Sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta Il Mattino di Padova, 1 settembre 2014 In questi ultimi anni non c’è legge che riguarda la Giustizia che non abbia introdotto nuovi reati o aumenti di pena, eppure in tanti iniziano a capire che forse è ora di rimettere in discussione l’idea della pena intesa solo come sofferenza, come risposta al male con altrettanto male: e bisogna avere il coraggio di parlare di concetti come perdono e riconciliazione, senza la paura di essere accusati di "buonismo". Noi lo facciamo riportando la testimonianza di un ergastolano sul valore che ha avuto per lui il perdono, e poi un recente, importante intervento, in un incontro nel carcere di Padova, di Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio Bachelet, Vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura che il 12 febbraio 1980, al termine di una lezione, venne assassinato da un Nucleo armato delle Brigate Rosse. Due giorni dopo se ne celebrarono i funerali, e Giovanni, all’epoca venticinquenne, nella preghiera dei fedeli disse: "Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito mio papà, perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri". Il perdono è una delle più terribili pene Sono in carcere con una condanna all’ergastolo e al di là del muro di cinta ho una compagna e due figli che mi aspettano da ben 23 anni, e probabilmente se non cambiano le leggi in Italia io non mi stanco di ripetere che avranno di me solo il mio cadavere, però speriamo che non sia cosi. Poi ho anche due nipotini e ci tengo a ricordarli perché proprio la scorsa settimana mio nipotino Lorenzo mi ha chiesto "Nonno, quando vieni a casa?", e io gli ho detto la solita bugia che raccontavo a mio figlio "Vengo presto". Però i bimbi di oggi sono molto più intelligenti di quelli di una volta e lui mi ha risposto: "Nonno, non fare come hai fatto con papà che ti aspetta da quando aveva sei anni e ancora non sei venuto a casa", quindi non l’ho potuto ingannare. In questi giorni si parla molto di riforma della Giustizia, io in passato trovavo difficoltà a riconciliarmi con la società e con questa Giustizia, società e Giustizia che mi hanno maledetto e condannato ad essere cattivo e colpevole per sempre. In questo ultimo anno e mezzo, tramite il progetto "Scuola e Carcere", per cui incontriamo migliaia di studenti, davanti a questi ragazzi, a questi sorrisi innocenti per la prima volta incredibilmente mi sono sentito colpevole delle scelte sbagliate che ho fatto in passato, cosa che non mi è mai accaduta davanti ai giudici, davanti ai politici, davanti a un carcere spesso disumano. Invece davanti a quei ragazzi mi sono trovato in difficoltà, perché con loro non posso essere prevenuto, e quindi quando rispondo alle loro domande mi sembra di avere davanti i miei figli e di dover rispondere a cuore aperto: non ho alibi davanti a loro. Ma un altro aspetto della Giustizia di cui si parla troppo poco è il perdono, il perdono come comprensione. Adesso io racconto quello che una volta mi ha detto un mio compagno di sventura: io spero che le vittime dei miei reati non mi perdonino mai, perché sarebbe troppo doloroso. Molti non sanno veramente che la pena più terribile è quando ti perdona la vittima dei tuoi reati, perché ti leva tutti gli alibi, è il perdono che fa uscire il senso di colpa, il male che hai fatto. Quando per esempio tu sei in carcere sottoposto al regime di isolamento del 41 bis, e non puoi abbracciare i tuoi figli perché sei diviso da un vetro, allora tu dentro di te dici: va bene io sono stato cattivo, io ho ucciso, io ho commesso dei reati. Ma i miei governanti, se hanno deciso di murarmi vivo, senza neppure avere l’umanità di ammazzarmi prima, poi non è che sono migliori di me. Ecco purtroppo accade questo meccanismo che è anche un po’ un istinto, una difesa per potersi addormentare alla sera. E allora questo è importante, il perdono è una delle più terribili pene, la più rieducativa. È una pena intelligente, perché solo cosi si possono sconfiggere veramente certi fenomeni come la criminalità organizzata. A questo proposito io credo che il perdono sociale dovrebbe passare anche per l’abolizione dell’ergastolo, e questo servirebbe molto a sconfiggere la criminalità organizzata, perché i ragazzi che sono stati condannati a una pena disumana come l’ergastolo quando avevano 19/20 anni, con una speranza potrebbero essere stimolati, portati a un cambiamento, stimolati a uscire dalla loro cultura e dalle loro organizzazioni criminali. Carmelo Musumeci Vincere, in carcere e fuori, il male con il bene Io mi auguro che l’ergastolo venga superato completamente, ma per arrivarci dobbiamo tener conto delle luci che già sono sul nostro cammino e anche capire come mai sia tanto difficile trovare il consenso necessario a ulteriori passi avanti. Su questi argomenti ricordo che prima della sua morte era il mio papà, giurista, a cercare, in anni difficili per l’Italia, di correggere i miei volgari sentimenti di paura e vendetta di fronte ai crimini dei terroristi (bombe e attentati quasi settimanali, all’epoca). Mi spiegava ad esempio che i permessi ai carcerati (una novità di quegli stessi anni, successivamente molto ampliata con la legge Gozzini), sui quali c’erano molte polemiche, funzionavano, invece, piuttosto bene. Nei primi anni in cui si cominciò a dare i permessi, infatti, ogni tanto un quotidiano strillava "Detenuto in libera uscita compie una rapina"; e papà, statistiche del Csm alla mano, mi ripeteva che, sul totale dei permessi goduti, simili gravissimi inconvenienti rappresentavano una percentuale irrisoria. Insomma, per un detenuto che in libera uscita fuggiva reiterando il reato, 95 o 96 rientravano in carcere assolutamente tranquilli, ma nessun giornale parlava dei 95 o 96 per i quali l’uscita era occasione di un più rapido ritorno a una vita onesta. Anche oggi su queste paure irrazionali si fa demagogia; anche oggi la cattiva politica, anziché smontarli (impresa difficile: è più facile disintegrare un atomo che un pregiudizio, diceva Einstein), asseconda i pregiudizi e li sfrutta per prendere voti. Alcuni reazionari soffiano sul fuoco dei pregiudizi, che si tratti di detenuti, Rom, tossici, immigrati. Altri, pur democratici, per paura di perdere voti non si sbilanciano più di tanto. Se vogliamo essere più bravi di loro e smontare i pregiudizi, dobbiamo però comprenderne le ragioni. (…) Mio papà, negli anni in cui mi entusiasmavo ingenuamente e patriotticamente per le leggi speciali anti-terrorismo di Cossiga, mi diceva "Non serve triplicare la pena: occorrono intelligence, attività di contrasto efficace, certezza della pena. Oltretutto, quando il terrorismo finirà, questi inasprimenti esagerati creeranno un pasticcio". Allora non capivo; poi il pasticcio è successo e le successive leggi sulla dissociazione sono servite, oltre che a scardinare il terrorismo, anche a eliminare alcune paradossali conseguenze di quella inutile triplicazione. Finché però un’emergenza è in atto, pochi riescono a ragionare a mente fredda; quella della mafia è, purtroppo, ancora in atto. E tuttavia in queste drammatiche circostanze ragionare è proprio quel che serve. Serve ai detenuti per riconoscere la propria responsabilità e cambiare vita. Serve ai cittadini per vincere i pregiudizi. Serve agli elettori per identificare i politici capaci di affrontare e risolvere i problemi anziché far leva su di essi per prendere voti. Come si impara a ragionare? Dove si trovano coraggio e intelligenza per affrontare la verità anziché affondare la testa nella sabbia come gli struzzi? (…) Forse l’incontro con la verità avviene in una progressiva rivelazione di noi stessi a noi stessi e agli altri che ci consente di riconoscere sempre meglio le nostre responsabilità e potenzialità, di prendere in mano la nostra vita, di educarci. Nel cammino ci aiuta la coscienza profonda che avremmo potuto trovarci al posto dell’altro. Principi cristiani, razionalità e senso civico convergono su questa coscienza profonda, senza nulla togliere alla responsabilità personale alla base dell’art. 27 della Costituzione. Nel cammino ci aiuta, inoltre, la consapevolezza che amore e accoglienza trasformano le persone: le battaglie più importanti non vengono mai vinte con l’inasprimento dei rapporti, bensì attraverso l’incontro e la capacità di dialogo e di comune soluzione dei problemi. Guardare al lato buono delle cose e far leva su di esso, contrastare il male con azioni positive, rispettare ogni persona umana scommettendo sulla possibilità di una sua piena realizzazione, sono antichi principi indelebilmente impressi anche nella nostra Costituzione; una sua sempre miglior attuazione sembra la ricetta migliore per vincere, in carcere e fuori, il male con il bene. Giovanni Bachelet Giustizia: la svolta che serve al nostro Paese di Gianluigi Pellegrino La Repubblica, 1 settembre 2014 Il passato che afferra il presente. Il futuro che fatica a liberarsi da scorie ventennali. Non è affatto un caso che sia la giustizia uno dei punti di più evidente emersione del conflitto tra ambizioni e difficoltà del governo Renzi a rappresentare la "svolta buona", l’Italia che dovrebbe "cambiare verso". E di verifica della coerenza tra questi propositi e la scelta sicuramente acrobatica (come su queste pagine si è da subito sottolineato) di conciliare un programma che si dice riformatore e un patto di legislatura con Alfano e una fitta