosp (Coordinamento Sindacale Penitenziario) in merito alla difficile situazione delle carceri pugliesi. Ieri, in mattinata, nella Casa circondariale di Taranto si è registrata una nuova aggressione da parte di un detenuto nei confronti di un poliziotto in servizio, che ha riportato lesioni con prognosi di cinque giorni. Non certo migliore la situazione nel penitenziario di Trani e Lecce, dove ad essere messa a dura prova è la polizia penitenziaria femminile. Scrive il coordinatore del Cosp Mimmo Mastrulli: "Mentre il premier Renzi prende tempo cercando di trovare "danari" per le forze armate e corpi di polizia dello Stato; mentre i sindacati di polizia e Cocer si riuniscono in assemblee nelle segreterie sindacali e sui posti di lavoro, nelle carceri italiane i servitori dello Stato mal pagati e mal serviti dalle proprie amministrazioni continuano a ricorrere alle cure del pronto soccorso e dei medici, per subite aggressioni anche violente". Zizza (Fi): in Puglia grave carenza di agenti "Quello che sta accadendo nelle Carceri pugliesi merita massima attenzione. L’ aggressione di un agente della polizia penitenziaria, avvenuta ieri a Taranto, è un gravissimo segnale che non si può ignorare. Nell’esprimere la mia solidarietà alla vittima, voglio sottolineare quanto sia necessario in Puglia ampliare le unità di polizia penitenziaria, proprio come riportato dal Coordinamento Sindacale Penitenziario (Cosp). Sottoporremo la questione al presidente Renzi non appena rientrerà dal suo tour in America". Lo dichiara il senatore di Forza Italia, Vittorio Zizza. Sassari: detenuto nel carcere di Bancali danneggia le telecamere della videosorveglianza Ansa, 25 settembre 2014 È stato denunciato per danneggiamento aggravato, ma non ha dovuto fare molta strada perché si trovava già in carcere. Protagonista della paradossale vicenda è Giuseppe Dettori, 38 anni, di Alghero, che alla fine dello scorso anno era stato arrestato con l’accusa di lesioni e rapina ai danni del cugino più conosciuto, il cantante, insegnante ed ex consigliere comunale Mariano Melis. Spazientito dall’ennesimo ritardo di una qualche pratica di cui evidentemente aveva particolare urgenza, l’uomo è andato in escandescenze, ha iniziato a inveire nei confronti di tutto e di tutti per la scarsa attenzione riservata alla sua domanda e ha sfogato la sua ira contro le telecamere che gestiscono il sistema di videosorveglianza interno al carcere sassarese di Bancali, distruggendone alcune. Autorizzati dal pm di turno, il sostituto Giovanni Porcheddu, gli agenti di polizia penitenziaria hanno proceduto al suo arresto. Il giudice Teresa Castagna ha convalidato il provvedimento, ma ha accolto la richiesta del suo difensore, l’avvocato Danilo Mattana, e non ha disposto nessun’altra misura cautelare nei confronti dell’uomo. Teramo: danza, il festival Interferenze "entra" al carcere di Castrogno www.emmelle.it, 25 settembre 2014 Danza, il carcere di Castrogno apre le porte al festival Interferenze. Otto i detenuti che sabato e domenica mattina (ore 10.30 e 9.30) si esibiranno insieme a 7 professionisti nello spettacolo outdoor "Il coraggio di stare" ideato da Tommaso Serratore che ne ha curato anche la regia. L’obiettivo del progetto è quello di indagare le potenzialità della danza ma anche del teatro come strumento di risocializzazione e rieducazione dei detenuti. "Quest’esperienza e in generale tutte le iniziative culturali - ha spiegato questa mattina in conferenza stampa il direttore del carcere Stefano Liberatore - sono utili per ottenere un riconoscimento dell’eguaglianza di queste persone sia sul piano umano che sociale. La fase della risocializzazione - ha aggiunto - inizia proprio nel periodo detentivo e attività di questo genere sono una risorsa preziosa per la realtà carceraria". "Formiamo persone che provengono da aree di degrado sociale e con una bassa scolarizzazione - ha aggiunto Elisabetta Santolamazza, responsabile dell’area trattamentale del carcere "e anche se il primo approccio al progetto è stato di disorientamento, i detenuti hanno subito intuito quali e quanti benefici ne potranno trarre in termini psicologici". La direttrice del festival, Eleonora Coccagna, ha infine ricordato come il festival, giunto ormai alla nona edizione, sia