Perché nessun detenuto agli "Stati Generali" sul carcere? di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 24 settembre 2014 La sofferenza fisica, il dolore del corpo non sono più elementi costitutivi della pena. Se non è più al corpo che si rivolge la pena nelle sua forme più severe, su che cosa stabilisce allora la sua presa? (…) Non è più il corpo è l’anima. Alla espiazione che strazia il corpo, deve succedere un castigo che agisca in profondità del cuore, il pensiero, la volontà, la disponibilità una volta per tutte. Alla morte fisica è sostituita la morte civile. ("Sorvegliare e Punire" di Michel Foucault) Ho letto una dichiarazione di Sandro Favi, Responsabile nazionale carceri del Partito Democratico "Ottima l’idea del Ministro Andrea Orlando di convocare una sorta di Stati generali del sistema penitenziario aperti alla dirigenza penitenziaria, come alla Polizia penitenziaria, agli educatori e al volontariato", e siamo d’accordo, è importante convocare gli Stati generali, ma la sua lista, a mio parere, è incompleta. Ed ho pensato che come al solito, quando si discute di carcere, mancano i detenuti che potrebbero dire la loro dato che la galera la conoscono bene perché ci vivono di giorno e ci dormono la notte da anni, alcuni da decenni e una piccola parte ci rimarranno fino all’ultimo dei loro giorni perché condannati alla "Pena di Morte Viva". Nei gironi infernali (come spesso li hanno definiti la Corte europea dei diritti dell’uomo e persino il nostro presidente della Repubblica) delle carceri italiane ci sono detenuti che hanno studiato (spesso da autodidatta come me) e che hanno imparato a coltivare interessi umani e sociali. Altri, anche se non hanno studiato, hanno imparato a ragionare, a fare e a porsi delle domande. Alcuni, come i detenuti della Redazione di "Ristretti Orizzonti" nel carcere di Padova fanno volontariato con il progetto "Scuola Carcere" portando le loro difficili testimonianze di vita per ragionare con migliaia di studenti sulla legalità: un’idea di carcere davvero "aperto", dove i giovani entrano e si confrontano in modo profondo con le persone detenute. Quindi, quando ho letto questa notizia della convocazione degli Stati Generali sul carcere, mi sono domandato: perché non "sfruttare" e non ascoltare anche i detenuti per migliorare la qualità delle nostre Patrie galere? Forse perché la dirigenza penitenziaria, la polizia penitenziaria gli educatori e i volontari conoscono il carcere meglio dei prigionieri? Non credo, perché loro in carcere ci lavorano, invece i detenuti ci vivono e potrebbero dare un contributo profondo e completo a questo importante evento. La legge penitenziaria, mai abbastanza applicata, (con gli articoli 12, 27 e 21 O.P.) prevede già la possibilità di rappresentanze dei detenuti. Da qui l’idea di lanciare un appello al Ministro della Giustizia per chiedere a gran voce di fare partecipare agli "Stati Generali" del sistema penitenziario italiano anche detenuti delle varie carceri. E penso che questa sarebbe una decisione rivoluzionaria e illuminata e soprattutto finalmente una cosa di sinistra. Signor Ministro della Giustizia, molti detenuti hanno fame di legalità e di diritti, perché non viene a trovarci, come facevano i politici di una volta durante la riforma carceraria degli anni settanta, (un nome per tutti, l’Onorevole Gozzini) per discutere con noi di una eventuale presenza di detenuti a questo importante evento? Potrebbe sentire delle cose interessanti. La aspettiamo. Ed intanto, fin quando non verrà a trovarci, le lasceremo un posto libero al tavolo delle riunioni della Redazione di "Ristretti Orizzonti". Signor Ministro della Giustizia, molti prigionieri dicono che chi ha il potere difficilmente ha umanità. Io non credo a questa banalità ed ho già scommesso (una cinquantina di flessioni, non mi faccia perdere che ho quasi sessant’anni) che lei verrà a trovarci e farà in modo di fare partecipare anche i detenuti agli "Stati Generali" sul carcere. Lo so mi piace sognare. Ed io ho scommesso sulla sua umanità e intelligenza. Buon lavoro. Giustizia: il Presidente del Senato Grasso "La riforma non sia fatta contro i magistrati" di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 24 settembre 2014 "La riforma della giustizia non si può fare contro i magistrati - dice il presidente del Senato Grasso al Corriere. Gli arbitrati non funzionano; meglio limitare appello e ricorsi in Cassazione. Le ferie? Falso problema". E su Renzi confessa: "Uso poco twitter". Presidente Grasso, quand’era magistrato quanti giorni di ferie faceva? "Ha trovato la persona sbagliata. Al maxiprocesso non ho preso un giorno di ferie per tre anni, sono stato 35 giorni in camera di consiglio senza uscire dall’aula bunker e senza comunicare con nessuno, neppure con la famiglia. Mia moglie sapeva che ero vivo perché arrivava la biancheria sporca. Poi sono stato 8 mesi chiuso in casa a scrivere la sentenza. Un isolamento che all’epoca mi costò il rapporto con mio figlio. Si tratta di un caso eccezionale; ma è evidente che il vero problema della giustizia italiana non sono le ferie". Certo, però 45 giorni sono tanti, o no? "I giorni sono 30, come per tutti gli statali; se ne aggiungono 15 per la stesura delle motivazioni delle sentenze. Si possono togliere, purché si sospendano i termini di deposito dei provvedimenti. Ma non mi sembra il punto centrale...". Le ferie dei magistrati come i permessi dei sindacalisti? "C’è la tendenza a concentrare il dibattito su elementi di consenso popolare immediato, perdendo di vista la complessità delle riforme. Il consenso è importante; ma poi i testi vanno discussi e votati dalle Camere". Resta il fatto che ogni corporazione è impopolare. Lo è anche la magistratura? "La magistratura viene raffigurata come una classe che ha potere e privilegi; ma ci sono giudici che non hanno neppure l’ufficio, lavorano a casa. In realtà, la magistratura non può avere consenso, perché è destinata a scontentare sempre qualcuno: l’imputato, i suoi familiari, i suoi avvocati. Anche nel civile, c’è sempre una parte che perde. La prova sono i regali di Natale. I burocrati li ricevono, i politici pure. I magistrati, almeno quelli che conosco io, no". Ma la riforma della giustizia è urgente, non crede? "Sono 15 anni che ne discuto. Quand’ero magistrato andavo ai convegni sempre con lo stesso testo. È ancora valido". La riforma della giustizia civile punta sulle composizioni extragiudiziali, in particolare sui collegi arbitrali formati da avvocati. Lei che ne pensa? "Non posso entrare nel merito: il presidente del Senato non deve soltanto essere imparziale, deve anche apparire imparziale. Faccio solo notare che si è già tentato di ridurre il contenzioso attraverso il giudice di pace o forme di soluzione extra-giudiziale, come la conciliazione; che però non hanno eliminato i milioni di processi arretrati. Si può anche mettere un termine entro cui decidere: ma se non lo si rispetta, cosa succede? Chi vince la causa, chi la perde? Chi è disposto a cedere alle ragioni dell’altro?". In Italia ci sono troppi avvocati? "Temo di sì. Di sicuro ce ne sono molti più che negli altri Paesi. Ricordo un avvocato che mi diceva: "Causa che pende, causa che rende". Si potrebbe porre un limite, introducendo il numero chiuso agli esami di abilitazione. Ma la riforma della giustizia non può essere punitiva nei confronti delle varie categorie. Non si può fare contro gli avvocati, e tanto meno contro i magistrati". Come si fa allora ad abbreviare le cause? "È fondamentale riformare i motivi del ricorso in Cassazione, che troppo spesso oggi viene fatto per ritardare i tempi. Si possono poi semplificare le motivazioni, che altri Paesi non hanno o sintetizzano in forme estremamente concise; mentre in Italia il difetto di motivazione è una delle cause del ricorso in Cassazione, che così diventa un terzo grado di giudizio di merito". È possibile riformare o anche abolire l’appello? "Da tempo sostengo che è assurdo consentire di impugnare le sentenze di patteggiamento. Si può pensare di escludere l’appello anche in altri casi. L’importante è che accusa e difesa restino ad armi pari. In passato si tentò di abolire l’appello solo per i pm nel caso di assoluzione, ma la Corte Costituzionale annullò quella legge". Non pensa a quante condanne di primo grado vengono ribaltate in appello? "Dobbiamo creare un sistema di pesi e contrappesi che limiti gli errori giudiziari. Nei Paesi anglosassoni la giuria composta da cittadini stabilisce con un verdetto solo se l’imputato è colpevole o no. Ma appena una piccola percentuale dei casi sfocia in un processo e in una sentenza. Soltanto da noi i processi si fanno tutti, perché abbiamo l’obbligatorietà dell’azione penale". Va eliminata anche quella? "No, ma la si può rivedere ad esempio per tenuità dei fatti". Altri punti importanti? "Interventi seri per colpire la corruzione, l’economia sommersa, l’evasione, i delitti societari e finanziari, il riciclaggio; per rafforzare le indagini finanziarie sui patrimoni illegali; per moralizzare la gestione delle risorse pubbliche; per ostacolare con la presenza dello Stato il radicarsi socio-economico del potere criminale. Il mio primo giorno da senatore avevo presentato un disegno di legge su questi temi: credo sia un modo per dimostrare che la politica interpreta il suo servizio per il bene comune e dei più deboli, non per interessi di parte". Al Senato Renzi ha espresso l’intenzione di chiudere vent’anni di scontro tra giustizia e politica. "Concordo. Ma vedo che nelle reazioni popolari e mediatiche, fortunatamente non in quelle politiche, si continua a parlare di giustizia a orologeria…". Si riferisce all’avviso di garanzia al padre del premier? "No, al caso Eni. Bisogna considerare che c’è anche un orologio della giustizia, tempi da rispettare, e convenzioni internazionali sulla corruzione cui l’Italia ha aderito". Sulla Consulta lo stallo continua. Le candidature di Bruno e Violante sono bruciate, non crede? "Vedremo. Ma non si possono bloccare all’infinito i lavori parlamentari. Ci sono provvedimenti indifferibili e urgenti da esaminare". Il primo è la riforma del lavoro. Qual è la sua posizione sull’articolo 18? La reintegra deve restare o può essere abolita? "Mi limito a ricordare che l’articolo 18 di cui si discute oggi non è quello dei tempi di Cofferati; la riforma Fornero l’ha già reso più flessibile. In ogni caso, credo sia essenziale proteggere tutti i lavoratori nei loro diritti, anche quelli che oggi non ne hanno, ma senza ideologismi; a cominciare proprio dal diritto al lavoro che non coincide con il diritto a uno specifico posto di lavoro". Il secondo provvedimento che arriverà al Senato è la legge elettorale. Cosa pensa del ritorno delle preferenze? "Le preferenze richiamano tempi segnati dai rapporti clientelari. Nel mondo dei miei sogni ci sono primarie regolamentate per legge e collegi uninominali, con i cittadini che scelgono il loro rappresentante tra candidati che risiedono nel collegio da almeno dieci anni. E che sono candidati solo lì, non altrove". Nel mondo dei suoi sogni c’è ancora spazio per cambiare la riforma del Senato? "Molto è già cambiato, e in meglio, rispetto al progetto iniziale del governo. Resto convinto che, per garantire in parte la rappresentanza, sarebbe meglio consentire agli elettori di indicare i consiglieri regionali che andranno a Palazzo Madama, magari con una semplice preferenza". I dipendenti delle Camere, con le loro decine di sigle sindacali, protestano contro i tagli. Come se ne esce? "Decideranno gli uffici di presidenza. La proposta mia e della presidente Boldrini è ampia e tocca tutti i dipendenti: se si mette un tetto allo stipendio massimo, è equo prevedere "sottotetti", un meccanismo di gradualità che impedisca ai dipendenti di guadagnare più dei vertici. Penso poi che arriveremo presto, d’intesa con la presidente della Camera, ad unificare organici e servizi, oltre a provvedimenti sugli ex parlamentari". Quali provvedimenti? "Togliere i vitalizi ai condannati per mafia, corruzione e altri reati". Com’è il suo rapporto con i 5 Stelle? "Gli scontri con loro contribuiscono molto al mio corso di formazione alla politica… c’è in molti una passione autentica. Spero che la usino anche per costruire. Nelle discussioni sul lavoro e sulla legge elettorale garantirò la libertà di espressione di tutti; ma farò rispettare tempi certi. Il Paese non può aspettare sine die". Il suo rapporto con Renzi? "Quello istituzionale è ottimo. Per il resto, uso poco sms e twitter. Abbiamo ancora una sfida a calcetto in sospeso". E com’è oggi il rapporto con