intesa con Berlusconi. C’è in realtà molto spirito riformista nel complessivo lavoro messo insieme da Andrea Orlando e però solo per poche appendici di questo si è ottenuto il consenso necessario per un’immediata approvazione ed effettività. Per il resto grandi rinvii. Il grosso della riforma è infatti rimasto nei "disegni di legge" buoni nel merito (grazie in particolare alla Commissione Berruti) che però al momento non si sa né come né quando verranno esaminati dal Parlamento. Negli ultimi vent’anni sulla giustizia si è manifestato il peggio del prodotto italiano; e non solo per la gigantesca anomalia berlusconiana ma anche per le deteriori reazioni a catena che questa ha provocato. Un potere economico e mediatico cresciuto a dismisura, avvertito che il sistema fisiologico dei contrappesi repubblicani stava per presentargli il conto, è riuscito a farsi potere politico, esecutivo e legislativo con il preciso programma, peraltro appoggiato da ampio consenso, di impedire alla giurisdizione di svolgere la propria funzione di controllo e sanzione. Inoltre, al riparo del fragoroso braccio di ferro che ne è scaturito, si è allargato il fronte della classe politica di ogni colore che ha ritenuto di potersi considerare legibus soluta e di poter gridare al complotto ogni volta che la giurisdizione esercitava il potere di controllo. Ma è anche specularmente accaduto che la stessa giurisdizione (inquirente) si sia sentita investita di un ruolo di controllo sociale, politico e morale. Il tutto accentuato dal progressivo avvizzirsi degli altri controlli diffusi in uno con il degrado delle classi dirigenti e la scomparsa del merito, dal Porcellum in giù per li rami di un’intera società in decadenza. A completare il quadro della pluriforme anomalia vi è stato l’oggettivo abbandono di ogni serio intervento riformatore che pure la giustizia clamorosamente richiedeva, manifestando un collasso che si colorava insieme di inefficienza (azzoppata ulteriormente dalle leggi ad personam) e di perdite rilevanti sul fronte delle garanzie individuali: dai tempi dei processi, al degrado del sistema carcerario, dal sistema di custodia cautelare a quello dei giudizi sommari, alla tutela della segretezza delle indagini, al doveroso principio di responsabilità disciplinare. Garanzie che uno stato di diritto deve assicurare non solo ad innocenti ma anche a colpevoli e condannati. E così una giustizia efficace, responsabile e garantista non la voleva il centrodestra né un milieu trasversale, per materiali ragioni di convenienza; non riteneva di poterla proporre nemmeno la migliore cultura riformista resa afona dalla sostanziale impraticabilità del campo e da un riflesso difensivo/conservatore. Non la voleva un certo protagonismo giudiziario ben lieto del gigantismo e della sovraesposizione della fase inquirente e del sostanziale oblio sulle verifiche processuali. È per questo semplicemente pacifico che la giustizia necessiterebbe ora e subito degli interventi che i disegni di legge presentati dal governo l’altro giorno si limitano a promettere e a condizionare a futuri malcerti negoziati. Come è altrettanto pacifico che si dovrebbe iniziare a fare sul serio chiudendo la pagine triste delle larghe intese al ribasso che hanno concepito i colpi di spugna sulla concussione e sul voto di scambio, aprendo invece quella dell’efficienza e del garantismo reale e non appiccicoso. Ma, domandiamo senza retorica, si può fare tutto questo con Alfano e Berlusconi che sono stati insieme causa e pretesto dei vent’anni peggiori per la giustizia italiana? La partita diventa così il paradigma della fase: si volta pagina o si agita solo la superficie di un’eterna immobile palude? Siamo a un cambio di epoca o ad una appena rinnovata gestione dell’esistente? Renzi dovrebbe esserne consapevole. Qui non c’entra l’Europa né le volubili dinamiche dei mercati. Sul fronte della giustizia si misura a ben vedere buona parte della natura e della genuinità dell’impegno che il premier ha assunto nei confronti del Paese. Giustizia: Ferranti (Pd); sulla riforma aperti alle correzioni, il testo non è blindato di Dino Martirano Corriere della Sera, 1 settembre 2014 "Ora in Parlamento dovremmo davvero galoppare per portare a casa la riforma della giustizia anche se, realisticamente, per la fine dell’anno vedo solo un primo traguardo: l’approvazione dei provvedimenti in prima lettura. Poi, per il varo definitivo dei due pacchetti, civile e penale, sarà necessario attendere fino all’estate prossima". Il presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti (Pd), ex magistrato, ex segretario generale del Csm, si prepara a dirigere un traffico legislativo molto intenso che, a partire da metà settembre, affollerà la sua aula al secondo piano di Montecitorio: "La vedo dura, ma ce la metteremo tutta. Stavolta, però, ci deve essere assoluta sinergia tra i gruppi della maggioranza della Camera e del Senato. Bisogna avviare un confronto per tempo onde evitare che una Camera modifichi quello che ha confezionato l’altra". Ecco, iniziamo dalla maggioranza. L’Ncd sostiene che i testi del governo non devono essere considerati blindati… "Credo che sui testi, visto che sono stati approvati "salvo intese" dal Consiglio dei ministri, stiano ancora lavorando gli uffici. A partire dal dl sul processo civile, li vedremo in questa prima metà di settembre. Comunque, anch’io sono convinta che il Parlamento possa, anzi debba, migliorare i testi proposti dal governo". Nel decreto legge c’è anche una norma che dimezza l’interruzione dei termini feriali: in futuro i tribunali funzioneranno a ranghi ridotti solo dal 6 al 31 agosto… "Credo che questa sia la direzione giusta anche perché i 46 giorni previsti oggi, dal 1° agosto al 15 settembre, sono anacronistici. Resta da vedere se il decreto è la strada migliore per adottare questa modifica". Il governo avrebbe voluto mettere mano anche alle ferie dei magistrati, ma poi pare che il Guardasigilli Orlando sia riuscito a bloccare Renzi. Che ne pensa, da ex magistrato? "Guardi, vanno dette due cose: primo, tribunali e procure non chiudono mai, anche d’estate; secondo, il problema delle ferie dei magistrati c’entra poco con l’efficienza del processo. Questo delle ferie - che sono di 45 giorni per chi esercita la giurisdizione, di 30 per i fuori ruolo - non è comunque un tabù, se ne può discutere". La commissione Giustizia ha già incardinato la discussione sulla prescrizione: cosa farà quando arriverà il testo del governo? "Prima di tutto bisognerà vedere in quale ramo del Parlamento verrà presentato il decreto sul civile che rappresenta la priorità e, a seguire, ci sarà la delega sul civile che porta con sé anche il tribunale per la famiglia e per le imprese". Sul pacchetto penale c’è il rischio che i testi del governo finiscano per cannibalizzare quelli già incardinati in Parlamento? "Quando il governo fa la sua proposta io credo che il Parlamento debba adeguarsi. Per quanto riguarda la prescrizione, l’assorbimento sarebbe facile perché in commissione abbiamo tre proposte di legge - Pd, Sc e M5S - e non un testo base. Più complicato il percorso per il falso in bilancio e l’auto-riciclaggio da agganciare, sulla carta, al ddl anticorruzione Grasso che è in trattazione avanzata al Senato. Mentre la responsabilità civile è decisamente più avanti al Senato con il ddl Buemi rispetto alla Camera con la proposta Leva". I testi del governo sono molti ampi: per esempio, quello che si occupa di falso in bilancio e auto-riciclaggio comprende norme delicate sulla confisca dei beni e sul codice antimafia. Siete pronti a concedere al pacchetto Orlando una corsia preferenziale anche a costo di sacrificare testi di iniziativa parlamentare? "Presto dovremmo scegliere se dare la precedenza ai testi del governo. Altrimenti, in alcuni casi, quei ddl vanno spacchettati". Le intercettazioni più facili per i reati di corruzione (equiparati a quelli della criminalità organizzata) alla fine sono scivolate nel ddl delega, cioè su un treno più lento. Un’occasione persa o rinviata? "Beh, il fatto che questo tema sia nella delega non esclude che, con un emendamento, possa essere reinserito nel ddl sulla criminalità organizzata". Giustizia: responsabilità civile, i magistrati rischiano condanne decuplicate di Silvia Barocci Il Messaggero, 1 settembre 2014 Le stime del governo dopo il via libera alla riforma. Ma è prevista una spesa di mezzo milione l’anno. Di certo non sarà una riforma della giustizia a costo zero. Almeno per quanto riguarda la responsabilità civile dei magistrati. Perché il ddl varato in consiglio dei ministri ha avuto un’aggiunta in extremis, su richiesta del ministero dell’Economia, relativa alla copertura finanziaria. Avendo infatti deciso di eliminare il filtro ai ricorsi presentati contro lo Stato dai cittadini che si ritengono vittime di errori giudiziari, il governo dovrà inevitabilmente far fronte a una spesa maggiore. Di quanto? In un solo anno sarà dieci volte superiore a quanto lo Stato ha sborsato complessivamente nel periodo che va dal 2005 al 2014. In soldoni, la previsione di spesa è di 540mila euro a partire dal 2015, mentre per gli ultimi mesi del 2014 si calcolano 135mila euro. Per quantificare gli oneri della futura legge, sulla quale l’Anm ha già iniziato a polemizzare, il ministero della Giustizia ha rispolverato i casi di risarcimento danni per errori giudiziari commessi per dolo o colpa grave. Che