Giustizia: la sfida dei penalisti "il diritto non è un lusso ci battiamo anche per Provenzano" di Errico Novi Il Garantista, 21 settembre 2014 Il Presidente dell’Unione delle Camere Penali, Valerio Spigarelli, chiede la revoca del 41 bis al boss, la platea risponde con un applauso scrosciante. Una battaglia per tentare di ripristinare la separazione tra toghe e politica. il confronto con il ministro Orlando. Sentono aria di svolta, gli avvocati penalisti riuniti a Venezia. Comprendono che il tornante della riforma proposta dal governo sulla giustizia è decisivo. E nelle linee guida del ministro Orlando intravedono scelte meno subordinate ai diktat delle toghe. Ma anche su questo c’è più di un distinguo tra i due candidati che si contenderanno oggi la presidenza dell’Unione camere penali, Beniamino Migliucci e Salvatore Scuto. Il quindicesimo congresso dell’Ucpi, in corso a Venezia Lido da venerdì, è chiamato a scegliere tra loro due. Le operazioni di voto sono iniziate nel tardo pomeriggio di ieri e ricominciano stamattina alle 11, nel giro di un paio d’ore ci sarà la proclamazione degli eletti. E si conoscerà dunque anche il nome del nuovo presidente, che subentra a Valerio Spigarelli. Negli appelli al voto di ieri mattina sia Migliucci che Sento hanno fatto ricorso a toni forti. Il primo, presidente della Camera penale di Bolzano, si è scagliato contro alcune distorsioni del sistema giudiziario, in particolare contro i paradossi del patrocinio di Stato: "Con un compenso di cento euro si vuol far capire a tutti che quella funzione è un orpello, senza importanza per nessuno", è la denuncia di Migliucci, "lo Stato si deve vergognare di se stesso nel momento in cui umilia la funzione difensiva, non l’avvocato". Scuto dà una lettura meno pessimista sulla condizione generale della giustizia, e in particolare sulla subordinazione della politica alle toghe: ma, avverte, "proprio alla politica dobbiamo cercare di dare strumenti per liberarsi dall’abbraccio mortale con la magistratura". Un congresso pieno di analisi sulla riforma, con il clou del confronto pubblico tra Spigarelli e Orlando di venerdì sera, ina anche di fiammate improvvise, come quella con cui proprio il presidente uscente si è rivolto alla platea nella sua relazione introduttiva: "Noi siamo quelli che si battono per i diritti degli ultimi, di Provenzano... sì, anche di Provenzano, non cambia la nostra difesa del diritto". E giù un applauso impressionante. Un segno forte che l’intera platea dei 460 delegati ha offerto, questo sulla battaglia per la revoca del 41 bis al boss delia mafia, le cui condizioni di salute non sono più compatibili con la detenzione. Un’indicazione chiara che si è ripetuta pochi minuti dopo, quando il segretario di Radicali italiani Rita Bernardini si è chiesta: "Che cosa è quella riservata a Provenzano se non una tortura? Non sarà stata introdotta nel nostro ordinamento come reato, ma in un caso del genere noi assistiamo a una tortura imposta nello Stato di diritto". Molto vivace anche lo scambio di opinioni avvenuto dinante il dibattito di ieri, che ha visto sfilare sul palco decine di delegati. In particolare sul significato da dare alla "visita" del Guardasigilli: Giandomenico Caiazza dice di non emozionarsi: "Non me ne fotte che viene qua, conta quello che c’è nei ddl". È Riccardo Cattarmi a controbattere e a. sostenere che l’intervento dì Orlando ha raccolto un "consenso unanime". Cosa che, a sentire i commenti nel foyer del Palazzo del Cinema di Venezia Lido, è molto vicina ai vero. Giustizia: appello per uno studio globale sui diritti dei bambini privati della libertà www.osservatorioantigone.it, 21 settembre 2014 La campagna "Call for a Global Study on Children Deprived of Liberty" ha organizzato un evento a New York il 13 ottobre, durante la settimana dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sui diritti dei bambini. L’associazione italiana Antigone ha partecipato alla campagna prima dell’estate e sostiene la richiesta di una ricerca che ancora non è stata compiuta nonostante ve ne sia un grande bisogno. I dati quantitativi e qualitativi sono assolutamente insufficienti. In tutto il mondo, i bambini vengono troppo spesso privati della loro libertà. La detenzione non è usata come ultima possibilità, come stabilito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia. Uno studio sui bambini privati della libertà è necessario, sostiene la campagna, poiché un crescente numero di bambini sono privati della loro libertà ogni anno, nonostante le prove che la detenzione sia costosa, inefficace e abbia un impatto negativo sulla salute e sullo sviluppo dei bambini. Il numero esatto dei bambini privati della libertà in tutto il mondo è sconosciuto. Uno studio globale fornirebbe dati completi su tutte le forme di detenzione dei bambini, valuterebbe come gli standard internazionali vengono implementati sul campo e individuerebbe le raccomandazioni e le best practices da implementare, incluse le alternative al carcere che possono risultare più proficue sia per i bambini che per la società. La campagna chiede agli stati membri di sostenere la causa nella bozza finale della prossima Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 2014 sui Diritti dell’Infanzia che chiederebbe al Segretario Generale Onu di realizzare uno Studio Globale sui Bambini Privati della Libertà e di nominare un esperto indipendente per condurre lo studio per suo conto. La ricerca sarebbe realizzata attraverso contributi liberi, senza alcun impatto sul budget ordinario dell’Onu. Lo scorso giugno a Genova è stata realizzata una consultazione di esperti, il cui report è ora disponibile. A seguito della consultazione, è stata condotta a New York una missione per fare pressione sui rappresentanti del paese in vista della prossima risoluzione Onu sui diritti dell’infanzia. Gli sforzi sono risultati vincenti, poiché la prima bozza della risoluzione contiene il riferimento allo studio. Tuttavia, le negoziazioni sulla risoluzione continueranno, così come continuerà la campagna di pressioni. Molte organizzazioni da tutte le parti del mondo hanno firmato la campagna, incluse Amnesty International, Save the Children, Human Rights Watch e Terres des Hommes. I partners che supportano la campagna