suo figlio? "L’ho recuperato dopo l’assassinio di Falcone. Giovanni non aveva figli e amava stare con i figli degli amici, con Maurilio giocavano a ping-pong. Nel 1992 lui capì che si può anche morire facendo il magistrato antimafia, ma senza la ricerca della verità la vita non è degna di essere vissuta. Oggi fa il funzionario di polizia". Giustizia: la Consulta nella palude del Parlamento di Francesco Merlo La Repubblica, 24 settembre 2014 C’è qualcosa di corrotto, nel senso di andato a male, nel Parlamento che si dissipa in 14 votazioni e non solo non elegge i due candidati alla Consulta, ma ad ogni fumata nera li prende entrambi a sberle, ne offende la dignità e, nel caso di Luciano Violante, anche il blasone. Si capisce infatti che persino la trombatura a così alto scranno suoni come promozione per Donato Bruno, l’amico-compare di Cesare Previti. E però qui rischia di finire in "poltronite" anche Luciano Violante, che è una storia controversa ma formidabile di questo Paese, quella della Giustizia che negli anni settanta finalmente scoprì che il Diritto non era neutrale. Diciamo la verità: già l’essere (stato) candidato in coppia con Violante, già l’essere (stato) prescelto tanto dai troiani quanto dagli achei è comunque una medaglia sgargiante sul petto di questo avvocato Bruno, "paglietta" della provincia barese, oggi pure inquisito, che ricorda il Sergio Castellitto della "Buca", l’atteso film di Daniele Ciprì che, con felice tempismo, arriva domani nelle sale, e dove persino fisicamente il difensore si confonde con i suoi clienti. Insomma, si vede subito che a Donato Bruno non par vero di far parte, sia pure da bocciato nel segreto dell’urna, dell’Accademia Italiana dei Saggi e degli Equilibrati, scelto nientemeno per la Consulta, garante, arbitro, perché come diceva il saggio Senofane: "Occorre un saggio per riconoscere un saggio". E infatti, in questi giorni di feroce umiliazione, Bruno non scappa e non si nasconde come fa Violante che, sfuggendo, esibisce la sofferenza della vergogna, proprio lui che di Enrico Letta ha detto: "Bisogna sempre capire il momento in cui uno deve farsi da parte". Violante, inseguito lunedì sera dal cronista di "Piazza Pulita", non somigliava più a se stesso, era inimmaginabile anche nelle reazioni, asserragliato nel taxi, ansioso, contratto, come contaminato. Coda di paglia? La sola frase virgolettata che gli viene attribuita è del 18 settembre: "Non mi ritiro, non c’è ragione. Ormai questo problema non riguarda solo me. È una questione che riguarda, prima di tutti, Renzi". Di sicuro oggi il suo eccesso di "no comment" è speculare all’eccesso di "comment" di Bruno: i due sono infatti costretti a stare nello stesso ascensore, ma uno sale e l’altro scende. E dunque il beato Bruno si sbraccia e abbraccia tutti, bacia la mano della Boschi, "salamelecchia" "il buon senso" della Serracchiani e, prima di mettersi a straparlare, dice "non parlo perché Berlusconi mi ha detto di tenere il profilo basso". E sempre è orgoglioso di inscenare, nel suo genere ruspante, la commedia dei due forni e delle convergenze parallele. Comunque vada a finire, sa che in futuro, nella sua dolce Noci, tranquillo avvocato in collina, ispirerà una certa soggezione attraversando piazza Garibaldi: "Quello, un giorno, è stato (quasi) giudice costituzionale". Al contrario, Violante mette a rischio insieme a se stesso, una lunga e importante vicenda italiana, benedetta dalla contraddizione ma sicuramente limpida. Il sospetto di attaccamento alla poltrona non è infatti compatibile con la testardaggine eroica della sinistra torinese dei Bobbio e dei Galante Garrone, e neppure con la tenacia di quella magistratura che nella discrezionalità della Legge scovò il conflitto di classe. Ma Violante è altro ancora, è la vecchia guardia nobile, è la politica che, con la commissione antimafia da lui guidata, aprì la strada alla giustizia e smascherò Andreotti. È una delle facce forti di D’Alema, mai omuncolo, sempre protagonista, l’ultima resistenza alla rottamazione, l’estremo vessillo dell’antico Pci. È vero che la storia del Parlamento italiano "o è storia di pugnale, o di veleno, o di franchi tiratori". Sempre, la seduta comune a scrutinio segreto è stata tradimento programmato, agguato all’alleato, impallinamento del proprio candidato. Ed è un trucco vecchio quanto la repubblica anche quello di votare scheda bianca, come ieri hanno fatto Pd e Forza Italia, per ottenete il Rinvio, che è la morbidezza del peggio, è l’arte democristiana, la cifra perversa dell’andreottismo che consentiva di ridurre le asperità, levigare le asprezze, e permettere a maggioranza e opposizione di bruciare i falsi candidati per promuovere, due settimane dopo, quello vero. Qui, però, di quella disobbedienza agli ordini, di quell’anarchia di voti agli amici del nemico e ai nemici dell’amico, rimane solo la dimensione di disprezzo goliardico che è tipica degli ambienti chiusi, dei collegi dove i secchioni, i più bravi, vengono messi alla berlina con il capello dell’asino. Il fatto nuovo è che qui non c’è un notabile acquattato che attende la caduta del notabile nemico. E forse, dunque, questa del fucilatore protetto dall’ombra è la via laterale che ha preso la rottamazione: il più sgamato e il più ambiguo dei metodi per dismettere, con metodo, gli ultimi vecchi che resistono. L’erede di Previti e il Lancillotto di D’Alema si mostrano infatti disposti a tutti per un titolo che ad ogni votazione viene loro negato: vengono rottamati dalla malattia del ceto politico "ad ogni costo". È la stessa degli Scilipoti, dei De Gregorio, e Razzi, e Villari, e Mario Mauro, e poi De Luca, Mirello Crisafulli, Roberto Formigoni… Con la differenza che quelli non volevano mollare le poltrone che occupavano, e questi invece le scaldano senza neppure starci seduti. Giustizia: Renzi contro Orlando sul futuro del Dap e del Corpo di Polizia penitenziaria di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 settembre 2014 Doveva essere designato già alla fine di agosto, il nuovo capo del Dap, carica ricoperta da Giovanni Tamburino fino al 27 maggio scorso. Ma di settimana in settimana la nomina viene rinviata, perché sul riassetto dell’amministrazione penitenziaria si sta consumando quasi una piccola crisi di governo. Il Guardasigilli Andrea Orlando sembra infatti deciso a resistere strenuamente all’ipotesi, caldeggiata da Matteo Renzi e dal ministro Alfano, di far confluire la Polizia penitenziaria dentro il corpo della Polizia di Stato. Che poi al momento sarebbe l’unica possibilità per il premier di dare seguito alla sua promessa di imporre una "cura dimagrante" ai 5 corpi delle forze dell’ordine. Troppo difficile infatti tentare lo scioglimento dell’Arma dei carabinieri, per esempio, o proporre di rimettere mano alle funzioni della Guardia di finanza. Ma sembra che per il ministro Orlando l’autonomia degli agenti penitenziari vada salvaguardata. E in effetti non è l’unico a pensarlo, non fosse altro per una questione di missione che differenzia i due corpi di polizia: il trattamento del detenuto in un caso, il controllo e la repressione dei crimini nell’altro. "Sarebbe pericolosissimo far dipendere la Polizia penitenziaria dal ministero degli Interni - è il parere di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, sarebbe una situazione di regime contro cui l’Onu si è già espressa. È invece auspicabile la costituzione di un corpo unico di funzionari non armati operante dentro il carcere che comprenda educatori ed (ex) poliziotti. Lasciando alla polizia di Stato il controllo esterno e i trasferimenti". Secondo il sito pol?pen?.it, il braccio di ferro tra Renzi e Orlando potrebbe però "risolversi" a breve, già intorno a metà ottobre, con la nomina a capo del Dap dell’attuale capo Gabinetto di via Arenula, Giovanni Melillo: "Tanto lavoro, tanti soldi spesi - è il commento del sito diretto da Domenico Nicotra, il segretario generale del sindacato autonomo Osapp - e poi pare che non avverrà alcuna svolta epocale e nessuna drastica riorganizzazione". Giustizia: processo appello Cucchi: Il Pg: pestato dopo l’udienza di convalida dell’arresto Corriere della Sera, 24 settembre 2014 Colpo di scena nel processo sulla morte del giovane: in primo grado per l’accusa era stato aggredito prima. "Dai medici cure inadeguate". La sorella: pestaggio di Stato. Stefano Cucchi fu "pestato", ma l’aggressione avvenne dopo l’udienza di convalida del suo arresto per droga. È il colpo di scena emerso in aula dalle parole del sostituto Procuratore generale Mario Remus, nel corso della sua requisitoria per il processo d’Appello in merito alla morte di Stefano Cucchi, ricostruendo quanto avvenuto dopo il fermo del 15 ottobre del 2009 fino alla sua morte nella struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini. In primo grado l’accusa aveva sostenuto che Cucchi era stato picchiato nelle celle del Palazzo di Giustizia poco prima dell’udienza di convalida. Pg: condannate anche agenti della penitenziaria Una condanna a due anni di reclusione è stata sollecitata dal sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, Mario Remus, nei confronti dei tre agenti della polizia penitenziaria per la morte di Stefano Cucchi che lo avevano tenuto in custodia. Si tratta di Corrado Santantonio, Antonio Domenici, Nicola Minichini che nel processo di primo grado erano stati assolti. Il rappresentante della pubblica accusa, nel corso della sua requisitoria, ha sottolineato che "la vittima è stata aggredita dagli agenti della polizia penitenziaria che ne avevano la custodia e il fatto è avvenuto dopo l’udienza di convalida e prima dell’ingresso al carcere". La richiesta del pg è arrivata a conclusione della sua requisitoria nel processo d’Appello davanti alla Prima Corte d’assise d’appello di Roma. In primo grado gli agenti e gli infermieri erano stati assolti dalla Terza Corte d’assise; erano stati condannati solo i medici a pene comprese tra i 2 anni e 1 anno e 4 mesi. Per l’accusa Cucchi fu pestato nelle celle del palazzo di Giustizia poco prima dell’udienza di convalida del suo arresto, abbandonato da medici e infermieri che lo ebbero in cura nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini. Cucchi fu pestato dopo udienza convalida arresto Stefano Cucchi fu "pestato", ma l’aggressione avvenne dopo l’udienza di convalida del suo arresto per droga. È il colpo di scena emerso in aula dalle parole del Procuratore generale. Secondo l’accusa sostenuta in primo grado, Cucchi era stato picchiato nelle celle del Palazzo di Giustizia poco prima dell’udienza di convalida. Tutto ciò ha consentito al Pg di giungere a una richiesta di condanna anche per gli agenti della penitenziaria che ebbero in cura Cucchi, e che in primo grado erano stati assolti. "C’è la prova che Stefano non avesse segni di aggressione violenta prima di arrivare in udienza - ha detto il Pg. L’aggressione è avvenuta dopo l’udienza di convalida dell’arresto e prima della sua traduzione in carcere". Tant’è che "in udienza ha battibeccato, si è alzato più volte, ha scalciato un banco; certo non avrebbe potuto farlo e fosse stato fratturato". Per il rappresentante dell’accusa "la localizzazione delle lesioni sul corpo di Stefano non porta a credere che siano state causate da una caduta accidentale, bensì da una aggressione vera e propria. Stefano era di una magrezza eccezionale; il suo esile corpo ha scattato la fotografia di un’aggressione volontaria e intenzionale". La certezza espressa dal Pg Remus è che Stefano Cucchi "è stato aggredito dagli agenti della Polizia penitenziaria che lo avevano in custodia". Ilaria Cucchi: pestaggio di Stato contro mio fratello "Il procuratore generale in udienza ha esordito descrivendo un vero e proprio pestaggio di Stato e una grave compromissione e negazione dei diritti umani in danno di mio fratello". Così Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, commenta la richiesta di condanna a due anni di reclusione sollecitata dal sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, Mario Remus, nei confronti dei tre agenti della polizia penitenziaria per la morte di Stefano Cucchi che lo avevano tenuto in custodia. Si tratta di Corrado Santantonio, Antonio Domenici, Nicola Minichini che nel processo di primo grado erano stati assolti. "Dedico queste parole - aggiunge Ilaria Cucchi - al senatore Giovanardi al signor Capece che mi attaccano sistematicamente ed al ministro della Giustizia che prenda provvedimenti. Affinché si possa avere un sincero momento di riflessione sui terribili fatti che hanno portato a morte Stefano". "Penso - prosegue - anche alla