Giustizia: se l’Unione Europea allontana persone e diritti di Stefano Rodotà La Repubblica, 19 settembre 2014 Nel Preambolo alla Carta dei diritti fondamentali si afferma che l’Unione europea "pone la persona al centro della sua azione". Parlando di "persona", non si è evocata una astrazione. Al contrario. Con quella parola ci si voleva allontanare proprio dalle astrazioni, consegnate a termini come soggetto o individuo, e si intendeva dare rilievo alla vita materiale, alle condizioni concrete dell’esistere, ad un "costituzionalismo dei bisogni" fondato sull’inviolabile dignità di tutti e ciascuno. Ma nel Mediterraneo ormai quasi ogni giorno muoiono centinaia di persone che all’Europa guardano con speranza, fuggendo dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla miseria. I numeri impressionano, ma non sollecitano l’adempimento della promessa scritta nel Preambolo della Carta dei diritti, della quale Juncker ha parlato come di un riferimento obbligato per l’attività dell’Unione europea. Questa disattenzione fa sì che l’Unione stia diventando complice di un "omicidio di massa", come giustamente l’Onu ha definito questa terribile e infinita vicenda. Siamo di fronte ad uno degli effetti, niente affatto "collaterali", della riduzione della politica a calcolo economico e finanziario, alimentando gli egoismi nazionali e spegnendo ogni spirito di solidarietà. Le parole contano, dovrebbero risuonare con forza, per dare senso ad una Europa che si sta spegnendo proprio perché rinnega se stessa, il suo essere storicamente terra di diritti. Dalla Presidenza italiana dell’Unione europea, anche per la responsabilità assunta in politica estera all’interno della Commissione (sia pure non ancora formalizzata), dovremmo allora attenderci parole forti, liberate da ogni convenienza, pronunciate dallo stesso presidente Renzi che oggi può e deve parlare a nome dell’Europa. Non è tempo di attese, e anche le mosse simboliche contano, soprattutto se poi riescono ad essere accompagnate da proposte concrete. Ve ne sono già molte, e la politica ufficiale dovrebbe prenderle in considerazione, riflettendo sui visti umanitari, sullo status di rifugiato comunitario, facendo un "investimento di cittadinanza", ricorrendo a "bond" europei per la cittadinanza (ne ha parlato Mauro Magatti). L’Europa non impallidisce soltanto in questa dimensione che ha davvero assunto il carattere della tragedia. Vi sono le infinite tragedie della vita quotidiana, moltiplicate in questi anni di crisi e che sono espresse da parole divenute terribilmente familiari: disoccupazione, perdita dei diritti sociali, diseguaglianza. Di nuovo l’Unione europea allontana da sé la persona con i suoi diritti, contraddice le parole che aprono la Carta - "la dignità umana è inviolabile" - perché si nega quel diritto a "un’esistenza dignitosa" di cui parla l’articolo 34 della stessa Carta. A quell’abbozzo di costituzione europea affidato al Trattato di Lisbona e alla Carta dei diritti fondamentali è stata in questi anni contrapposta una sorta di "contro-costituzione", che ha il suo cuore nel "fiscal compact" e che ha portato ad una indebita amputazione dell’ordine giuridico europeo proprio attraverso la sostanziale cancellazione della Carta dei diritti, che pure ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Nel momento in cui giustamente si contesta la pericolosa riduzione dell’Unione ad una pura logica contabile, proprio la rivendicazione dell’importanza dei diritti è essenziale per muoversi in un orizzonte più largo. Cominciamo a sfruttare i segnali che vengono dalla stessa Unione, dalla sua Corte di giustizia, ad esempio, che con una sentenza del 13 maggio ha affermato che i diritti fondamentali, in via di principio, prevalgono sul mero interesse economico. La ricostruzione di una cultura europea di nuovo sensibile ai diritti permetterebbe di uscire dalla spersonalizzazione e dalla assuefazione indotte dalle cifre. Registriamo le centinaia di morti in mare, e le spostiamo nelle pagine interne dei giornali o le facciamo scendere nell’ordine delle notizie televisive. Registriamo i dati statistici sulla disoccupazione crescente, sulla povertà assoluta e relativa, come se fossero l’effetto di uno tsunami al quale non ci si può opporre. Una attenzione vera per i diritti ci obbligherebbe ad arrivare alle persone che stanno dietro quei numeri, a svegliarci da un inquietante e ormai protratto sonno della ragione. Ipnotizzati dalle cifre, corriamo il maggiore dei pericoli: il ritorno all’astrazione dalle concrete condizioni del vivere, che ci spinge verso la progressiva riduzione delle persone ad oggetti del calcolo economico, dunque "non persone". E come si può parlare di democrazia quando l’azione politica si separa dalle persone e dai loro diritti? Acuta in Europa, la questione si fa acutissima in Italia. Ancora ieri il rapporto Bertelsmann ha impietosamente confermato il nostro continuo precipitare nell’ingiustizia sociale, con processi di esclusione che mettono concretamente a rischio la coesione sociale. Si può davvero ritenere che una ulteriore riduzione dei diritti sociali, che troppi insistentemente continuano ad invocare, sia la via d’uscita dalle difficoltà che stiamo vivendo? O dobbiamo prendere le mosse proprio dal riferimento alla Repubblica "fondata sul lavoro", e da ciò che questo significa oggi in termini di diritti? Bisogna aggiungere che, da decenni ormai, l’intera cultura dei diritti ha conosciuto in Italia una inquietante eclisse. Nella deprecata e presunta inefficiente prima Repubblica, gli anni Settanta furono una straordinaria stagione dei diritti, che mutarono nel profondo la società italiana e l’organizzazione istituzionale. Divorzio e aborto, statuto dei lavoratori e riforma del diritto di famiglia, processo del lavoro e riforma carceraria, attuazione delle regioni a statuto ordinario e introduzione del referendum, nuove norme sulla carcerazione preventiva e abolizione dei manicomi sono lì a testimoniare che una politica dei diritti è possibile nella linea segnata dalla Costituzione. Questa non è una rievocazione nostalgica, ma un invito a riflettere su quali siano state le spinte propulsive che resero possibile tutto questo. Sicuramente il riferimento ai principi e ai diritti costituzionali. Sicuramente la capacità delle forze politiche di guardare alle dinamiche sociali senza pretese di subordinarle a convenienze e strumentalizzazioni (divorzio e aborto furono approvati in anni di forte potere della Dc). Sicuramente l’esistenza di canali di comunicazione tra cultura e politica, che si alimentarono reciprocamente, produssero innovazione non di facciata, ma veri strumenti istituzionali di cambiamento. Negli ultimi decenni chiusure ideologiche e regressione culturale hanno determinato un divorzio tra politica e società proprio sul terreno dei diritti. Ne vediamo i segni ancora in questi giorni. Dopo che le regioni avevano concordato alcune linee guida sulla fecondazione eterologa, coerentemente con quanto stabilito dalla Corte costituzionale cancellando un altro pezzo illegittimo della stra-ideologica legge in materia, ecco la Regione Lombardia legare l’accesso a questa tecnica di fecondazione a costi che negano l’eguaglianza tra le persone, richiamata proprio dalla Corte costituzionale. Riprenderà il "turismo procreativo", questa volta da regione a regione? Questo caso ci ricorda come in questi anni difficili, e di silenzio della politica, i giudici siano stati i veri "custodi dei diritti", non assumendo un ruolo di supplenza, ma di attuazione della legalità costituzionale, com’è loro dovere, tenendoci anche al riparo da prevaricazioni politiche (pochi giorni fa il Consiglio di Stato ha definitivamente accertato l’illegittimità dell’intervento ministeriale che tentò di impedire il trasferimento in una clinica di Eluana Englaro). Oggi sarebbe il tempo del ritorno della buona politica, che guardi alla società senza filtri ideologici e convenienze di maggioranza, e così dia segnali chiari contro l’omofobia; riconosca senza alcun pregiudizio le unioni tra le persone dello stesso sesso, che i comuni stanno affrontando con la trascrizione dei matrimoni contratti all’estero; riconosca il diritto di decidere sul morire. Sono questi i modi in cui la società interroga la politica e, poiché troppe volte sentiamo dire "ce lo chiede l’Europa", proprio dall’Europa e dal mondo ci vengono segnali sempre più univoci che, in materia di diritti, dovremmo cominciare a seguire, riconoscendo in essi anche quello che, con lungimiranza, aveva già indicato la Costituzione. Giustizia: eutanasia per i detenuti… Van Der Bleeken sarà il primo di molti? di Eleonora Degano Oggi Scienza, 19 settembre 2014 Mentre in Italia tutto tace riguardo all’eutanasia legale e alla validità del testamento biologico, con una proposta di legge di iniziativa popolare ferma su una qualche scrivania del Parlamento da oltre un anno, in Belgio l’assassino e stupratore ha ottenuto di poter morire, dopo tre anni di complesse battaglie legali. È stata definita una sofferenza psicologica insopportabile quella del detenuto con alle spalle quasi 30 anni di carcere, che aveva già ribadito di non essere in grado di controllare la propria violenza. Se rilasciato, spiegava, il suo comportamento si sarebbe ripetuto. Quest’anno aveva dichiarato a Vrt "Sono un pericolo per la società. Che cosa dovrei fare? Qual è lo scopo di stare seduto qui fino alla fine e marcire? Preferirei l’eutanasia". E la richiesta è stata infine accolta, conferma il suo avvocato Jos Vander Velpen, in questi giorni Van Der Bleeken lascerà il penitenziario di Bruges per essere trasferito in un altro ospedale, dove incontrerà quella che viene chiamata "la dolce morte". Come riporta Newsweek, Van Der Bleeken aveva criticato aspramente la mancanza di terapie adeguate per la sua condizione. "Se le persone commettono crimini sessuali, bisogna aiutarle a gestire la cosa", spiegava. "Limitarsi a rinchiuderle in prigione non aiuta nessuno: né il colpevole, né la società, tantomeno le vittime". La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte sottolineato che il Belgio non fornisce adeguato supporto medico ai detenuti con disturbi mentali, né il corretto sostegno terapeutico. Si tratta della prima volta che un detenuto riesce a ottenere l’eutanasia con una simile richiesta (diffusasi la notizia, riporta l’Independent, almeno altri suoi 15 compagni hanno chiesto informazioni al riguardo) ma non è certo il primo caso in cui viene approvata per sofferenze psicologiche. Nel 2012 c’è stata la vicenda di Marc ed Eddy Verbessen, due gemelli poco più che 40enni -entrambi sordi- i quali, una volta saputo che per un difetto genetico sarebbero presto diventati anche ciechi, hanno chiesto l’eutanasia. Nel