il meccanismo dei filtri previsto dalla legge Vassalli del 1988 abbia limitato, e dimolto, le condanne a carico dello Stato è cosa nota. Quante fossero per l’esattezza lo si scopre ora: 9 in tutto dal 2005 al 2014, ed hanno comportato - scrive il ministero - "una liquidazione media degli importi pari a circa 54mila euro". Ecco allora che la previsione di spesa futura viene fatta "in via approssimativa" prevedendo circa dieci condanne l’anno, contro le nove totali dell’ultimo decennio. Tante? Poche? È difficile dirlo. Certo è che il governo conta di recuperare buona parte di quei 540mila euro che si stima usciranno dalle casse dello Stato per far fronte alle condanne per errori giudiziari. A differenza della legge Vassalli che rendeva facoltativa la rivalsa dello Stato sul magistrato per un terzo dello stipendio, il ddl Orlando prevede infatti l’obbligo di rivalsa e fino alla metà dello stipendio. "Non ho ancora letto il testo, ma se questa è la formula mi sembra molto fumosa", dice Francesco Nitto Palma (Forza Italia), presidente della Commissione Giustizia del Senato che mercoledì deciderà il da farsi. In attesa dei preannunciati testi del governo, Nitto Palma aveva infatti rinviato la discussione sia del ddl Buemi sulla responsabilità civile dei magistrati, sia su quello anticorruzione di cui è relatore D’Ascola. Il comitato di presidenza della Commissione Giustizia deciderà se adottare un testo unificato o se procedere con i ddl del governo, incluso quello sulla criminalità economica che prevede una stretta sul falso in bilancio e l’introduzione dell’auto-riciclaggio. Ma i tempi non si preannunciano brevi. Sul reato di falso in bilancio (3-8 anni) sono ancora in corso limature dopo le obiezioni sollevate dal ministero dello Sviluppo economico circa il rischio di penalizzare le piccole imprese. E anche Ncd, nonostante l’abbia spuntata su non pochi punti nella trattativa sul pacchetto giustizia, continua a tirare il freno sia sul falso in bilancio sia sulla prescrizione. "Serve un ampio dibattito e non tempi brucianti", avverte Renato Schifani. Il ddl penale sulla prescrizione sarà incardinato alla Camera e gli alfaniani si appresterebbero a dare battaglia sulla norma transitoria. Nella versione uscita dal Cdm si prevede che la sospensione di due anni della prescrizione varrà solo per le condanne successive all’entrata in vigore della nuova legge (se così fosse, la norma potrebbe incidere anche sul processo di Napoli a carico di Berlusconi). Ncd sembra che si prepari a chiedere che la norma transitoria cambi e che la prescrizione allungata valga solo per i reati commessi dopo l’entrata in vigore della legge. Escludendo in tal modo tutti i processi in corso, anche quello a carico dell’ex premier. Giustizia: responsabilità civile dei magistrati, ecco perché c’è l’esigenza di sanzioni serie di Alfredo Mantovano Il Mattino, 1 settembre 2014 A parte il decreto legge sul "taglio delle liti", che sarà votato dal Parlamento nei consueti sessanta giorni, quello dei sei disegni di legge usciti venerdì da Palazzo Chigi che ha maggiori probabilità di approvazione in tempi accettabili - in virtù di una compattezza della maggioranza e della disponibilità di una parte dell’opposizione - riguarda la responsabilità civile dei giudici: è ciò che ha permesso al presidente del Consiglio di lanciare il tweet "il magistrato che sbaglia paga". Dubito che con le nuove norme la massima trovi un’applicazione più incisiva rispetto al passato; è invece certo che, se e quando il disegno di legge verrà approvato, a beneficiarne, più che i cittadini danneggiati dalla mala giustizia, saranno le compagnie di assicurazione che avranno aggiornato con le loro polizze Rc. Mi spiego facendo un passo indietro. Quando, pochi mesi dopo il referendum del 1987, passò, su iniziativa del prof. Vassalli, ministro della giustizia dell’epoca, la prima legge - quella ancora in vigore - sulla responsabilità dei magistrati, l’effetto fu che da quel momento ogni magistrato si è dotato della sua brava assicurazione: a un costo tutto sommato contenuto, grazie a una convenzione fra l’Anni e le compagnie che garantiscono la copertura dei rischi. Le disposizioni varate dal Consiglio dei ministri non stravolgono il meccanismo della legge del 1988, si limitano a rettificarne qualche aspetto: eliminano il filtro di ammissibilità dell’azione del cittadino che si ritiene danneggiato, ma l’azione sarà comunque diretta non contro il giudice, bensì contro lo Stato; lo Stato potrà rivalersi contro il magistrato, come avviene già adesso, ma - questa è la seconda novità - trattenendo fino alla metà del suo stipendio annuale; sale anche il limite di esecuzione forzata sullo stipendio medesimo, da un quinto a un terzo. Non sono in discussione né il comportamento doloso del giudice - se vi è dolo il privato danneggiato ha sempre potuto agire direttamente verso il magistrato, né la valutazione del fatto o l’interpretazione del diritto: vengono in considerazione a titolo di colpa solo la "violazione manifesta" del diritto o il "travisamento del fatto". Con queste modifiche il magistrato che intende lavorare senza pericoli per il proprio patrimonio non sarà stimolato più di tanto a migliorare professionalità e competenze: gli basterà attendere, a legge approvata, che l’Anm concordi con le compagnie di assicurazioni l’adeguamento della polizza Rc ai nuovi rischi; dagli attuali 150 euro annuali si arriverà a 200? È un sacrificio sostenibile! Anche il tweet andrà adeguato: non "il magistrato che sbaglia paga", ma "ogni magistrato paga: qualche euro in più all’assicurazione; ma se sbaglia continua a pagare lo Stato". Ciò che resta al palo è, al di là degli slogan, l’esigenza di far corrispondere sanzioni serie a comportamenti negli agenti e sciatti, frutto di volontaria ignoranza o di superficialità. L’Anni continua nella sua difesa del corpo, definendo l’innocuo d.d.l. appena riassunto "punitivo" per i giudici italiani: non vi è dubbio che vanno respinte le generalizzazioni, e che va riconosciuto il lavoro intenso e nascosto di tanti magistrati, evitando che le colpe di alcuni diventino il marchio per tutti. Ciò è possibile però se si concorda con serenità che le colpe di alcuni ci sono, e che di regola restano impunite: si dia uno sguardo, solo per fare un esempio fra i tanti, alle ordinanze con le quali quotidianamente le corti di appello italiane riconoscono gli indennizzi per ingiusta detenzione; nella motivazione di quelle ordinanze vi è spesso la descrizione di condotte giudiziarie indecorose, di privazioni di libertà sfornite di ragioni, di mantenimenti in carcere contro ogni evidenza, o - al contrario - di pronunce assolutorie che lasciano stupefatti. Qui non si tratta di essere "punitivi"; si tratta di rispondere alla domanda: è giusto che il giudice evidentemente colpevole di queste ingiustizie non paghi alcun pegno? Per questo lo strumento della responsabilità civile non è adatto. Da decenni, a scadenze ricorrenti, chi vi ha riflettuto seriamente ha individuato il punto cruciale nella responsabilità disciplinare, cioè nella sottrazione del giudizio deontologico del magistrato dalla sezione disciplinare del Csm verso un organo disciplinare a sé, connotato da tendenziale imparzialità: esso potrebbe essere formato, per esempio, da ex giudici costituzionali o da ex presidenti di cassazione nominati dal Capo dello Stato. A una soluzione simile pensava la bicamerale D’Alema, vi è una proposta da tempo formulata da Luciano Violante, e dal centrodestra in passato sono venute ipotesi analoghe, altrettanto apprezzabili: non è questione di destra o di sinistra, il consenso politico è potenzialmente ampio. Se la responsabilità disciplinare fosse svincolata da criteri elettivi-correntizi e agganciata a una verifica il più possibile oggettiva, non ci sarebbe copertura assicurativa che rendesse immuni dagli errori più clamorosi: la prospettiva di vedersi intaccata la progressione in carriera stimolerebbe a buon senso e a maggior lena, certamente più di qualche filtro sottratto alla responsabilità civile. È immaginabile un ripensamento in tal senso? Giustizia: Don Ciotti, minacciato da Riina, risponde "Per me atto di fedeltà al Vangelo" Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2014 Emergono nuove intercettazioni, in cui il capomafia di Corleone parla con Alberto Lorusso del prete: "È come don Puglisi, possiamo ammazzarlo". Il fondatore di Libera, che coordina le associazioni che gestiscono i beni confiscati alla mafia, risponde: "Mafia effetto di un vuoto di democrazia, la politica deve sostenere la lotta". Le intercettazioni nel carcere di Opera rivelano ancora minacce di morte del boss Totò Riina: nel mirino stavolta c’è don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, che coordina le associazioni che gestiscono beni confiscati alla mafia. Ancora una volta il capomafia di Corleone era colloquio con il boss della Sacra corona unita Alberto Lorusso, durante l’ora d’aria, quando ha detto: "Questo prete è una stampa e una figura che somiglia a padre Puglisi", il sacerdote palermitano ucciso dalla mafia per il suo impegno nel quartiere di Brancaccio. A pubblicare il contenuto delle intercettazioni è il quotidiano La Repubblica, che racconta che a mettere in allarme gli investigatori della Direzione investigativa antimafia di Palermo sono state le parole pronunciate da Riina: "Ciotti, Ciotti, putissimo pure