sono il Comitato sui Diritti dell’Infanzia, le Rete Europea dei Garanti dei Bambini e l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa. Giustizia: l’Agenzia della paura che torna in campo per nascondere la verità sulle stragi di Attilio Bolzoni la Repubblica, 21 settembre 2014 Quello che fa paura a qualcuno non è il processo sulla trattativa Stato-mafia ma sono le nuove indagini su quel patto. Inseguono tracce dimenticate, incontrano altri personaggi immischiati nella tela dei ricatti fra gli apparati e i boss. Tutti appartenenti ai servizi segreti italiani. Appena l’inchiesta giudiziaria ha cominciato a scavare nei misteri dell’intelligence per le vicende stragiste del 1992, in quel momento, esattamente in quel momento, si è scatenata la caccia grossa al magistrato. C’è chi vuole seppellire per sempre bombe e morti. Per capire cosa sta accadendo in questi mesi a Palermo bisogna mettere in fila i fatti e scoprire chi c’è dietro quell’ "Agenzia della Paura" che fabbrica falsi, imbecca testimoni, minaccia sostituti procuratori, invade fisicamente uffici super blindati, piazza microspie, spedisce lettere anonime con lo stemma della Repubblica italiana. I magistrati indagano sulle spie e le spie scivolano alle spalle dei magistrati. Questa è la guerra che si sta combattendo nell’ombra in Sicilia. È un "metodo" che ritorna. Dopo più di 25 anni dall’attentato all’Addaura (e nessuno ci ha ancora spiegato chi sarebbero state quelle "menti raffinatissime" alle quali alludeva Giovanni Falcone subito dopo il tentativo di ucciderlo con la dinamite), sono sempre gli stessi a provocare quello stato di fibrillazione permanente ogni qualvolta un’inchiesta fuoriesce dai tradizionali binari della Cosa nostra nuda e pura per inoltrarsi nelle complicità in alta uniforme. Sono loro ancora oggi - come allora, quando tenevano sotto controllo le linee telefoniche di Falcone - a spadroneggiare nelle stanze della procura generale e lasciare missive minatorie ("Ti raggiungiamo ovunque") a Roberto Scarpinato. Quelli che rubano dalla scrivania di casa una chiavetta al pubblico ministero Roberto Tartaglia (lì dentro aveva dati appena acquisiti a Forte Braschi, il quartiere generale del servizio segreto per la sicurezza esterna) o che sabotano la centralina elettrica dell’abitazione del sostituto Nino Di Matteo. Un avvertimento dopo l’altro, un’ "operazione" partita quando in procura c’era ancora Antonio Ingroia e che non si fermerà certo con la scorribanda contro Roberto Scarpinato. "Sembra firmata", si è lasciato sfuggire il procuratore Vittorio Teresi. Sembra? È firmatissima. Nel linguaggio, nello stile grafico (simile se non identico ad altre minacce arrivate recentemente via lettera), scritta allo stesso tipo di computer e probabilmente nello stesso luogo. Chi l’ha recapitata, violando rigidi controlli e guardie armate, sapeva bene che su quella lettera stava lasciando le sue impronte digitali. È la guerra psicologica, sono gli specialisti della strategia della tensione che avvisano i pubblici ministeri: state attenti, sappiamo tutto di voi, cosa fate, dove indagate, cosa cercate. Le incursioni dell’ "Agenzia" si sono intensificate proprio quando le nuove indagini hanno virato. Rovistando nel labirinto losco delle carceri, individuando le scorrerie degli 007 nei bracci del 41 bis per invitare mafiosi al loro servizio. Smascherando falsi testimoni come quel Flamia, ufficialmente amico di Provenzano ma in realtà agganciato dagli spioni tanto tempo prima. Svelando sempre di più la figura di Mario Mori, colonnello del Ros negli anni delle stragi, poi capo del servizio segreto civile quando Berlusconi era presidente del Consiglio, ma anche con una militanza nel vecchio Sid, nome in codice "dottor Giancarlo Amici". A Palermo hanno acquisito carte sulla Falange Armata e su quelle inquietanti rivendicazioni dopo le bombe di Firenze, Roma e Milano del 1993, a Caltanissetta cercano ancora l’uomo "estraneo a Cosa Nostra" che caricò di tritolo - insieme a Gaspare Spatuzza - l’utilitaria che fece saltare in aria Paolo Borsellino. E cercano ancora anche l’agenda rossa. Ecco su cosa stanno indagando i magistrati che sono sorvegliati passo dopo passo. Tutte attività investigative che non sono orientate su Totò Riina e il suo esercito di corleonesi ormai in disfatta, ma sull’altro volto della mafia. Toccano fili di alta tensione istituzionale. Si può indagare su Cosa Nostra ma lì bisogna fermarsi. Territorio nemico. Un ultimo capitolo di questa guerra riguarda gli sproloqui di Totò con quell’Alberto Lorusso, un mezzo balordo senza quarti di nobiltà criminale ma a quanto pare molto vicino a certa sbirraglia. Perché Riina parla con lui? Perché parla pur sapendo di essere ascoltato? A chi sono destinate le sue invettive? La partita si sta giocando anche attraverso i "discorsi" di Totò Riina e di chi li ispira. Una parte ancora inedita dei suoi comizi nel carcere di Opera è sul famigerato covo del boss e sulla misteriosissima mancata perquisizione. Incalzato da Lorusso il capo dei capi a un certo punto dice: "Perché... perché...non ho potuto mai capire io…perché sospendono questa (la perquisizione, ndr)". Dopo più di 20 anni non lo sa ancora neanche lui. Se i magistrati di Palermo vogliono davvero scoprire qualcosa di più sulla trattativa Stato-mafia dovrebbero ricominciare da lì, da quel covo. Di sicuro nessuno ci ha mai raccontato tutto. Né i carabinieri naturalmente, quelli che fecero credere di sorvegliarlo e poi furono assolti dall’accusa di favoreggiamento "perché il fatto non costituisce reato". Né le carte degli stessi magistrati, ricostruzione imperfetta di ciò che avvenne la mattina del 15 gennaio del 1993, giorno della cattura di Riina. Né l’ex procuratore Caselli che - ancora oggi - non dà chiarimenti sufficienti sul perché non fu aperta subito un’indagine quando la casa di Riina fu svuotata. L’inchiesta venne aperta solo 4 anni e 9 mesi dopo. Troppo tardi. Giustizia: sentenza Thyssen, un’indignazione non giustificata di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 21 settembre 2014 L’orribile morte a Torino dei sette lavoratori della Thyssen ha sollevato un’emozione e un’indignazione che giustamente accompagnano tuttora quel dramma nel quadro, anch’esso