nato da "un’esperienza di coinvolgimento della città e dei cittadini, adattandosi alle esigenze del territorio e trasformandosi da evento di formazione e intrattenimento a progetto culturale a lungo termine, oggi finanziato dal ministero dei Beni Culturali". "Grazie a queste risorse - ha concluso - il progetto si sviluppa durante tutto l’anno e solo nel 2014 abbiamo portato 40 spettacoli in 12 diversi comuni". Il festival è organizzato da Electa Creative Arts in collaborazione con il circuito Abruzzo Danza ed è sostenuto dal ministero dei Beni Culturali e del Turismo, dal Comune di Teramo e dalla Fondazione Tercas. Milano: l’On. La Russa (Fi), in visita al carcere di Opera, incontra Galan e Corona Ansa, 25 settembre 2014 Una visita "per motivi umanitari" al carcere di Opera e l’incontro con due detenuti noti: il deputato di Forza Italia Giancarlo Galan e il fotografo Fabrizio Corona. La racconta Ignazio La Russa, nel corso di una conferenza stampa alla Camera. "Per la prima volta da quando sono parlamentare - spiega - ho deciso di andare a vedere le condizioni di chi è in carcere. Non lo avevo mai fatto, per evitare sovrapposizioni con la mia intensa attività di avvocato penalista". "Sia Galan che Corona - sottolinea La Russa - mi hanno espresso apprezzamento per il modo in cui la struttura carceraria di Opera si rapporta con i detenuti, pur nella sofferenza di una situazione di reclusione". La Russa spiega anche che "Galan e Corona hanno entrambi tentato di parlare della loro situazione processuale" ma "poiché lo scopo della visita era di tipo umanitario ho promesso che sarei tornato un’altra volta per parlare delle vicende giudiziarie". Il presidente della giunta per le Autorizzazioni osserva però che Galan, in carcere da luglio per l’inchiesta sul Mose, "ancora non è stato interrogato dal pm". A Fabrizio Corona, nota, "è stata data una sommatoria di pene non usuale per i reati commessi: deve scontare 15 anni complessivi, una pena che si dà per i reati di sangue". Infine, un dettaglio: "Galan è nell’ala di massima sicurezza, mi ha mostrato la vista sulla tangenziale...". Mentre era in visita al penitenziario, il deputato di Fratelli d’Italia riferisce di aver assistito tra l’altro a "uno spettacolo di cabaret fatto dai detenuti". Volterra: permesso premio a quattro detenuti per andare in udienza da Papa Francesco www.gonews.it, 25 settembre 2014 In permesso premio per incontrare Papa Francesco. È l’esperienza vissuta da Pierangelo, Bruno, Aral e Domenico, quattro detenuti della casa di reclusione di Volterra (Pisa) presenti in piazza San Pietro. Lo riferisce l’Osservatore Romano. Insieme a una delegazione di quindici persone del carcere toscano - guidata dal cappellano don Paolo Ferrini, dalla direttrice Maria Grazia Giampiccolo e dal commissario Giuseppe Simone, comandante della polizia penitenziaria - hanno partecipato all’udienza generale per ricordare il venticinquesimo anniversario dalla visita di Giovanni Paolo II. In occasione della festa di san Lino, patrono della diocesi, il Pontefice polacco si recò infatti a Volterra il 23 settembre 1989 e nella circostanza incontrò i detenuti nella casa di reclusione. Nel ricordare quell’avvenimento il cappellano spiega che negli ultimi decenni, si è riusciti a creare un ambiente dove il rispetto per la dignità umana e le relazioni interpersonali sono al centro della vita quotidiana. Un traguardo favorito anche dal numero non eccessivo di detenuti. Eppure non mancano i problemi. Tra questi, la difficoltà per quanti godono dei permessi di uscita di trovare un lavoro all’esterno del carcere. Di tutto ciò il cappellano - riferisce ancora il giornale della Santa Sede - ha parlato con Papa Francesco, al quale poi i quattro detenuti hanno offerto in dono un tappeto copritavolo prodotto nella sartoria interna della casa di reclusione, un calice in alabastro e una statuetta in bronzo che ricorda l’ombra della sera, il simbolo di Volterra. Stati Uniti: alla Camera approvate due Mozioni per tutelare detenuto italiano Chico Forti Asca, 25 settembre 2014 L’Aula della Camera ha approvato due mozioni a tutela di Enrico, detto Chico, Forti, un connazionale che da 12 anni si trova in carcere a Miami, condannato all’ergastolo per omicidio. I documenti