ammazzarlo", possiamo pure ammazzarlo. La ragione alla base delle minacce, secondo gli investigatori è proprio l’attività di Libera, perché nella stessa conversazione l’uomo ha detto al suo co-detenuto di essere "preoccupato. Sai, con tutti questi sequestri di beni". La conversazione, che risale al 14 settembre 2013, arriva pochi giorni dopo quella in cui Totò Riina aveva riferito a Lorusso pesanti intimidazioni al pm Antonino Di Matteo, pubblica accusa nel processo sulla trattativa Stato-Mafia. La Dia ha ascoltato in diretta le parole del boss, ed entro poche ore ha fatto rinforzare le misure di sicurezza intorno a Don Ciotti. Il prete non è stato informato del contenuto dell’intercettazione, ma secondo quanto riferisce una sua collaboratrice "strani messaggi sono arrivati a lui e a Libera" e la sua scorta è stata affidata a due poliziotti. Nei giorni scorsi, altre intercettazioni hanno rivelato il contenuto di conversazioni in cui Riina racconta del "pizzo" consegnato da Berlusconi ogni mese nell’ambito di un patto con cosa Nostra per ottenere favori. Don Ciotti, dopo essere venuto a conoscenza delle parole di Riina contro di lui ha detto: "Per me l’impegno contro la mafia è da sempre un atto di fedeltà al Vangelo, alla sua denuncia delle ingiustizie, delle violenze, al suo stare dalla parte delle vittime, dei poveri, degli esclusi. Al suo richiamarci a una ‘fame e sete di giustizià che va vissuta a partire da qui, da questo mondo". Per quanto riguarda la lotta comune alla mafia il fondatore di Libera ha dichiarato che "ci sono provvedimenti urgenti da prendere e approvare senza troppe mediazioni e compromessi". "La politica deve sostenere di più questo cammino" ha sottolineato il prete, "la mafia non è solo un fatto criminale, ma l’effetto di un vuoto di democrazia, di giustizia sociale, di bene comune". Fra i provvedimenti urgenti da intraprendere, don Luigi Ciotti cita "ad esempio la confisca dei beni, che è un doppio affronto per la mafia, come anche le parole di Riina confermano. Quei beni restituiti a uso sociale - sostiene - segnano un meno nei bilanci delle mafie e un più in quelli della cultura, del lavoro, della dignità che non si piega alle prepotenze e alle scorciatoie". "Le parole di Totò Riina dal carcere" ha precisato l’associazione commentando le intimidazioni, "non sono rivolte solo a Luigi Ciotti, ma a tutte le persone che in vent’anni di Libera si sono impegnate per la giustizia e la dignità del nostro Paese. Cittadini a tempo pieno, non a intermittenza". "Queste minacce sono la prova che l’ impegno è incisivo, graffiante, gli toglie la terra da sotto i piedi", spiega don Ciotti, "siamo al fianco dei famigliari delle vittime, di chi attende giustizia e verità, ma anche di chi, caduto nelle reti criminali, vuole voltare pagina, collaborare con la giustizia, scegliere la via dell’onestà e della dignità". Riguardo don Puglisi "che Riina cita e a cui non oso paragonarmi perché sono un uomo piccolo e fragile, un mafioso divenuto collaboratore di giustizia parlò di sacerdoti che interferiscono" ha raccontato il prete, "ecco, io mi riconosco in questa Chiesa che "interferisce", che non smette di ritornare, perché è lì che si rinnova la speranza, al Vangelo, alla sua essenzialità spirituale e alla sua intransigenza etica. Una Chiesa che accoglie, che tiene la porta aperta a tutti, anche a chi, criminale mafioso, è mosso da un sincero, profondo desiderio di cambiamento, di conversione". Il presidente del Senato Piero Grasso esprime solidarietà nei confronti di Don Ciotti in un messaggio sulla sua pagina Facebook: "Caro Luigi, sono più di venti anni che sfidi la mafia con coraggio e passione. Le minacce di Riina emerse oggi sono l’ennesimo attacco ad una storia di impegno e di memoria che coinvolge ogni anno migliaia di cittadini e che ha contribuito a rendere il nostro Paese più libero e più giusto. Ti conosco da anni e so che non ti sei lasciato intimorire nemmeno per un attimo: continuerai sulla strada della lotta alla criminalità, e tutti noi saremo al tuo fianco. Un abbraccio, Piero". È il messaggio che il presidente del Senato Pietro Grasso rivolge dalla sua bacheca Facebook a Don Luigi Ciotti, per esprimergli solidarietà per le minacce ricevute dal boss di mafia, Totò Riina. Anche Laura Boldrini commenta la vicenda tramite Facebook: "Le minacce a Don Ciotti preoccupano ma non sorprendono. Un uomo come Luigi, che da anni promuove la cultura della legalità e combatte contro le mafie attraverso azioni concrete, non può che essere un nemico per un boss di Cosa Nostra. Una persona da temere, per aver dimostrato, insieme con Libera, che i beni della criminalità possono essere riutilizzati a scopi sociali". Ha evitato di esprimersi invece il procuratore anti mafia Franco Roberti. "Basta commenti, non voglio e sono stanco di fare da cassa di risonanza a Totò Riina". Lettere: carceri, un’addetta ai lavori di Vera Balducci Corriere della Sera, 1 settembre 2014 Vorrei vi affacciaste sul mondo di emarginazione, povertà, sofferenza, privazione degli affetti delle persone detenute in carcere e contestualmente su chi lavora con e per queste persone. Personalmente ho trovato stucchevole e fuori luogo le proposte spontanee di alcuni protagonisti del mondo cattolico e del volontariato ad accogliere il cittadino Berlusconi in progetti di inclusione sociale. Dietro le sbarre, in condizioni di mancanza di dignità e decoro, altri cittadini attendono opportunità di reinserimento o disponibilità di programmi terapeutici. Negli ospedali psichiatrici giudiziari persone, invisibili, sperano nel diritto alla cura della salute, alla riservatezza delle proprie emozioni, spiano spazi di libertà, di cura, di affetti. Le chiamano morti bianche, non fanno notizia quelle di detenuti che non reggono più il quotidiano di promiscuità nauseante, di mancanza di spazi fisici e mentali (42 nell’anno 2013). Le informazioni sulle misure alternative al carcere, che vanno implementate perché vera e propria esecuzione di pena con obblighi, prescrizioni, divieti, dettati da ordinanze dei Tribunali di Sorveglianza, non sempre sono corrette e poi… silenzio e oblio su noi, donne e uomini dello Stato, che quotidianamente senza mezzi, risorse, riconoscimenti, monitoriamo i percorsi di inclusione sociale, in esecuzione penale intra ed extra moenia, di condannati con problemi psichiatrici o di varie dipendenze, dei sex offender, degli stranieri in aderenza al dettato costituzionale e alla certezza della pena, con l’orgoglio e la consapevolezza che "lo Stato" siamo anche noi. Cagliari: paura a Buoncammino, ergastolano tenta di accoltellare il direttore Asca, 1 settembre 2014 Durante le consuete operazioni di perquisizione delle celle sarebbe scoppiata una discussione e l’immigrato, condannato all’ ergastolo per omicidio, si è scagliato contro il direttore. Feriti due poliziotti. Un detenuto straniero di 41 anni ha tentato di aggredire, colpendolo con un coltellino artigianale costruito con la plastica, il direttore del carcere cagliaritano di Buoncammino. Due agenti della polizia penitenziaria lo hanno subito bloccato e disarmato rimanendo lievemente feriti. L’episodio è avvenuto ieri. Durante le consuete operazioni di perquisizione delle celle sarebbe scoppiata una discussione e l’immigrato, condannato all’ ergastolo per omicidio, si è scagliato contro il direttore. I due poliziotti intervenuti per bloccarlo hanno riportato ferite guaribili in cinque giorni. A rendere noto quanto accaduto è stato il coordinatore provinciale della Uil Penitenziari Raffaele Murtas. "Questo episodio mette l’accento sulla grande tempestività e professionalità del personale di Polizia Penitenziaria dell’Istituto cagliaritano, senza l’intervento degli Agenti la situazione avrebbe potuto avere risvolti drammatici - sottolinea Murtas. Il detenuto, particolarmente pericoloso ed aggressivo, ha spesso messo in atto atteggiamenti violenti nei confronti del personale di Polizia Penitenziaria e delle altre figure professionali che operano nell’Istituto cagliaritano creando gravi difficoltà alla sicurezza dei lavoratori, ma anche degli altri detenuti". "Sorprende negativamente ancora una volta - evidenzia il sindacalista - il fatto che l’Amministrazione centrale e Regionale sembrano indifferenti alle dinamiche che avvengono nell’Istituto del Buoncammino. Auspichiamo un immediato intervento dell’Amministrazione per allontanare i detenuti responsabili di atteggiamenti come quello in questione". Detenuto tenta di accoltellare il direttore (La Nuova Sardegna) L’uomo, in carcere per omicidio, si è scagliato contro il responsabile dell’istituto di pena. con un coltello artigianale ferendo leggermente due poliziotti. Ha tentato di aggredire, colpendolo con un coltellino artigianale costruito con la plastica, il direttore del carcere cagliaritano di Buoncammino, ma fortunatamente è stato immobilizzato e disarmato. Si è rischiata la tragedia due giorni fa all’interno dell’istituto di pena cagliaritano quando un detenuto straniero di 41 anni si è scagliato contro il direttore. Provvidenziale l’intervento di due agenti della polizia penitenziaria che lo hanno subito bloccato e disarmato rimanendo lievemente feriti nella colluttazione. L’episodio è avvenuto sabato. Durante le consuete operazioni di perquisizione delle celle sarebbe scoppiata una discussione e l’immigrato, condannato all’ergastolo per omicidio, si è scagliato contro il direttore. Sono