gennaio del 2013, i media belgi hanno riportato la notizia della morte di entrambi. Un altro caso, risalente invece a ottobre, è quello di Nathan Verhelst. Transessuale, ha chiesto di poter morire dopo il fallimento di numerose operazioni per cambiare sesso cui si era sottoposto, che l’avevano lasciato in una condizione di estrema sofferenza psicologica. Si sentiva "un mostro". Wim Distelmans, medico specializzato in cure palliative, ha commentato al The Independent che dopo il caso Van Der Bleeken si aspetta di veder aumentare le richieste specialmente da parte dei detenuti. E sottolineato che sarà necessaria estrema cautela: l’eutanasia non deve diventare un’alternativa al fornire ai prigionieri le terapie delle quali hanno bisogno. La legge che ha sancito la legalità dell’eutanasia in Belgio (di fronte a sofferenze fisiche o psicologiche insopportabili) risale ormai al 2002, mentre quest’anno il senato ne ha approvata una seconda, che ha aperto la possibilità della dolce morte a persone di qualsiasi età. Lo scandalo mediatico è ovviamente stato enorme, ma Els van Hoof e un ristretto gruppo di senatori sono intervenuti sul testo iniziale della legge, facendo sì che possa essere applicata solamente ai bambini con patologie in fase terminale e sofferenze fisiche impossibili da alleviare. Uno psicologo esterno all’equipe medica che ha trattato il caso specifico, inoltre, deve valutare le capacità di giudizio del bambino/a, per accertarsi che abbia pienamente compreso cosa significa morire. La stessa van Hoof si è espressa anche nel caso di Van Der Bleeken, sottolineando che vari modi di interpretare la legge sull’eutanasia potrebbero rendere la questione preoccupantemente scivolosa. Un prigioniero, non terminale ma con sofferenze psicologiche permanenti, rappresenta un caso molto più controverso di quelli ai quali la legislazione belga si è applicata finora (ovvero persone anziane gravemente malate). La decisione medica e legale, che ha sancito che la patologia di Van Der Bleeken è da considerarsi incurabile e irreversibile, non è stata infatti condivisa da tutti. Giustizia: la storia sfacciata di un ricatto indecente di Piero Sansonetti Il Garantista, 19 settembre 2014 Chi sarà il prossimo? Dopo i due esponenti renziani del Pd in corsa per le primarie emiliane, dopo l’amministratore delegato di Eni (nominato dal premier), dopo il padre di Matteo, ora a chi tocca? Gli amici di Renzi non dormono sonno tranquilli in questi giorni. Sanno tutti che o il premier accetterà il diktat dell’Anni e rinuncerà anche alla più blanda riforma della giustizia, o son guai. Naturalmente adesso i magistrati ci spiegheranno come era inevitabile l’avviso di garanzia, come la coincidenza con la battaglia sulla riforma della giustizia è del tutto casuale, così come e casuale la successione degli eventi (avvisi a raffica a tutti agli amici di Renzi, e avvicinandosi sempre di più al bersaglio grosso)... però, insomma, l’ingenuità umana ha un limite, no? Del resto non sono stati proprio i magistrati a prendere in giro l’ex premier Berlusconi che raccontava la panzana di Ruby nipote di Mubarak? Beh, diciamo la verità: è più probabile che Ruby sia non dico nipote ma persino figlia di Mubarak, piuttosto che la clamorosa concatenazione (e tempistica) degli avvisi di garanzia sia una pura coincidenza. Oltretutto, non vorrei "gloriarmi" perché non c’era niente si straordinario nella previsione: però noi del "Garantista" qualche giorno fa, dopo l’avviso a De Scalzi e dopo il minaccioso editoriale sul "Fatto" di Marco Travaglio (che in quell’occasione abbiamo definito il capo dell’ala militare della magistratura), avevamo previsto che nel caso di mancata resa sarebbero arrivato nuovi avvisi di garanzia. Certo, non ci aspettavamo che arrivassero a colpire il padre del premier, ma la fantasia della magistratura, ammettiamolo, è molto grande. E visto che ci piace sbilanciarci nelle previsioni, vi possiamo dire sin d’ora che nei prossimi giorni arriverà un salto di qualità. O si passerà ai primi arresti, oppure si colpirà sempre più vicini a Renzi. È da escludere che l’intimidazione si concluda qui. Che fare? Ci troviamo in una di quelle situazioni nelle quali è difficilissimo indicare la via giusta. Quando un gruppo potente, come è l’ala militare della magistratura, decide di fare la guerra, disponendo dell’enorme potenziale di potere costituito dalle proprie prerogative, e stabilisce che non si ritirerà fino a che non avrà vittoria totale sulla politica, come puoi reagire? Due sole strade: o cedi (e cioè tratti o ti arrendi); o vai alla guerra, rifiuti il negoziato, provi a sopraffare l’avversario e a ribaltare i rapporti di forza. Renzi non ha altre strade. Nel primo caso deve fare ulteriori concessioni ai giudici, e cioè trasformare la sua proposta di riforma all’acqua di rose in una riforma del tutto inesistente. In particolare (era chiaro anche dalla lettura dell’editoriale-diktat di Travaglio) deve rinunciare totalmente ad una nuova disciplina della responsabilità civile dei giudici. Il punto vero è quello, perché su tutto il resto, più o meno, i magistrati hanno già avuto quello che volevano. Ma non accettano che, seppure in forme molto blande, si affermi il principio che loro, come tutti gli altri cittadini, devono rispondere delle colpe commesse nell’esercizio del proprio dovere. È una idea della giustizia uguale per tutti che l’ala dura della magistratura non ha mai digerito. Ha sempre pensato che rendere un giudice uguale agli altri cittadini equivalga a togliergli l’indipendenza assicurata dalla Costituzione. Per i magistrati, in verità, è un punto di principio non l’indipendenza, ma la totale discrezionalità e il potere assoluto della magistratura. E su questo l’Anni non cederà. Renzi invece è pronto a cedere? Temo che l’ultima raffica sparatagli contro, questa che ha ferito addirittura suo padre, avrà i suoi effetti, del resto è difficile rifiutare la resa, o almeno la trattativa, se ti puntano un revolver alla tempia. Se invece Renzi non accetterà di trattare, allora è bene che si spicci. E che renda molto più forte e più efficace la riforma. Deve riuscire a vararla in tempi rapidissimi, necessariamente ricorrendo ai decreti, e a varare una riforma che davvero ponga fine all’onnipotenza della magistratura e metta la società, e anche la politica, al riparo dai soprusi e dagli abusi di potere. E anche dai ricatti indecenti e sfacciati di questi giorni, che mettono fuorigioco la politica. Non c’è altra via. Subito la separazione delle carriere, subito la responsabilità civile, subito la limitazione drastica (drasticissima, se esiste questa parola) delle intercettazioni. Fregandosene delle urla dell’Anni, del "Fatto" e di "Repubblica". Sfidando la casta dei magistrati e dei giornalisti giudiziari. Rischia l’osso del collo, se fa così? Sì, certo che lo rischia ,e se decide di prendere questa strada dimostrerà davvero di essere una persona coraggiosa e un leader vero. Giustizia: nel carcere di Parma vince la legge delle botte di Giovanni Tizian L’Espresso, 19 settembre 2014 A Parma un detenuto ha registrato di nascosto le guardie che parlano di pestaggi in cella: "Ne picchiamo tanti, qui comandiamo noi". Con minacce e intimidazioni, come si evince dalle registrazioni ottenute dall’Espresso. La guardia carceraria si lascia andare: "Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu". Il medico del penitenziario è ancora più esplicito: "Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero. Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no... Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte". Parlano liberamente davanti a un detenuto che protesta per i pestaggi in cella, ignorando che l’uomo li sta registrando. E che adesso quei nastri entreranno a far parte di un processo per capire cosa accada in una delle carceri italiane, più volte condannate dalla Corte europea per il trattamento disumano dei reclusi. Tra pochi giorni a Roma si aprirà il processo d’appello sulla fine di Stefano Cucchi, il giovane stroncato in soli sette giorni di custodia cautelare dopo un arresto per droga. In aula al fianco della famiglia Cucchi ci sarà l’avvocato Fabio Anselmo, che ha condotto una contro-inchiesta sulla morte del giovane romano. E ora il penalista è convinto di potere documentare un altro grave caso di vessazioni in cella grazie ai nastri, rivelati in esclusiva da "l’Espresso". Le registrazioni non sono opera di un Henry Brubaker, il direttore in incognito del film con Robert Redford, ma di un detenuto marocchino condannato a nove anni per violenza sessuale. Rachid Assarag tra il 2010 e il 2011 si trovava nel carcere di Parma. E qui sostiene di essere stato picchiato durante la detenzione. Per documentare le sue accuse, la moglie italiana gli ha consegnato un minuscolo apparecchio audio, che ha usato per incidere le conversazioni con il personale dell’istituto. La magistratura non si è ancora pronunciata: il suo esposto giace da molti mesi sulla scrivania dei pm di Parma. Invece la querela presentata contro di lui da alcune guardie per violenza e oltraggio si è rapidamente trasformata in processo. Ed è proprio questo giudizio che l’avvocato vuole sfruttare per ribaltare la situazione. Le trascrizioni degli audio raccolti all’interno del penitenziario - affidate a una società specializzata che lavora anche per l’autorità giudiziaria - sono impressionanti: presentano uno spaccato di violenza e omertà. Viene proclamata un’unica legge: "Se tu ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male...", spiega un agente. E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: "Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata. Non credo che lei abbia il potere di cambiare niente". Nel penitenziario emiliano sono passati boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, lì si trova pure Marcello Dell’Utri. Provenzano in un colloquio con il figlio aveva accennato a "legnate" inferte in cella, ma un’ispezione del ministero non ha trovato riscontri. Ben diversa la sorte delle accuse mosse da Aldo Cagna, condannato a trent’anni per l’omicidio della sua ex fidanzata. Due agenti gli avrebbero inflitto un supplemento di pena, picchiandolo, schiaffeggiandolo, buttandolo giù dalle scale, gettandogli addosso candeggina. La Cassazione a giugno ha riconosciuto la responsabilità delle guardie, punendole con una sentenza a 14 mesi. Anche Rachid Assarag è dentro per un crimine "da infame": ha stuprato due studentesse ventenni e per questo sarebbe stato picchiato, secondo le regole non scritte del carcere. Lui, straniero e stupratore, con un altro precedente per violenza contro le donne, non si sarebbe dovuto ribellare. L’unica ad ascoltarlo è stata la moglie, una trentenne di Como, che