drammatico, delle morti sul lavoro in Italia: una routine tanto ordinaria e stabile da non richiamare più l’attenzione che merita. Anche i ripetuti richiami del Presidente della Repubblica sembrano cadere nel vuoto. E se negli ultimi tempi il numero complessivo degli infortuni sul lavoro è diminuito, ciò è dovuto alla crisi economica e alla caduta dell’attività nell’edilizia, fonte prima degli incidenti. L’Italia resta il Paese europeo con il maggior numero d’infortuni sul lavoro. Ma occorre il fatto enorme, come è stato quello della Thyssen, perché almeno l’emozione si manifesti, se non anche le iniziative utili, come sarebbe il render più forte e professionale l’azione di prevenzione dell’Ispettorato del Lavoro. Subito dopo il disastro è iniziata l’indagine giudiziaria per chiarire le responsabilità penali. L’indagine straordinariamente minuziosa e sagace ha messo in luce il grado di consapevolezza della pericolosità della situazione in fabbrica, da parte dei dirigenti della grande impresa. Le Corti di assise di primo e di secondo grado, con differenti valutazioni giuridiche sugli incerti confini di nozioni come quelle del dolo eventuale e della colpa con previsione, hanno condannato diversi dirigenti a gravissime pene, riconoscendo anche la responsabilità dell’impresa in quanto tale. Il caso giudiziario è divenuto oggetto di schieramento su terreni diversi da quello dell’accertamento delle responsabilità individuali. E alle voci disperate dei famigliari delle vittime, che sono passati dalla dichiarata soddisfazione allo scoramento e alla sfiducia nella giustizia, si sono contrapposti gli sconvolgenti applausi tributati ai condannati da una assemblea di industriali, persino accompagnati da preoccupato allarme per il futuro dell’industria in Italia. Tutto ciò lasciando sullo sfondo la gravissima vicenda umana e facendo di quella giudiziaria il terreno di scontro. Come se ai magistrati, da una parte e dall’altra si chiedesse di schierarsi. È un meccanismo di opinione pubblica che vediamo operare in Italia da lungo tempo ormai: distruttivo per le istituzioni repubblicane, tutte, non solo per quella giudiziaria. Ora è giunta la sentenza della Cassazione, che ha affrontato com’è nel suo ruolo specifico, alcuni difficili problemi giuridici. Una precisazione è necessaria. In questi giorni è divenuta nota la motivazione della sentenza, non il tenore della decisione, che già era stato reso pubblico lo scorso aprile. È un difetto del sistema processuale italiano: il dispositivo è subito letto nell’udienza pubblica, mentre la motivazione segue, anche dopo molto tempo. E la stesura delle oltre duecento pagine di esame dei motivi dei ricorsi, anche in questo caso ha richiesto tempo. Cosa avviene nel frattempo? Senza conoscere i motivi che hanno condotto i giudici a adottare l’una o l’altra soluzione giuridica o valutazione di fatto, i commenti si affollano con le immaginarie ricostruzioni di ciò che i giudici hanno pensato e del perché e del percome. Una volta espressa una valutazione senza fondamento, difficilmente essa viene corretta con la lettura della motivazione che i giudici poi depositeranno. E così è avvenuto anche questa volta, riemergendo quell’immediata indignazione che francamente la sentenza della Cassazione non merita. Accanto ad altre questioni di grande importanza sul piano giuridico e per l’impatto che hanno sul terreno della valutazione penale degli infortuni sul lavoro, la Cassazione ha affrontato il problema della distinzione tra il dolo e la colpa in situazioni in cui la condotta è certo gravemente imprudente, ma l’evento dannoso che ne consegue non è voluto. È magari previsto come possibile, sperando che non si verifichi, o accettandone il rischio o invece fidando e pensando che in concreto non accada. Chi potrebbe negare che sia di straordinaria difficoltà la ricostruzione di simili sfumature di atteggiamento nella mente di chi deve rispondere dell’accaduto? Solo la motivazione della decisione giudiziaria consente di maturare una posizione, condividendola o criticandola. Ma non hanno senso gli schieramenti pregiudiziali, tanto più sulla base del solo dispositivo della sentenza. Nel caso specifico la Cassazione, con una motivazione la cui estensione potrebbe persino sembrare eccessiva rispetto alla stretta necessità giudiziaria, ha preferito adottare una posizione forse più restrittiva di quanto è stato solitamente affermato, restringendo il campo del dolo (eventuale) rispetto a quello della colpa (cosciente). Faccio riferimento a una preferenza non per suggerirne l’arbitrarietà o il capriccio, ma per segnalare che non si trattava di dimostrare, se si ammette il bisticcio, una dimostrazione, ma di discutere argomenti non univoci e persuadere della bontà, preferibilità della soluzione accolta. Perché l’elaborazione di concetti generali come quelli che erano in discussione (e che i redattori del Codice penale rinunciarono a definire, lasciandone l’onere alla giurisprudenza e alla dottrina) non ha nulla della certezza della dimostrazione matematica. L’adozione di una nozione da parte della Cassazione non significa che tesi diverse siano sbagliate. La coppia del giusto/sbagliato raramente ha cittadinanza nell’interpretazione della legge. Essenziale è la persuasività dei motivi, con cui il giudice spiega il fondamento della decisione. Nella descrizione minuziosa dell’evanescenza dei confini tra le due nozioni che erano in discussione e di tutte le difficoltà che comporta la ricostruzione dell’atteggiamento psicologico degli imputati, la Cassazione ha finito per indicare il criterio cardine della giustizia penale: nel dubbio prevale la soluzione più favorevole all’imputato. Non c’è vicenda, per quanto grave, che possa rovesciare questo principio. Giustizia: inchiesta Mose; nove medici in carcere per visitare l’ex Assessore Chisso di Maurizio Dianese Il Gazzettino, 21 settembre 2014 Domenica 28 settembre arriverà un esercito di medici nel carcere di Pisa per vagliare le condizioni di salute di Renato Chisso. Ieri mattina il Gip Roberta Marchiori, infatti, ha dato l’incarico ufficiale ai suoi tre periti, che andranno ad aggiungersi ai tre della difesa e ai tre incaricati dalla Procura. Nove medici in tutto, dunque. Si confronteranno tra di loro, ma