tanto auspicata approvazione della legge sulla tortura che il nostro Paese continua a rifiutarsi di adottare a dispetto dei moniti che ci vengono rivolti dall’Onu". Il rappresentante della pubblica accusa, nel corso della sua requisitoria, ha sottolineato che "la vittima è stata aggredita dagli agenti della polizia penitenziaria che ne avevano la custodia e il fatto è avvenuto dopo l’udienza di convalida e prima dell’ingresso al carcere". Giovanni Cucchi: speriamo ora esca la verità Soddisfazione a fine udienza per le richieste della pubblica accusa è stata espressa da Giovanni Cucchi, padre di Stefano, per la cui morte si è aperto oggi il processo d’appello. "Sono molto soddisfatto - ha detto - dell’esposizione del consigliere relatore, che è stata lucida, precisa e a favore della ricerca della verità; ma anche della lucidità e completezza della relazione del procuratore generale. Il giudizio non può che essere positivo, anche se alcuni lati dovranno essere sviluppati dai nostri avvocati. Ci sono le premesse perché da questo processo esca finalmente la verità. Noi la chiediamo con forza, senza chiedere assolutamente alcuna vendetta". Anche da parte del legale della famiglia, il giudizio è positivo. "Condivido ogni parola di critica espressa dal Pg - ha commentato l’avvocato Fabio Anselmo - Sono rimasto colpito dall’efficacia del suo intervento. Ritengo che ci abbia aperto le porte per il riconoscimento della nostra tesi dell’omicidio preterintenzionale". Legale agente: Pg ha aggiunto al dubbio altri dubbi "Sorpresa in aula. Oggi abbiamo scoperto che, per i pm, Stefano Cucchi è stato pestato prima dell’udienza di convalida; per la sentenza di primo grado, forse durante il suo arresto; e per il Pg, dopo l’udienza di convalida. Il Procuratore generale non ha fatto altro che aggiungere al dubbio altri dubbi". È il commento dell’avvocato Diego Perugini, legale di uno degli agenti della Penitenziaria imputati nel processo d’appello per la morte di Stefano Cucchi, alla decisione del Procuratore generale di chiedere la condanna a una anno di reclusione del suo assistito, assolto in primo grado insieme a due colleghi. "L’assunto accusatorio sostenuto finora - ha aggiunto Perugini - è completamente caduto. La sentenza di primo grado è confermata nelle sue basi, i testimoni sono definiti inattendibili. Ma il Pg non ci ha detto da chi sarebbe stato picchiato Stefano, dimenticando di dire chi tra i carabinieri che lo hanno portato nelle celle e gli agenti lo avrebbe picchiato; e dimentica di dire sulla base di quale testimonianza può sostenere ciò che ha detto nella sua relazione". Giustizia: Sappe; ieri protesta per tetto salariale delle forze di polizia, report dalle Regioni Ansa, 24 settembre 2014 La protesta è legata al tetto salariale delle forze di polizia e le criticità irrisolte del comparto sicurezza. "Siamo molto soddisfatti: la giornata di mobilitazione dei poliziotti penitenziari aderenti al Sappe, primo e più rappresentativo Sindacato dei Baschi Azzurri, è stata un successo di partecipazione e adesione in Liguria e in tutti gli istituti e servizi penitenziari italiani". Lo dichiarano Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, e Michele Lorenzo, segretario regionale Sappe per la Liguria. "Abbiamo spiegato le ragioni della nostra mobilitazione, che permane perché ad oggi, al di là delle promesse e di dichiarazioni di impegno, non sappiamo nulla sul reperimento di fondi per superare l’impasse del tetto salariale dei poliziotti penitenziari e degli altri operatori del Comparto Sicurezza, Difesa e Soccorso pubblico. Servono provvedimenti concreti, non bastano gli impegni. Certo, se è vera la notizia di un incontro con il Presidente del Consiglio Renzi il prossimo 7 ottobre, perché ufficialmente almeno a noi del Sappe non è arrivata alcuna convocazione, è indubbiamente una buona notizia: sarà l’occasione per chiarire qualche malinteso e qualche travisamento. Rivendicare il diritto ad avere salati adeguati, il diritto di denunciare che i nostri stipendi sono fermi da 4 anni non è insubordinazione ma l’esercizio di un diritto garantito dalla Costituzione e la palese espressione di un diffuso malessere. E se a farlo sono coloro che ogni giorno rischiano la vita per la sicurezza del Paese, beh, questo deve fare seriamente riflettere", concludono i sindacalisti del Sappe. Sardegna Anche in Sardegna la protesta e la mobilitazione delle settimane scorse dei poliziotti penitenziari aderenti al Sappe "è stata un successo, siamo molto soddisfatti". Lo dichiarano Donato Capece e Antonio Cocco, rispettivamente segretario generale e segretario regionale della Sardegna del sindacato autonomo polizia penitenziaria. "Abbiamo spiegato le ragioni della nostra mobilitazione, che permane - spiegano - perché ad oggi, al di là delle promesse e di dichiarazioni di impegno, non sappiamo nulla sul reperimento di fondi per superare l’impasse del tetto salariale dei poliziotti penitenziari e degli altri operatori del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico". "Servono provvedimenti concreti - continuano, non bastano gli impegni. Certo, se è vera la notizia di un incontro con il Presidente del Consiglio Renzi il prossimo 7 ottobre, perché ufficialmente almeno a noi del Sappe non è arrivata alcuna convocazione, è indubbiamente una buona notizia: sarà l’occasione per chiarire qualche malinteso e qualche travisamento". "Rivendicare il diritto ad avere salati adeguati, il diritto di denunciare che i nostri stipendi sono fermi da quattro anni - concludono i sindacalisti del Sappe - non è insubordinazione ma l’esercizio di un diritto garantito dalla Costituzione e la palese espressione di un diffuso malessere. E se a farlo sono coloro che ogni giorno rischiano la vita per la sicurezza del Paese, questo deve fare seriamente riflettere". Emilia-Romagna "Siamo molto soddisfatti: la giornata di mobilitazione dei poliziotti penitenziari aderenti al Sappe, primo e più rappresentativo Sindacato dei Baschi Azzurri, è stata un successo di partecipazione e adesione in Emilia Romagna e in tutti gli istituti e servizi penitenziari italiani". Lo dichiarano Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, e Francesco Campobasso, segretario regionale Sappe per l’Emilia-Romagna. "Abbiamo spiegato le ragioni della nostra mobilitazione, che permane perché ad oggi, al di là delle promesse e di dichiarazioni di impegno, non sappiamo nulla sul reperimento di fondi per superare l’impasse del tetto salariale dei poliziotti penitenziari e degli altri operatori del Comparto Sicurezza, Difesa e Soccorso pubblico. Servono provvedimenti concreti, non bastano gli impegni. Certo, se è vera la notizia di un incontro con il Presidente del Consiglio Renzi il 7 ottobre, perché ufficialmente almeno a noi del Sappe non è arrivata alcuna convocazione, è indubbiamente una buona notizia: sarà l’occasione per chiarire qualche malinteso e qualche travisamento. Rivendicare il diritto ad avere salati adeguati, il diritto di denunciare che i nostri stipendi sono fermi da quattro anni non è insubordinazione, ma l’esercizio di un diritto garantito dalla Costituzione e la palese espressione di un diffuso malessere. E se a farlo sono coloro che ogni giorno rischiano la vita per la sicurezza del Paese, beh, questo deve fare seriamente riflettere". Friuli Venezia Giulia "Siamo molto soddisfatti: la giornata di mobilitazione dei poliziotti penitenziari aderenti al Sappe, è stata un successo di partecipazione e adesione nel Friuli Venezia Giulia e in tutti gli istituti e servizi penitenziari italiani". Lo scrive Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, e Giovanni Altomare, segretario regionale Sappe per il Fvg. "Abbiamo spiegato le ragioni della nostra mobilitazione, che permane perché ad oggi, al di là delle promesse e di dichiarazioni di impegno, non sappiamo nulla sul reperimento di fondi per superare l’impasse del tetto salariale dei poliziotti penitenziari e degli altri operatori del Comparto Sicurezza, Difesa e Soccorso pubblico. Servono provvedimenti concreti, non bastano gli impegni. Certo, se è vera la notizia di un incontro con il Presidente del Consiglio Renzi il prossimo 7 ottobre, perché ufficialmente almeno a noi del Sappe non è arrivata alcuna convocazione, è indubbiamente una buona notizia: sarà l’occasione per chiarire qualche malinteso e qualche travisamento", conclude la nota del sindacato. Parma: il medico del carcere "Assarag, non posso testimoniare... perché mi fanno il culo" di Georgia Azzali Gazzetta di Parma, 24 settembre 2014 I colloqui registrati dal detenuto che ha denunciato pestaggi. La psicologa: "sopporti, non risolve niente". È un medico di via Burla a parlare. Di fronte a lui, Rachid Assarag. Quando era detenuto a Parma, è riuscito a far entrare un registratore grazie alla moglie. Ha denunciato di essere stato picchiato: una querela nel gennaio 2011, un’altra il mese dopo e l’ultima a luglio dello stesso anno. Poi (solo mercoledì scorso), il deposito in procura delle trascrizioni dei colloqui registriti in carcere. Parale che, nelle intenzioni del difensore dell’uomo, Fabio Anselmo (l’avvocato dei casi Aldrovandi e Cucchi), squarcerebbero il velo su una grave realtà di violenza tra le mura del carcere. Oltre cento pagine di conversazioni "catturate" da Assarag nel 2011, quando era ancora rinchiuso a Panna per violenza sessuale. Tutt’altro che uno stinco di santo, uno stupratore se riale e uno che ha sempre creato problemi nei vari penitenziari che ha girato, ma che in via Burla sarebbe stato percosso tre volte: nell’ottobre del 2010. a. dicembre dello stesso anno e il 25 maggio 2011. Fatti raccontati nelle querele. Ma ora ci sono queste registrazioni. A tratti inquietanti. Per le affermazioni di alcuni uomini della polizia penitenziaria, ma anche per le parole di medici e psicologi della struttura. Nessuno, al momento è stato iscritto nel registro degli indagati, ma il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha avviato un’inchiesta interna. C’è l’agente che spiega ad Assarag come ci si comporta dietro le sbarre per non avere guai. "Ascolta - dice - io c’ho venti anni di galera alle spalle.. e non ho mai toccato uno, mai toccato uno se non se lo è meritato. Mai!". "Ah, solo le persone che meritano...", ribatte Assarag. E l’agente: "No, che meritano no, ma che si comportano male. Così, come se tu, se tu ti comporti male, sai che quella è la conseguenza. È normale, perché certe volte solo quella...". Fa quelle affermazioni e poco prima si lascia scappare anche altro: "Eh, ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se ci sei anche tu". Ma poi Assarag parla con lo stesso agente anche del suo caso personale. Il riferimento è a quando è arrivato in via Burla, alla sua decisione di stare in isolamento e al latto che gli sarebbero stati tolti i soldi. "Quattro persone contro un detenuto?! Mi avete massacrato", dice Rachid, e l’uomo replica: "Non eravamo in quattro persone... io, il brigadiere e basta!". A quel punto il detenuto chiede se ci sono le telecamere, e il poliziotto risponde: "Ma non funzionano!". Parla - e registra - le dichiarazioni degli uomini della Penitenziaria, Assarag. Ma non si fa problemi a parlare delle violenze che avrebbe subito dietro le sbarre anche con i medici del carcere. "Io ho subito, mi hai visto che io ho subito la violenza", spiega. E il dottore risponde: "Certo, ho visto... Quello che voglio dire, è che lei deve imparare a... a... abituare... sì, perché non può cambiare lei, come non lo posso cambiare io!". Ma Assarag non molla. Insiste. Vuole risposte per capire come muoversi, a chi far presente cosa non funziona. Il medico parla anche delle "protezioni" da parte della magistratura di cui godrebbero gli agenti. E cita il caso di Stefano Cucchi, il giovane arrestato per droga e morto in custodia cautelare una settimana dopo. Una vicenda per la quale tra pochi giorni è previsto l’avvio del processo d’appello. "Ah, il magistrato è dalla parte di loro?", chiede Assarag. "Certo... in un caso di morte, in un caso di morte come quello di Cucchi, sono riusciti a salvare gli agenti e hanno inchiappettato i medici!". Nel marzo 2011 Rachid incontra anche la psicologa del carcere. Le racconta di altre due aggressioni che avrebbe subito, con piccole lesioni a un dito e a un braccio. E le mostra la mano fasciata. "Queste cose succedono in tutti le carceri... eh, queste cose", dice la donna. Poi gli consiglia di rassegnarsi. "Non è così facile. Per questo le ho suggerito di rinunciare a combattere. Perché combattere qua dentro comporta usare tantissime energie, sfinirsi