gli ha fatto avere il registratore. Nelle parole degli intercettati si intravede un sistema punitivo parallelo. Per cercare di documentarlo, il detenuto ha spinto gli agenti a parlare: "Sì, sì, va bene: tu sei entrato dopo. Ma io sento la tua mano sulla mia faccia e il tuo piede sulla mia schiena... Perché tutta questa violenza?!". Il funzionario replica laconico: "Perché ti devi comportare bene". Nei nastri si sente il recluso che descrive la chiazza di sangue sul muro della cella: "Va bene assistente, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi? ". "Sì, ho visto", conferma la guardia. Denunciare però è inutile: "Comandiamo noi. Come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici", dichiara un agente: "Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io...". L’avvocato Fabio Anselmo è convinto di potere dimostrare con i nastri il calvario: "Dopo il suo arrivo Rachid viene lasciato per tre giorni senza poter utilizzare l’acqua corrente; di questo parla con un assistente che pur condannando il comportamento tenuto dai colleghi, afferma che non testimonierà mai contro di loro". Neppure il medico è disposto a intervenire: "Se io faccio una cosa del genere oggi, mi complico solo la vita". Nonostante l’assenza di conferme giudiziarie, il legale ritiene che "a Parma i detenuti venivano ciclicamente sottoposti a violenza da parte degli agenti che non ne rispondono mai in quanto coperti da un sistema che intacca le funzioni della custodia e anche della loro cura sanitaria, perché i medici sono costretti a tacere se non vogliono subire ritorsioni". "L’Espresso" ha contattato il direttore dell’epoca, Silvio Di Gregorio, ora responsabile dell’ufficio del personale della polizia penitenziaria, che ha preferito non rilasciare dichiarazioni. I sindacati anche negli scorsi mesi hanno difeso la corretta gestione dell’istituto, chiedendo "alla politica" di prendere posizione in sostegno del difficile lavoro svolto nel penitenziario. Il rappresentante del Sappe ha forti perplessità sul metodo utilizzato dal detenuto nel ricercare le prove: "Mi sembra strano che possa aver registrato, nel carcere non è possibile avere niente di elettrico, non ci sono telefoni", dichiara Errico Maiorisi che si occupa della struttura emiliana. "La denuncia la può fare comunque, si vedrà chi ha ragione e chi ha torto. Poi per carità c’è qualche collega che può sbagliare e il detenuto può denunciare, ma mi sembra strano che si possa registrare". Insomma, le prossime udienze saranno decisive. Per ora è la parola di un detenuto contro quella di un gruppo di agenti. Con in più una manciata di audio. Giustizia. Sappe; confidiamo nella Magistratura perché non abbiamo nulla da nascondere Comunicato stampa, 19 settembre 2014 "Mi sembra davvero singolare che a pochi giorni dall’aperura del processo di appello per la morte di Stefano Cucchi, rispetto al quale i poliziotti penitenziari coinvolti sono stati assolti dall’accusa di pestaggi e lesioni, spunti un nastro su presunte violenze in danno di detenuti nel carcere di Parma. Invito tutti a non trarre affrettate conclusioni prima dei doverosi accertamenti giudiziari. Come mai spunta solo ora, quel nastro registrato non si sa come e non si sa da chi? Come mai non è stato portato subito ai magistrati? Noi confidiamo nella Magistratura perché la Polizia penitenziaria, a Parma come in ogni altro carcere italiano, non ha nulla da nascondere. L’impegno del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, è sempre stato ed è quello di rendere il carcere una "casa di vetro", cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci "chiaro", perché nulla abbiamo da nascondere ed anzi questo permetterà di far apprezzare il prezioso e fondamentale - ma ancora sconosciuto - lavoro svolto quotidianamente - con professionalità, abnegazione e umanità - dalle donne e dagli uomini della Polizia Penitenziaria. Tanto per dire, negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2012, abbiamo salvato la vita, in tutta Italia, ad oltre 17.000 detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 119mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo". Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, commentando le anticipazioni del settimanale L’Espresso domani in edicola. Il primo Sindacato dei Baschi Azzurri torna a sottolineare che "la Polizia Penitenziaria, a Parma e negli oltre 200 penitenziari italiani, è formata da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando centinaia e centinaia suicidi di detenuti. Ripeto, non abbiano nulla da nascondere". Giustizia: Favi (Pd): ascolto e confronto, ma poi riorganizzare il sistema penitenziario www.partitodemocratico.it, 19 settembre 2014 "Chiediamo al Ministro di dare una spinta decisiva alla riorganizzazione del sistema, che passa anche dalla figura e dal progetto di un nuovo Capo del Dipartimento, ma soprattutto da un coerente assetto dell’Amministrazione penitenziaria". Lo ha dichiarato il responsabile nazionale Carceri del Pd. "Ottima l’idea del Ministro Andrea Orlando di convocare una sorta di "Stati generali del sistema penitenziario" aperti alla dirigenza penitenziaria, come alla Polizia penitenziaria, agli educatori ed al volontariato, che potrà consentire di convogliare energie ed idee innovative per una profonda trasformazione delle carceri e dell’esecuzione penale esterna, superando resistenze e rendite di posizione di un apparato ormai anacronistico e sclerotizzato. Crediamo, altresì, che in quella sede sia importante dare uno spazio alla politica che possa impegnarsi nel garantire e stimolare il percorso di rinnovamento". Lo ha dichiarato Sandro Favi, Responsabile nazionale Carceri del Pd. "Chiediamo intanto al Ministro Orlando di dare una spinta decisiva alla riorganizzazione del sistema, che passa sicuramente anche dalla scelta della figura e del progetto di un nuovo Capo del Dipartimento, ma soprattutto da un coerente assetto dell’Amministrazione penitenziaria, al centro come sul territorio, dalla valorizzazione delle professionalità penitenziarie, da una politica delle risorse umane, strumentali e finanziarie funzionale agli obiettivi delineati e volta al recupero di un profilo di civiltà della pena e della dignità del lavoro, sia sul delicato fronte delle carceri che su quello delle misure alternative dirette a favorire il reinserimento sociale". Giustizia: la Camera approva Ddl ratifica trattato Italia-Brasile si trasferimento detenuti Public Policy, 19 settembre 2014 L’aula della Camera ha approvato il disegno di legge di ratifica ed esecuzione del trattato sul trasferimento delle persone condannate tra il governo italiano e quello brasiliano, fatto a Brasilia il 27 marzo 2008. Il ddl di ratifica dovrà adesso essere approvato anche dal Senato. Secondo gli ultimi dati presenti nella relazione illustrativa del ddl di ratifica gli italiani detenuti in Brasile sono 70, mentre i brasiliani detenuti nelle nostre carceri sono 168. Il testo, varato dal governo Letta, rende quindi operativo il trattato firmato ormai sei anni fa tra i due Stati, sui quali pesa il caso dell’ex leader dei "Proletari armati per il comunismo" Cesare Battisti (e della sua estradizione). "Con tale accordo i rapporti italo-brasiliani nel campo della cooperazione giudiziaria penale registrano un notevole passo in avanti - si legge sul sito del ministero della Giustizia - considerato il rinnovato interesse che le parti hanno dimostrato anche in considerazione delle note condizioni di disagio in cui versano i detenuti stranieri negli istituti penitenziari brasiliani". Ma in quali casi potrà essere concesso il trasferimento dei detenuti? Il ministero di via Arenula spiega che il trasferimento dei detenuti potrà avvenire solamente se la sentenza di condanna sia passata in giudicato, se la parte della condanna ancora da espiare sia perlomeno di un anno, se l’infrazione penale che ha dato luogo alla condanna rappresenti un’infrazione penale anche per la legge dello Stato in cui il detenuto deve essere trasferito e se lo Stato di condanna e lo Stato di esecuzione siano d’accordo sul trasferimento. Ogni persona condannata, alla quale può essere applicato il trattato, dovrà dare il consenso al trasferimento volontariamente e con la piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche che ne derivano. Per ottenere il trasferimento, il detenuto dovrà presentare una richiesta scritta alle competenti autorità dello Stato di condanna. "La durata della condanna nello Stato di esecuzione dovrà corrispondere, nei limiti del possibile, a quella indicata nella sentenza emanata nello Stato richiesto - si legge ancora - in ogni caso, essa non potrà superare il massimo della pena prevista per quel reato nello Stato in cui si effettua il trasferimento". Il trattato prevede che le spese di trasferimento dei condannati saranno a carico degli Stati riceventi. Per questo l’Italia, che ha ipotizzato il rientro di 10 connazionali che potranno avvalersi degli accordi, ha previsto uno stanziamento di 31.291 euro annui a decorrere dal 2014 e, per le rimanenti spese, di 6mila euro annui a decorrere dall’anno 2015, tutti provenienti dal programma Fondi di riserva e speciali della missione Fondi da ripartire del Mef. Bueno (Misto): adesso intervenga governo brasiliano "Esprimo tutta la mia soddisfazione per l’approvazione della ratifica ed esecuzione del Trattato sul trasferimento delle persone condannate tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica federativa del Brasile, fatto a Brasilia il 27 marzo 2008 a cui èabbinata anche la mia proposta di legge". Questo è quanto dichiara l’On. Renata Bueno, la parlamentare italo-brasiliana che fin dall’inizio della Legislatura ha più volte sollecitato il Governo italiano per una rapida approvazione del Trattato. "L’approvazione di oggi del DDl di ratifica alla Camera, e spero presto anche al Senato, è sicuramente un passo avanti nei rapporti tra l’Italia e il Brasile. Ma non basta:il mio impegno sarà quello di chiedere al governo brasiliano l’approvazione della Ratifica in tempi celeri, perché sono note le condizioni disumane e intollerabili in cui vivono i tanti detenuti italiani e di altre nazionalità che stanno scontando la pena nelle sovraffollate carceri brasiliane, contrarie al rispetto dei diritti umani" - precisa la Bueno. La deputata ricorda che "i detenuti italiani nelle carceri brasiliane risultano essere attualmente 70, mentre il numero di cittadini brasiliani presenti negli istituti di detenzione italiani a giugno del 2013 era pari a 168". La possibilità di scontare la pena nel Paese di appartenenza potrà generare un risparmio sia allo Stato, sia alle famiglie considerate le gravose spese a cui esse vanno incontro per i viaggi. La Bueno è stata anche relatore