stati momenti terribili per il direttore del carcere: inaspettatamente il detenuto ha afferrato l’arma rudimentale e si è scagliato in direzione dell’uomo. I due poliziotti intervenuti per bloccarlo hanno riportato ferite guaribili in cinque giorni. Subito dopo fortunatamente l’uomo è stato disarmato e rinchiuso in cella. A rendere noto quanto accaduto è stato il coordinatore provinciale della Uil Penitenziari Raffaele Murtas. "Questo episodio mette l’accento sulla grande tempestività e professionalità del personale di Polizia Penitenziaria dell’Istituto cagliaritano, senza l’intervento degli agenti la situazione avrebbe potuto avere risvolti drammatici - sottolinea Murtas. Il detenuto, particolarmente pericoloso ed aggressivo, ha spesso messo in atto atteggiamenti violenti nei confronti del personale di Polizia Penitenziaria e delle altre figure professionali che operano nell’Istituto cagliaritano creando gravi difficoltà alla sicurezza dei lavoratori, ma anche degli altri detenuti". "Sorprende negativamente ancora una volta - evidenzia il sindacalista - il fatto che l’amministrazione centrale e regionale sembrano indifferenti alle dinamiche che avvengono nell’istituto di Buoncammino. Auspichiamo un immediato intervento dell’amministrazione per allontanare i detenuti responsabili di atteggiamenti come quello in questione". Gorizia: la Senatrice Fasiolo (Pd) "va potenziato l’organico della Polizia penitenziaria" Il Piccolo, 1 settembre 2014 "Il personale di Polizia penitenziaria operante all’interno del carcere di via Barzellini è carente: va assolutamente potenziato e, nei limiti del possibile, cercherò di veicolare questo messaggio a Roma a chi di dovere". La senatrice Laura Fasiolo ha visitato nei giorni scorsi la casa circondariale di Gorizia. L’ha fatto da sola senza essere accompagnata da altre persone, "e devo dire che sotto il profilo emotivo è stata un’esperienza che mi ha segnato. Quelle sbarre, quell’ambiente oppressivo mi hanno fatto pensare". Aggiunge Fasiolo: "Devo però evidenziare che ho apprezzato la grande indiscussa professionalità del personale e della direttrice che si sforzano quotidianamente di rendere l’ambiente-carcere il migliore possibile. Una volta conclusi i lavori di sistemazione dello stabile, ci sarà indubbiamente un incremento sia di ospiti che di lavoro. Per questo ritengo sia di primaria importanza rinforzare le fila della Polizia penitenziaria. Il numero degli agenti operanti - sottolinea ancora la senatrice - è risicato e va assolutamente potenziato. Direi che rinforzare gli organici diventa, in una parola, fondamentale". Nei giorni scorsi era intervenuto sulle colonne di questo giornale anche Michele Migliori, segretario dell’Associazione radicale. "A Gorizia - evidenziò Migliori - i dati ufficiali dimostrano come su 55 posti regolamentari solo 14 siano effettivamente usufruibili, portando il dato di sovraffollamento al 114,3%, avendo in questo momento 16 detenuti. Tenendo conto, come dimostrato nel marzo scorso, che se in un giorno vi vengono tradotti sette detenuti, questi sono costretti a passare giorni o settimane in luoghi pressoché abbandonati, nella sporcizia più totale". "Ad ottobre termineranno i lavori di ristrutturazione dell’edificio carcerario, e noi torneremo a visitarlo per rassicurarci circa le condizioni della struttura, dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria. Spero - concluse Migliori - che la neosenatrice Laura Fasiolo, la quale ha espresso per mezzo dei social network la propria preoccupazione per le condizioni del carcere isontino, potrà accompagnarci in questa visita e condivida con noi la battaglia per il ripristino dello stato di diritto". Monza: detenuto tenta di evadere dal carcere, subito bloccato dalla Polizia penitenziaria Ansa, 1 settembre 2014 Ha cercato di evadere dal carcere di Monza, dove era detenuto per reati contro il patrimonio. Sorpreso dalle guardie, è stato subito bloccato. Voleva aprirsi la strada verso la libertà e così, approfittando dell’ora d’aria, un detenuto del carcere San Quirico ha pensato di poter scavalcare il muro di cinta del piazzale del carcere per fuggire. Gli agenti della Polizia Penitenziaria però lo hanno immediatamente scoperto ed hanno bloccato il suo maldestro tentativo di fuga. Venezia: detenuto evade dai domiciliari per farsi arrestare e avere un pasto caldo di Filippo De Gaspari La Nuova Venezia, 1 settembre 2014 Evade due volte in tre giorni dai domiciliari. Voglia di libertà? Nient’affatto, semmai il contrario: voleva andare in carcere, stanco di una vita di stenti, senza neppure i soldi per mangiare. Alla fine ha ottenuto quello che cercava: ora si trova in comunità, dove sa che non morirà di fame e potrà pure vedere la tv. Una battaglia al contrario la sua: evadere sì, ma da un destino di solitudine e privazioni. Si è convinto che solo la custodia in carcere o in un luogo protetto poteva fornirgli un tetto e un piatto caldo. Protagonista un uomo di 35 anni residente a Mirano, finito nei guai la prima volta per rapina impropria: a Padova aveva tentato di rubare una bicicletta, spintonando il proprietario che se ne era accorto e venendo per questo arrestato. Il giudice gli aveva poi concesso i domiciliari, vista anche la sua precaria situazione di salute e la povertà in cui vive. In casa però lui non ci voleva restare: faticava a sopravvivere, impossibilitato a garantirsi anche un pasto e una vita dignitosa. Solo, abbandonato da tutti, con una vita di privazioni e anche qualche problema di dipendenza, aveva così deciso di uscire, nonostante l’ordinanza restrittiva del tribunale. Una prima volta, poi una seconda: in ogni occasione si era sempre fatto rintracciare in fretta dai carabinieri, ma era stato solo denunciato. Alla terza, lunedì scorso, è stato arrestato di nuovo. La sua intenzione era proprio quella di finire finalmente in carcere e l’arresto per evasione stavolta pareva un buon biglietto da visita per il processo: "Almeno lì mi danno da mangiare", ha detto ai carabinieri, "e magari posso pure guardarmi la televisione". Invece il giudice lo ha di nuovo rispedito a casa: ancora domiciliari. Tra le mura domestiche sì, senza cella, ma nemmeno nulla da mangiare e una solitudine che fa più male delle sbarre. Così è evaso di nuovo. Giovedì i carabinieri lo hanno fermato ancora e stavolta il giudice non ha potuto far altro che esaudire i suoi desideri: non più a casa, tanto era immaginabile come sarebbe andata a finire. Lui voleva il carcere: gli hanno concesso una comunità protetta, meno restrizioni, vitto e alloggio come voleva il detenuto e anche qualche ora di televisione. Ma soprattutto, si spera, la possibilità di un reinserimento sociale e un aiuto per affrontare con più serenità la vita, magari senza più la necessità di delinquere per farsi notare e aiutare. Reggio Emilia: detenuto domiciliare "lavora troppo"… e viene rimesso in carcere di Carlotta Rapace www.emiliaromagna24news.it, 1 settembre 2014 Si è allontanato arbitrariamente dal Comune di Reggio Emilia dove beneficiava dei domiciliari con permesso di assentarsi da casa dalle 8,30 alle 18,30 dei giorni feriali per poter esercitare esclusivamente in città (divieto quindi di uscire da Reggio Emilia) l’attività di venditore porta a porta di contratti di energia elettrica per conto di una società che l’aveva assunto. Probabilmente le difficoltà in città a concludere contratti devono averlo indotto a cercare un bacino di clientela in provincia motivo per cui ha deciso di "espatriare" in spregio all’ordinanza degli arresti domiciliari che glielo vietava essendo autorizzava ad uscire da casa esclusivamente per lavorare in città. Beccato dai Carabinieri a Campegine è infatti stato ricondotto a Reggio Emilia dai Carabinieri di Castelnovo Sotto che hanno relazionato la sua condotta al giudice. La sezione detenuti della Corte d’Appello Bolognese che aveva concesso i domiciliari al giovane valutando la segnalazione dei Carabinieri e ravvisando l’illecita condotta concretizzatasi nella violazione della prescrizione di non allontanarsi da Reggio Emilia revocava il beneficio disponendo che l’interessato fosse condotto in carcere. Il provvedimento è quindi giunto ai Carabinieri della Stazione di Corso Cairoli che vi hanno dato esecuzione l’altro pomeriggio. Il 24enne nativo di Aversa (seppur di origini marocchine) residente in città è stato quindi raggiunto dai Carabinieri e condotto in carcere. Il giovane era stato arrestato a Bologna nel giugno del 2013 per un’estorsione e dal luglio dello stesso hanno aveva ottenuto i domiciliari con l’autorizzazione sopraggiunta a settembre 2013 di uscire da casa per lavoro senza tuttavia allontanarsi da Reggio Emilia. Libri: "D’amore, d’eroina, di galera", di Luciana Corinna Luberti recensione di Francesca de Carolis Ristretti Orizzonti, 1 settembre 2014 È in libreria "D’amore, d’eroina, di galera". Libro di Luciana Luberti, edito da Stampa Alternativa, che ho avuto il piacere di leggere di prima mano... quando ancora era solo l’ipotesi di un libro e Marcello Baraghini, con l’entusiasmo travolgente di quando ha qualcosa che gli piace tanto fra le mani, mi ha invitato a condividere... E, tempo due giorni, l’ho letto tutto d’un fiato anch’io, catturata, soprattutto, da una scrittura che mai mente. La storia: Luciana negli anni 80 era una giovane eroinomane. Le giornate tese ad un solo obiettivo: procurarsi da vivere, che significava anche e