e scontrarsi contro dei muri... Non si risolve niente!... Allora è meglio, dal punto di vista personale, aspettare e sopportare. Perché non c’è uscita". Violenze vere o romanzate quelle subite da Rachid? Sarà un’inchiesta ad appurarlo. I due agenti che nel 2007 in via Burla pestarono Aldo Cagna, l’assassino di Silvia Mantovani, sono stati condannati in via definitiva al anno e 2 mesi. Un brutto "precedente". Ma è un’altra storia. Il procuratore: nessuna disattenzione, faremo chiarezza L’ultima denuncia di Assarag contro gli agenti di via Burla? È stata depositata il 27 luglio 2011. Da allora, però, ria denunciato il difensore Fabio Anselmo, non si è mosso nulla in procura. "Quando sono arrivate le tre querele, già erano pervenute le segnalazioni da parte della casa circondariale die prospettavano una realtà molto diversa da quella denunciata dal detenuto - spiega il procuratore Antonio Rustico. Ma non è vero che questi fascicoli sono rimasti fermi, mentre quelli in cui Assarag è indagato sono andati avanti. Si tratta di procedimenti che erano in carico a un pm trasferito, che poi sono stati riassegnati a un altra sostituto". Insomma, nessuna corsia "preferenziale" per i casi in cui Rachid è sotto accusa. Piuttosto ci sono altri procedimenti a suo carico, che nera non hanno nulla a che vedere con gli episodi di violenza (tra il 2010 e il maggio 2011) da lui denunciati, ma sono successivi. "Si tratta di due fatti che sono stati riuniti in un procedimento che è già a dibattimento da tempo: una contestazione di oltraggio nei confronti di agenti di polizia penitenziaria - spiega Rustico - e un’altra per minacce e anche oltraggio, credo. Per quanto riguarda la prima vicenda, Assarag non ha chiesto nemmeno di essere sentito dono il deposito dell’avviso di conclusione delle indagini, nel secondo caso invece è stato sentito per rogatoria dal pm di Prato, visto che poi è stato trasferito in quel carcere: siamo nel 201Ì, eppure non ha fatto cenno a registrazioni effettuate in carcere, ma ha solo detto che probabilmente quel procedimento era la conseguenza delle sue denunce". C’è invece un detenuto che potrebbe creare qualche grattacapo ad Assarag: "Si tratta di una persona che sarebbe stato presente quando oltraggiava l’agente, ma al quale, secondo quanto ha dichiarato nella fase delle indagini, Rachid avrebbe chiesto di testimoniare a suo favore in cambio di denaro o dell’assistenza gratis del suo avvocato - sottolinea Rustico. Questa persona, però, a dibattimento ha detto di non voler parlare se non in presenza del suo avvocato, anche se era testimone". Un detenuto con varie vicende in corso, oltre alle accuse di violenza sessuale, Assarag. "Ma ciò non toglie che l’intenzione della procura è quella di fare chiarezza su quanto ha denunciato - assicura Rustico. Non abbiamo ancora i file audio originali, solo le trascrizioni, tuttavia posso assicurare che valuteremo tutto e agiremo se ci saranno delle responsabilità". Napoli: detenuto con il tumore ai polmoni potrà essere curato a casa, "fine di un incubo" www.fanpage.it, 24 settembre 2014 Luigi Moscato era detenuto in attesa di giudizio nel carcere di Poggioreale. Ma è gravemente ammalato: dopo denunce e interviste arrivano i domiciliari "Mio marito ha il tumore e sa come lo curano? Con la Tachipirina. Non gli danno nemmeno un cerotto per i dolori". Luigi Moscato ha 55 anni ed era rinchiuso nel carcere di Poggioreale, a Napoli, in attesa di essere giudicato per un reato che, giura la moglie Lucia, "non ha commesso": è accusato di essere coinvolto in un giro di ricettazione. Moscato ha un tumore ai polmoni, con metastasi ormai ovunque. Ma da ieri sera è a casa: gli sono stati concessi gli arresti domiciliari. Tra i giorni di dolore e questa piccola, grande vittoria c’è un bel chiasso. Montato con la denuncia del presidente dell’associazione degli ex detenuti napoletani, Pietro Ioia, che ha convocato una conferenza stampa davanti al carcere partenopeo con l’associazione radicale Per La Grande Napoli rappresentata da Luigi Mazzotta. Fanpage.it ha raccolto la testimonianza disperata della moglie di Luigi Moscato: "Me lo faranno morire in carcere - diceva ai nostri microfoni - Pensi che sono riuscita vederlo solo dopo due settimane che era lì". Si è subito attivata la catena di solidarietà. Dopo la denuncia, al caso del povero Luigi si sono interessati l’esponente di Forza Italia Salvatore Ronghi e la Garante dei Detenuti della Campania, Adriana Tocco, che avrebbe dovuto fare visita al detenuto oggi. Ma ieri sera il signor Moscato era a casa. "È stata la fine di un incubo - dice il fratello di Luigi Moscato, Francesco - Siamo ancora in lacrime. Ora potrà curarsi a casa, facendo la chemio in ospedale". "Vorrei ringraziare tutti coloro che si sono attivati per questo caso - conclude il presidente dell’associazione ex detenuti - Luigi Mazzotta e Rosa Criscuolo dell’associazione Radicali Per La Grande Napoli, l’attivista Carmela Esposito, l’esponente di Forza Italia Salvatore Ronghi, la Garante dei Detenuti Adriana Tocco. E voglio ringraziare gli stessi familiari, perché hanno avuto il coraggio di metterci la faccia e sollevare il problema anche da un punto di vista mediatico. Come si è visto, è stato importante ai fini del risultato". Nel carcere di Poggioreale sono oltre 300 gli ammalati reclusi, e la difficoltà di accesso alle cure è un problema drammaticamente diffuso in tutte le carceri italiane: per questo, tantissime persone si trovano ristrette in condizioni disperate, nella negazione dei diritti più elementari. Parma: con l’Associazione "Per Ricominciare" ho imparato un lavoro, faccio l’agricoltore di Martina Fontana www.parmatoday.it, 24 settembre 2014 A distanza di un anno dall’uscita dal carcere cittadino, G. ha deciso di confidarsi a Parma Today per descrivere come la sua vita è cambiata dopo un lungo periodo di detenzione. Un ringraziamento speciale all’associazione di volontariato parmigiana "Per ricominciare". G. ha 37 anni. Dieci sono invece quelli che ha trascorso come detenuto nel carcere di Parma. Poco più di un anno è trascorso da quando ha finito di scontare la sua pena, ma il ricordo di via Burla resta vivo, anche se ora ha iniziato una nuova vita come agricoltore nella sua terra d’origine, Menfi, un piccolo paese nella provincia di Agrigento. Resta sorpreso dalle notizie apparse in questi giorni sulla stampa, che commenta solo brevemente, sentendo un forte contrasto con il trattamento da lui ricevuto: "il carcere è duro in tutti i sensi, questo lo può immaginare anche chi non c’è mai stato - sostiene - ma nessuno del personale mi ha mai minacciato, né tanto meno percosso. Non ho neppure mai sentito nessuno dei miei compagni di allora lamentarsi in tal senso. Non riesco a credere sia potuto accadere un fatto del genere. Ammesso sia successo, si è trattato solo di un episodio". Riguardo ai suoi rapporti sia con le guardie, sia con gli educatori, afferma che sono sempre stati buoni. Si è sentito ascoltato e capito, in particolare dalle educatrici. "Il carcere è stato inoltre per me un’occasione per imparare un lavoro. Infatti ero uno di quei detenuti addetti alla manutenzione del verde pubblico. A Parma ho scoperto l’hobby del giardinaggio e anche ora che sono a casa mia, quando mi capita di potare una pianta, mi ricordo degli insegnamenti ricevuti". Del suo nuovo cammino di vita preferisce infatti parlare G., di quel coraggio che gli ha permesso di ripartire da zero, senza perdersi mai d’animo. Come sono stati i primi tempi dopo essere uscito da via Burla? Molto faticosi, non avevo quasi nulla da mangiare. Avevo solo l’affetto dei miei famigliari. Mio nonno in particolare contava molto su di me. Purtroppo dopo solo pochi mesi che ho potuto riabbracciarlo è morto. Un avvenimento brutto, senz’altro, ma anche un’immensa sorpresa: credendo in me, mi ha lasciato in eredità i suoi campi. Così, quasi da un giorno all’altro, mi sono trovato a gestire 60 ettari di terreno. All’inizio non sapevo da che parte prendere, poi ho deciso di seminare verdure biologiche, ancora rare dalle mie parti. Mai avrei pensato che mi sarei potuto letteralmente innamorare della terra e degli animali. Invece è successo. Dopo il periodo di privazione della mia libertà trascorso a Parma, il contatto con la natura mi ha fatto scoprire il valore delle cose semplici. Alla mattina mi sveglio, apro la finestra e vedo gli uccellini e tanto verde. Capisco che qui ho tutto quello che mi fa star bene. E la tentazione della vecchia vita? No, quella no. Ho capito che per avere delle soddisfazioni bisogna avere una gran forza di volontà, non furbizia, come un tempo pensavo. Con quella non si va da nessuna parte. Anzi, negli anni di permanenza a Parma, ho visto persone uscire dal carcere e rientrarvi dopo pochi mesi, probabilmente proprio perché si consideravano più furbi degli altri. Io ho voluto cambiare radicalmente, anche se avevo paura di fallire. A Parma hai parlato con qualcuno di questi tuoi timori? Si, con gli educatori, con Don Cocconi, ma anche con i volontari di un’associazione parmigiana. Si chiama "Per ricominciare" e l’ho conosciuta in occasione dei miei permessi premio. I volontari mi hanno portato a visitare la città, a prendere una birra al bar (un sogno, a quel tempo), a fare le cose che fanno tutti insomma, ma che a me erano proibite. Durante questi incontri, mi sono potuto confidare e loro mi hanno aiutato ad avere fiducia in me stesso. Essere ascoltato senza essere giudicato è stato fondamentale per la mia crescita. Nessuno dei volontari mi ha mai chiesto che reato avevo commesso. Hanno voluto conoscermi come persona, non come "criminale". Ho dei bellissimi ricordi della gente di Parma. Cagliari: Anna Maria Busia (Cd); per il nuovo carcere di Uta sprecati tempo e soldi www.notizie.alguer.it, 24 settembre 2014 Parla la Consigliera regionale di Centro Democratico della Sardegna e responsabile nazionale Giustizia per il suo partito. "Mentre Buoncammino scoppia, sono stati sprecati tempo e soldi per fare del carcere in costruire a Uta una struttura di massima sicurezza, adatta a ospitare i detenuti in regime 41 bis. I lavori non sono stati ultimati e rischiano di restare paralizzati per chissà quanto tempo. Ora il Governo rimuova la coltre di mistero che avvolge gli appalti per il nuovo penitenziario e spieghi alla Sardegna e ai sardi dove sono finiti i finanziamenti stanziati per la sua costruzione. Tutta questa vicenda assume una dimensione ancora più grave considerando la situazione insostenibile che vivono i detenuti di Buoncammino, costretti a scontare il loro debito con la Giustizia in condizioni che il sovraffollamento e la vetustà dell’edificio rende a dir poco disumane. Un problema che investe anche tutto il corpo di polizia penitenziaria che lavora in quella struttura. Il sospetto che la costruzione di un ulteriore braccio nel carcere di Uta, per poter ospitare i detenuti in regime di 41 bis, avesse allungato a dismisura i tempi per la fine dei lavori e che stesse comportando una inutile e enorme spesa aggiuntiva, è diventato ormai una realtà. Su questi aspetti chiediamo la massima trasparenza al Governo, è un diritto dei sardi sapere con esattezza e senza più segreti, quanti soldi siano stati effettivamente stanziati per il nuovo penitenziario di Uta e come siano stati spesi". Vibo Valentia: Sappe; protesta contro carenza di personale, 3 ore di astensione dal lavoro Agi, 24 settembre 2014 Tre ore di astensione dal lavoro ieri da parte degli agenti della Polizia penitenziaria, della Polizia di Stato, del Corpo forestale e dei vigili del fuoco di Vibo Valentia che hanno aderito massicciamente alla protesta indetta dai sindacati di categoria. Nel corso di una conferenza stampa tenuta dalle Forze dell’ordine all’interno del carcere di Vibo Valentia di località "Castelluccio" è stato posto l’accento sulla grave carenza di personale nel Vibonese che mina la credibilità dell’intero comparto sicurezza. I segretari di categoria, Giuseppe Gaccione del Sap, Domenico Minichini del Sapaf e Francesco Ciccone del Sappe, hanno denunciato che nel carcere di Vibo si è in presenza di una "carenza organica di 60 unità di polizia penitenziaria che il Dipartimento ha pensato di risolvere eliminandole completamente dalla pianta organica e stabilendo che Vibo Valentia può tranquillamente lavorare con 140 uomini di polizia penitenziaria, di cui 25 distaccati in altre sedi, più altri 40 in altri uffici". In totale, a gestire i 300 detenuti del carcere, secondo i sindacati di categoria sono non più di 65 agenti. "Un paradosso - concludono i sindacati di categoria - atteso