in Commissione Esteri della Ratifica Ratifica ed esecuzione dell’Accordo fra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica federativa del Brasile riguardante lo svolgimento di attività lavorativa da parte dei familiari conviventi del personale diplomatico, consolare e tecnico - amministrativo, fatto a Roma l’11 novembre 2008, con Scambio di lettere interpretativo, fatto a Roma il 28 agosto e il 12 ottobre 2012, anche questa appena approvata dall’Aula di Montecitorio. Giustizia: caso Cucchi, al via il processo di appello di Giovanni Tizian L’Espresso, 19 settembre 2014 Nel primo grado di giudizio, per la morte del ragazzo romano sono state assolte le guardie penitenziarie e condannati i medici dell’ospedale in cui fu ricoverato durante la detenzione. Ma in appello l’avvocato della famiglia darà battaglia per chiarire tutti i punti oscuri della vicenda. Chi non ricorda la foto shock del corpo di Stefano Cucchi con il viso tumefatto, con le stimmate di un pestaggio brutale? Il processo di primo grado ha assolto le guardie penitenziarie, ma condannato i medici dell’ospedale dove era stato ricoverato durante le detenzione. In pratica, secondo i giudici, Stefano è stato picchiato a sangue dopo l’arresto per possesso di droga, ma poi sarebbe morto di fame durante il ricovero. Una mezza verità per la sorella Ilaria Cucchi: "Chiediamo che si faccia luce su tutta la vicenda. Era nelle mani dello Stato, e doveva essere tutelato, Stefano è morto di giustizia. Come è stato possibile che durante il processo per direttissima in cui era imputato mio fratello, né i giudici, né il pm, né il cancelliere, si siano accorti delle sue condizioni?". Chi l’ha ridotto in quelle condizioni? Una domanda su cui l’avvocato Fabio Anselmo darà battaglia nel processo di secondo grado che inizierà il 23 settembre. E anche la procura generale ha intenzione di vederci chiaro: ha infatti presentato appello per tutte le accuse, anche quelle di lesioni. Intanto c’è già un colpo di scena: il giudice scelto ha rimesso il mandato. Quel giudice era Giancarlo De Cataldo, l’autore di "Romanzo criminale" e collaboratore de "l’Espresso" che subito dopo il fatto ha scritto parole durissime su l’Unità: "Chissà che da qui, dalle atroci fotografie di quel corpo, non nasca un doveroso ripensamento: collettivo, commosso e trasversale come l’indignazione". Napoli: detenuto affetto da tumore. La moglie: "Lo curano solo con la tachipirina" Il Velino, 19 settembre 2014 La moglie, il fratello e altri congiunti di Luigi Moscato, detenuto nel padiglione San Paolo, hanno manifestato all’esterno del carcere di Poggioreale stamane, assieme ai radicali dell’associazione Per la grande Napoli e a Pietro Ioia, portavoce degli ex detenuti partenopei. Moscato, 55 anni, è in cella da pochi giorni pur essendo sottoposto a trattamento chemioterapico: "Soffre di un tumore al polmone con metastasi sparse", ha spiegato il fratello Francesco, mentre la moglie, Lucia Buccino, ha attaccato il carcere di Poggioreale: "Lo curano solo con la tachipirina", ma anche il Primario dell’ospedale Cardarelli che, inspiegabilmente per i familiari, ha dimesso Luigi Moscato destinandolo alla carcerazione (preventiva). La famiglia chiede che il detenuto sia adeguatamente curato, trasferito ai domiciliari o in una struttura ospedaliera piantonato. "Anche domani ha la chemio e poi tornerà in carcere", hanno aggiunto i familiari che ora temono per la vita di Moscato. Sua moglie ha inoltre minacciato di darsi fuoco all’esterno del carcere se, in tempi rapidi, la situazione non sarà risolta. Presenti per ribadire la loro vicinanza ai malati nelle carceri di Poggioreale e Secondigliano, gli esponenti dei radicali napoletani Luigi Mazzotta e Rosa Criscuolo. Nel corso della manifestazione sono intervenuti anche Pietro Ioia e l’attivista per i diritti dei ristretti, Carmela Esposito. Salerno: Mario Barone (Antigone): nel carcere di Fuorni anche fare la doccia è umiliante www.fanpage.it, 19 settembre 2014 Non è confortante il quadro che emerge dall’ultima visita ispettiva effettuata nel carcere di Fuorni (Salerno) da Antigone Campania con la consigliera regionale del Pd Anna Petrone: detenuti con i solchi della detenzione impressi sul volto, tanti ammalati, difficoltà ad accedere alle cure e ancora sovraffollamento. Nel carcere di Fuorni, a Salerno, il trattamento inumano e degradante è ancora all’ordine del giorno. È quello che emerge dall’ultima visita ispettiva effettuata da Antigone Campania con la consigliera regionale del Pd Anna Petrone: Mario Barone, presidente dell’associazione campana e membro dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione, ha visto con i suoi occhi i segni della detenzione sul volto dei ristretti. E poi le testimonianze, tante, che aprono squarci su vite passate a sopravvivere in cattività. Come quella di N., detenuto ultrasessantenne, diabetico e cardiopatico che ha raccontato di non riuscire ad accedere alle cure in maniera regolare, tanto da essere preoccupato per la sua stessa vita: "Ho sbagliato e debbo pagare - ha detto - ma non merito questo come persona". "Vorrei che al Consiglio d’Europa, che ancora vigila sul nostro Paese per la vicenda Torreggiani, arrivassero testimonianze del genere" denuncia Barone, che sta visitando con la consigliera Pd i quattro istituti salernitani: Fuorni, Vallo della Lucania, Sala Consilina, Eboli. "Istituti cosiddetti minori - spiega il presidente di Antigone Campania. Noi pensiamo che l’osservatorio di Antigone, insieme al sindacato ispettivo della consigliera, possano offrire un quadro chiaro dei problemi che affliggono la popolazione ristretta nelle strutture". Un quadro che si arricchisce di nuovi tasselli, volta per volta, anche attraverso le testimonianze. Alcune di esse fanno gelare il sangue, come quella del detenuto costretto in una cella con altre sei persone, che mostra senza problemi come si "inventa" una doccia: in piedi sulla tazza del gabinetto. Qual è la situazione nel carcere di Fuorni? Il termometro della vivibilità è dato dal viso dei detenuti: ho visto i solchi della detenzione. In recenti visite a carceri equiparabili a Fuorni, per dimensione e presenze, non ho raccolto gli stessi elementi. Poi tanta rabbia: i detenuti della prima sezione hanno di recente messo in atto una protesta, nella forma dello sciopero della fame. Quante persone sono presenti all’interno della struttura e quante ve ne potrebbero essere? Il carcere sembra formalmente rispettare il parametro dei 3 mq per detenuto, ma nella sostanza non è conforme ai parametri europei. In una cella abbiamo trovato sette detenuti: tra mobilio, letti, tavolo e sedie non c’era quasi spazio per muoversi. Ci hanno mostrato come facevano la doccia in cella: il detenuto si mette in piedi sulla tazza del gabinetto e si versa l’acqua in testa con una brocca: in questo modo, l’acqua di scolo va via attraverso lo scarico. Tutto questo è umiliante. Quali sono i problemi principali che il sovraffollamento porta con sé? Innanzitutto, problemi di vivibilità all’interno della cella: si provi ad immaginare un solo bagno per 7-8 persone, peraltro allocato nello stesso spazio destinato al cucinotto e alle pentole. Ma anche maggiori difficoltà ad accedere ai servizi che l’amministrazione deve rendere al detenuto, come fare un telegramma o chiedere un colloquio. Ci sono ammalati o persone che sono incompatibili con la detenzione? Tutti i detenuti con cui abbiamo parlato a Fuorni hanno manifestato difficoltà ad accedere alle cure e alle visite specialistiche: sembrava un mantra. Antigone ha già chiesto alla consigliera Anna Petrone di valutare la presentazione di un’interrogazione consiliare in merito. Lei ha raccolto testimonianze particolari? Se sì, quali? N. detenuto ultrasessantenne, ci ha raccontato di cumulare diverse patologie: diabete, cardiopatia e vascolopatia periferica. Ha poi raccontato di non accedere con regolarità alle terapie; ritiene che il servizio infermieristico non è tale da tutelare la salute. Era preoccupato per la sua stessa vita: commosso ci ha detto: "Ho sbagliato e debbo pagare, ma non merito questo come persona". Vorrei che al Consiglio d’Europa, che ancora vigila sul nostro Paese per la vicenda Torreggiani, arrivassero testimonianze del genere. Quali altri problemi ha riscontrato all’interno della struttura? Mancanza di attività di socialità: l’interno budget a disposizione dell’istituto ammonta a € 2.500. Un importo che non ha bisogno di commenti. Quali saranno, ora, i prossimi passi? Dopo questo viaggio nel salernitano, torneremo a Poggioreale: nel corso dell’ultima visita (Luglio 2013) lasciammo un carcere con quasi tremila detenuti. Per anni abbiamo speso energie enormi per denunciare le condizioni di degradante sovraffollamento del carcere napoletano: ritrovarlo con numeri più umani sarebbe il migliore riconoscimento del nostro lavoro. Reggio Calabria: lo strano "garantismo" della gogna mediatica dalla Camera Penale Gaetano Sardiello Ristretti Orizzonti, 19 settembre 2014 Il riconoscimento giurisdizionale della gogna mediatica quale causa di esclusione delle esigenze cautelari è l’ultimo tema che la giurisprudenza, e la triste realtà sociale, ci consegna. La motivazione del Tribunale di Reggio Calabria, che riprende un orientamento della Suprema Corte in materia di concorso esterno, individua tra le cause di esclusione del pericolo di reiterazione del reato anche la rilevanza mediatica data all’arresto ed all’indagine, ritenuta circostanza che esclude che l’avvocato "attenzionato" e "bruciato" possa tornare a porsi al servizio delle cosche nella propria attività difensiva. È chiaro che si tratta pur sempre di un orientamento favorevole agli indagati, certamente non ci si può lamentare della scarcerazione fondata sulla inutilità sopravvenuta della custodia cautelare (magari i provvedimenti fossero sempre di tale natura). Né ha senso sottilizzare sulle singole parole della motivazione, sulla loro "crudezza" o sulla correttezza giuridica con riferimento al caso concreto (si fa riferimento all’avvenuto "arresto" come ragione del clamore mediatico e della inutilità della prosecuzione della carcerazione), ciò che conta è un dato: si riconosce la gogna mediatica quale normale causa di inflizioni e sofferenze, quale fenomeno scontato e accettato che paradossalmente, in quanto provoca effetti sull’individuo alla stessa stregua e d anche superiori a quelli della misura cautelare in carcere, rende superflua quest’ultima. Fin dal giorno dell’arresto dei tre professionisti (la misura ha riguardato anche un commercialista) la Camera Penale di Reggio Calabria ha sottolineato come la diffusione di intercettazioni su internet abbia creato un linciaggio mediatico a livello locale, denunciando pubblicamente