soprattutto procurarsi la droga. Ed era fra le più brave e fidate del giro, la più dura. Ma una sera di aprile lei e i suoi "cavalli" non tornarono a casa. Inizia per Luciana un percorso attraverso le carceri femminili del Veneto: Venezia, Rovigo, Udine, l’allora famigerato carcere di Belluno. Durerà tre anni. Un viaggio in un universo esasperato e straniante, ma pur sempre, per dirla con parole della protagonista, "uguale al mondo in versione ristretta: si muore e si vive come fuori, forse un po’ più che fuori". Intorno a Luciana, una folla di donne, guardiane o detenute, tutte recluse nel meccanismo di dinamiche feroci. Co-protagonista della vicenda l’eroina, che anche nel carcere ripropone la sua danza di morte e introduce all’altro spettro che si affaccia in quegli anni: l’Aids. Mentre a tratti si svela, potente, l’ombra del padre, personaggio che si intravede, forte, pauroso e pur padre amato... Una scrittura implacabile, quella di Luciana Luberti, per raccontare dolore, passione, odio, amore, crudeltà e bontà. Linguaggio che sa anche avere persino momenti di ironia, che permettono di narrare convulsioni altrimenti non esprimibili, pulsioni impronunciabili. Luberti riesce a fissare con sguardo fermo, e senza indulgenze, il film di un tratto della sua vita e riproporlo a noi come inciso su pellicola metallica. Una narrazione che restituisce, è la prima cosa che ho pensato leggendo, "l’umore del ferro". Sfondo di questa storia la sconvolgente realtà degli anni 80, quando l’eroina fu vera e propria epidemia. Era fra l’altro l’unica sostanza allora usata in Italia per via endovenosa, e questo significava spesso: Aids. Molto bassa l’età media dei consumatori: intorno ai 20 anni, secondo quanto osservato in un Ser.T. di Padova, città dove da quando era poco più che adolescente l’autrice ha vissuto. Un racconto da leggere per drizzare le antenne anche sull’oggi, che lo scenario dell’uso degli stupefacenti è molto modificato, si è anche molto più "distratti" sulla questione droga, ma l’eroina ritorna, per quanto in focolai da non sottovalutare. Il libro ci riporta alle dinamiche feroci della dipendenza da eroina... la crisi, ha detto un esperto, "ha tolto qualche cliente e l’eroina è una sicurezza per il venditore, fidelizza i clienti. I giovani, poi, sono il futuro, per ogni mercato". Questo libro, è anche un viaggio nelle carceri femminili di quegli anni, dove consumatori-spacciatori come la protagonista entrano ed escono, escono ed entrano, in circuiti che sono l’inferno che ancora oggi le cronache ci raccontano. E l’umore che pervade il racconto è ben espresso dalla copertina, discreta e forte allo stesso tempo, dolce persino, con il tentativo di volo di quel cuore-pallone che rimane inchiodato a un muro scalcinato. Muro delle periferie delle nostre anime. In questi mesi ho scambiato con Luciana parole... anche quando ne leggo solo le email, sento la sua voce roca e profonda. Qualsiasi racconto di lei fatto da altri, me compresa, mi suonerebbe arbitrario dopo aver letto le parole con le quali, quando gliele ho chieste, mi ha tracciato una sua breve biografia. Eccole. "Luciana Corinna Luberti, nasce a Roma un’infinità di tempo fa ma poi però ringiovanisce. Ok, sono figlia di Luberti Luciano, non so se conoscete, e di una. Correva l’anno 1956: nevicava a Roma. Ecco mia madre iniziava sempre così: era un giorno buio e tempestoso, insomma un giorno da ladri. Mio padre uscito di galera per crimini di guerra, impalma la bella Toscana, nasce Flavia mia sorella e subito io. Finché stiamo a Roma va pure abbastanza bene ma, col precipitare della situazione, e cioè la separazione dei due genitori, la fuga di Toscana, prima a Ladispoli e poi a Padova, finiscono tutte le belle speranze. Arrivo a Padova e già non va bene. Giovanissima, insieme a pochissimi altri ragazzini, conosco l’eroina e creiamo quella che sarà moltissimi anni dopo la piazza della droga in città. Erano i primissimi anni 70, si sentiva nell’aria un forte cambiamento, poi il terrorismo, lo sbando, la fine; passo del tempo in galera, m’innamoro dei fumetti e apro per 15 anni una fumetteria a Ferrara e a Padova, finché muore Lorenzo, il mio compare. Mi sparo case e appartamenti in vena. Però, nel frattempo, dopo una detenzione, frequentando il suddetto criminale Luberti Luciano mio padre, mi metto a raccontare un po’ della esperienza e nasce questo libro. Non sono ancora morta". Confermo, Luciana non è ancora morta. E ancora, in un flusso che per lei non ha e credo non avrà mai fine, inchioda brani di vita alla scrittura. Aspetto i prossimi racconti. Intanto invito a leggere questo suo primo libro, che in fondo, e forse neanche troppo in fondo, è una storia d’amore. È la storia di tutto quello e tutti coloro che, nel bene e nel male, Luciana ha davvero amato. Libri: "Rapinatore per gioco. Storia vera di un ludopatico", di J. Real e A.G. D’Errico Ristretti Orizzonti, 1 settembre 2014 "Italiani stregati dal gioco d’azzardo. Tre milioni a rischio ludopatia. Boom anche di adolescenti con la "febbre del Gioco": oltre un milione gli studenti coinvolti". (Corriere della Sera) Rapinatore per gioco. Il giocatore d’azzardo esprime un ego che non riesce a controllare. Perde l’affetto dei suoi genitori, il bene della ragazza che ama, la sincerità delle amicizie. Si circonda solo di persone interessate a procurarsi denaro da consumare nel gioco, al casinò, alle corse dei cavalli, frequentando bische clandestine. Paolo Pennacchione è il protagonista di questa storia vera. Nato a Ortona in provincia di Chieti, da una famiglia di umili origini, viene sopraffatto dal suo bisogno irrefrenabile di denaro da puntare al tavolo da gioco o su una tris di gare di cavalli. A un certo punto, il suo bisogno patologico del rischio, della scarica adrenalinica, gli impone di alzare il tiro. Iniziano i suoi rocamboleschi "prelievi illegali" come rapinatore di banche. A poco più di trent’anni si rende artefice di quaranta rapine, per un totale di alcuni milioni di euro. Si aprono i cancelli della prigione, che lo custodiranno per qualche tempo. Chiede e ottiene misure alternative. Le sfrutta non per restare a casa e meditare sui suoi sbagli ma come occasioni per continuare a realizzare altre rapine e altre puntate al gioco di cui non può farne a meno. Ritorna in carcere. Entra e esce. Per un periodo si trasferisce in Spagna. Guadagna anche qui il "privilegio" di un posto nelle prigioni andaluse. Attualmente è recluso presso il carcere di Ancona. Ma Paolo Pennacchione è da tenere in carcere o è da curare come ludopatico grave? Jorge Real nasce in Venezuela. Dopo essere stato per molti anni pilota della Cia e averne tradito la fiducia in quanto si era trasformato in un trafficante internazionale di droga, viene arrestato in Italia e poi estradato in Spagna, dove sta scontando la pena. Il suo primo grande successo letterario Il volo del silenzio tradotto in molte lingue, in Italia è stato pubblicato con un eccezionale riscontro di pubblico e di critica da Longanesi. Antonio G. D’Errico, scrittore e sceneggiatore teatrale, televisivo e cinematografico. Autore di thriller e romanzi. Terzo classificato al Premio Scerbanenco, col voto della giuria e dei lettori, e Premio Cesare Pavese per la narrativa con il romanzo Montalto. Fino all’ultimo respiro. Nel 2011, scrive per Rizzoli la biografia di Eugenio Finardi, Spostare l’orizzonte. Con Edizioni Anordest ha pubblicato la biografia di Marco Pannella, Segnali di distensione e il volume Camorra, confessioni inedite di Mario Perrella boss pentito del rione Traiano di Napoli. Droghe: conviene davvero liberalizzare la marijuana? opinioni a confronto La Stampa, 1 settembre 2014 "Lo Stato risparmierebbe su polizia e carceri". Favorevole l’economista Michele Boldrin, leader di "Fare per fermare il declino" intervista di Luca Fornovo Scommetto che, da economista liberale e un po’ cinico qual è, sarebbe favorevole a legalizzare e tassare la marijuana. Vero? "Ha ragione, sono pienamente d’accordo con la proposta di Della Vedova. Anzi, le dico di più: legalizzerei anche la prostituzione". Michele Boldrin, classe 1956, economista e docente di lungo corso (ha insegnato all’Università di Chicago e Minnesota), ora leader del partito Fare per Fermare il Declino, difende a spada tratta la tassazione delle droghe leggere. "È una vecchia idea della scuola liberale, la voterei anche domani una legge su questo tema". Mi scusi, ma non pensa sia pericoloso per i cittadini favorire la produzione e la vendita di droghe leggere? "Guardi, non credo proprio. La pericolosità delle droghe leggere è stata mitizzata a lungo e spesso da politici bacchettoni a caccia di voti. In realtà a mio avviso, marijuana e cannabis non sono più nocive di alcol e tabacco. Certo come è stato fatto con questi prodotti, anche le droghe leggere vanno regolamentate bene e vietate ai minori". Ma lo Stato cosa ci guadagnerebbe? "Riscuoterebbe entrate fiscali cospicue, basti pensare che solo il valore dei derivati della cannabis supera in Italia i 7 miliardi di euro all’anno. Tutti soldi che in gran parte oggi finiscono in mano alla criminalità organizzata". E nella lotta al crimine ci sarebbero vantaggi? "Sì perché i piccoli spacciatori e chi fa uso di piccole quantità di droghe leggere non sarebbero più perseguiti. Lo Stato risparmierebbe molto sulle spese di polizia, sui servizi giudiziari e soprattutto potrebbe svuotare di più le carceri". Ma