che nel 1997, anno di apertura del nuovo carcere di Vibo, si era partiti con 250 agenti di polizia penitenziaria in servizio". Torino: Osapp; "troppi detenuti mandati in ospedale", lettera di protesta al Dap e all’Asl di Claudio Laugeri La Stampa, 24 settembre 2014 La protesta del sindacato di polizia penitenziaria Osapp in una lettera alla Regione, al ministero della Sanità, alla direzione del "Lorusso e Cutugno" e al Dipartimento. Sono davvero necessari tutti i ricoveri e le visite in ospedale disposti dai medici del carcere "Lorusso e Cutugno"? A porre la domanda è il Leo Beneduci, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, che ha scritto al direttore generale dell’Asl 2 (competente per territorio), ma anche al presidente della giunta e all’assessore regionale alla Sanità, al ministero, oltre che al direttore del carcere e al provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Il sindacalista è preoccupato per la situazione legata alla "pericolosità di detenuti da scortare per presunte urgenze" e con personale "assolutamente risicato, essendo questo aspetto della questione, non legato al mandato istituzionale della polizia penitenziaria". Per questo, Beneduci sollecita i destinatari della lettera a "verificare se tutte le visite e i ricoveri disposti d’urgenza possano definirsi effettivamente tali o se vi siano state forzature nelle relative procedure". In un precedente documento, il segretario Osapp aveva già evidenziato alcune situazioni che avevano causato perplessità: dalla detenuta mandata in ospedale a fare una gastroscopia nonostante gli agenti avessero avvisato i medici del carcere che non era a stomaco vuoto; oppure l’invio in ospedale di detenuti per esami poi rinviati perché "i pazienti erano privi della necessaria e preventiva preparazione"; o ancora, il detenuto "a elevata pericolosità" mandato in ospedale a fare la dialisi senza che il reparto fosse stato avvertito. Oltre ai trasferimenti, c’è anche il problema dei "piantonamenti a vista" richiesti da "continue disposizioni dei medici". "Un lavoro che non compete alla polizia penitenziaria e che aggrava le difficoltà legate alla mancanza di personale" aggiunge Beneduci. Verona: cosa significa vivere il carcere? la storia di Thoby e di una comunità di Vanessa Pesarini Verona Sera, 24 settembre 2014 Il carcere è stato al centro di uno dei quatto incontri organizzati da Cittadinanza attiva e promosso da Verona Onlus lo scorso 18 settembre nel parco di Villa Buri. In quattro serate sono stati affrontati anche altri temi come il gioco d’azzardo e la multiculturalità. Non siamo molto abituati a sentire parlare di carcere, perché? Come ha ricordato Roberto Sandrini, socio dell’associazione La Fraternità che da anni si occupa di carcere in tutte le sue forme, la prigione è qualcosa che si vuole tenere nascosto dal resto della società, tanto nell’informazione quanto fisicamente. Il carcere di Montorio ad esempio, come tutte le altre carceri sparse per l’Italia, è stato appositamente costruito fuori dalle mura di Verona, con lo scopo di tenere lontana la cittadinanza. "Lontano dagli occhi, lontano dal cuore". Nonostante si tratti di un tema duro, non c’era un posto vuoto durante la conferenza. Con grande attenzione i partecipanti hanno assistito ad uno sketch teatrale ispirato al "Carcerato" di Alessandro Mannarino e al momento di Thoby, un ex detenuto che durante gli anni di carcere ha avuto la possibilità di frequentare un corso di pittura. Thoby, attraverso le immagini piene di significato da lui dipinte durante il periodo di detenzione, riesce a trasmettere perfettamente la vita nel carcere: dal motivo per cui si entra (spesso la mancanza di cultura o una cattiva cultura) a quello che pesa di più vivendo dietro le sbarre, come la solitudine e i tentati suicidi a cui, purtroppo, si è costretti ad assistere. Come riporta l’associazione La Fraternità, rispetto alla presenza media di detenuti durante l’anno, nel 2013 il tasso di suicidi è stato di quasi 8 ogni 10.000. Se consideriamo che tra tutta la popolazione italiana il tasso di suicidi si aggira attorno allo 0,5 per 10.000 abitanti, le persone in carcere si suicidano 15 volte di più che in libertà. "Il carcere è una cosa bruttissima, però quando si esce è ancora peggio", ha raccontato Thoby. "Prima di entrare si è una persona, quando si entra in carcere si sparisce, non c’è nessuna personalità, si diventa trasparente. Poi, grazie ad un percorso che si fa per uscire e ad un altro percorso di reinserimento una volta usciti, ognuno cerca di ricostruire se stesso". Uscire dal carcere non è facile, la percentuale di reiterazione del reato nelle persone che escono dalla detenzione è infatti molto alta. Questo fa riflettere su come l’obiettivo della carcerazione, quello di rieducare la persona, spesso fallisca. "È come se in un ospedale dimettessero una persona che è ancora malata", commenta Sandrini. Per la rieducazione di Thoby è stato fondamentale l’aiuto dell’associazione La Fraternità, sia per l’ascolto che ha ricevuto dai volontari e da Fra Beppe, fondatore dell’associazione, sia per le proposte in cui è stato coinvolto: da anni, infatti, l’associazione si fa promotrice di diversi progetti che coinvolgono detenuti, ex detenuti e famigliari. I progetti interni al carcere comprendono corsi scolastici, arte educativa e gruppi affettività per aiutare il detenuto nelle relazioni con i familiari. Questi progetti, non solo hanno lo scopo di migliorare il periodo di detenzione offrendo la possibilità ai detenuti di passare il tempo in modo produttivo, dando loro la possibilità di studiare e di conseguire titoli di studio, ma cercano anche di attuare quello che prevede l’articolo 27 della Costituzione, ovvero la rieducazione a cui devono tendere le pene. È necessario pensare alla persona che commette il reato, ma bisogna anche chiedersi: cosa succede a chi il reato lo subisce? L’Italia considera ancora poco questa figura ma a Verona è stata creata l’associazione ASAV che si occupa di fornire assistenza alle vittime di reato, al fine di favorire la riconciliazione tra queste ultime e il reo. La riconciliazione infatti non solo è benefica ma è anche possibile, come ha testimoniato la video-esperienza di una donna, moglie di un carabiniere ucciso da un ragazzo a cui era stata ritirata la patente perché risultato positivo all’alcol test, e la mamma di questo ragazzo, condannato all’ergastolo. Dopo un percorso estremamente difficile queste due donne si sono unite per fondare un’associazione per aiutare la riconciliazione, di cui loro sono l’esempio più forte. A provare che il carcere è sì lontano dagli occhi ma non sempre dal cuore, sono stati gli interventi dei partecipanti della serata, che con domande e riflessioni hanno dimostrato interesse da parte dei cittadini a saperne di più e ad abbattere la credenza comune in base alla quale i buoni stanno fuori e i cattivi dentro. Velletri (Rm): detenuti e poliziotti penitenziari "incastrati" a due passi da mega-discarica di Daniel Lestini www.castellinotizie.it, 24 settembre 2014 Un affare da svariati milioni di euro che, nonostante la ferma opposizione di cittadini e comitati - molto più netta e rumorosa di quella di una politica che non dà l’idea di aver tolto la maschera dell’ipocrisia di facciata - rischia di essere più prossimo a concretizzarsi di quanto non si creda. Il territorio di Velletri ben presto potrebbe trovarsi a fare i conti con due impianti che cambieranno notevolmente, e definitivamente, i suoi connotati. L’8 e il 25 agosto due società, la Volsca Ambiente e Servizi spa e l’Ecoparco srl, hanno infatti depositato in Regione, ufficio Via, i progetti, per un impianto anaerobico a biogas da 33.000 t/a e per un megapolo dei rifiuti urbani e dei rifiuti industriali. Mentre l’impianto a biogas sarà finalizzato al recupero di energia, e s’inquadra nelle linee guida tracciate dal governo e dai suoi predecessori, il mega-polo si propone di soddisfare i fabbisogni monnezzari dell’Area Metropolitana, stante la ridicola quota di differenziata porta a porta realizzata da gran parte dei Comuni, Roma compresa. "Velletri non è stata scelta a caso" hanno esclamato con stizza i "No Inc", da anni in prima fila contro le storture perpetrate al territorio. Nessuno, finora, ha però spostato il mirino sull’adiacente Casa Circondariale di Lazzaria, dove centinaia di detenuti vivono in condizioni al limite del disumano, stipati in celle sovraffollate, con un personale penitenziario sotto numero e in evidente difficoltà nel tener fede al proprio impegno quotidiano. Alla data del 30 aprile 2014, secondo i dati ufficiali del Dap, il numero dei detenuti presenti nel carcere di Velletri era di 607, mentre i poliziotti penitenziari che di fatto operano nel carcere di Velletri sono in numero inferiore rispetto a quello indicato nella pianta organica, costringendo quindi la Direzione del Carcere a ricorrere alle prestazioni di lavoro straordinario, con grave pregiudizio alle casse dello Stato ma, soprattutto, al benessere psicofisico del personale costretto a lavorare 8 o 9 ore al giorno in un ambiente degradante. Il penitenziario veliterno, è bene ribadirlo, è composto di 2 padiglioni. Il primo, cosiddetto "vecchio" (sezioni A, B e C), è tenuto in scarse condizioni di manutenzione e prevede una capienza di 150 detenuti, ma elevata a circa 250. In ogni piano ci sono 26 celle, tutte disposte sullo stesso lato del corridoio. Le celle, di circa 9 metri quadrati, sono dotate di letto a castello e lo spazio per muoversi è ridotto al minimo; i bagni nella cella sono molto piccoli, anche se muniti di bidet. Le docce sono all’esterno della cella, circa 5/6 per sezione, dunque in media 3 ogni 50 detenuti, abbastanza spaziose, ma molte di esse maltenute; i posti di servizio all’interno dei reparti dove operano i poliziotti penitenziari sono sprovvisti di finestra e di attrezzature conformi ai requisiti previsti dal decreto legislativo n. 81 del 2008, idonei ai fini della salute e sicurezza ed adeguati al lavoro da svolgere; il reparto isolamento e quello cosiddetto "nuovi giunti" vengono usati sistematicamente come reparti detentivi per ovviare al sovraffollamento, ma in quest’ultimo caso non sono presenti né stipetti né televisore; la sezione C è adibita a reparto infermieristico, ma di fatto è nelle stesse condizioni degli altri reparti. Nel 2012 è stato consegnato il secondo padiglione dell’istituto, cosiddetta sezione D, che può ospitare circa 48 detenuti per piano, per un totale di circa 200, mentre in realtà ne ospita più di 250. Le celle sono 16 da 4 posti (2 letti singoli e uno a castello), per circa 16 metri quadri, con bagno in cella. È dotato di cucina propria ancora non funzionante perché, come risulta agli interroganti, non si riescono ad ottenere le previste autorizzazioni dalle competenti autorità sanitarie; di conseguenza i detenuti "porta vitto" devono attraversare molti corridoi per arrivare e distribuire il pasto. Il reparto D è anche dotato di infermeria che non è funzionante, nonostante sia stato assunto del personale infermieristico e medico da impiegare a tale servizio. Detto personale viene impiegato nel vecchio padiglione e, in caso d’urgenza, deve attraversare diversi corridoi per la necessaria assistenza sanitaria, stessa cosa devono fare i detenuti che hanno bisogno di recarsi nel vecchio padiglione per ricevere le dovute cure, minando quindi l’ordine e la sicurezza dell’istituto e la salute stessa dell’utente; il servizio sanitario appare inoltre scadente in quanto, come riportato nel mese di luglio 2014 da alcune testate giornalistiche locali, un assistente capo della Polizia penitenziaria ha dovuto ricorrere alle cure del pronto soccorso per essersi involontariamente ferito con una siringa lasciata all’interno di un sacchetto abbandonato nell’area antistante l’infermeria del carcere. A tutto questo, spostando anche l’attenzione sui diritti dei detenuti, si aggiunga allora la drammaticità di quanto andrebbe profilandosi in caso di apertura del Polo dei Rifiuti, la cui area dista poche centinaia di metri dal Carcere veliterno, con evidenti risvolti in termini di qualità dell’aria inalata e, di conseguenza, in tema di salute. Avendo già sollevato il problema in articoli precedenti, noi di "Castelli Notizie" abbiamo interpellato il Sippe (il sindacato della Polizia Penitenziaria), ricavandone tutto lo sdegno per quello che ritengono un vero e proprio affronto alla dignità del personale e dei detenuti. Tutti hanno pensato ai danni inferti all’agricoltura o al valore dei patroni immobiliari, senza tralasciare i possibili risvolti