l’insopportabilità di una pubblica condanna anticipata. Viene da chiedersi, a questo punto, continuando a fare ironia alla luce della decisione del Tribunale, se siamo di fronte ad una nuova sanzione, ad una atipica misura cautelare o preventiva che, pur non riconosciuta dal legislatore, abbia ormai una legittimazione nella prassi. Estremizzando il concetto fino al paradosso si potrebbe propendere per una riforma della giustizia che sostituisca il carcere con la denigrazione pubblica (soprattutto nel caso la misura riguardi i professionisti), ciò in effetti consentirebbe di rendere i processi più celeri ed eliminare il carico di lavoro nei Tribunali. Peccato non averci pensato prima. A ben riflettere l’effetto mediatico ben conosciuto dagli inquirenti che lo hanno in questi anni largamente sfruttato per anticipare condanne sui mass-media, magari sta iniziando una nuova stagione, quella del garantismo mediatico, prima si distrugge l’immagine dell’indagato, così facendo lo si salva dalla protrazione della carcerazione. La Camera Penale di Reggio Calabria ritiene che l’orientamento giurisprudenziale riportato possa costituire oggetto di dibattito e approfondimento sul tema generale dello stato attuale della giustizia e della tutela delle garanzie in occasione del Congresso di Venezia. Cremona: detenuti come imbianchini, ridipinta la scuola don Primo Mazzolari La Provincia di Cremona, 19 settembre 2014 La scuola sa attrarre, sa convogliare energie positive, sa motivare e fa della voglia di fare la sua forza propulsiva. Così, la necessità di ridare una rinfrescata alle aule della scuola don Primo Mazzolari è diventata un momento di reinserimento nella società civile per alcuni detenuti del carcere. Prima dell’inizio dell’anno scolastico, quattro detenuti di Cà del Ferro, grazie alla disponibilità della direzione e del personale della casa circondariale, in ottemperanza al progetto San Camillo hanno donato una settimana del loro tempo per dipingere tutto il piano terra della scuola, dimostrando cortesia e professionalità. "Ora i bambini possono beneficiare di un ambiente più decoroso e sano - afferma il neo dirigente dell’istituto comprensivo Cremona Quattro, Barbara Azzali. Per questo mi pare più che doveroso ringraziare insieme al personale di tutta la scuola i detenuti che hanno ridipinto il piano terra della don Primo Mazzolari e con loro la disponibilità dell’amministrazione carceraria e del personale". Anche in questo modo si riesce ad ovviare al taglio di risorse, male cronico della scuola. Torino: Corsi universitari in videoconferenza per detenuti carcere "Lo Russo e Cutugno" Agi, 19 settembre 2014 La casa circondariale "Lo Russo e Cutugno" di Torino, sarà il primo carcere italiano a istituire i corsi universitari in videoconferenza per i propri detenuti. Lo ha annunciato oggi il direttore Domenico Minervini al presidente del Consiglio regionale del Piemonte Mauro Laus, che ha visitato la struttura accompagnato dal Garante piemontese per le carceri Bruno Mellano, in occasione dell’incontro tra i detenuti che frequentano il Polo universitario delle Vallette e Mina Welby. "Se fino a ora i docenti venivano sempre fisicamente a tenere lezione presso la nostra struttura, - ha spiegato il direttore della struttura - ci stiamo attrezzando con tutti gli strumenti necessari a svolgere le lezioni in videoconferenza. È un progetto pilota unico in Italia, che tra l’altro abbatte drasticamente i costi e può permetterci di ampliare l’offerta di istruzione". Santa Maria Capua Vetere (Ce): detenuto ex pugile pesta un agente penitenziario La Repubblica, 19 settembre 2014 Un agente di polizia penitenziaria è stato aggredito nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), secondo quanto rende noto Donato Capece, segretario generale del Sappe. L’agente, "è stato picchiato violentemente da un detenuto romano, un ex pugile detenuto per traffico di droga e lesioni che ha improvvisamente dato in escandescenza e ha massacrato l’assistente Capo della Polizia Penitenziaria". "Eventi del genere sono sempre più all’ordine del giorno e a rimetterci è sempre e solo il personale di Polizia Penitenziaria - spiega - tanto più che il detenuto in questione si è già reso protagonista in passato di altre aggressioni violente ad altri detenuti. Il Sappe esprime solidarietà al collega coinvolto e augura una veloce ripresa e ritorno in servizio. Queste aggressioni sono intollerabili e meriterebbero risposte immediate, come l’allontanamento del detenuto in un altro carcere e un lungo periodo di isolamento: invece, è sempre lì. Noi non siamo carne da macello ed anche la nostra pazienza ha un limite". "La situazione, a Santa Maria Capua Vetere e nelle carceri italiane, resta grave e questo determina difficili, pericolose e stressanti condizioni di lavoro per gli agenti di Polizia Penitenziaria - prosegue - Al 31 agosto scorso, c’erano in Italia complessivamente circa 54.500 detenuti: in Campania erano oltre 7.200 e a Santa Maria oltre 1.050. La cosa assurda e vergognosa è che, in base alla legge voluta dal Governo Renzi e recentemente approvata dal Parlamento per pagare l’indennizzo economico ai detenuti che si sono trovati in celle sovraffollate, anche che il responsabile di questa aggressione percepirà i soldi per la sua permanenza in carcere! Lo Stato taglia le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria, in particolare, e poi prevede un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate e che aggrediscono i nostri Agenti". "A noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le ha infranto e le infrange. Mi sembra davvero una cosa pazzesca". Biella: detenuto marocchino picchia gli agenti inneggiando ai terroristi dell’Isis www.laprovinciadibiella.it, 19 settembre 2014 C’è un risvolto inquietante nell’ennesima aggressione avvenuta nel carcere in via dei Tigli di Biella. Il detenuto che ha ferito tre agenti della Polizia Penitenziaria ha agito inneggiando ai terroristi dell’Isis. Gli agenti, ricordiamo, sono finiti all’ospedale con diverse escoriazioni e lividi. Forse si tratta solo di un mitomane. C’è però anche la paura che il fanatismo religioso possa dilagare a macchia d’olio, soprattutto in luoghi come le carceri. Il detenuto, di origine marocchina, dopo aver rotto una delle finestre della sua cella l’uomo, si è accanito sugli operatori del penitenziario che lo stavano trasferendo in un altro reparto, ferendoli. Non contento, una volta giunto al settore di destinazione, il magrebino ha tirato una testata sul naso a un sovrintendente che stava cercando di tranquillizzarlo e tentava di farlo ragionare. Poi è stato chiuso nella nuova cella dove, invece di scendere a più miti consigli, ha dato ancor più in escandescenza: ha afferrato delle componenti in metallo e, utilizzandola come arma, ha rotto un’altra finestra. A questo punto gli agenti si sono nuovamente dovuti recare all’interno della cella per riuscire a disarmare l’uomo, che cercava di colpire chiunque provasse ad avvicinarsi. Questa volta ha colpito ancora il sovrintendente al volto e più precisamente sulla fronte, mentre altri agenti sono stati malmenati. Il detenuto, infatti, li ha presi a calci e pugni. Quando i poliziotti della penitenziaria sono riusciti a immobilizzare l’uomo, il magrebino si è finalmente calmato. Gli agenti feriti sono stati subito trasportati al pronto soccorso dell’ospedale "Degli Infermi di Biella", dove sono stati sottoposti ad alcuni accertamenti radiologici. Fortunatamente, le radiografie e le lastre effettuate hanno stabilito che non vi erano gravi fratture. Le prognosi per tutti e tre sono di pochi giorni. Alla fine nei confronti dell’uomo è scattata la denuncia per resistenza, lesioni, minacce, danneggiamento, violenza e interruzione di pubblico servizio. Inoltre, oltre a minacciare gli agenti, durante l’aggressione inneggiava all’Isis. Sembra che il detenuto nordafricano abbia creato problemi di questo genere anche in altri penitenziari. Ascoli Piceno: carcere e informazione, a Grottammare "La Carta di Milano e il peso delle parole" da Ufficio Stampa Comune di Grottammare Ristretti Orizzonti, 19 settembre 2014 Il Comune ospita un corso di formazione per giornalisti dedicato ai temi della detenzione. L’informazione che entra nel carcere. La cronaca che rispetta gli errori, l’espiazione e la rinascita sociale. Questi i contenuti del primo incontro formativo destinato agli operatori dell’informazione sui temi della detenzione, organizzato dall’Ordine regionale dei giornalisti, con la collaborazione del Coordinamento Giornali dal Carcere delle Marche, in programma sabato 20 settembre presso la sala consiliare del Comune di Grottammare. I lavori della giornata, dal titolo "La Carta di Milano e il peso delle parole", avranno inizio alle 9.30 e si concluderanno alle 17. Il corso è patrocinato dalla Città di Grottammare e vedrà la presenza del magistrato di Sorveglianza Filippo Scapellato, della direttrice del carcere di Fermo, Eleonora Consoli, del sostituto procuratore Ettore Picardi, della giornalista Carla Chiappini, tra gli autori della Carta di Milano, e del presidente dell’Ordine dei giornalisti delle Marche, Dario Gattafoni. È prevista anche la testimonianza di un ex detenuto del carcere di Ascoli Piceno. Il corso sarà moderato dalla giornalista Teresa Valiani, direttore di Io e Caino, il giornale del carcere di Ascoli Piceno, accreditato tra le testate del Coordinamento Giornali dal carcere delle Marche. Al centro della giornata formativa i meccanismi che regolano la detenzione in Italia, dal momento dell’arresto alla concessione delle misure alternative al carcere, all’importanza e al peso di una corretta informazione nel delicato momento del reinserimento dei detenuti. Ai partecipanti saranno assegnati sei crediti. "Grottammare è onorata di poter ospitare questa esperienza formativa - così il sindaco Enrico Piergallini nel commentare l’iniziativa. La Carta di Milano è uno strumento che affronta argomenti fondamentali, il primo dei quali è il rapporto tra informazione, verità e rispetto delle persone. In una società che viene profondamente plasmata dai mezzi di comunicazione, essere consapevoli che il danno che le parole sbagliate possono provocare alla vita delle persone coinvolte è il primo dovere dell’onesta informazione. La riflessione potrebbe ampliarsi fino al rapporto più generale tra la giustizia e l’informazione, un nodo che deve essere sciolto, considerata soprattutto la frequenza quasi ossessiva dei ‘processi mediatici’". Caserta: l’On. Camilla Sgambato (Pd) visiterà le carceri "più attenzione ai figli dei detenuti" www.interno18.it, 19 settembre 2014 "Il valore rieducativo della pena non può rimanere solo una affermazione di principio ma va declinato, nei fatti, con