l’ultima parola spetterà ai tre camici bianchi incaricati dal Gip. I consulenti della difesa sostengono che l’ex assessore regionale alle Infrastrutture è in pericolo di vita, mentre i consulenti dell’accusa sostengono che, pur essendo a rischio, si trova nel posto migliore per le cure, dal momento che a Pisa c’è, annesso al carcere, un centro specializzato in patologie cardiache. Dunque saranno la dott. Silvia Tambuscio, il dott. Paolo Jus e il dott. Davide Roncali a dire l’ultima parola. E, sulla base della loro relazione medica, Roberta Marchiori deciderà se mandare Chisso ai domiciliari o se tenerlo in carcere. La visita sarà effettuata nel carcere di Pisa domenica 28 settembre e il 1° ottobre i periti consegneranno una prima relazione. Intanto l’avv. Antonio Forza sottolinea la disparità di trattamento tra il suo assistito e altri imputati. "A Giovanni Mazzacurati è stato consentito di andare addirittura in America per curarsi, mentre a Chisso non si permette nemmeno di tornare a Mestre per avere le cure in ospedale. Intanto questa settimana ha avuto altri due attacchi di angina. Mi sembra che ci sia un accanimento assurdo nei confronti del mio cliente". Napoli: Poggioreale non è più un inferno, ecco il perché. Da 2.900 i detenuti ridotti a 1.800 di Vincenzo Esposito Il Corriere del Mezzogiorno, 21 settembre 2014 Mattone, Sant’Egidio: ora è un laboratorio di riforme. Aspettando il Santo Padre. Cambiati direttori e vertici. Da 2.900 i detenuti ridotti a 1.800. La svolta a marzo dopo l’ispezione della commissione Ue. Quasi tremila detenuti al posto dei 1.900 che può accogliere, assistenza sanitaria zero, tensioni, violenza. Il carcere di Poggioreale è un inferno. "No, guardi, queste cose erano vere fino a marzo. Ora la situazione è totalmente cambiata. In meglio. I detenuti sono appena 1.800 e il progetto di riforma, che già ha portato tantissimi cambiamenti, sta andando avanti". Antonio Mattone, responsabile della Comunità di Sant’Egidio per le carceri in Campania, è uno che nelle celle entra e esce da anni con molta frequenza. No, non è un recidivo, ma un volontario che ha conosciuto l’inferno di Poggioreale, quello descritto con crudezza anche nel film "Il camorrista", e ora assiste alla riforma. Cosa è cambiato e perché? "Tutto. Ad esempio i vertici del penitenziario, dal direttore al suo vice fino ai capi dei vari dipartimenti interni. Una scelta voluta dal ministero dopo la visita, a marzo, della Commissione europea sui diritti umani. Quello che i delegati di Bruxelles videro era indicibile. Condizioni disumane. Basti pensare che Poggioreale era il carcere più affollato d’Europa con meno di tre metri quadrati a persona. La reazione della Ue è stata durissima e il ministero è corso ai ripari". Però c’era stato anche il presidente Napolitano. "Sì, ma decisiva è stata l’Europa. E i benefici sono stati a catena. Molti detenuti sono stati inviati a Carinola che da carcere di massima sicurezza è diventato un penitenziario modello con sperimentazioni di recupero. E a Poggioreale il clima è diventato migliore, più disteso. Anche perché il nuovo direttore Antonio Fullone, è molto aperto e incontra tutti e ascolta tutti, dai detenuti ai volontari". Ecco, voi cosa fate all’interno del carcere? "Incontriamo i detenuti e cerchiamo di farlo quotidianamente. Stare insieme, parlarsi, è molto importante per loro. Proviamo ad alleviare i loro problemi creando anche un collegamento con le famiglie, con l’esterno. La solitudine è la cosa più brutta all’interno di un carcere. Poi organizziamo anche concerti. Molti artisti sono venuti. Qualche nome? Sal Da Vinci, Martina Stella, De Crescenzo, Gragnaniello per citare alcuni. Quindi, per chi vuole, facciamo catechesi. I ragazzi che si trovano dietro le sbarre sono ora migliori. Proviamo ad aiutare soprattutto quelli più poveri. Quest’estate un giovane ghanese non aveva neppure le scarpe, gliele abbiamo portate". Molti pensano che siano tutti camorristi. "No, i detenuti sono molto diversi tra loro. La maggior parte è composta da ragazzi buoni come il pane ma che hanno sbagliato. E lo sanno. Altri, invece, sono un po’ più incalliti. Tra noi c’è un detto: più mandate fai e meno recupero c’è". Ed è vero? "È statisticamente provato. Più c’è repressione e più chi è stato in carcere ci ritorna". Ma se era così facile sfollare Poggioreale, perché non è stato fatto prima? "È cambiata la mentalità, ora è in atto la riforma". Quindi era solo un fatto culturale: bisognava reprimere duramente e quindi rendere il carcere un inferno. "Qualcuno lo pensa". Cosa resta ancora da fare? "Tanto. Per esempio ci sono due centri clinici comprendendo anche il carcere di Secondigliano che è il più esteso d’Europa e ha 1.100 detenuti. Un istituto di massima sicurezza. Però se una persona che si trova dietro le sbarre ha bisogno di un ricovero i tempi sono lunghissimi, ed è molto pericoloso. Ci vorrebbe anche una camera operatoria interna di chirurgia d’urgenza per i primi interventi". Ora verrà Papa Francesco. Cosa significa per tutti voi? "È una benedizione". Viterbo: 457 detenuti rispetto ai 740 dello scorso anno, ora serve un mediatore culturale www.viterbonews24.it, 21 settembre 2014 Il deputato Pd Alessandro mazzoli ha fatto visita al carcere di mamma gialla questa mattina accompagnato dalla direttrice Teresa Massolo. Anche se restano comunque i nodi della carenza di personale e dell’assenza di un mediatore culturale (figura ritenuta centrale visto che il 54,5% dei carcerati è di origine straniera) i numeri del penitenziario viterbese sono inferiori rispetto ad un anno fa: "Oggi a Mammagialla ci sono 457 detenuti di cui 51 reclusi in regime di 41 bis. L’anno scorso erano 740 - spiega Mazzoli. Alla Casa circondariale di Viterbo il numero dei detenuti è tornato a livelli accettabili. Effetto congiunto del trasferimento dell’alta sicurezza deciso dal dipartimento tra aprile e giugno e anche delle misure adottate dal Governo per ridurre il sovraffollamento senza per questo abbassare il livello di vigilanza dello Stato". Nei mesi scorsi, i circa 150 detenuti in alta sicurezza sono stati trasferiti dal carcere di Viterbo negli istituti di Sardegna, Terni e Melfi. Questo, insieme al ricorso a misure alternative al carcere introdotto dalle