per la salute di migliaia di abitanti. Nessuno, tranne rarissime eccezioni, aveva però pensato a loro. "Circa 600 detenuti e tutto il personale operante nel carcere - ci fa sapere il Segretario Locale del Sippe, Carmine Olanda - saranno giornalmente invasi da odori tutt’altro che gradevoli. Oltretutto all’interno del carcere, grazie ad un progetto per il reinserimento dei detenuti, è ripartita recentemente anche l’azienda agricola attraverso la quale si producono prodotti naturali, utilizzando il terreno del carcere con vigne, alberi di ulivi, limoni, arancio e pesco". Secondo Carmine Olanda "la salute di tutti coloro che a qualsiasi titolo entrano nel carcere di Velletri rischia di essere pregiudicata in quanto le discariche sono state identificate come una delle maggiori fonti di emissione di metano nell’atmosfera, con una quota di circa l’11% del totale del metano prodotto da fonti antropiche". Il Sippe dice allora "no alla discarica, perché provoca gravi forme di inquinamento sia delle falde acquifere sottostanti e adiacenti (percolati), sia dell’aria (esalazione di gas tossici = la puzza che si sente nei dintorni per un raggio di diversi km). A tal proposito il Segretario Generale del Sippe, Alessandro De Pasquale, intende interessare subito un’associazione per la difesa dell’ambiente e starebbe valutando una manifestazione a tutela dell’ambiente e della salute dei lavoratori del carcere. Velletri (Rm): Sippe; dopo manifestazione, interrogazione al Senato e interventi del M5S Comunicato stampa, 24 settembre 2014 Dopo la manifestazione del Sippe del 21 giugno 2014, il senatore Elena Fattori il 16 settembre 2014 deposita un interrogazione parlamentare (4-02684) sulle difficili condizioni del carcere di Velletri. Nell’interrogazione si chiede di sapere se e quali misure il Ministro della Giustizia, nell’ambito delle sue competenze, intenda assumere al fine di: rendere il carcere di Velletri più sicuro, prevedendo nella pianta organica l’assegnazione di un maggior numero di personale di Polizia penitenziaria rispetto a quello previsto, in particolare nel ruolo dei sovrintendenti e degli ispettori; attivare l’infermeria nel nuovo padiglione D, visto che è fornito di struttura e personale; adeguare il servizio sanitario e l’istituto penitenziario in materia di salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori nei luoghi di lavoro; disporre il rientro immediato nella sede del carcere di Velletri di tutto il personale di Polizia penitenziaria distaccato da molti anni nelle varie sedi centrali del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e in quelle locali degli Uffici per l’esecuzione penale esterna, in quanto un ulteriore depauperamento delle risorse umane potrebbe comportare un pregiudizio per l’interesse pubblico, con danno per la collettività. A quanto pare, dopo la pubblicazione dell’interrogazione, i vertici dell’Asl Roma H avrebbero fatto visita al carcere di Velletri per verificare le condizioni dell’infermeria. Non si fa attendere anche l’intervento del consigliere regionale Silvana Denicolò che riceve una risposta da parte del Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria per il lazio, ad una sua richiesta d’informazioni sulla Casa Circondariale di Velletri. Nella nota indirizzata al consigliere regionale si legge che nell’anno 2014 per la manutenzione del fabbricato si è provveduto a stanziare una somma di euro 17.878,00 mentre per le mercedi la somma di euro 396.343,00 (il lavoro carcerario è retribuito con una mercede, proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. Per quanto concerne il numero di agenti di polizia penitenziaria attualmente in servizio presso la casa circondariale di Velletri - si legge nella nota - a fronte di 186 unità di agenti presenti al 31 dicembre 2010, oggi si riscontra un lieve aumento. Alla data odierna il personale in forza alla predetta casa circondariale risulta essere di 204 unità, di fatto però rispetto alla dotazione organica prevista, le unità previste sono di 263, la carenza risulta quindi allo stato di 59 unità. "Carmine Olanda, segretario locale del Sippe di Velletri si ritiene soddisfatto per l’operato del M5S e in merito alla carenza di personale, chiede al Dap un maggior sforzo, prevedendo la copertura in tempi brevi della pianta organica. Olanda chiede anche il rientro in sede del personale distaccato nei vari uffici come l’Uepe e il Dap. È vero - sostiene Olanda - che la carenza ormai cronica riguarda tutti gli istituti del territorio, come ribadito dallo stesso Provveditore nella sua nota, ma è altrettanto vero che il Prap non può peggiorare tale situazione, consentendo la proroga di distacchi dal carcere di Velletri all’Uepe di Latina dove, a quanto pare, il personale di polizia penitenziaria è sufficientemente oltre il numero consentito. Inoltre, secondo Carmine Olanda, la sede di servizio dell’Uepe di Latina andrebbe chiusa per ottimizzare le spese di gestione. Tale sede - conclude Olanda - potrebbe essere trasferita in alcuni locali esterni del carcere della città, la cui gestione sarebbe minima, potendo impiegare anche il personale di polizia penitenziaria già in servizio nel predetto carcere. Il consigliere regionale Silvana Denicolò chiederà inoltre al Dap tutta la documentazione che attiene la procedura relativa all’affidamento dei lavori per la costruzione del nuovo padiglione del carcere di Velletri. Piacenza: da domani il Festival sulla forza del diritto e le divisioni della nostra società di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2014 "Partecipazione/esclusione": questo il titolo della settima edizione del Festival del diritto - che apre i battenti domani a Piacenza. A fare da fil-rouge, nei quattro giorni - dal 25 al 28 settembre - saranno i temi dell’emarginazione: dall’immigrazione al carcere e al dopo carcere. In un momento storico in cui i diritti costituzionalmente garantiti sono a rischio anche per chi era pienamente integrato nella società, sembrano mancare le risorse, non solo economiche, per affrontare i problemi di chi è rimasto escluso dai diritti di cittadinanza e di chi, da sempre, ne è privo. Il Festival del diritto di Piacenza sarà l’occasione per trattare il tema dell’esclusione con il contributo di giuristi, docenti e politici, che coinvolgeranno il pubblico in una riflessione collettiva sui diritti delle minoranze. Il coordinamento scientifico della kermesse piacentina è affidato a Stefano Rodotà. Sul fronte immigrazione, un ampio spazio sarà dedicato al diritto al lavoro. Piacenza invita l’Europa, che di fronte all’emergenza profughi si muove in ordine sparso e blinda le frontiere, a essere unita nell’affrontare un problema risolvibile solo cambiando passo e mettendo in atto una politica che garantisca i diritti sociali a chi entra nei Paesi Ue. Il primo passo deve essere un lavoro che non sia una forma di sfruttamento, ma lo strumento per un’effettiva integrazione. Ancora, il lavoro è la chiave di volta che può aiutare chi è uscito dal carcere a uscire per sempre da una situazione di marginalità. In questo senso si è messo anche il Governo prevedendo incentivi, sotto forma di sgravi fiscali, per chi assume ex detenuti. Ma non solo immigrazione e carcere. Negli oltre cento appuntamenti che troveranno spazio nei quattro giorni del Festival, non mancherà l’occasione per parlare anche della crisi di legittimazione che sta vivendo la democrazia. Ci sarà l’opportunità di fare il punto sul ruolo delle donne nel mondo del lavoro e nella società a poco meno di settant’anni dall’estensione del diritto di voto alla popolazione femminile. Durante il Festival si ragionerà anche del peso delle lobby e dei poteri "opachi", con uno sguardo all’Europa, che può essere rilanciata solo attraverso l’affermazione dei diritti fondamentali ad iniziare da salute, istruzione e lavoro. Nella giornata inaugurale di giovedì prossimo, a tagliare il nastro a Palazzo Gotico sarà, alle 16 e 30, Stefano Rodotà che, alle 18 con lo storico Franco Cardini discuterà sul tema "L’autorità e le regole". Poco dopo saranno Susanna Camusso e Luigi Marinucci a rispondere al quesito "le nuove regole di rappresentanza nei luoghi di lavoro determinano davvero la partecipazione?". Sempre in serata, Giovanni Canzio e Salvatore Mazzamuto parleranno di giustizia e, in particolare, della necessità di promuovere procedure più semplici ed efficienti per garantire una tutela effettiva dei diritti. Venerdì 26 si farà sentire la voce degli studenti, con una performance teatrale dedicata alla piazza del domani. Poi storie ed esperienze dei detenuti e uno spazio dedicato ai diritti degli immigrati con Cécile Kyenge. Nel pomeriggio, la Camera penale di Piacenza organizza il confronto sulla cooperazione giudiziaria in Europa. Sabato 27 l’Associazione Nazionale Magistrati, con il presidente, Rodolfo Maria Sabelli, mette l’accento sull’importanza di favorire un percorso di inclusione degli immigrati: una condizione fondamentale per poter parlare di moderna democrazia. Il presidente del Sentao, Pietro Grasso, affronterà poi il tema della criminalità e della corruzione che pesano molto sulla realtà italiana. Domenica, giornata di chiusura, riflettori, fra l’altro, sulle nuove famiglie (dalle coppie di fatto ai diritti dei figli) e sul ruolo giocato dell’avvocatura nel riconoscimento dei diritti nelle società multiculturali in uno scambio di opinioni sotto il coordinamento del presidente del Cnf, Guido Alpa. Reggio Emilia: trovati con la droga in cella, detenuti aggrediscono gli agenti penitenziari Il Resto del Carlino, 24 settembre 2014 Due detenuti magrebini, pare ubriachi, nel carcere di Reggio Emilia hanno minacciato alcuni agenti della polizia penitenziaria e il comandante del reparto, sia verbalmente, sia con armi improprie ed hanno provocato danni alla cella. Lo riferiscono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario regionale. Gli agenti della polizia penitenziaria, dopo una perquisizione, hanno trovato nella cella sostanze stupefacenti. A quel punto, raccontano gli esponenti del Sappe in una nota, i due detenuti sono andati in escandescenza e hanno iniziato a minacciare il personale ed a danneggiare la cella. "Solo grazie alla professionalità della polizia penitenziaria la situazione non è degenerata. Come abbiamo sempre detto molti detenuti non meritano il regime aperto - sottolineano Durante e Campobasso - e spesso ne approfittano per porsi in posizione di supremazia nei confronti degli altri reclusi. Chiediamo misure disciplinari severe nei confronti di questi detenuti, riottosi a tutte le regole". Brescia: fuori dal carcere con una corsa… il progetto del Marathon center con 25 detenuti di Antonio Ruzzo Il Giornale, 24 settembre 2014 La nuova frontiera della corsa è il "movimento utile". Un progetto, ma forse sarebbe meglio dire una missione, che fa capire quanto la corsa stia diventano nell’idea del professor Gabriele Rosa, uno dei tecnici più prestigiosi dell’atletica mondiale, qualcosa in più della semplice pratica sportiva. Con i nostri atleti - spiega - abbiamo vinto mondiali e olimpiadi ma la corsa serve anche a far muovere la gente. Può essere una terapia soprattutto per le categorie più deboli, quelle che hanno problemi fisici e psicologici ma anche quelle che vivono disagi sociali". E così la corsa da qualche mese è entrata nelle carceri. Più precisamente nella casa circondariale "Verziano" di Brescia con una iniziativa del Marathon Center e della Provincia che il prossimo 4 ottobre porterà 25 detenuti di tutte le età, tra cui cinque donne, a correre per la prima volta una gara podistica oltre le sbarre. "É un risultato storico - spiega Rosa - Perché l’iniziativa è stata accolta con molto entusiasmo e ora con tutta probabilità sarà estesa ad altri istituti di pena. Quando abbiamo lanciato l’idea di far correre i detenuti la risposta è stata immediata. Così il nostro staff tecnico ha cominciato a frequentare per due volte la settimana il carcere per i test e per gli allenamenti che si sono svolti nel campo sportivo interno. Ora l’atto finale. E cioè la gara fuori dal carcere che si correrà il 4 ottobre a Brescia. Un sfida all’americana, cioè ad eliminazione, che vedrà coinvolti anche atleti amatoriali e i bambini delle scuole". É la prima volta che succede. È la prima volta che un gruppo di detenuti lascia le celle per andare a correre una gara podistica al di fuori di un istituto di pena e che poi è il senso di questa iniziativa che si chiama "Correre libera(la)mente" e dove il "la" è volutamente messo tra una parentesi. "Certo - spiega Rosa - il senso ultimo di questo progetto