una più accorta organizzazione dello stato delle carceri: il mondo della detenzione non può restare relegato ai margini della nostra società". Così la deputata del Partito Democratico Camilla Sgambato a margine di un incontro avvenuto questa mattina con i vertici del ministero della Giustizia. "Ho intenzione di visitare le strutture detentive della provincia di Caserta per rendermi conto personalmente delle difficoltà quotidiane con cui deve convivere ogni giorno chi lavora e chi è detenuto. L’incontro di questa mattina mi ha confermato che il Governo Renzi, attraverso il ministro Andrea Orlando, sta lavorando seriamente per migliorare lo stato delle carceri italiane. Per parte mia, prendendo spunto dalla Carta dei ?gli dei genitori detenuti, da poco attivata dal Governo, ho chiesto attenzione per il ruolo genitoriale dei detenuti, per l’accoglienza dei familiari ed in particolare dei figli minori, per progetti, insomma, che possano tutelare gli aspetti relazionali e familiari dei detenuti. Penso ad esempio a spazi adeguati in cui accogliere i bambini figli di detenute o detenuti. Anche da qui, infatti - conclude la parlamentare, passa un corretto processo di reinserimento sociale che è punto fondamentale di quella rieducazione della pena che è alla base del nostro sistema". Bologna: inaugurata mostra itinerante "Cucinare in massima sicurezza", da un libro di Matteo Guidi di Elisa Poli Donne-Repubblica, 19 settembre 2014 Appuntamento il 19 settembre a Bologna per scoprire cosa vuol dire cucinare in cella con strumenti ricavati da oggetti, materie prime limitate e il ricordo del rapporto col cibo precedente alla reclusione. In occasione di Artelibro, festival del libro e della storia dell’arte, (galleria +) oltredimore a Bologna (via Del Porto 48 a/b, www.oltredimore.it) ospita la mostra itinerante "Cucinare in massima sicurezza", da un libro di Matteo Guidi ("Cucinare in massima sicurezza", edito da Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, www.stampalternativa.it), con disegni di Mario Trudu e a cura di Gino Gianuizzi. La mostra raccoglie le tavole originali dei disegni, realizzati a penna a sfera nera su carta da Mario Trudu mentre si trovava detenuto nella Casa di Reclusione di Spoleto e che oggi si trova nella sezione di Alta Sicurezza del carcere di San Gimignano, e alcuni materiali inediti sul lavoro svolto da Matteo Guidi, artista con formazione in etno-antropologia. Il libro di Matteo Guidi non è semplice ricettario di cucina, ma è stato ideato e scritto con persone detenute nelle sezioni di Alta Sicurezza delle carceri italiane, spiegando i metodi usati nelle celle per cucinare con le poche risorse disponibili, raccontando la vita in prigione e il trascorrere del tempo all’interno del carcere. In ogni ricetta, prima ancora della lista degli ingredienti, c’è quella degli strumenti per realizzarla. Gli utensili da cucina, che nei ricettari sono solitamente omessi, sono il filo conduttore dell’intero lavoro, e ne viene descritta anche la costruzione: un manico di scopa diventa matterello, i lacci delle scarpe legano la pancetta arrotolata per la stagionatura, un televisore facilita la lievitazione del pane o della pizza, l’armadietto o lo sgabello sono trasformati in un forno. Per mostrare meglio cosa vuol dire cucinare in carcere, e parlarne, (galleria +) oltredimore organizza un incontro con talk il 19 settembre 2014 dalle 18 e una serata d’autore il 20 settembre con apertura speciale fino alle 22.30. La mostra "Cucinare in massima sicurezza" rimarrà poi aperta fino al 27 settembre 2014. Abbiamo chiesto all’autore Matteo Guidi di raccontarci qualcosa in più su questo interessante progetto. Come nasce questo lavoro? Nasce prima di tutto da una serie di laboratori di comunicazione visiva organizzati da due cooperative di Perugia che si occupano di progetti di comunicazione pubblica e sociale, aprendosi anche ad altri ambiti come quelli dell’antropologia e delle arti visive. La vera anima di tutto, però, sono soprattutto le persone coinvolte, gli stessi detenuti del carcere di Spoleto, che hanno saputo discutere sul modo migliore di comunicare la vita in carcere senza essere retorici o ridondanti. In particolare Piero Melis, uno dei detenuti, mi raccontò il procedimento di realizzazione del pane in cella, davvero sorprendente per certi versi, come il fatto di far lievitare il pane sopra il televisore acceso. Da lì ci è venuto in mente che potevamo spiegare attraverso un elemento quotidiano come quello del cibarsi, particolari ironici e nello stesso tempo amari che portano a riflettere su, e conoscere meglio, la condizione delle carceri. Cucinare in massima sicurezza Come cambia il rapporto con il cibo all’interno di un carcere? Questa sarebbe una domanda da rivolgere ad un detenuto, ma posso dirvi che si tratta di un rapporto estremamente personale. Non si può generalizzare ma la maggior parte dei detenuti cerca di ricreare giorno per giorno pietanze che li fanno sentire bene, come a casa propria. È una relazione collegata anche a una ricerca diretta non solo delle materie prime ma anche dei macchinari per realizzare le ricette. Sembra un rapporto meno scontato di quello che possiamo avere noi all’esterno. Qual è l’accorgimento-invenzione più sorprendente che ha scoperto vivendo a contatto con i carcerati? La caffettiera è uno degli strumenti più multi-tasking, quasi come coltellino svizzero. Tra i suoi milleusi c’è quello di schiacciare pinoli o patate, passare il pomodoro, piantare un chiodo (se lo si trova), stirare un colletto, aprire una noce… L’invenzione più divertente è quella dello spaghettone infinito: all’interno di una bottiglia di plastica si inserisce la pasta fatta in casa, e da un piccolo foro realizzato sul tappo chiuso, esce schiacciando uno spaghetto lunghissimo. Cosa può imparare una persona "libera" sul rapporto col cibo da chi invece è recluso? Penso che possa imparare ad apprezzarlo, soprattutto a indagare la sua relazione col tempo e la ricerca del gusto a partire da materie prime non sempre di ottima qualità. Chi è recluso, poi, sviluppa moltissimo il senso del ricordo legato ad una determinata pietanza e spesso la volontà di "riconquistare" un certo tipo di alimentazione, senza accettare passivamente quello che gli viene dato. Sta già lavorando a un nuovo progetto? Sto lavorando a diversi progetti, intanto sto riproponendo "Cucinare in massima sicurezza" in Spagna, dove vivo. Si tratta di una trasposizione complicata, perché al momento in Spagna non è permesso cucinare in cella. Per questo sto pensando di lavorare sulla "cucina immaginaria", cioè sulla possibilità di dare una serie di consigli e regole senza poterli mettere in pratica personalmente, oppure sulla trasformazione di cibi già preparati. Aosta: "Plaisirs de culture en Vallée d’Aoste", esauriti posti per lo spettacolo dei detenuti di Agostino Borio Ansa, 19 settembre 2014 Sono stati esauriti in due giorni di prenotazione (martedì 16 e mercoledì 17 settembre) i posti per lo spettacolo inaugurale di "Plaisirs de culture en Vallée d’Aoste" in programma domani, venerdì 19 settembre alle 19 nel criptoportico. Si tratta della rappresentazione teatrale "Nessuno - azione teatrale rinchiusa per riconsiderare il viaggio" con i detenuti della Casa Circondariale di Brissogne. La rappresentazione sarà preceduta alle 18,30 dall’inaugurazione della rassegna. Per tutta la durata di "Plaisirs de Culture en Vallée d’Aoste", da sabato prossimo 20 a domenica 28 settembre prossimo, l’entrata alle mostre organizzate dall’Assessorato regionale dell’Istruzione e Cultura così come a tutti i castelli e siti archeologici della Regione è gratuita. Saranno pertanto visitabili liberamente, nei consueti orari, i castelli di Fénis Issogne, Sarre, Verrès, Castel Savoia di Gressoney-Saint-Jean, Sarriod de La Tour di Saint-Pierre e Castello Gamba di Châtillon, le mostre "Una stagione informale. Capolavori della collezione Reverberi", al MAR- Museo Archeologico Regionale, "Gian Paolo Barbieri. La seduzione della moda" al Centro Saint-Bénin e "Augusta Prætoria. Disegni di Francesco Corni" nella sede espositiva all’Hôtel des États. Per quanto riguarda i siti archeologici, resteranno aperti con i consueti orari il Criptoportico forense, gli scavi archeologici della Chiesa di San Lorenzo, il Mar e il Teatro romano mentre la Villa romana della Consolata effettuerà l’orario prolungato dal lunedì al venerdì 9.00-12.30, sabato e domenica 9.00-12.30 e 14.00-18.00 e l’Area funeraria Fuori Porta Decumana sarà visitabile con prenotazione obbligatoria entro l’ora precedente al n. 0165.275911, tutti i giorni dalle 14.00 alle 17.00. "Plaisirs de Culture en Vallée d’Aoste" offre inoltre al pubblico un’ulteriore occasione per visitare il Pont d’Aël: nel primo fine settimana della rassegna culturale, sabato prossimo 20 e domenica prossima 21 settembre, il ponte-acquedotto di età augustea sarà visitabile liberamente con l’apertura del suo passaggio coperto dalle 10 alle 12 e dalle 14.30 alle 17.30, mentre nel secondo fine settimana, sabato 27 e domenica 28 settembre prossimi , saranno organizzate delle visite guidate gratuite dalle 10 alle 13 e dalle 14.30 alle 17.30, con prenotazione obbligatoria al numero verde 800110051 (dal martedì alla domenica 10-18). Immigrazione: nei lager Cie, ma solo per 90 giorni. La proposta di Luigi Manconi approvata al Senato di Damiano Aliprandi Il Garantista, 19 settembre 2014 Ora i migranti possono essere reclusi, perché di reclusione si tratta, anche fino a 18 mesi. Attesa per il voto finale della Camera. C’è una piccola speranza per alleggerire il peso della detenzione nei Centri di identificazione ed espulsione. Il Senato ha infatti dato il via libera al un emendamento alla legge europea a firma di Luigi Manconi e Sergio Lo Giudice per accorciare i tempi di permanenza degli stranieri in queste strutture, fissando il tetto massimo a 90 giorni. Una drastica riduzione, se si considera che attualmente è possibile restare richiusi tra le mura di un Cie fino a 18 mesi. Il provvedimento va anche incontro a uno dei sei referendum presentati dai Radicali nel 2013 - poi bocciati a causa del mancato raggiungimento delle firme necessarie - il quale poneva il tema della riduzione dell’intrattenimento e l’abolizione di quelle norme che incidono sulla clandestinizzazione e precarizzazione dei migranti. La riduzione a 90 giorni della permanenza nei Cie dovrà passare anche al vaglio della Camera dei deputati. L’estensione dei termini a 18 mesi era stata voluta fortemente nel 2011 Roberto Maroni, all’epoca ministro dell’Interno, del governo Berlusconi. Era l’ennesimo periodo emergenzialista e securitario, e l’effetto è stato disastroso perché ha creato enormi tensioni all’interno dei Cie. Tensioni