nuove normative emanate nei mesi scorsi, ha consentito di superare il problema del sovraffollamento. Cresce, proprio per effetto dell’allontanamento dell’alta sicurezza dove la maggioranza dei carcerati sono italiani, la percentuale di stranieri. Nello specifico, al momento Mammagialla ci sono 206 detenuti italiani, 93 della Romania, 40 dell’Albania, 16 della Tunisia, 11 della Georgia, 9 della Nigeria, 8 del Marocco, 6 dell’Egitto, 5 della Bosnia Erzegovina, 5 dell’India e 59 di altri Stati. Circa 160 i detenuti che svolgono attività lavorative in maggioranza all’interno dell’istituto, come la manutenzione ordinaria dei fabbricati, le pulizie (tutte vengono svolte dai carcerati senza affidamenti a ditte esterne), la preparazione e distribuzione dei pasti, la falegnameria. "L’elevata percentuale di stranieri - spiega Mazzoli - comporta la necessità di introdurre figure quali quelle del mediatore culturale, fondamentali per l’integrazione del detenuto all’interno del carcere e per facilitare il lavoro degli agenti". Il personale, invece, da pianta organica dovrebbe essere composto da 415 unità. Risultano assegnati invece solo 356 agenti ma di effettivi, tolti i distaccati, ce ne sono solo 304. Entro fine settembre, verranno assegnate 9 unità (una però nel frattempo andrà via e un’altra è già distaccata a Viterbo, quindi effettivamente le nuove forze ammontano a 7). "Le misure adottate negli ultimi mesi in Parlamento hanno contribuito - afferma Mazzoli - a ridurre la media dei detenuti nelle carceri italiane. Nel Paese da 67mila reclusi (dato dello scorso anno) siamo passati a 54.252 (dato del 31 agosto). Tra le novità introdotte ci sono: maggiore possibilità per lo straniero di espirare la pena nel paese di origine; attenuazione degli effetti della recidiva; depenalizzazione di una serie di reati, pene detentive non carcerarie e meccanismi di probation (messa in prova) da estendere agli adulti; nuova normativa in materia di droghe e tossicodipendenza che ridefinisce la distinzione tra leggere e pesanti". "Un numero di detenuti più basso - conclude - rende più vivibili le condizioni all’interno del carcere, anche per gli agenti che svolgono un lavoro delicato. Consente anche di aumentare le attività trattamentali, restituendo alla detenzione la finalità rieducativa che le appartiene". Roma: a Rebibbia in avaria 23 mezzi di trasporto su 87, non ci sono soldi per le riparazioni Adnkronos, 21 settembre 2014 Emergenza mezzi di trasporto in dotazione alla Polizia Penitenziaria del carcere romano di Rebibbia, "molti dei quali in avaria o obsoleti". A lanciare l’allarme è l’Fns Cisl del Lazio. "Abbiamo ricevuto una nota dalla Direzione NC Rebibbia per quanto riguarda il Nucleo Traduzioni del Polo di Rebibbia, dove emerge che su 87 mezzi 23 sono in stato di avaria e per il momento non possono essere posti in riparazione per mancanza di fondi - spiega il segretario regionale Fns Cisl Massimo Costantino. Nella nota testualmente viene riportato: "Emerge che su 87 mezzi 23 sono in stato di avaria e per il momento non possono essere posti in riparazione per mancanza di fondi. Per tale motivo, tutti gli automezzi che anche nel prossimo futuro dovessero subire un guasto dovranno essere fermati in attesa di nuove assegnazioni fondi, con il rischio però di compromettere seriamente lo svolgimento dei servizi". 23 mezzi in stato di avaria su 87 e molti altri sono obsoleti. E tutto questo, che è stato segnalato più e più volte, accade per mancanza di fondi, e non solo in questo carcere". Basta pensare, prosegue Costantino, che "qualche settimana fa per mancanza di benzina si è messa a rischio anche l’operatività dell’ufficio Esecuzione Penale esterna (Uepe) di Roma e Latina dove il taglio drastico al capitolo di bilancio relativo alla gestione degli automezzi, ha limitato la capacità di spostamento degli oltre 30 assistenti sociali operanti a Roma e Latina". Il problema non è però solo economico ma anche un problema di sicurezza: "Se in un mezzo devi far entrare più detenuti, questo diventa un problema di sicurezza del detenuto, dell’agente penitenziario e del cittadino", sottolinea il segretario. Di qui l’appello al ministero a "non tagliare questi capitoli di spesa perché, ripeto, ne va della sicurezza di tutti". E poi: "A Roma quando un detenuto sta male e deve essere trasportato in ospedale, sono sempre i nostri mezzi ad occuparsene. Ma se per legge la sanità penitenziaria è il detenuto è in carico alla Regione, perché non viene trasportato in ambulanza, ovviamente con l’ausilio di personale penitenziario?". Livorno: il Garante; il nuovo padiglione delle Sughere va destinato ai detenuti comuni di Lara Loreti Il Tirreno, 21 settembre 2014 "Il nuovo padiglione delle Sughere, che stiamo sospirando da sette anni, va aperto alla svelta e va destinato alla media sicurezza, cioè ai detenuti comuni. E questa, del resto, mi sembra sia anche la linea del provveditore. Chi sostiene il contrario evidentemente non ha chiaro il quadro della situazione carceraria livornese e non". È netta la posizione di Marco Solimano, garante dei detenuti, che da anni ha fatto dell’apertura del padiglione uno dei suoi cavalli di battaglia. Solimano entra così in polemica con quanto espresso dalla consigliera regionale di Toscana Civica, Marta Gazzarri, che tre giorni fa ha effettuato un sopralluogo alle Sughere insieme a Giovanni De Peppo, presidente dell’associazione Confronto, e al sindacato Uil: secondo loro, il padiglione non è abbastanza sicuro per i detenuti comuni, generalmente ritenuti più irrequieti rispetto a quelli che hanno pene più lunghe da scontare. Quindi, nel caso in cui dovesse essere aperto ai detenuti "normali", secondo questo punto di vista il padiglione dovrebbe essere adeguato con nuovi lavori. "Porre di nuovo il problema della sicurezza è assolutamente fuori luogo - tuona Solimano - come lo è parlare di barriere tra area polizia e zona detenuti o contestare la presenza di televisori ad altezza uomo nelle celle perché "potrebbero essere sradicati". Dopo anni di battaglie per creare ambienti aperti, per dare a tutti i detenuti la possibilità di vivere in un ambiente dignitoso, con acqua calda, bagni confortevoli e luoghi di ritrovo adeguati, ritrovarsi a porre problemi di