è esattamente questo: permettere ai detenuti di fare movimento, di concentrarsi sulla corsa e trovare poi alla fine una gratificazione importante". Non è la prima volta che il Marathon Center entra con la corsa nelle carceri: già era successo alcuni anni fa a Milano quando alcuni ragazzi dell’istituto Beccaria erano stati preparati per correre la Maratona di Milano. Ma più o meno alla stessa filosofia, che vede la corsa come strumento di recupero sociale, si è ispirato il progetto che ormai prosegue da diversi anni con la comunità di San Patrignano. Un’avventura che ha portato un nutrito gruppo di ragazzi ospiti della comunità prima a cimentarsi con gare di breve distanza e poi addirittura con la maratona prima a New York e poi a Londra. "Sì è vero - spiega Rosa - il progetto delle carceri e quello ormai avviato con Letizia Moratti a San Patrignano si muovono sulla stessa linea ideologica. E cioè che la corsa non è solo una pratica agonistica riservata agli atleti che si allenano per vincere gare e titoli. La corsa è uno strumento di benessere e può valere per tutti". Massa Carrara: "I Persiani di Eschilo", questa sera spettacolo teatrale con i detenuti Il Tirreno, 24 settembre 2014 Spettacolo teatrale dei detenuti della Casa di Reclusione cittadina, domani 24 settembre, alle ore 18,30, presso il teatro Guglielmi (biglietto 5 euro). Anche a Massa, infatti, il teatro è entrato in carcere, coinvolgendo alcuni detenuti che hanno aderito alla proposta di un laboratorio realizzato grazie alla disponibilità della direttrice Maria Martone e alla collaborazione di Gennaro Di Leo, docente del liceo classico. Prova importante per i detenuti che si cimentano con la tragedia greca: mettono in scena, infatti, "I Persiani di Eschilo". Opera già rappresentata nella sala polivalente della Casa di Reclusione, un’esperienza che ha costituito il momento centrale dell’iniziativa, in una sovrapposizione di tragedia e catarsi, detenzione e purificazione: la colpa e la condanna, l’errore e il dolore, tra i temi del dramma eschileo, non possono che toccare le corde di chi sconta una pena. Ai Persiani sconfitti va il monito "che nessuno più ardisca, ingannato da un illusorio favore per ambire di più, a gettar via la propria fortuna", e il loro re Serse, "infelice a non aver previsto l’esito a cui andava incontro", paga il fio della sua tracotanza, "conseguenza che gli viene dalla frequentazione di amici sciagurati"; eppure a tutti è rivolto l’auspicio "che alle cose compiute non c’e rimedio, ma l’avvenire può riservare ancora sollievo". Ed e questo il messaggio di fondo che accompagna l’iniziativa di presentare lo spettacolo al Teatro Guglielmi, aprendo simbolicamente le porte della città di Massa al carcere, consentendo - spiegano gli organizzatori - "di considerare il carcere non solo come luogo di punizione, di sovraffollamento e di promiscuità, ma come luogo di cultura e di arte, che devono essere valori di tutti e per tutti, senza distinzioni di stati sociali". Chieti: i detenuti di Madonna del Freddo in visita al Museo la Civitella www.chietitoday.it, 24 settembre 2014 La visita al termine di un percorso di introduzione all’archeologia realizzato nel carcere di Chieti. Dieci detenuti "evasi" dal carcere per visitare il Museo la Civitella. Si è svolta questa mattina la visita dedicata ai detenuti della Casa Circondariale di Chieti, frutto di una collaborazione inter-istituzionale tra la Direzione del carcere e la Soprintendenza dei Beni Archeologici di Chieti. I detenuti, accompagnati dal Direttore Giuseppina Ruggero, dal Comandante Valentino Di Bartolomeo e dalle educatrici Annamaria Raciti e Stefania Basilisco, hanno effettuato la visita al termine di un corso di introduzione all’archeologia realizzato nel penitenziario teatino in collaborazione con l’associazione Voci di Dentro. L’interesse, la partecipazione, la motivazione non hanno lasciato indifferenti le coordinatrici del progetto di collaborazione "L’Archeologia apre lo sguardo", che hanno formulato l’invito ad una vera e propria visita del Museo, raccolto da quei detenuti e quelle detenute che già beneficiano di opportunità di reinserimento quali permessi premio o lavoro all’esterno. E così, dopo una passeggiata attraverso il capoluogo teatino, la bellezza del Museo ha aperto le porte al carcere, trasformandosi in emblema di solidarietà, accoglienza e cultura. "Qualche detenuto non era mai stato prima in un Museo, qualcun altro serbava il ricordo delle gite scolastiche, associato ad un periodo esistenziale incontaminato e lieve - raccontano dal penitenziario di Madonna del Freddo - E così, tra una spiegazione, tante domande e qualche momento gioviale, si è fatto spazio un nuovo modo di guardare la realtà e la storia: un crescente rispetto per chi quella storia la preserva all’oblio ed il desiderio di affrontare la vita per partecipare a quel flusso di umanità e speranza che, domani, potrà diventare una storia ancora migliore". Teatro: intervista a Valentina Esposito, regista di "Viaggio all’isola di Sakhalin" di Sarah Mataloni www.close-up.it, 24 settembre 2014 Valentina Esposito è la regista di "Viaggio all’isola di Sakhalin", ultimo lavoro della Compagnia del carcere di Rebibbia, in scena al Teatro Argentina il 19 e il 20 settembre 2014. Lo spettacolo è liberamente ispirato ad Anton Cechov e Oliver Sacks, e conta un cast di circa trenta detenuti attori. Lo spettacolo in scena al teatro Argentina si ispira all’esperienza che Cechov, nell’esercizio della sua seconda professione, (quella di medico) fece visitando l’isola di Sakhalin. Al reportage di Cechov, si intreccia il racconto di Oliver Sacks sulla "acromatopsia". Come viene affrontata in questo lavoro la condizione dell’isolamento e perché la scelta di questo testo? Alla fine dell’ottocento Cechov fece un viaggio, per andare a visitare la colonia penale di Sakhalin, che all’epoca era una vera e propria isola di detenzione. In questa circostanza, scrisse 400 pagine sulle condizioni di vita di queste persone tenute in uno stato di isolamento quasi completo. Il testo di Sacks, invece è un testo scientifico che racconta di una malattia realmente diffusa in Micronesia, per cui l’80% della popolazione soffre di "acromatopsia" ovvero, incapacità di vedere i colori. Unendo queste due fonti letterarie, noi parliamo di altro: non si tratta di una cecità fisica reale, ma di una cecità dovuta a un forte trauma psicologico che colpisce queste persone costrette all’isolamento in un istituto (l’istituto non è identificato con un carcere, ma evidentemente lo richiama). Gli studi e le sperimentazioni condotti nell’isola portano alla conseguente valutazione: eliminando la causa di quel trauma affettivo, eliminiamo alla radice gli effetti. L’unico rimedio possibile per i reclusi dell’isola sembra ritrovare i propri familiari. Quindi vita reale si intreccia con ciò che succede sul palco: il "viaggio all’isola di Sakhalin" porta a ritrovare gli affetti; oggi in questo teatro, le famiglie dei trenta detenuti-attori, sono qui. Quindi "Viaggio all’isola di Sakhalin" è soprattutto un percorso artistico ed esistenziale degli attori detenuti? Certo. All’interno di questo percorso letterario si intrecciano le vite degli attori-detenuti, ci sono momenti in cui gli attori chiamano le loro mogli e i loro figli per nome, ci sono veri e propri contributi personali dei protagonisti filtrati dalla letteratura. Questa è una forma di lavoro in cui letteratura e vita sono in completo equilibrio: la vita incarna la letteratura, la rende reale e la letteratura, illumina la vita con la poesia. Come hanno reagito gli attori alla preparazione del lavoro? Per loro preparare lo spettacolo è stato un gran lavoro. Fare teatro in carcere non è un percorso semplice, né per noi che lo proponiamo né per loro che lo affrontano. Alcuni sono alla prima esperienza. Loro si sono riconosciuti in questo racconto; non hanno filtri e questo è bellissimo: sono trenta attori ma soprattutto trenta persone che portano in scena in primo luogo il loro vissuto. La forza che viene dalla loro interpretazione viene dalla loro vita. Nel 2012 i detenuti-attori della Compagnia, guidati da Fabio Cavalli, sono stati i protagonisti del film dei fratelli Taviani Cesare deve morire. L’esperienza ha proiettato la dimensione del carcere a livello internazionale. Cesare deve morire, è stato interpretato da un’altra compagnia, Reparto G12, Alta Sicurezza. In carcere abbiamo quattro compagnie: Reparto G12 Alta Sicurezza, Reparto G8 (debutti teatri esterni), Reparto G9 (precauzionale) e poi una band musicale. Cesare deve morire è stato realizzato dalla compagnia dell’Alta sicurezza, guidata da Fabio Cavalli; i detenuti non avevano la possibilità di uscire e quindi il film è stato girato interamente dentro le carceri. Abbiamo più di cento detenuti "attori" a Rebibbia ogni anno e il lavoro prosegue ormai da 12 anni: dal 2002 il Centro Studi Maria Salerno è impegnato nella realizzazione di progetti culturali rivolti ai cittadini detenuti. Pensate di diffondere il lavoro portato in scena al teatro Argentina? Si, organizziamo un festival a Rebibbia: il Festival dell’arte reclusa, che ha avuto inizio il 30 giugno 2014 con un anteprima di questo spettacolo (Il festival è attivo dal 2004). Tutte le compagnie del carcere di Rebibbia si esibiscono, ospitiamo anche spettacoli esterni, c’è un calendario che ogni anno proponiamo e apriamo le porte del carcere (abbiamo un teatro di 400 posti). Il pubblico deve prenotarsi almeno una settimana prima: per il momento sono previste solo pomeridiane, ma speriamo presto di organizzarci anche con spettacoli serali. Immigrazione: sta per riaprire il Cie di Palazzo San Gervasio… la Guantánamo italiana? di Raffaella Cosentino La Repubblica, 24 settembre 2014 Le foto esclusive del cantiere in provincia di Potenza, dove la ristrutturazione costa tre milioni e mezzo di euro in un momento in cui i Cie stanno chiudendo in tutta Italia. Il centro fu chiuso poco dopo l’apertura nel 2011, in seguito alla nostra inchiesta dal titolo "Guantánamo Italia" e ad un’ispezione parlamentare. La risposta del Viminale: "sono opere che bisognava fare per forza". La grande gabbia gialla è ancora lì, dietro il muro di cinta grigio del Cie, sormontato da punteruoli di ferro ricurvi verso l’interno per impedire le fughe. Lì dentro il governo Berlusconi rinchiudeva esseri umani su una lastra di cemento, con solo le tende come riparo dal sole, lontano da tutto. Sulla strada di fronte c’è sempre il vecchio cartello color giallo evidenziatore: una mano nera indica di rallentare e sotto c’è una scritta ingannevole: "Centro di assistenza immigrati". Dall’estate del 2011 nel Centro di identificazione e di espulsione di Palazzo San Gervasio non c’è più nessuno. Dopo la nostra denuncia su "Guantánamo Italia", il conseguente scandalo internazionale e l’ispezione di tre parlamentari di opposizione, il ministero dell’Interno fu costretto a chiuderlo. Era nato su un bene confiscato, appena tre mesi prima, come tendopoli per i profughi della primavera araba. Il cantiere top secret. Tre anni dopo, un po’ arrugginita dal tempo, la gabbia gialla a maglie fitte, è ora al centro di un cantiere. Intorno fervono i lavori. Operai, betoniere, camion della ditta che sta facendo la ristrutturazione, pile di mattoni, impalcature di ferro e montagnole di sabbia per la costruzione. Siamo riusciti a scattare qualche foto da una feritoia alla base del cancello verde che è sempre sbarrato. I fondi del governo Monti. Le immagini ci dicono che riaprirà la "Guantánamo d’Italia". Per farne cosa, ancora non si sa. Per i lavori si stanno usando i tre milioni e mezzo di euro stanziati in Gazzetta Ufficiale con un’ordinanza della Protezione Civile dell’aprile 2013. Fu uno degli ultimi atti del governo Monti. In teoria i lavori dovevano essere conclusi alla fine dello scorso anno, ma poi non se ne seppe più nulla. Oggi, dove c’era solo una lastra di cemento, è stato già alzato un piano di una struttura in muratura a mattoni forati, con tante finestre uguali. Potrebbero essere celle o dormitori. Il nuovo edificio sorge alle spalle della gabbia, che non è stata smontata per fare i lavori. Riaprire la Guantánamo lucana appare una decisione inspiegabile. Un rapporto del Viminale risalente al governo Monti, riferiva l’esigenza di nuovi centri di detenzione amministrativa, dovuta alla carenza di posti, determinata dall’estensione della reclusione fino a 18 mesi. Cie chiusi o semivuoti. In questo momento, però, l’orientamento politico generale è cambiato. Dei 13 Cie, un tempo attivi sul territorio italiano, solo 5 