che portano a delle vere e proprie rivolte. L’ultima il 4 settembre scorso al Cie di Ponte Galeria, alle porte della Capitale. Alcuni dei migranti presenti hanno dato fuoco a materassi sprigionando del fumo e gli agenti antisommossa sono intervenuti per sedare la rivolta. Il motivo della protesta è il lungo periodo di permanenza cui sarebbero costretti i migranti e dalle condizioni disagevoli del centro. Già nei giorni antecedenti ai fatti, il Garante per i detenuti del Lazio Angiolo Marroni aveva denunciato la situazione di estrema tensione nel centro, dove un irregolare recluso era in sciopero della fame e parziale sciopero della sete da due settimane. Si tratta di un cittadino di origine nigeriana, trattenuto al Centro di identificazione dallo scorso 13 giugno, che avrebbe già perso 14 kg. L’uomo, D.M., ha una moglie e due figli minori regolarmente residenti in Francia, ed ha avviato la sua protesta perché intende ricongiungersi con la propria famiglia. Ma cosa sono i Cie? Per molte associazioni e movimenti sensibili al tema dell’immigrazione, sono considerati dei veri e proprio lager. L’organizzazione indipendente e umanitaria "Medici per i diritti umani" ha condotto, nel 2013, un importante indagine entrando in tutti i centri di espulsione e ha stilato un dossier dettagliato. La ricerca si chiama "Arcipelago Cie. Indagine sui centri di identificazione ed espulsione", pubblicata da Infinito Edizioni e realizzata con il supporto di Open Society Foundation. L’indagine si è svolta nell’arco di un anno, da febbraio 2012 a febbraio 2013, e si è articolata in quattordici visite agli undici Cie operativi sul territorio italiano. Altri due centri, quello di Brindisi e il Serraino Vulpitta di Trapani, non sono stati visitati perché chiusi per ristrutturazione. A quindici anni dalla loro istituzione, prima come Cpt e poi trasformati in Cie, queste strutture vengono bocciate su tutta la linea. L’opacità che circonda queste strutture si manifesta nelle molte restrizioni all’accesso e nel fatto grave che, scrivono gli autori, "nel corso dell’intera indagine non è stato inoltre possibile conoscere dalle Prefetture i costi complessivi dei singoli Cie". Dal punto di vista della struttura, i migranti sono ristretti in recinti simili a grandi gabbie, con spazi di dimensioni inadeguate ed eccessivamente oppressivi. In alcuni centri i migranti sono confinati in differenti settori permanentemente isolati tra di loro. Questo, sempre secondo i medici per i diritti umani "ha reso le condizioni di reclusione ancora più umilianti e afflittive". La conclusione della ricerca sul campo è che tali strutture sono "del tutto inadeguate a garantire condizioni di permanenza dignitose ai migranti trattenuti". Dormitori, mense, servizi igienici, sale ricreative, niente di quello che c’è in un Cie rispetta gli standard minimi di qualità, o come affermano gli autori del rapporto, "apparivano in uno stato di manutenzione inadeguato e in condizioni di pulizia spesso insufficienti". Particolarmente grave la situazione dei settori maschili di Roma e Bologna, dove "i blocchi alloggiativi si presentavano in condizioni del tutto fatiscenti e, nel caso di Bologna, erano addirittura assenti i requisiti minimi di vivibilità". Inoltre gli autori del dossier hanno rilevato l’assenza del servizio sanitario nazionale all’interno dei centri e gli ostacoli rilevanti nell’accesso alle cure specialistiche e agli approfondimenti diagnostici. Il dossier conclude chiedendo la chiusura di tutti i Cie presenti in Italia in ragione della loro palese inadeguatezza strutturale e funzionale, ridurre a misura eccezionale, o comunque del tutto residuale, il trattamento dello straniero ai fini del suo rimpatrio e il rispetto della normativa europea che obbliga il nostro Paese ad utilizzare il metodo di coercizione come estrema ratio ai fini del suo rimpatrio. I Cie sono istituzioni totali, adibiti a carceri di passaggio dove agli immigrati sono sospesi tutti i diritti fondamentali. Il provvedimento di Manconi, se diventerà legge, sarà comunque un bel passo in avanti. Droghe: liberalizzare, una grande riforma di Roberto Saviano L’Espresso, 19 settembre 2014 Affrontare l’emergenza droghe solo con politiche repressive provoca disastri. E le grandi organizzazioni criminali continuano a prosperare. È arrivato il momento di battersi per la legalizzazione. L’8 luglio 2014, l’ex-segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ha pubblicato un articolo interessantissimo su Project Syndicate (www.project-syndicate.org/), articolo tradotto e pubblicato in Italia sul sito www.aduc.it. Articolo che consiglio a tutti di cercare e leggere. Lo consiglio a genitori, a insegnanti, lo consiglio a medici. Lo consiglio a chiunque voglia capire quali siano i danni che il proibizionismo in materia di droghe sta continuando a fare in rutto il mondo. Lo consiglio ai politici, perché si rendano conto che le obiezioni di coscienza personali, le opinioni del singolo, talvolta, scontano una miopia o una mancanza di conoscenze specifiche che non consentono di prendere le decisioni giuste al momento giusto. L’articolo di Kofi Annan descrive in maniera semplice ma dettagliata cosa accade quando un territorio inizia a diventare luogo di transito per il traffico di droghe. Accade che l’economia illegale diventi preponderante rispetto a quella legale, con effetti nefasti e irreversibili sulla tenuta democratica di aree vastissime. Kofi Annan inizia con un dato: se nel Regno Unito il mercato illegale di droga muove 7.600 milioni di dollari, immaginiamo quale possa essere l’impatto di un tale giro di affari su economie di regioni come quelle dell’Africa Occidentale, economie fragili e poco attrezzate. L’Africa Occidentale è di fatto un corridoio, un luogo di transito per le sostanze stupefacenti dai luoghi di produzione, America Latina e Asia, ai luoghi di consumo, Europa e Stati Uniti. Ma, come insegna l’esperienza del Centroamerica, dove arrivano ingenti quantità di droga tutto cambia. Gli affari connessi al traffico sono immensi e tali da destabilizzare intere aree. Da luogo di transito si diventa produttori e consumatori, la violenza diventa impossibile da tenere sotto controllo e le risorse vengono unicamente orientate verso la microcriminalità, in una strenua volontà di repressione, che non tiene conto dei grossi trafficanti,ma solo dei "pesci piccoli" e che criminalizza anche i tossicodipendenti nei cui cofronti vengono applicate le stesse leggi che colpiscono i piccoli spacciatori, posto che spesso si tratta delle stesse persone. L’affresco che Annan fa della situazione in Africa Occidentale è tanto più interessante perché non si tratta di una mera elencazione di dati, ma delinea scenari e propone soluzioni. Lo scenario è quello che noi in Italia conosciamo bene per averlo vissuto negli anni Ottanta. Sappiamo cosa significhi non essere preparati all’emergenza droghe come consumo e sappiamo cosa significhi in termini di perdite di vite e di democrazia affrontare l’emergenza droghe unicamente in maniera repressiva. Conosciamo l’impatto nefasto sul nostro sistema carcerario, sulla Giustizia e sulle famiglie. Sappiamo, e dovremmo quindi aver da tempo compreso, che la repressione, la proibizione, non sono la strada giusta. Non lo sono state in Italia, non lo sono state in America Latina e non lo saranno in Africa Occidentale. Ma c’è una cosa che come italiano ferisce: sapere che pochi Paesi come i 1 nostro avrebbero competenze e possibilità di attuare politiche differenti. Potrebbe l’Italia essere all’avanguardia nella lotta alla criminalità organizzata e al suo segmento più redditizio che è il traffico di droghe in maniera costruttiva, comprendendo - con ritardo - che le politiche repressive sono state esse stesse terreno ferrile per la crescita esponenziale degli affari dei cartelli criminali. E allora la mia esortazione: in un Paese in cui manca la forza e le risorse per portare a compimento le tante riforme strutturali necessarie e fondamentali, che almeno si inizi con altre, altrettanto fondamentali e strutturali che in più sarebbero praticamente a costo zero. Che almeno questo Governo - come è accaduto per certi versi in Spagna con Zapatero - si distingua per il riconoscimento di quei diritti civili e di quelle legalizzazioni che renderebbero la vita degli Italiani migliori e che avrebbero nel breve periodo ripercussioni positive anche sull’economia del nostro Paese. Per completezza, vale la pena ricordare che ogni lunedì Roberto Spagnoli su Radio Radicale nella sua "Nota antiproibizionista" affronta questi temi. Ne consiglio l’ascolto perché per deliberare è necessario conoscere. Droghe: patteggiamento da rivedere sul piccolo spaccio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2014 La nuova legge sul piccolo spaccio, che ha ridotto il peso delle sanzioni, porta a rivedere la condanna patteggiata. Anche quando questa è rimasta nei limiti oggi previsti e anche quando l’imputato ha rinunciato al ricorso presentato in Cassazione. Lo chiarisce la Quarta sezione penale della stessa Cassazione con la sentenza n. 38137 depositata ieri. La pronuncia ha così annullato senza rinvio la condanna inizialmente inflitta sulla base della disposizione (comma 5 dell’articolo 73 del Dpr n. 309/90) che prevedeva una pena compresa tra 1 e 6 anni di reclusione e da 3mila a 20mila euro di sanzione pecuniaria. Successivamente, per effetto della sentenza della Corte costituzionale prima e del decreto legge n. 36 del 2014 poi, il trattamento sanzionatorio si è ammorbidito prevedendo (da attenuante che era) un’autonoma fattispecie di reato punita da 6 mesi a 4 anni di reclusione e da 1.032 a 10.329 euro di multa. La pena era stata inizialmente patteggiata e poi fatta oggetto di impugnazione in Cassazione. Impugnazione cui, in seguito, l’imputato aveva rinunciato con specifica dichiarazione. La Cassazione, nell’affrontare il caso sceglie la linea più favorevole all’imputato, quando la stessa Corte ha, in altre pronunce, seguito un orientamento più rigido ritenendo comunque intangibile la condanna patteggiata a una sanzione compresa nei nuovi parametri di una legge sopravvenuta più favorevole. Per la sentenza depositata ieri però, il giudice di merito nel determinare la pena su richiesta delle parti si è mosso sulla base di una realtà normativa non più in vigore superata da una regolamentazione più favorevole. Inoltre, ricorda la Cassazione, il nuovo assetto normativo ha introdotto un’autonoma figura di reato con evidenti ricadute sul calcolo in concreto della pena. Quanto alle ricadute della rinuncia, la sentenza sottolinea come si tratti di una decisione motivata da più ragioni di carattere individuale che devono essere tutelate. Una decisione che, in linea