approvati impegnano il governo ad "assumere in ogni sede qualsiasi iniziativa di competenza volta a tutelare il concittadino". "Esprimo grande soddisfazione - dichiara il presidente del gruppo parlamentare Per l’Italia, Lorenzo Dellai - per l’approvazione da parte della Camera della mozione sul caso del cittadino trentino Chicco Forti. La presa di posizione del Parlamento si aggiunge all’iniziativa di molti cittadini che chiedono che sia fatta verità su questo incredibile caso. Confidiamo che il documento approvato possa essere utile in questa direzione". Ottobre (Patt): giustizia per Chico è ora impegno Parlamento "L’impegno affinché Chico Forti, da quattordici anni ingiustamente detenuto negli Usa, abbia giustizia è da oggi un impegno del Parlamento italiano. Il voto unanime con cui la Camera ha approvato la mozione a mia prima firma, con il parere favorevole del governo, fa assumere alla battaglia per Chico Forti i caratteri di una posizione istituzionale e di governo che possa concorrere e sostenere il percorso, sotto il profilo penale, che ha come obiettivo essenziale la revisione del processo". È quanto dichiara in una nota Mauro Ottobre, deputato del Patt. "Il voto della Camera è stato oggi un voto contro il pregiudizio. Si apre una nuova prospettiva nella quale il consenso nei confronti delle istanze di giustizia e libertà di Chico Forti non è più espressione di una minoranza, che pure ha avuto il merito di operare laddove altrimenti sarebbe stato dominante il silenzio, ma di uno schieramento sempre più diffuso e ampio nel Paese. Abbiamo apprezzato, in aula e nel corso di questi mesi, la posizione assunta dal governo italiano che ha ribadito la volontà di non abbandonare Chico Forti e di operare, per quanto nelle proprie opportunità, a sostegno della sua domanda di giustizia. In primo luogo - ha affermato Ottobre - rinnovo il mio apprezzamento per le iniziative e le posizioni del Ministro degli Affari Esteri, Mogherini". Fraccaro (M5S): ora governo si attivi "L’approvazione della mozione presentata dal M5S sul caso di Chico Forti, il nostro connazionale detenuto in un carcere di sicurezza di Miami, è un importante passo in avanti per garantire che sulla vicenda sia fatta piena giustizia. Il Governo si è impegnato a sanare questa ingiustizia, ora si attivi subito". Lo afferma il deputato M5S Riccardo Fraccaro. "Il processo lampo di condanna di Chico, basato su prove indiziarie e viziato da gravi irregolarità - aggiunge - è l’emblema della situazione dei detenuti italiani all’estero. Il Movimento 5 Stelle ha chiesto al Governo di sostenere questa causa dal punto di vista legale e di sollecitare gli Stati Uniti a concedere la possibilità di presentare un ricorso per la revisione del processo, nel rispetto dei diritti della difesa tutelati dal Patto di New York. Chico ha diritto ad un giusto processo, quello che gli è stato negato". Siria: 4mila europei nelle carceri, provengono dal Belgio, dalla Francia, dalla Germania Asca, 25 settembre 2014 Lo ha detto il giornalista libanese Talal Khrais, corrispondete del quotidiano As-Safir da tre anni in Siria per seguire il conflitto, ospite della trasmissione 24 Mattino su Radio 24. Secondo Khrais queste persone sono italiani convertiti all’Islam oppure cittadini stranieri in particolare dei Paesi del Maghreb. Khrais ha poi spiegato che i siriani non vogliono rivelare a nessun servizio di sicurezza la presenza di questi prigionieri europei perché loro giocano questa carta per ripristinare i rapporti diplomatici; dicono "quando ripristinerete i rapporti diplomatici con noi parleremo anche dei prigionieri". Ospite della trasmissione in diretta anche il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova che alle parole del giornalista Krhais ha replicato: "Su numeri così precisi io non potrei e non posso dire nulla ma che questo fenomeno coinvolga anche l’Italia è più che possibile"; poi ha detto della Siria: "Non lo ammetteranno o non essendoci di fatto rapporti diplomatici non c’è comunicazione neanche di tipo ufficiale, governo su governo, nemmeno su queste cose. Sappiamo che questo è un problema vero, vale non solo per l’Italia, vale per la Gran Bretagna ed è un ulteriore elemento di preoccupazione che dovrebbe rendere sensibili anche le nostre