barriere divisorie non è accettabile". Solimano sottolinea che il nuovo padiglione, così com’è, risponde alle esigenze delle nuove norme che prevedono, tra l’altro, 8 ore d’aria al giorno per i carcerati e ambienti più inclusivi, orientati al reinserimento sociale. "Deve ospitare detenuti comuni anche perché è giusto che accolga i livornesi, molti dei quali ora sono in giro per le carceri della Toscana - aggiunge Solimano, che è al lavoro anche per far riaprire il femminile. Dopo anni di lavori e tante polemiche, il padiglione ora è quasi pronto: se tutto procederà senza intoppi, dovrebbe aprire tra uno o al massimo 2 mesi. Ma la data è ancora un’incognita. Livorno: Progetto "Piedelibero", gli ex detenuti impiegati nel riciclo delle biciclette di Roberto Riu Il Tirreno, 21 settembre 2014 Vecchi catenacci magari senza sellino o privi di manubrio, talora ridotti al solo telaio, tornano a nuova vita dopo un lungo abbandono grazie a Piedelibero: un progetto, ma soprattutto una sfida culturale e educativa, avviato a Firenze nel 2013, che ha come protagonista il lavoro di detenuti e ex detenuti del carcere di Sollicciano e dell’Istituto penale minorile "Meucci" impegnati a ricuperare, ripristinare e rinnovare le biciclette dismesse dal deposito comunale fiorentino (trascorsi i canonici 18 mesi canonici di custodia senza che nessuno ne abbia reclamato la proprietà). Nelle officine messe a disposizione dalla cooperativa Ulisse di Firenze e grazie alla direzione creativa della agenzia Cantoni Associati, le vecchie biciclette, talune di marca, vengono trattate realizzando dei veri pezzi unici scaturiti dall’impiego di particolari abbinamenti di colori e di determinati accessori (freni, manubrio, sellino). Insomma: come ti riciclo il biciclo. Una rassegna di questa attività, le cui origini risalgono al 2000 col progetto Milleunabici, è ora visibile a Livorno, presso lo studio di architettura "70m2" (via Poggiali 10), dove alcune biciclette rinnovate resteranno esposte sino al 25 settembre: la mostra rientra fra le iniziative lanciate per la Settimana europea della mobilità, rivolta a favorire il muoversi in modo sostenibile e il ciclismo urbano. Ultima curiosità: esiste anche una linea Piedelibero formata da "special edition", con biciclette d’epoca e rare. Info: www.piedelibero.it. Como: ieri al Bassone il primo "flash mob" organizzato all’interno di un carcere italiano Corriere di Como, 21 settembre 2014 È accaduto ieri pomeriggio nella sala polivalente dell’istituto comasco. Un po’ di rammarico da parte dei detenuti che avevano organizzato l’evento all’aperto ma, a causa di un diluvio inarrestabile che ha flagellato anche ieri il Lario, si sono dovuti spostare dentro l’edificio. Contrattempo che non ha però scalfito l’entusiasmo dei partecipanti. E così alle 15 è scattato il flash mob. I detenuti, riuniti in piccoli gruppetti e intenti a parlare tra loro, dopo il suono improvviso di una sirena si sono spostati su un lato della sala e - in assoluto silenzio - hanno estratto, da sotto la giacca, cartelli. Su ciascun foglio, scritte con il pennarello, una delle seguenti parole scelte dagli ospiti della casa circondariale lariana: Rispetto, Onestà, Coraggio, Perdono, Generosità, Ottimismo, Gratitudine, Gentilezza, Amore, Impegno, Pazienza, Integrità. Ogni detenuto ha selezionato quella che più lo rappresentava e ha poi spiegato il perché di tale scelta. "Ricomincio da me!" è lo slogan scelto per l’iniziativa, ideata dall’associazione "Le Ali Morali", atto conclusivo del progetto "Valori Dentro", organizzato per promuovere la riscoperta, appunto, dei valori. Un progetto partito lo scorso luglio e che ha coinvolto circa 100 detenuti, sui 400 presenti al Bassone. Una cinquantina i partecipanti al flash mob di ieri, donne e uomini insieme. Tra loro anche Alberto Arrighi, in carcere per il delitto di Giacomo Brambilla che ha mostrato il cartello "Gratitudine". Per tutti dunque un solo compito: scegliere un valore e mostrarne il cartello durante l’evento. In tanti hanno voluto poi spiegare il perché della scelta di una determinata parola. Tanti hanno voluto ricordare a se stessi ma in particolare a chi è fuori dal carcere che dagli sbagli si può crescere e migliorare. Molti infatti hanno voluto parlare di perdono e gratitudine. Uomini e donne, riunite in un evento decisamente insolito e mai realizzato prima nelle carceri italiane. Soddisfatta la direttrice del Bassone, Carla Sant’Andrea, che ha seguito il flash mob con occhio attento e curioso. La stessa direttrice aveva dichiarato di non conoscere la storia di simili eventi ma di aver subito accolto con entusiasmo l’idea proposta. "Abbiamo voluto incentrare questa iniziativa sui valori. Si è cercato di far riflettere i detenuti - ha detto Carla Sant’Andrea. Abbiamo iniziato a lavorare con i carcerati ormai diversi mesi fa. A luglio per la precisione. E oggi (ieri, ndr) c’è stato l’atto conclusivo. Dei 400 detenuti attualmente al Bassone, in 100 hanno voluto partecipare. Purtroppo oggi, visto il cattivo tempo, il numero si è lievemente ridotto". Il progetto "Valori Dentro" si è sviluppato in tre fasi. In un primo momento ai detenuti sono stati distribuiti dei volumetti con tutti i valori che poi sono stati riproposti sui cartelli preparati dagli stessi detenuti. In una fase successiva sono stati organizzati incontri per approfondire il significato delle parole e la loro influenza pratica nella vita di tutti i giorni e infine, ieri pomeriggio, dopo più di due mesi dal primo incontro, è andato in scena il "flash mob dei Valori" comasco. Padova: "Polisportiva Pallaalpiede", per il team dei detenuti derby contro il Pedro di Dimitri Canello Corriere del Veneto, 21 settembre 2014 L’appuntamento è fissato per sabato 20 settembre, alle 14.30, sul campo del carcere Due Palazzi. "Ma ci sono ancora tutte le linee del campo da sistemare, provvederemo entro stamattina, perché vogliamo che tutto sia in ordine". Il gran giorno è arrivato: la "Polisportiva Pallaalpiede", ossai la rappresentativa dei detenuti di Padova è pronta a debuttare nel campionato di terza categoria. Avrà un vantaggio: giocherà per ovvie ragioni di sicurezza sempre in casa e il primo match sarà una sorta di derby contro la "Polisportiva San Precario" del