di massima dovrebbe essere tenuta ferma anche in caso di cambiamento normativo; tuttavia, conclude la Cassazione, bisogna che la decisione dimostri che è stato tenuto presente il nuovo quadro legislativo. Francia: processo caso Franceschi; ricostruite le ultime ore di Daniele "non ha nulla"… ma muore di Claudio Vecoli Il Tirreno, 19 settembre 2014 "J’ai un forte doleur au coeur et à l’époule de gauche. C’est urgent! Je suis très malade". Così Daniele Franceschi, in una grafia traballante come la sua salute, il 24 agosto di quattro anni fa scriveva in francese dalla sua cella su un foglio di quaderno nel disperato tentativo di farsi visitare da un medico esterno al carcere di Grasse. Un "dolore al cuore e alla spalla sinistra" che avrebbe probabilmente allarmato qualsiasi persona con un minimo di cognizioni di primo soccorso. Ma non Jean Paul Estrade, il medico del centro ospedaliero di Grasse in quei giorni di turno al penitenziario di Grasse dove Daniele era rinchiuso da sei mesi (e ancora senza essere stato sottoposto ad un processo) per aver cercato di utilizzare al Casino di Cannes una carta di credito clonata. Per il medico del penitenziario, ora accusato di "omicidio involontario" per la morte dell’operaio viareggino di 36 anni, i parametri riscontrati durante una (frettolosa?) visita di controllo non davano adito ad alcun allarme per la salute e per il cuore di quel detenuto che arrivava da un paese straniero. Così come non hanno destato preoccupazioni a Stéphanie Colonna e a Françoise Boselli, le due infermiere del centro ospedaliero della Costa Azzurra di turno in carcere. "Il n’a rien" ("Non ha niente"), avrebbero sentenziato. Il giorno dopo, alle 17 del pomeriggio, il corpo senza vita di Daniele Franceschi è stato trovato disteso sulla brandina della sua cella. Il medico e le infermiere ieri sono comparse di fronte ai giudici del Tribunale correptionel di Grasse. E il presidente della corte Marc Joando non ha fatto sconti ai tre dipendenti del centro ospedaliero di Grasse che quel giorno di fine agosto erano di turno al penitenziario della cittadina della Costa Azzurra, capitale francese dei profumi. Mettendo prima all’angolo il dottor Estrade e poi Françoise Boselli, l’unica delle due infermiere presenti in aula. Stéphanie Colonna, l’altra infermiera rinviata a giudizio, non si è invece presentata perché in stato interessante ("Lo stress del processo sarebbe stato insopportabile", l’ha giustificata il suo legale): una assenza non preannunciata che ieri ha fatto slittare l’udienza mattutina al primo pomeriggio, con il timore di un rinvio del processo. Medico e infermiera presenti in aula hanno cercato di parare i colpi sferrati anche dal procuratore Parvine Derivery e dall’avvocato Luc Febbraro, legale francese che difende i diritti dei familiari di Daniele Franceschi insieme a Maria Grazia Menozzi ed Aldo Lasagna. Ma il clima che si è anche visivamente colto in aula è che la linea difensiva sia stata messa a dura prova nelle oltre sei ore di deposizioni e testimonianze raccolte. Ad ascoltare in aula la ricostruzione del calvario del figlio, in prima fila, anche Cira Antignano, la coraggiosa madre che non ha voluto mancare all’udienza di ieri a Grasse e che ha lottato in questi quattro anni per ottenere giustizia e verità per la morte del suo Daniele. Per lei un nuovo, tormentato giorno di sofferenza trascorso a rivivere quei terribili giorni del 2010. Oggi in aula sono previste le richieste di pubblica accusa e difesa. Ma per il verdetto bisognerà attendere ancora qualche giorno: oggi dopo la seconda giornata di udienze, infatti, la corte si riserverà alcune settimane per decidere. Il verdetto è infatti atteso fra circa un mese. Francia: caso Franceschi; pubblico ministero chiede condanne per medico e due infermiere Ansa, 19 settembre 2014 Il pubblico ministero Parvine Derivery del tribunale di Grasse, nella seconda giornata del processo per la morte di Daniele Franceschi, il viareggino morto nel carcere della città francese il 25 agosto 2010, ha chiesto la condanna ad un anno di reclusione per il medico del carcere Jean Paul Estrade, 20 mila euro di multa e l’interdizione dalla professione per due anni. Due anni sono stati richiesti per l’infermiera Stephanie Colonna, che non era presente in aula per motivi di salute, oltre a 3 mila euro di multa e l’interdizione dalla professione per un anno. Sei mesi di reclusione per l’altra infermiera del carcere di Grasse, Francoise Boselli e 3 mila euro di multa. Per lei non c’è stata la richiesta di interdizione dalla professione. Il processo prosegue adesso con gli interventi degli avvocati. Commossa Cira Antignano, madre di Franceschi, nell’assistere al dibattimento che ha rievocato momenti davvero dolorosi per lei e i familiari. In aula anche oggi era presente il console italiano a Nizza, Serena Lippi, per far sentire la sua vicinanza ai parenti di Franceschi. L’avvocato Aldo Lasagna, uno dei legali della famiglia, insieme a Maria Grazia Menozzi e l’altro collega francese, Luc Febbraro, ha voluto ringraziare la procura francese per "l’atto di coraggio dimostrato, appoggiando in pieno tutti gli sforzi che sono stati compiuti in questi anni per conoscere la verità e avere giustizia per questa morte misteriosa". La sentenza del processo è attesa per metà ottobre. Concluse udienze, sentenza 29 ottobre Si è concluso nel pomeriggio con gli interventi dei legali dei tre imputati il processo al tribunale di Grasse per la morte del viareggino, Daniele Franceschi. La sentenza verrà pronunciata il 29 ottobre alle 14. Non sono mancati alcuni momenti di tensione nel corso del dibattimento, quando l’avvocato del medico del carcere di Grasse, uno dei tre imputati, con le due infermiere, ha polemizzato per la presenza dei rappresentanti dei comitati della strage ferroviaria del 29 giugno 2009 di Viareggio, che hanno esposto degli striscioni all’esterno del tribunale, per strumentalizzare, secondo il medico, quanto accaduto. "Ha parlato di giustizia di classe - dice Aldo Lasagna, uno dei legali della famiglia Franceschi - Ha inoltre contestato la presenza in aula anche del console italiano a Nizza, Serena Lippi, che è uscita e poi rientrata. Inoltre ha paragonato Cira Antignano ad Anna Magnani, per il suo comportamento nel corso dei racconti che si sono succeduti in questi due giorni, che l’hanno colpita dal punto di vista emotivo. Il presidente della Corte, però ha sottolineato con fermezza che il processo si è svolto con estrema correttezza, richiamando all’ordine l’avvocato". Nigeria: Amnesty International denuncia; polizia ed esercito usano regolarmente tortura La Presse, 19 settembre 2014 La polizia e l’esercito della Nigeria torturano regolarmente donne, uomini e bambini anche di 12 anni con pestaggi, spari, stupri, shock elettrici e pinze per estrarre denti e unghie. Lo denuncia Amnesty International in un nuovo rapporto che raccoglie centinaia di testimonianze raccolte in 10 anni. Lo studio afferma che la maggior parte dei detenuti non ha accesso alla famiglia o agli avvocati. La tortura è diventata così istituzionalizzata, riporta Amnesty, che molte stazioni di polizia hanno un "funzionario incaricato di tortura" informale. Il direttore per l’Africa di Amnesty, Netsanet Belay, ha spiegato che i rastrellamenti indiscriminati di centinaia di sospetti che vengono torturati per trovare estremisti islamici assomigliano più a "una caccia alle streghe medievale". Compilato sulla base di testimonianze e prove raccolte negli ultimi 10 anni, il rapporto di Amnesty International rivela l’uso istituzionalizzato delle stanze della tortura nelle stazioni di polizia e il regolare uso della tortura da parte dell’esercito. La maggior parte delle vittime è detenuta senza poter avere contatti col mondo esterno, con le famiglie, gli avvocati e i magistrati. La tortura è diventata così parte integrante delle attività di polizia che molte stazioni di polizia hanno un "addetto alla tortura". Estrazione delle unghie o dei denti, soffocamento, scariche elettriche e violenza sessuale sono tra i metodi di tortura impiegati. Abosede, 24 anni, ha raccontato ad Amnesty International le torture subite in una stazione di polizia, che le hanno provocato danni permanenti: "Una donna poliziotto mi ha portato in una piccola stanza e mi ha ordinato di togliermi tutti i vestiti. Poi ha allargato le mie gambe e ha spruzzato gas lacrimogeno dentro la mia vagina. Mi dicevano che dovevo confessare di aver fatto delle rapine a mano armata. Sanguinavo. Ancora oggi provo dolore". L’esercito nigeriano si rende responsabile di analoghe violazioni dei diritti umani, arrestando migliaia di persone nelle operazioni di ricerca di membri di Boko haram. Mahmood, un 15enne dello stato di Yobe, è stato arrestato dai soldati insieme ad altre 50 persone, per lo più ragazzi tra il 13 e i 19 anni. Durante tre settimane di detenzione è stato colpito ripetutamente coi calci dei fucili, con bastoni e machete, gli è stata versata plastica bollente sulla schiena, è stato costretto a camminare e a rotolare su cocci di bottiglia e ad assistere all’esecuzione extragiudiziale di altri detenuti. È stato rilasciato nell’aprile 2013. Bahrain: Ong chiedono di rilasciare attivista sciita per diritti umani Maryam al-Khawaja Aki, 19 settembre 2014 Sono 155 le organizzazioni non governative di oltre 60 Paesi che hanno chiesto al re del Bahrain Hamad di rilasciare in modo incondizionato l’attivista sciita per i diritti umani Maryam al-Khawaja. Lo ha reso noto Reporters sans frontieres. Direttore del Centro per i diritti umani del Golfo con sede a Beirut, Khawaja ha doppia nazionalità danese ed è figlia di un leader dell’opposizione sciita in carcere dal 2011, Abdulhadi al-Khawaja. La donna è stata arrestata il 30 agosto non appena atterrata all’aeroporto di Manama e sarà processata il primo ottobre con l’accusa di assalto a pubblico ufficiale. "Noi, i firmatari di 155 organizzazioni della società civile con sedi in 60 Paesi vi scriviamo in modo unitario per condannare l’arresto politicamente motivato del difensore dei diritti umani e co-direttrice del Centro per i diritti umani del Golfo Maryam al-Khawaja", si legge nella lettera. "Chiediamo che Maryam sia rilasciata immediatamente e incondizionatamente", ha aggiunto. Khawaja "è perseguita per aver esercitato i suoi diritti legittimi di libertà di espressione e associazione in difesa di libertà fondamentali, tra cui la sua collaborazione con istituzioni internazionali e il suo ruolo importante nel documentare le violazioni dei diritti umani in Bahrain", prosegue il testo. "Esprimiamo solidarietà a Maryam e a tutti gli altri difensori dei diritti umani ingiustamente imprigionati dal vostro governo per il loro lavoro e i loro credo", aggiunge.