opinioni pubbliche". Talal Khrais, che sostiene che dietro all’Isis ci sia l’appoggio della Turchia, ha raccontato: "Sono stati rapiti 48 pellegrini libanesi sciiti in Siria. Hanno aspettato due anni per poter farli tornare. Gli sciiti in Libano hanno preso tre diplomatici turchi e hanno dato alla Turchia una settimana di tempo. Sono stati liberati" e poi ha rivolto un messaggio al sottosegretario Della Vedova in ascolto per liberare i rapiti italiani in Siria: "Il sottosegretario chiami l’ambasciatore turco e gli dica che gli ostaggi italiani devono essere liberati". Romania: si è avviato il processo all’ex direttore del "carcere degli orrori" di Ceausescu Ansa, 25 settembre 2014 La Romania fa i conti, in tribunale, con il suo passato di brutale oppressione comunista: si è aperto a Bucarest il processo contro un ex capitano considerato uno dei più temuti torturatori del regime nel periodo precedente all’era Ceausescu. Il procedimento contro l’anziano Alexandru Visinescu, accusato dai procuratori della Corte di Appello di Bucarest di crimini contro l’umanità, è stato subito rinviato al 22 ottobre. Visinescu, 89 anni questa settimana, secondo i procuratori avrebbe causato la morte di almeno 12 detenuti politici nel carcere di Ramnicu Sarat attraverso percosse e violenze di vario tipo perpetrate fra gli anni Cinquanta e Sessanta (fino a due anni prima dell’avvento di Nicolae Ceausescu del 1965-67). Tra le vittime dell’imputato ci sono stati esponenti all’epoca ritenuti nemici del regime: tra questi anche il leader del movimento contadino, Ion Mihalache, deceduto in seguito a percosse, ed il generale Ion Eremia, la cui vedova si è costituita parte civile chiedendo un indennizzo di 100 mila euro. Visinescu fino all’anno scorso viveva tranquillamente in un appartamento di un grande edificio al centro di Bucarest. Poi l’Istituto per le indagini sui crimini del comunismo ha presentato una denuncia a suo carico ma l’ex aguzzino ha sempre negato le accuse sostenendo di aver soltanto espletato le proprie mansioni. Anche all’arrivo presso il tribunale di Bucarest è apparso piuttosto tranquillo, dichiarando semplicemente: "Vedremo cosa succederà". L’unica sua vittima ancora in vita, l’83enne Valentin Cristea, ha fatto sapere che rinuncerà a costituirsi parte civile ed eviterà di chiedere indennizzi ma ha raccontato all’emittente Digi 24 cosa succedeva in quella che è stata definita la "prigione del silenzio": "C’erano le sbarre e degli oblò nel soffitto inclinati così da poter scorgere solo una parte di cielo. La tortura era un’attività quotidiana. Avevamo dritto solo a 15 minuti di aria e quando qualcuno si ribellava per le pessime condizioni in cui eravamo tenuti, come nel caso di Ion Mihalache, i secondini entravano nelle celle e percuotevano i detenuti". Nella requisitoria in base alla quale Visinescu è stato rinviato a giudizio, i procuratori hanno dimostrato che l’ex capitano ha violato i diritti e le libertà fondamentali dell’Uomo con crimini perpetrati durante il suo mandato di direttore del carcere di Ramnicu Sarat (piccolo centro nel sud est della Romania, a pochi chilometri dal Mar Nero e dal confine con l’Ucraina). Orrori protrattisi dal 1956 fino al momento della chiusura della prigione-lager, nel 1963. Francia: prima edizione dei Giochi nazionali penitenziari, partecipano 180 atleti detenuti di Paola Battista www.west-info.eu, 25 settembre 2014 Ha preso il via lunedì, in Francia, la prima edizione dei Giochi nazionali penitenziari. La manifestazione permetterà a 180 detenuti di 45 carceri di misurarsi in competizioni sportive individuali e di squadra. Con l’obiettivo principale di combattere la recidiva. Sperimentate per la prima volta nel 2012 dall’amministrazione di Marsiglia, le gare si alterneranno ad animazioni sportive e informazioni in materia di fair play. Ospitate nelle infrastrutture sportive del Creps di Saint-Raphaël-Boulouris, nel dipartimento del Var. Non bastasse, precisa il ministero, i 9 mesi di allenamento hanno rappresentato un’occasione per affrontare con i detenuti le tematiche connesse all’abuso di sostanze stupefacenti. Al fine di favorire l’auto-riflessione, la gratificazione personale per i risultati raggiunti e il cambiamento degli stili di vita degli atleti.