Centro sociale Pedro, sempre di Padova. Le procedure per seguire l’incontro da parte della stampa sono rigorose, servono autorizzazioni speciali, ma la soddisfazione che trapela nella conferenza stampa di presentazione è evidente. "Devo ringraziare il presidente della Figc, Carlo Tavecchio - dice il presidente della Figc Veneto, Giuseppe Ruzza - perché sin dal primo momento, quando ancora era ancora presidente della Lega Nazionale dilettanti, si è reso disponibile per seguire questo progetto, favorendone in ogni modo la buona riuscita. Speriamo che l’iniziativa venga estesa ad altre città, perché è la prima nel suo genere". La "Polisportiva Pallalpiede", che ha sottoscritto un codice etico in cui gli atleti" si impegnano a rispettare le regole del gioco, è pronta a dare battaglia sul campo. "Il progetto - spiega il presidente Paolo Piva - non sarebbe stato possibile senza la collaborazione di tutti, dal direttore del carcere alla squadra, dal nostro mister Valter Bedin alle componenti che girano attorno al mondo del calcio. Sono stato seguito passo passo dalla Federazione nella messa a punto dell’iniziativa e mi auguro che lo sport possa rappresentare un veicolo per il recupero di ragazzi che stanno pagando il proprio debito con la società". Bedin simpaticamente fa notare come "saremo l’unica squadra che perderà i giocatori perché vanno agli arresti domiciliari, non per squalifica o per infortunio". Poi illustra il suo lavoro delle ultime settimane, in cui è stato necessario sottoporre i giocatori a un ritmo di allenamento sempre più incalzante. "Il portiere ha perso 15 chili - sorride - ma se lo vedi ti chiedi com’era prima della cura dimagrante. Ci sono ragazzi molto interessanti, uno in particolare potrebbe giocare in Eccellenza, mentre un altro dice di aver militato nelle giovanili del Borussia Dortmund e se la cava bene anche se adesso è infortunato. Ci sono state procedure complesse solo per tesserare gli stranieri". Detenuti sconfitti al "Due palazzi" Alla fine hanno vinto i giocatori del San Precario. Per 2-1 con gol al 93esimo minuto. La polisportiva Palla al Piede composta dai detenuti del carcere di Padova non ce l’ha quindi fatta nella sua partita d’esordio nel campionato di Terza categoria (fuori classifica). Nonostante il vantaggio messo a segno da Edwin Delfo detto Gheddafi e una partita condotta con grande tecnica e agonismo nel campo di calcio all’interno del "Due Palazzi". Roma: "Viaggio all’isola di Sakhalin", al Teatro Argentina in scena carcere e isolamento www.newnotizie.it, 21 settembre 2014 Il Teatro Argentina apre la stagione 2014 con un evento volto ad approfondire i mali del nostro tempo, aprendo le porte alla comprensione reciproca tra differenti categorie del tessuto sociale, dimostrando come siano tutte ugualmente utili, in evoluzione, e come il fatto di rendere possibile il dialogo tra di esse possa contribuire in larga misura alla crescita personale di ogni individuo. Il Carcere di Rebibbia, notoriamente l’istituto di pena considerato il più "duro" della città di Roma, apre le sue porte per far uscire in questi due giorni un gruppo di 40 detenuti, tra cui anche persone destinate a lunga detenzione, perché possano recitare il dramma (in parte commedia) "Viaggio all’isola di Sakhalin", ideato da Laura Andreini Salerno e liberamente tratto dagli scritti sul tema di Anton Cechov e Oliver Sacks. La regia è di Valentina Esposito in collaborazione con l’autrice del testo. In scena il 19 e 20 settembre, ma con dispiacere avvisiamo che i posti sono ormai tutti prenotati: quel che ci preme qui approfondire è l’implicazione sociale e politica di un fenomeno che, lo speriamo, sembra essere in espansione sia in Usa che in territorio europeo. A livello nazionale, il carcere di Rebibbia sembra ora essere all’avanguardia nel dare possibilità culturali e di crescita personale ai suoi detenuti. Dalla Siberia a Rebibbia - L’opera si intreccia seguendo due filoni: quello che ricalca in particolar modo gli appunti che abbiamo dell’esperienza professionale di Cechov nelle carceri siberiane, dove seguì come medico alcuni detenuti che mostravano misteriosi segni di mali fisici da cui si è affetti solo in condizione isolamento, e quello della realtà vissuta dai reclusi "veri" che dopo lunghi corsi di teatro in carcere sono approdati sul palco. Difficile distinguere i due fili del discorso: la problematica comune sembra travalicare tempo e lunghi spazi per far identificare tra di loro alla perfezione persone dall’esperienza ovunque simile. E il pubblico stesso è invitato a fantasticare sulle proprie reclusioni interiori di qualunque tipo, e a porsi la domanda dell’ultimo atto: è in fondo meglio guarire, o restare con parte delle proprie percezioni atrofizzate, espediente utilizzato in genere da un organismo appunto per non provare dolore? L’interrogativo politico e sociale - Deve restare un diritto inalienabile della persona, quello della ricerca della felicità di cui parla la nostra Costituzione? Vale, dunque, anche nel caso in cui siamo condannati a scontare una pena detentiva per aver infranto il patto sociale? Queste domande aprono ad un punto di vista che non è più quello del carcere come "perdita di tempo", come arresto di ogni azione ed evoluzione, di ogni ricerca di senso: quello che di solito chiamiamo "isolamento". Deve dunque essere un diritto, la possibilità di crescere anche in carcere? Noi dopo la prima di ieri sera vogliamo essere fiduciosi, abbiamo visto sul palco persone da ovunque provenienti (per lo più italiani ma non solo) recitare a livelli professionali avanzati, senza dilettantismi, senza che ci siano stati buonismi da facile ingaggio. Soltanto perché il tema era confacente, si prestava ad esser "sentito" da tali persone in particolare? Questo lo si esclude, in considerazione del fatto che già da alcuni anni la compagnia del Centro Studi Enrico Maria Salerno, che gestisce i corsi, porta in scena opere teatrali di vario stampo, sempre con elevati risultati. E apprendiamo dalle statistiche che la percentuale di carcerati che, scontata la pena, tornano a delinquere scende dal 65% al 6% tra quanti hanno potuto partecipare ad un valido percorso culturale, di questo o altro genere. Interessanti, a questo proposito, anche