non pensa che potrebbe aumentare invece la micro-criminalità e che le strade sarebbero meno sicure? "No, sono convinto che la repressione proibizionista non paga. Diverse statistiche dimostrano che i piccoli delinquenti che finiscono in carcere, diventano, dopo il periodo di reclusione, criminali decisamente più pericolosi". Immagino quindi che sarebbe d’accordo anche con l’abolizione della legge Merlin per legalizzare e tassare la prostituzione... "Sì perché è un’attività che dura da migliaia di anni, credo che sia un mestiere che non cesserà di esistere, quindi tanto vale legalizzarlo, introdurre regole precise per rendere l’attività sicura e toglierla dalle mani dei criminali. Meglio legalizzare la prostituzione che andare avanti con un lassismo ipocrita". "Curare le dipendenze costerebbe molto di più". Contrario Antonio Boschini, Responsabile terapeutico della Comunità San Patrignano intervista di Alberto Mattioli Immagino che lei non sia d’accordo con Benedetto Della Vedova. "Immagina bene". Parola di Antonio Boschini, responsabile terapeutico della Comunità di San Patrignano: "Del resto, non mi stupisco: Della Vedova queste cose le ha sempre dette". Sì, però adesso è sottosegretario, un membro del governo… "È sconcertante. Faccio fatica a immaginare uno Stato che riempie le sue casse liberalizzando la marijuana". Perché? "Perché immaginare di contrastare le mafie liberalizzando la droga è assurdo. Finché rimane qualcosa di vietato, il mercato nero ci sarà sempre. Quindi o si depenalizzano tutte le droghe, con la cocaina e l’eroina libere e senza limiti, oppure liberalizzare la sola cannabis non ha senso. E poi il mercato della droga non sarà mai libero, perché si basa sulla dipendenza. Infine, bisogna considerare altri due aspetti". Quali? "Primo: la prevenzione. Come faccio ad andare nelle scuole a dire ai ragazzi che farsi le canne è pericoloso, se è lo Stato che le autorizza?". E secondo? "I costi sanitari per curare le persone. Adesso lo Stato di fatto non vieta più il gioco d’azzardo, con le slot e così via. E incassa. Ma quanto costerà curare le vittime della dipendenza?". Alcol e tabacco, però, sono liberi. E tassati. "Però l’alcol non è solo sballo. Uno che beve un bicchiere di vino o fuma una sigaretta può mettersi al volante. Uno che si è fatto una canna, no". Ma la cannabis non è l’eroina. "Certo. Ma è la condizione necessaria, benché non sufficiente, per diventare un drogato. In altri termini: esistono molti consumatori di cannabis che non passano all’eroina, ma non esiste un solo consumatore di eroina che non sia passato dalla cannabis. E poi, di quale marijuana si sta parlando?". Le canne, quelle che si fumano quattro milioni di italiani. "Della Vedova è fermo agli spinelli degli Anni Settanta. Non sa che oggi la marijuana in vendita è geneticamente modificata. Dei suoi circa cinquanta principi attivi, è stato potenziato il Thc, quello che produce effetti psicoattivi, e ridotto il cannabidiolo, che ha effetti neuro protettivi. Insomma, è molto più pesante dello spinello tradizionale. E questo rende l’idea di liberalizzarla ancora più assurda". Guinea Equatoriale: dal carcere di Bata una lettera di Roberto Berardi a Matteo Renzi di Andrea Spinelli www.crimeblog.it, 1 settembre 2014 Di Roberto Berardi non si avevano notizie da giorni. L’imprenditore edile italiano detenuto (noi scriviamo "sequestrato" assumendocene le eventuali responsabilità) in una fetida cella di isolamento del carcere di Bata in Guinea Equatoriale è riuscito tramite alcuni contatti, e non senza grosse difficoltà, a scrivere ed inviare alla sua famiglia una lettera. Nel manoscritto, cinque pagine molto toccanti scritte in terra e al buio, l’imprenditore Berardi si rivolge al Presidente del Consiglio Matteo Renzi non per raccontare la sua storia, che certamente al primo ministro sarà nota sia grazie al lavoro dell’Unità di Crisi della Farnesina che ai (pochi) articoli di giornale comparsi su blog e (molto saltuariamente) sulla stampa, ma per chiedere che la sua storia non si ripeta mai più. Berardi, con parole lucide e a tratti drammatiche che denotano anche un senso di rassegnazione al proprio infausto destino, si appella al Presidente del Consiglio affinché quanto è accaduto, quanto sta accadendo, alla sua persona non possa accadere a nessun altro. Nella sua lettera l’imprenditore accusa apertamente il regime cleptocratico di Teodoro Obiang Nguema Mbasogo di reprimere il proprio popolo, di tenerlo in carcere (l’avvocato Tutu Alicante, che vive negli Stati Uniti e ha fondato la Ong Egjustice per denunciare il regime in Guinea Equatoriale, ha definito Roberto Berardi "il prigioniero personale del figlio del Presidente"). È infatti il "principe di Malabo", Teodorin Obiang Nguema Mangue, figlio di Teodoro, vicepresidente, ministro dell’agricoltura e viziatissimo collezionista di lussi, l’ombra nera sull’intera vicenda che ha travolto l’esistenza di Roberto Berardi. Noi di Crimeblog abbiamo deciso di pubblicare la lettera per intero, sia in originale che trascritta, per aiutare Roberto Berardi e la sua famiglia ad accendere una piccola luce sul suo drammatico caso: per questo da mesi cerchiamo di aggiornarvi puntualmente sul caso dell’imprenditore italiano. Nel manoscritto Berardi parla della sua infanzia fiorentina e dell’educazione cattolica ricevuta (come anche gli Obiang, devotissimi e per questo grandi donatori alla diocesi africana ed alla Chiesa Cattolica), della sua passione ("amore") per l’Africa e per gli africani, di ciò che pensa possa servire al Continente per esplodere definitivamente nel tanto agognato "boom economico". Lo fa da imprenditore, Berardi, ma anche da amante dell’Africa, da profondo conoscitore "dell’animo africano" e da semplice persona, anche se in questo momento di umano la sua esistenza ha ben poco. Accusa gli Obiang, come accusa del più classico "tuttapostismo" i funzionari occidentali "che l’Africa la conoscono solo attraverso il Club Med di Malindi", come accusa lo Stato Vaticano e il Santo Padre Francesco di ricevere (quattro volte negli ultimi 12 mesi, tra cui anche la beatificazione di Giovanni Paolo II) la famiglia Obiang con tutti gli onori. E chiede che il suo Paese faccia davvero qualcosa, anche di eclatante, per ridimensionare le brame di potere, di grandezza e di egocentrismo di quello che molte ong definiscono "il peggior regime d’Africa". Su Matteo Renzi e sull’Africa, sui nuovi orizzonti che il governo rottamatore vuole indicare al Paese, abbiamo cercato più volte di porre l’accento sia sugli interessanti fattori economici e di sviluppo che, sopratutto, sulla necessità del rispetto dei diritti umani, senza i quali l’Africa non potrà mai esplodere. Una questione non italiana ma internazionale, come dimostra il summit di Washington dei primi di agosto, fortemente voluto da Obama, che ha visto la partecipazione di 50 capi di Stato africani, tra cui Teodoro Obiang (con foto "di famiglia" con gli Obamas e vantaggiosa ripulita d’immagine del regime equatoguineano). Brasile: il Pcc spaventa il Paese… recluta nelle carceri, controlla le favelas di Gianluca Modolo www.lettera43.it, 1 settembre 2014 È la maggiore organizzazione del narcotraffico carioca. Recluta nelle carceri, controlla le favelas. Annunciò attentati al Mondiale. Ora vuole conquistare gli stadi. E getta ombra sulle elezioni. Secondo il quotidiano di San Paolo, Folha, i membri dell’organizzazione, infatti, sono 11.400 in tutto il Brasile, dei quali 8.807 detenuti nelle carceri del Paese. Secondo il quotidiano di San Paolo, Folha, i membri dell’organizzazione, infatti, sono 11.400 in tutto il Brasile, dei quali 8.807 detenuti nelle carceri del Paese. Dopo le proteste di piazza che hanno preceduto e accompagnato l’ultima coppa del mondo di calcio, il Brasile ripiomba nella violenza. È dei giorni scorsi la notizia della rivolta consumatasi all’interno del carcere di Cascavel, nello Stato di Paranà, a 500 chilometri da Curitiba, nel Sud del Paese, che ha provocato la morte di quattro persone, due barbaramente decapitate e altre due spinte giù dal tetto dell’edificio. Nata per protestare contro la mancanza di cibo e la scarsa condizione igienica della prigione, la rivolta è scoppiata nella mattinata di domenica 24 agosto durante la distribuzione dei pasti, quando circa 700 detenuti (il carcere ne ospita esattamente il doppio) hanno iniziato a prendere il controllo di buona parte dell’edificio, incendiando e distruggendo intere parti del penitenziario e prendendo in ostaggio anche due guardie, rilasciate dopo 48 ore. Immagini di alcuni media locali hanno mostrato come molti dei detenuti saliti sul tetto abbiano esposto striscioni con la scritta Pcc. La sigla sta per Primeiro Comando da Capital ed è, oggi, una delle maggiori organizzazioni criminali del Paese. Che proprio in carcere è nata più di 20 anni fa e che ha fatto del carcere il luogo ideale dove reclutare nuovi membri per far nascere e crescere la spirale di violenza che negli ultimi anni sta colpendo tutto il Brasile. Era il 31 agosto 1993 quando, dopo una partitella a pallone, durante l’ora d’aria, otto detenuti del carcere paulista di Taubaté decisero di fondare il Primeriro Comando da Capital. Nato per "combattere le oppressioni all’interno del sistema penitenziario" e per vendicare i 111 detenuti del carcere di Carandiru uccisi dalla polizia il 2 ottobre del 1992, il Pcc ha raggiunto ormai dimensioni