funzionano ancora e a ranghi ridotti: sono semivuoti. Alcuni di quelli chiusi per ristrutturazione sono stati ufficialmente soppressi, come il Serraino Vulpitta di Trapani e quello di Modena. Altri trasformati in centro d’accoglienza come a Bologna, grazie alla ferma opposizione delle istituzioni locali ad avere di nuovo un Cie sul proprio territorio. Verso la riduzione dei tempi di trattenimento. Pochi giorni fa il Senato ha approvato un emendamento a firma Manconi e Lo Giudice che riduce da 18 mesi a 90 giorni il tempo massimo di detenzione amministrativa nei Cie, entro il quale bisogna essere identificati ed espulsi. Il provvedimento deve ripassare alla Camera per diventare legge ma è evidente che c’è un ampio accordo politico sul fatto che questi centri sono inefficaci per il contrasto all’immigrazione irregolare e che nell’attuale reclusione ci sono almeno 15 mesi in più di costi inutili per la collettività e di sofferenze disumane per i reclusi. "Quindici mesi superflui sono 15 mesi di insensatezza - spiega il senatore Luigi Manconi - Riaprire un Cie a Palazzo San Gervasio sarebbe contraddittorio rispetto all’orientamento oggi prevalente. Credo che il ministero dell’Interno voglia avere a regime un numero limitato di Cie in alcune delle principali città italiane, in particolare dove vi sono aeroporti". I costi delle espulsioni. Formalmente in provincia di Potenza, Palazzo San Gervasio è un comune attaccato al confine con la Puglia, in un’area poco popolata e a vocazione agricola. Una zona che sul rispetto dei diritti umani ha già gravi problemi legati al caporalato e allo sfruttamento della manodopera africana nella raccolta del pomodoro. Il primo aeroporto, quello di Bari, dista 100 chilometri. Questo vuol dire che i costi dell’espulsione di una persona dal Cie di Palazzo San Gervasio sarebbero enormi, perché le scorte di polizia dovrebbero fare la spola con il capoluogo pugliese. "Spendere tre milioni e mezzo di euro per costruire un centro di detenzione da 80 posti non ha senso - dice Gervasio Ungolo dell’Osservatorio migranti Basilicata - mi sembrano davvero eccessivi in un territorio che non ha porti, aeroporti, stazioni ferroviarie. La gestione delle espulsioni da qui costerebbe tantissimo". La risposta del Viminale. Abbiamo chiesto lumi al sottosegretario all’Interno con delega all’Immigrazione Domenico Manzione. "Sono opere che bisognava fare per forza" è la risposta. "Per ora stiamo solo procedendo a ristrutturare una struttura che non era più in grado di fare nessun tipo di accoglienza - ci dice - sui tempi di riapertura non ho date precise". Mentre sulla funzione che avrà la struttura, Manzione non si sbilancia: "mi riservo di rispondere quando finiremo i lavori". Il sottosegretario conferma che "ormai i Cie effettivamente operanti e il numero delle presenze all’interno sono modestissimi". Per chiuderli tutti servirebbe una modifica di legge. "Finché la normativa li prevede non possiamo farne a meno - spiega Manzione - Quelli che sono in condizione di degrado vanno comunque ristrutturati, salvo poi verificare se possono essere utilizzati per la missione originaria oppure se, com’è accaduto a Bologna, possano essere riconvertiti". Potrebbe succedere lo stesso a Palazzo San Gervasio? "Queste sono tutte decisioni che verranno prese con riferimento al quadro generale complessivo - risponde il sottosegretario - abbiamo superato i 120mila arrivi dal mare, quindi ci sono difficoltà, da parte delle regioni, nell’individuare gli hub per l’accoglienza dei richiedenti asilo. Dove è possibile utilizzarli per scopi diversi si farà, dove non è possibile rimarranno con le finalità originarie". Un altro dei Cie in bilico è quello di Gradisca d’Isonzo, anche lì ci sono lavori in corso. "Ma - spiega ancora Manzione - c’è un ragionamento complesso che stiamo facendo con la Regione Friuli". Inversione di tendenza. In generale c’è un’inversione di tendenza rispetto alle politiche degli ultimi anni in cui si andava verso il potenziamento dei Cie e l’allungamento dei tempi di reclusione. "Cosa si farà con quelli ancora chiusi? - si chiede Alberto Barbieri, coordinatore di Medici per i Diritti Umani - La politica e il governo hanno preso atto dell’esperienza fallimentare dei Cie come strumento contro l’immigrazione irregolare. Ora bisogna superarli e adottare le misure alternative che sono state proposte più volte: il ritorno volontario assistito, l’identificazione in carcere, la protezione per le persone vulnerabili". Anche Gabriella Guido, portavoce di LasciateCIEntrare si dice sorpresa dai lavori in corso in Basilicata. "Non avrebbe senso riaprire il centro di Palazzo San Gervasio, visto che quelli aperti sono mezzi vuoti - dichiara - Ci chiediamo perché ancora esiste quella gabbia, deve essere smantellata immediatamente". Stati Uniti: primo calo della popolazione carceraria federale in 34 anni Asca, 24 settembre 2014 La popolazione delle carceri federali statunitensi è diminuita per la prima volta dal 1980. A renderlo noto sarà oggi il segretario alla Giustizia, Eric Holder: rispetto a dodici mesi fa, l’anno fiscale si chiuderà (la prossima settimana) con 4.800 detenuti in meno. Secondo un rapporto che sarà pubblicato dal dipartimento della Giustizia, il calo della popolazione delle carceri federali proseguirà nei prossimi anni, con una riduzione di 2.000 detenuti il prossimo anno e di 10.000 in quello successivo. "Un fatto storico" dirà Holder, secondo le anticipazioni già pubblicate sul suo discorso. "Volendo mettere questi numeri in prospettiva - si legge sul New York Times - 10.000 detenuti sono circa l’equivalente della popolazione di sei prigioni federali al completo". Un risultato possibile grazie agli sforzi di Holder per cambiare le linee guida federali in modo da ridurre le pene per reati non violenti legati al possesso di stupefacenti. Inoltre, sostenuto da una coalizione formata da democratici liberali e repubblicani libertari, il segretario alla Giustizia sta cercando di convincere il Congresso a votare una riforma sostanziale del sistema carcerario, che presenta delle lacune se, nonostante un forte calo del numero dei reati commessi, gli Stati Uniti mantengono la più numerosa popolazione carceraria e il tasso di carcerazione più alto al mondo. Stati Uniti: nuovo scandalo su violenze nelle carceri di New York, spunta report censurato Asca, 24 settembre 2014 Omessi casi di violenza e corruzione a Rikers Island. Ancora uno scandalo nelle carceri di New York. Un’indagine condotta dal dipartimento di Giustizia americano sta scoperchiando particolari sempre più scomodi su casi di corruzione e violenza registrati nella prigione di Rikers Island. In particolare, è appena emerso che il Department of Correction (l’organo che monitora i processi di incarcerazione dei cittadini, ndr) avrebbe modificato i contenuti di un rapporto poi finito nella mani degli investigatori, tagliando i passaggi che reclamavano la rimozione di due ufficiali ritenuti negligenti nel servizio di controllo e amministrazione dell’istituto penitenziario. Le informazioni censurate includono centinaia di casi di violenza che non sarebbero stati né frenati nè segnalati nelle statistiche ufficiali sulle condizioni di sicurezza del carcere. Il direttore della prigione, William Clemons, e il suo vice, sempre secondo il report, sarebbero venuti meno alle proprie responsabilità nel registrare gli scontri tra detenuti e avrebbero chiuso un occhio sui dati falsi forniti dal personale per nascondere la situazione reale del carcere. Le promozioni ricevute da Clemons proprio a seguito del suo servizio a Rikers Island stanno alimentando polemiche sulla protezione fornita dagli istituti a chi assume atteggiamenti di connivenza con i casi di cattiva condotta e corruzione. Cina: Amnesty; circa 130 aziende cinesi esportano strumenti di tortura in Africa e Asia Tm News, 24 settembre 2014 La Cina favorisce le violazioni dei diritti dell’uomo in diversi paesi dell’Africa e dell’Asia esportando strumenti di tortura utilizzati durante gli interrogatori e in carcere. Secondo un documento diffuso oggi da Amnesty International circa 130 aziende cinesi - erano neppure 30 solo dieci anni fa - producono ed esportano strumenti di tortura come manganelli elettrici, manette per polsi e caviglie delle vittime, sedie che immobilizzano i detenuti. Alcuni di questi articoli commercializzati "sono intrinsecamente crudeli e disumani e dovrebbero quindi essere vietati", sottolinea Amnesty. Molti di questi strumenti vengono utilizzati dalla polizia in Cambogia, dalle forze di sicurezza in Nepal e Tailandia, sottolinea l’ong. Un’azienda denominata China Xinxing import-export ha indicato di avere rapporti commerciali con più di 40 paesi africani, fra i quali Ghana, Egitto, Senegal e Madagascar. "Il sistema di esportazione cinese ha consentito la proliferazione del commercio di strumenti di tortura e di repressione", deplora Amnesty International, invitando le autorità cinesi a "riformare la normativa commerciale per mettere fine al trasferimento irresponsabile di questi materiali". Iraq: scambio di prigionieri dietro rilascio 49 ostaggi turchi dello Stato islamico Aki, 24 settembre 2014 Secondo Hurriyet liberati 50 jihadisti in mano a gruppo siriano, Erdogan non smentisce questa ricostruzione. Ci sarebbe uno scambio di prigionieri dietro la liberazione dei 49 ostaggi turchi da parte dei jihadisti dello Stato islamico (Is) avvenuta sabato scorso. È quanto rivela il quotidiano turco Hurriyet, che cita fonti anonime, mentre il presidente Recep Tayyip Erdogan ha cautamente ammesso che "uno scambio potrebbe esserci stato". In particolare, in cambio della liberazione dei 49 turchi presi in ostaggio presso il consolato turco di Mosul, Ankara avrebbe convinto il gruppo ribelle siriano Liwa al-Tawhid a rilasciare 50 militanti dell’Is, tra i quali la moglie e i figli di Haji Bakr, un leader dell’Is ucciso ad Aleppo a febbraio. Secondo Hurriyet, l’operazione si sarebbe svolta con uno scambio simultaneo degli ostaggi, dopo che la Turchia ha condotto alcuni "round di colloqui" con Liwa al-Tawhid, gruppo fuoriuscito dall’Esercito siriano libero (i ribelli laici sostenuti dall’Occidente), rivale dell’Is e impegnato nella lotta contro il regime di Bashar al-Assad. Hurriyet rivela alcuni dettagli dell’operazione, spiegando che l’Is aveva condotto i suoi 49 ostaggi presso il valico turco-siriano di Akcakale già il 5 settembre, ma ha atteso a consegnarli fino al rilascio dei suoi uomini, il 20 settembre. Pronunciandosi sulla questione, Erdogan non ha smentito le notizie sullo scambio di prigionieri. "Posso dire che non c’è stata alcuna operazione con denaro, questo è chiaro - ha detto ieri nel suo intervento al Council on Foreign Relations di New York, citato dal New York Times - Qualcuno dice che c’è stato uno scambio, potrebbe esserci stato". Incalzato sul tema, Erdogan, che si trova a New York per partecipare all’Assemblea Generale dell’Onu, ha precisato di aver "solo detto che queste cose sono possibili. Quello che è importante è che siano preparate bene". Fonti del ministero della Giustizia di Ankara, infine, hanno escluso che siano stati rilasciati detenuti dalle prigioni turche. "Non è venuto meno alcun nome - hanno detto le fonti a Hurriyet - dall’inventario delle carceri turche". Iran: si riaccende caso Ghoncheh Ghavami. Per magistratura "arrestata per altri reati" Adnkronos, 24 settembre 2014 Non è in carcere per aver tentato di partecipare a una partita di pallavolo maschile la 25enne Ghoncheh Gavami, la ragazza iraniana con cittadinanza britannica al centro di un vero e proprio caso internazionale. Lo hanno assicurato i vertici della magistratura di Teheran, secondo i quali la ragazza non si trova dietro le sbarre per aver sfidato il divieto di ingresso alle manifestazioni sportive maschili imposto alle donne nella Repubblica islamica. "Sebbene questa persona sia stata arrestata in un luogo dove era in corso un evento sportivo, il suo caso non è legato a questioni sportive", ha affermato il portavoce della magistratura, Gholam-Hossein Mohseni-Ejei, nel corso di una conferenza stampa. La ragazza è "attualmente in carcere e il procedimento è in corso", ha precisato il portavoce, citato dal sito web dell’emittente Press Tv. Mohseni-Ejei ha quindi smentito la notizia diffusa dall’avvocato della Ghavami, citato dall’agenzia Isna, secondo il quale la ragazza era stata arrestata a giugno dopo aver tentato di assistere alla partita di World League maschile Iran-Italia a Teheran. Nelle ultime settimane numerosi atleti si sono mobilitati per la liberazione della ragazza.