le iniziative che riguardano percorsi di meditazione in carcere, sempre a Rebibbia. La reazione delle autorità - Deve insomma rientrare tra i doveri istituzionali il compito di dare possibilità evolutive e culturali a persone che, con probabilità confermate dalle statistiche, per lo più non avrebbero commesso reati se avessero avuto questa opportunità già fuori? O forse a priori bisognerebbe che fosse maggiormente incrementata la chance in più data dall’istruzione? Interrogativi lasciati aperti, per ora, anche dalle autorità: il presidente Giorgio Napolitano, invitato, non è venuto, ma ha inviato una accorata lettera di congratulazioni al teatro mandando in sua vece due rappresentanti: Donato Marra ed Ernesto Lupo, i quali, invitati sul palco a spettacolo finito, hanno preferito astenersi da commenti. Assente anche il sindaco Ignazio Marino, che ha inviato un messaggio di apprezzamento riferito sia allo spettacolo attualmente in scena, che al film "Cesare deve morire", girato a Rebibbia da Fabio Cavalli e vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino. La strada sembra ancora in salita, per lo più affidata a iniziative private, e molti dubbi tuttora restano. A noi resta nell’orecchio il grido che abbiamo sentito quando alla fine si è fatto buio e il sipario è sceso: un "Bravo, nonno!", che ha squarciato il silenzio dal centro della sala lasciandoci tutti attoniti per alcuni istanti. Milano: nel carcere di San Vittore il jazz diventa musica etnica di Andrea Morandi La Repubblica, 21 settembre 2014 Un lungo corridoio, due file di sedie ai lati e, in fondo, sotto le luci al neon, un piccolo palco, sistemato proprio davanti a tre finestre con le inferriate. È iniziato così ieri pomeriggio il concerto di Hamid Drake e Paolo Angeli nel Raggio 3 del carcere di San Vittore - all’interno del programma di MiTo - un’esperienza umana, prima che sonora, davvero intensa, con il pubblico seduto davanti alle porte delle celle e diviso equamente a metà tra detenuti e paganti. Il connubio tra i due musicisti, l’afroamericano Drake alla batteria e il sardo Angeli alla sua chitarra speciale (con cui ha conquistato perfino Pat Metheny) è decisamente affascinante, ma per i primi venti minuti il concerto non sembra decollare, è musica per due mondi apparentemente lontani, separati da un abisso, con le prime dodici file - occupate dagli spettatori - in religioso silenzio ad ascoltare, mentre le ultime, occupate dai detenuti, più occupate a vivere liberamente (e giustamente) quella singolare esperienza, con un continuo vociare di sottofondo ad accompagnare i virtuosismi del duo. Ci vuole il carisma assoluto di Drake, dopo cinque brani, a rimettere a posto le cose: "Can you hear me? Mi sentite là in fondo?", ironizza il batterista "Volevo dirvi se potete fare un pò più piano perché siete più rumorosi della musica che stiamo suonando. Vorrei confidarvi una cosa, fratelli: sono felice di avere il privilegio di suonare qui, per voi. Io sono nato a New Orleans e vivo a Chicago e posso dirvi che le prigioni negli Stati Uniti sono diverse da qui, qui potete anche fumare (ride, ndr). Non voglio dire con questo che siate fortunati a stare qua, ma il sistema italiano è senza dubbio migliore di quello statunitense". Al suo fianco, Paolo Angeli cerca di tradurre le parole del batterista, aggiungendoci anche qualcosa di suo: "So che non è musica facile", ride il chitarrista. "Io e Hamid siamo un pò fuori di testa e facciamo cose particolari". A quel punto dal pubblico sale un detenuto, cubano, con cui Drake ha registrato un pezzo proprio a San Vittore lo scorso 11 settembre ("Un giorno particolare per me" confida il batterista) e si posiziona sul palco in mezzo ai due, accolto da un boato che rimbomba lungo il corridoio. "Adesso faremo una canzone che vuole unire tre diversi modi di vivere la religione" spiega Drake, "e cioè la santeria cubana, il Corano dell’Islam e la spiritualità indiana". Così, il jazz si trasforma in musica etnica e il brusio sommesso delle voci diventa parte di questo strano inno alla società multirazziale. Dopo poco più di un’ora il concerto finisce, tra gli applausi, e il pubblico, inevitabilmente, si divide tra chi esce e chi invece deve rimanere dentro. E mentre i detenuti portano via le loro sedie, qualcuno commenta ironico: "La prossima volta però suoniamo noi". Libano: miliziani del Fronte al Nusra annunciano uccisione di militare fatto prigioniero Nova, 21 settembre 2014 I miliziani del Fronte al Nusra, ala libanese di al Qaeda, hanno annunciato tramite Twitter di avere ucciso uno dei militari dell’esercito di Beirut da loro fatti prigionieri. Fonti d’intelligence citate dall’emittente "al Jazeera" hanno confermato la notizia. Si tratterebbe del primo gesto del genere da parte di al Nusra, che insieme con lo Stato islamico ha catturato una decina di militari. Secondo il messaggio Twitter, il militare ucciso è "la prima vittima dell’intransigenza dell’esercito libanese, che è diventato un giocattolo nelle pani del partito iraniano", riferimento quest’ultimo a Hezbollah. Le fazioni sunnite accusano l’esercito regolare del Libano di operare insieme col movimento sciita Hezbollah, che ha inviato miliziani ha sostegno del presidente siriano Bashar al Assad. Ieri, due soldati libanesi sono morti per l’esplosione di una bomba posta sul ciglio della strada presso la città di Arsal. Si è trattato del primo attentato del genere dopo un’incursione nella zona, il mese scorso, di miliziani provenienti dalla Siria, nel corso della quale sono stati catturati diversi soldati libanesi. Due di loro sono stati successivamente decapitati dallo Stato islamico. Per liberare gli altri, i terroristi chiedono il rilascio dei loro affiliati prigionieri nelle carceri libanesi. Afghanistan: gli Stati Uniti rilasciano 14 pachistani da prigione Bagram Adnkronos, 21 settembre 2014 Gli Stati Uniti hanno rilasciato 14 pachistani detenuti nella prigione di Bagram, in Afghanistan. Lo ha reso noto oggi il ministero degli Esteri pachistano, precisando che i prigionieri rilasciati sono stati rimpatriati. Si tratta del secondo gruppo di detenuti pachistani rilasciati dagli Stati Uniti, nell’ambito di un processo teso a rimpatriare tutti i pachistani detenuti nella prigione afghana.