vastissime, divenendo oggi una delle maggiori organizzazioni criminali brasiliane. Secondo il quotidiano di San Paolo, Folha, i membri dell’organizzazione, infatti, sono 11.400 in tutto il Brasile, dei quali 8.807 detenuti nelle carceri del Paese. Presente in 22 dei 26 Stati brasiliani (ma si contano anche una cinquantina di membri operativi in Bolivia e Paraguay), il Pcc ha il suo nucleo più forte e organizzato nello Stato di San Paolo: 7.800 membri (6mila in carcere e 1.800 in libertà) e un controllo quasi totale (90%) di ben 132 delle 157 carceri dello Stato, all’interno delle quali può contare sul sostegno di quasi 130mila detenuti. Sui 500mila detenuti reclusi in tutto il paese, una cifra non da poco. Il suo giro d’affari si aggira intorno ai 120 milioni di reais all’anno (circa 40 milioni di euro), che arrivano nelle casse dell’organizzazione quasi esclusivamente dal narcotraffico e che servono a finanziare evasioni e attentati, a pagare le parcelle degli avvocati e perfino a finanziare gli studi in materie giuridiche ad alcuni simpatizzanti. Lo spaccio di droga - oltre al traffico di armi - è diventata, infatti, l’attività principale del gruppo e il mercato della cocaina, ormai, è quasi completamente nelle loro mani. A coordinare tutto ci pensano i leader dell’organizzazione che, dietro le sbarre delle loro celle, con cellulari di contrabbando o attraverso messaggi in codice consegnati da parenti, avvocati o poliziotti conniventi, riescono a comunicare con i membri del comando che stanno fuori, in libertà. Il Pcc ha, infatti, un vero e proprio vocabolario parallelo, dove gli affiliati sono i "fratelli", le "torri" i leader più potenti, le prigioni sotto il loro controllo diventano le "facoltà" e "far subire" significa condannare a morte qualcuno. Dietro le rivolte, mascherate da una richiesta di condizioni più umane per i detenuti, il motivo sarebbe sempre lo stesso: una ritorsione contro le decisioni della polizia di trasferire i principali leader dell’organizzazione in carceri di massima sicurezza - sotto quello che in Brasile si chiama Regime Disciplinar Diferenciado, una sorta di nostro 41bis - dalle quali non potrebbero più controllare i traffici di droga e di armi. Già lo scorso inverno minacce e piani d’attacco contro i mondiali di calcio furono sventati dalla polizia grazie ad alcune intercettazioni telefoniche: un’operazione descritta come una delle più grandi e importanti contro la criminalità e il narcotraffico mai condotte in Brasile e che ha portato all’arresto di 175 membri del Pcc. Ma a preoccupare adesso sono le elezioni presidenziali, che si terranno tra due mesi, in ottobre, e la sicurezza di molte città brasiliane, San Paolo in testa, dove la guerriglia urbana tra membri dell’organizzazione e forze di polizia non è una novità. Già nel 2012, infatti, nella capitale economico-finanziaria del Paese si contarono ben 106 morti. Scontri che richiamano alla memoria quelli avvenuti nel 2001, nel 2003 e nel 2006 quando, tra maggio e agosto di quell’anno, si ribellarono 74 carceri pauliste e vennero organizzati più di 250 attentati contro banche, autobus, stazioni della metropolitana e caserme. Il bilancio, alla fine, fu di quasi 500 morti tra membri dell’organizzazione, poliziotti e civili. Degli otto fondatori non è rimasto quasi più nessuno - sette sono stati assassinati negli anni in prigione - e il comando è passato, dal 2002, nelle mani di Marco Willians Herbas Camacho, meglio conosciuto come Marcola o Playboy. Quarantacinque anni, nato nella periferia di San Paolo, ha passato quasi metà della sua vita in carcere (dove tuttora si trova), entrandoci per la prima volta già a 18 anni. Affiliarsi al Pcc richiede una vera e propria iniziazione: un ‘battesimo’. Innanzitutto, bisogna avere un ‘padrino’ all’interno dell’organizzazione che garantisca per chi voglia entrare a far parte della gang. Davanti ad un bicchiere - riempito con acqua o alcolici - padrino e affiliato si fanno un piccolo foro sul dito indice, lasciando cadere una goccia di sangue nel bicchiere, dal quale tutti e due poi dovranno bere. L’affiliato giura fedeltà al gruppo ("Una volta nel Pcc sempre nel Pcc" è il motto, ed infatti a volerne uscire spesso si paga con la propria vita) e riceve una copia dello statuto dell’organizzazione: 16 articoli in cui ricorrono spesso le parole lealtà, libertà e giustizia. Per chi sta in carcere la quota di iscrizione è fissata a 50 euro, 150 per chi è in libertà. Ne devono sborsare 80, invece, i detenuti-affiliati che godono del regime di semi-libertà. Soldi che spesso servono a garantirsi una protezione e qualche vantaggio nella vita di tutti i giorni in prigione. Ma il Pcc non opera solo all’interno del carcere: la sua azione si estende soprattutto nelle favelas dove, qualche anno fa, ha addirittura creato un programma (Aiuto per le attività sociali) attraverso il quale distribuisce latte, cibo e benzina agli abitanti in difficoltà, i quali, in cambio, si chiudono nell’omertà non denunciando alla polizia spacciatori e delinquenti della gang che proprio nelle favelas concludono i loro migliori affari. Un modo per comprare il loro silenzio. Insomma, il Pcc sembra essere una vera e propria società nella società, con propri poteri e proprie regole. E che vuole allargarsi ancora, reclutando nuove forze non più solo all’interno delle carceri, ma, anche, nelle curve degli stadi. Sempre più fitti sono diventati, infatti, negli ultimi anni, i contatti tra l’organizzazione e gruppi di ultrà di squadre puliste come il Palmeiras e il Corinthians. Isole Faroe: arrestata un’attivista italiana con altri diciassette volontari di Sea Shepherd www.geapress.it, 1 settembre 2014 Ci sarebbe anche un’italiana, Team Leader di Sea Shepherd nelle Isole Faroe. Secondo una nota diffusa pochi minuti addietro da Sea Shepherd, sarebbe uno dei diciotto componenti "arrestati e detenuti" dalla polizia delle Isole Faroe. Tra gli arrestati anche un attivista spagnolo che era stato aggredito alcuni giorni addietro. L’allarme nelle isole ove è in corso l’operazione Grindstop, lanciata da Sea Shepherd contro l’uccisione dei delfini, è scattato un paio di ore addietro. Un centinaio di globicefali sarebbero entrati nella baia di Sandur nell’isola di Sandoy. Secondo la primissima ricostruzione fornita da Sea Shepherd, in acqua vi sarebbe stata una prima imbarcazione ambientalista ed un’altra dozzina appartenenti ai pescatori. Sempre secondo Sea Shepherd una nave della marina danese avrebbe ordinato agli ambientalisti di allontanarsi. Circa un’ora addietro, invece, le barche di Sea Shepherd, sarebbero state in tre. Nei luoghi sarebbero affluite altre forze di polizia anche con l’ausilio di un elicottero, mentre la mattanza era già inziata. La notizia dell’arresto degli attivisti viene ripresa anche dalla Fondazione Brigitte Bardot che sta seguendo, in stretto contatto con gli ambientalisti, la vicenda. Sea Shepherd rilancia l’accusa alla marina danese. Un ultimo aggiornamento riporta dell’agonia di 35 globicefali. In mare dovrebbero ancora esservi tre barche di Sea Shepherd. Sea Shepherd ha già annunciato la battaglia che porterà avanti al Parlamento europeo. Al di là dell’ampia autonomia delle Isole escluse dall’adesione alla Ue, un paese membro (il riferimento è evidentemente alla presenza della marina danese) non potrebbe essere presente, ad avviso degli ambientalisti, nelle azioni ora denunciate. I 18 arresti, comunicati in un’ultimissima nota di Sea Shepherd, sembrano essere riferiti a "membri dell’equipaggio". I sei sono invece componenti della squadra di terra. Il numero degli arresti, pertanto, potrebbe essere superiore a 18. Algeria: fonti stampa, liberati detenuti islamici in cambio di diplomatici rapiti in Mali Nova, 1 settembre 2014 Un gruppo di estremisti islamici detenuti in Algeria sarebbe stato rilasciato come contropartita per la liberazione dei due diplomatici algerini rapiti due anni fa in Mali e liberati nel fine settimana. Secondo quanto riporta il quotidiano "Al Sharq al Awsat", da fonti algerine, per arrivare alla chiusura della vicenda del rapimento dei diplomatici algerini sequestrati dal gruppo armato Mujao due anni fa a Gao, nel nord del Mali, con la liberazione degli ultimi ostaggi, le autorità di Algeri avrebbero accettato di rilasciare un gruppo di jihadisti presenti nelle carceri di Algeri. In particolare era stata chiesta la scarcerazione di tre jihadisti: due mauritani e un algerino, fermati nel 2007, mentre la stessa fonte esclude che Algeri abbia potuto pagare un riscatto. Siria: Al-Nusra chiede rilascio dirigente e ideologo di al-Qaeda in cambio di 44 soldati Onu Adnkronos, 1 settembre 2014 I ribelli siriani del Fronte al-Nusra hanno postato un messaggio su Twitter nel quale chiedono il rilascio di Abu Musab al-Suri, dirigente e ideologo di al-Qaeda, in cambio della liberazione dei 44 peace-keeper delle Nazioni Unite presi in ostaggio la scorsa settimana sulle Alture del Golan, al confine con Israele. Al primo tweet, la cui autenticità è da verificare, ne hanno fatto seguito molti altri, scritti da presunti militanti di al-Nusra, i quali ribadiscono la richiesta dello scambio. "La palla è nel tuo campo, Onu", si legge in un Tweet. Al-Suri è un siriano originario di Aleppo, arrestato nel 2005 in Pakistan e consegnato alla Siria, dove sarebbe tuttora detenuto. Alcune fonti sostengono tuttavia che al-Suri sia stato rilasciato nel 2011 dal regime siriano.